Al cristianissimo e nobilissimo Arrigo secondo invittissimo re di Francia
Ei mi fu dal cristianissimo e magnanimo Francesco primo, padre veramente degno di Vostra Maestà, o cristianissimo et invittissimo re Arrigo, assai men d’un anno innanzi alla sua inaspettata e non mai a bastanza lamentata morte comandato che io, per riallumar gli spenti già nomi in Italia de gli antichi, e per lo adietro molto da quella avuti in pregio, cavalieri erranti, devessi da i franceschi romanzi in toscane rime rivolger parte de i fatti e delle avventure di Girone il Cortese, eletto da quei che allora scrissero per il primo quasi e miglior di tutti gli altri. Fummi appresso da Vostra Maestà medesima di nuovo, con quella infinita grazia e dolcezza che ella usa sempre in ogni sua lodevole opera, imposto il comandamento istesso, il quale essendo fatto sopra a chi adora e adorerà eternamente del chiarissimo padre la divina memoria e dell’altissimo figliuolo la realissima presenza e ’l rarissimo valore è stato con più sollecito passo che non si penserebbe, e che non si converrebbe forse, recato a fine. Di che non intendo io per ciò altrimenti di scusarmi se non dicendo che molto più lungo e duro viaggio di questo avrebber virtù di far in men di tempo espedir due tali sproni ad un cavallo che per sé sia quanto più esser si possa pronto et ubidiente alle voglie de i suoi signori.
E perché essendo non molto conosciuto oggi da i moderni, e da gli italiani meno, da quai cagioni mossi fusser quegli antichi di favoleggiar più di costoro che di altri e perché più in quei tempi et in quella provincia sola non ho giudicato, con la buona grazia di Vostra Maestà, cosa soverchia il brevemente narrar, onde ciò estimar si possa che avvenisse, cominciando di più alto alquanto il mio parlare. Dico adunque che già mancato non sol di virtù e d’onor l’Impero Romano, ma allontanatosi di esso il seggio il tanto che quasi non ne perveniva più il suono nell’isola allora detta Brettagna, essendosi dalla più settentrional Germania e da gli Sciri mossi popoli infiniti e lunghi troppo a raccontare, per cercar nuove e miglior sedi, vennero i Pitti ancor dalla Tartaria (secondo che alcuni non oscuri autori hanno scritto) et occuaparon della detta isola parte che allor domandavan Catanesia, nella qual non ebber gran contrasto, perciò che, sì come sterilissima, fu loro agevolmente abbbandonata.
Questi, in processo di tempo allegati e congiunti con gli Scoti, gente che in quei giorni signoreggiava l’occupata isola a lor vicina dell’Irlanda, si fecer così possenti che i Britanni, non avendo per loro stessi sì forze di resister ad ambedue, chiamarono in soccorso popoli di Sassonia nominati Angli, con l’aiuto de’ quali si difesero in maniera sotto Vortigerio, britanno e creato dall’isola il suo primo re, e sotto Vortimerio poi, figliuol di lui e secondo re de i Britanni, che altro ai Pitti e Scoti non rimase che ben picciolo angolo di quel paese. Occorse appresso (sì come molte volte si è veduto avvenire, che i difensori, soverchiamente insuperbiti et acquistate forze, si fanno o tentan di farsi servi i già difesi) che gli Angli, non ben contenti de gli stipendi ordinati e del parentado contratto con Vortimerio, creata ascosamente amicizia con gli Scoti, diedero alcune rotte a i su detti re de i Britanni, e si soggiogaron la maggior e miglior parte di tutto il regno.
E n’eran pienamente possessori se non fusse, dopo la morte di esso Vortimerio, successo re Uter Pandragone, uomo valoroso in arme e di singular virtù, senno e bontade in ogni altro affare, il quale, accordati prima e ben pacificati gli Scoti, combatté felicissimamente e molte volte contra gli Angli. E quantunque per la vicinità del paese tutto il giorno molti ne sorvenissero, sì non potero essi però mai giugnere alla suprema grandezza e da lor lungo tempo disegnata.
Venne al regno, dopo il padre Uter Pandragone, di non men valore e di molto più ardire Artus, re quarto de i Britanni, il qual abbattendo maggiormente di essi le forze et assicuratosi pienamente de i loro primi amici, pacificato il paese e ritrovandosi potentissimo, passò armato in Gallia per torle il giogo antico del tutto; et avendo in Borbonese disfatto l’esercito de i Romani condotto da un capitan detto Lucio, ebbe avviso come Mordredo suo nipote gli avea occupato il regno. Per che, tornato nell’isola con somma prestezza, il vinse et uccise in guerra, ma restando esso ancor ferito mortalmente nella battaglia uscì, con infinito dolor di tutti i buoni, non molto appresso di questa vita.
Dopo la fin del quale non succedendo a lui persona simigliante, et essendo l’isola disordinata e travagliata molto, trovarono ampia strada gli Angli ad occupar col tempo la Britannia tutta, e darle il nuovo nome d’Inghilterra, sì come anco gli Scoti di Scozia alla parte che più volge all’Orse. Fu la morte di Artus intorno al cinquecentodiciottesimo anno dopo la salute cristiana, regnando in Costantinopoli Iustin maggiore, in Roma Teodorico, in Francia Childeberto re di Parigi, Clotario di Suessone, Clodomiro di Orliens, Teodorico in Mets, quantunque favolosamente tra i cavalieri erranti al tempo di Pandragone e di Artus sia numerato Faramondo primo re de i Franchi, il qual venne ad esser nel vero presso di cento anni innanzi, essendo il suo regno nel quattrocento e venti. Or pare adunque ragionevol di pensar, invittissimo e cristianissimo mio re, che durandosi onorate e belle guerre sotto i regni di questi due, fussero in quel’isola e battaglie et atti cavallereschi senza fine e che molte altre provincie estrane e vicine mandasser molti de i lor capitani e guerrieri, or in aiuto di questi e quando di quelli, secondo che lor più commodo avveniva; ma molti più e migliori a i Britanni che a i nemici di essi, e maggior numero i Galli che alcuni altri, che si può prender largo testimonio vedendosi Faramondo, come si è detto, re de i Galli, del numero di essi: Febo, Ectori il Bruno, Galealto il Bruno, Girone il Cortese, Segurano, non solo franzesi ma usciti tutti della realissima progenie di Vostra maestà, poi il re Ban di Benoic, pdre del gran Lancillotto, il re Boort di Gauves con molti altri del sangue lor valorosi oltr’a modo nati, i Berri, re Meliadusse, il padre di Tristano, re di Leone, villa della piccola Brettagna detta già Armorica, il Cavalier Senza Paura, fatto re di Estrangorre, Dananino il Rosso, et in somma tutti i più lodati si truovan dal regno di Vostra Maestà esser passati in quelle guerre et in quella isola, condotti dal desiderio dell’onore e dal valor di uter Pandragone e di Artus.
E con ciò sia che sempre non vi era guerra e che in pace o in tregua cercavano di non tener in ocio d’arme i lor cavalieri, aveano ordinato tra gli altri essercizi militari due più in pregio di tutti: l’uno era il torneamento, ch’assai sovente era in uso, l’altro di mettersi in viaggio, ciascuno recercando avventure diverse (le quali dimandavano inchieste), il che mi penso io che cagion fusse di fargli poi et allor nominar cavallieri erranti. E perciò che di queste due cose più che di altro son pieni i lor libri et il presente mio Girone aprirò alquanto descrivendo il modo che si tenesse ne i lor torneamenti e la maniera di creare i cavalieri, et a che prometter giurando fosser tenuti et essi insieme et i compagni della tavola tonda, i quali sì solamente furono appellati da Artus per il trovato della reina Ginevra sua sposa, ma a i tempi di Uter Pandragone solo per cavalieri erranti furon dal mondo riconosciuti.
Era adunque la forma che si teneva ne i torneamenti tra i due su detti re et altri principi della gran Bretagna tale che primieramente il re o principe che intendeva di presentar il torneamento eleggeva qualche buona città delle sue a cui fusse ben vicino bosco o fiume, di maniera che commodo venisse a serrar il campo da una banda, la qual avvisata, e pensato quai principi e cavalieri volesse per compagni, et a quelli segretamente aperta la sua intenzione e di ciò tutto ottimamente fornito, mandava un araldo con le sue divise, accompagnato di due donzelle messaggiere, dandogli a portar lo scudo della insegna del re o principe contro a chi si volea provare, con lettere o rime in cui significasse il suo volere. Et eran dall’uscier suo presentate con tai parole: «Sire, re (o altro, secondo il suo merito) a voi mi manda il re mio signore per l’alta fama, gran nome e virtù di arme che riluce in voi, con questo scudo e con queste lettere pregandovi che vi piaccia di far un torneamento in tal luogo di poter contro a potere, per accrescer pregio e lodi a i cavalieri et alle dame piacere e sollazzo». L’altro, a cui era presentato, rispondea cortesemente ringraziandolo dell’onor in ciò ricevuto da lui dicendo che a molti più valorosi e grandi s’averebbe egli potuto addrizzar in quella provincia per satisfar all’onorato suo desiderio, non si estimando di così alto affar qual all’offerta mandata si converrebbe; ma che non per tanto l’amor di lui e per ciò che sempre avea cercato di onestamente essercitar i suoi cavalieri in opre d’arme, che accettava quel che si era degnato di presentargli. E così risposto e ricevute le lettere, quelle attaccate allo scudo, l’appendeva nel più onorato luogo della sua gran sala, ove ciascun potesse il tutto legger e considerare. Appresso, scritta amorevol risposta in prosa o in rima alle sue carte, e fatti doni convenevoli all’araldo et alle donzelle, gli accomandava a Dio. Et a saper che i convitati a ciò, sempre innanzi alle dette cerimonie eran di maniera avisati che si accordavano agevolmente, e si assegnava il giorno del campo tre settimane almeno dopo la detta presentazione. Ciò tutto ordinato, incontinente a ciascuna corte e dell’appellante e dell’accettante era pubblicamente gridato e solennemente il torneamento, e si mandavano intorno damigelle e messaggier cercando di cavalier bramosi di gloria per trovarsi al destinato tempo; parimenti ancor di giovini desiderosi di vestir l’ordin di cavalleria il tutto era fatto palese.
Il sito eletto a tale ufficio era in questa forma, che dall’un de i canti era serrato dalla città, dall’altro dal bosco, come detto, le altre due parti da steccati di legni fabbricati in guisa di lisse, dietro e fuor delle quali piantate eran tende e padiglioni de i principi capi del torneamento. E potea ciascun per i primi giorni entrar dentro alla città per provision d’arme, di cavalli o di quanto mestier facesse; veniva appresso tutto in tal maniera apparecchiato, il principe appellante molto tempo avanti ove lietamente accarezzando accoglieva i cavalieri che arrivavano, et aiutava e soccorreva quei tutti che bisogno n’avessero. I cavalier di più alti gradi portavano a lor voler colori sopra l’arme che amavano di più, salvo che poco d’insegna dimostratrice del principe a cui portavano arme; gli altri più bassi interamente le divise di chi a ciò gli avea condotti. Nulle bandiere vi si spiegavano fuor solamente quelle di chi capo fusse de gli ordini; i quali al più divisi erano in tre battaglie, e secondo il numero di tutti partiti egualmente, delle quali nell’ultima sempre si servavano i migliori a fin che per virtù di essi fusse con maggior forza sostenuta e vinta la fin di tutta la guerra.
L’accettante si presentava tre o quattro dì solamente innanzi al tempo, e si alloggiava tutto all’incontro della villa perciò che allor dentro alle mura non gli era lecito di passar se non finito il tutto. Il palco rilevato ove devean seder le dame per riguardar era posto in quella banda ove le due lisse venivano a terminare, ch’era al più davanti alle mura della villa eletta, talmente che innanzi ad esser propiamente eran gli incontri primi de i combattenti. Al dirimpetto d’esse non era altro serramento del campo che di riviera o di bosco, come di sopra si è divisato. In ciascuna lissa eran tre gran porte e spaziose per onde i cavalieri entravano in campo di sei in sei per ivi mettersi in battaglia sotto la sua insegna. Potea ciascun cavalier andando visitando dame et amici a suo diporto prima che fusse il dì giunto della battaglia, ma non già i principi, se non in abito disimulato; altresì era ciò lecito ad uscieri d’arme, a damigelle, et a gioglari di ambedue le parti. E tutto in fino alla vigilia del torneamento, ma allora a tutti era vietato l’uscir de i lor luoghi senza comandamento de i principi a cui servivano.
Venuta già la vigilia, tutti quei giovini che intendeano di esser fatti cavalieri novelli si metteano insieme, essendo il giorno avanti vestiti di un sol color istesso e desinando insieme vicini alle tavole del signor loro secondo l’ordine e degnità dovuta a ciascuno. Andavano appresso ad udir il vespro co i cavalier antichi in compagnia che gli conduceano, dopo il qual il principe amorevolmente gli ammoniva quanto diligentemente essi devessero guardar fede e lealtà sopra tutte cose, reverir la Chiesa, sostener vedove e pupilli, frequentar le guerre, esporsi con l’arme per la ragione infino a vittoria o morte, onorar nobiltà, amar gli uomini valorosi, esser a i buoni dolci e feri a i malvagi. Dopo le quai tutte cose se ne tornavano pur alla chiesa, ove divotamente vegliavano infino che di buon mattino fusse la messa celebrata dello Spirito Santo, appresso al qual, riposati al loro alloggiamento alquanto, accompagnavano il principe alla gran messa camminandogli innanzi a due a due, cui ciascun messosi nel seggio per esso ordinato, incontinente la epistola cantata con le benedizioni a ciò statuite, eran lor cinte dal principe le spade e calzati gli sproni da cavalieri a tale ufficio commessi.
Indi a i primi luoghi riassisi e finito il rimanente del sacrificio e rimenato il principe al padiglione, desinavano alla maniera onorata, ché l’altro giorno, all’ora di nona, sonati i corni per il vespro del torneamento, comparivano a coppia in campo armati, vestiti et a cavallo ornatamente. Non era ad alcun permesso di portar scudo se non d’un color solo o d’un metallo, né cinger spada, ma solo aver lancia di abeto co i ferri corti, non taglienti né politi, e così fra lor di ciascuna delle parti correr et romper aste infino alla sera che il corno sonato avesse alla ritirata. Allor, tutti disarmati e riccamente rivestiti, ritornavano alla cena, ove dal principe era ciascuno accarezzato e ricevuto secondo i merti; e quel che il miglior giudicato fusse si assedeva alla mensa propria del principe, festeggiato e lodato senza fine. L’usanza era poi dopo la cena che i capi andasser là ove le dame erano per maniera di diporto, menando seco favoritamente il giovine vincitore, sollazzandosi infino al tempo debito della quiete.
Dopo la qual, nell’aurora la messa udita, e confortato di cibo chi voglia n’avesse allora di prima si mostravano in campo armati tutti i combattenti sotto l’insegna sua. nel torneamento ciascun portava la divisa che più a grado gli era, pur che mostrasse qualche breve segno de i colori del principe sotto cui vestiva arme, escetti quelli che sopravenivano e che non volevano esser conosciuti. Le armadure erano elmo, usbergo e scudo, ferro arrotato nella maniera istessa che se fusse mortal battaglia, riservato il ferir di punta e batter chi fusse stato per guerra disarmato fuor che del pome per riceverne la fede, e ciò sotto pena di perder l’onor del torneamento.
Recatisi dunque sotto le sue insegne et assise le dame a i luoghi dovuti (delle quali parte venuta era in compagnia di gran principe, parte ascosamente condotte dai propi parenti, né ardito era alcun di far forza per discoprirle), sì come altresì i cavalieri estrani et incogniti che prender voleano l’arme per chi più ad essi aggradava, or tutto in tal guisa composto e dato il segno di corni e di buccine, entravano i primi ordini di cavalieri in campo, ove fatti eran molto e bei colpi, e, molti di essi abbattuti, intanto che l’una delle bande messa di confittura fusse dal nuovo sopravenente occorso e di par numero rilevata. E così facendo gli altri, secondo che ’l bisogno avvenisse, moltiplicavano di schiera in schiera e miglioravan di valore (venendo gli ultimi sempre i più stimati) di maniera che, tutti di già messi in opera, maravigliosa cosa a veder era lo sforzo e la virtù di ciascuno in defender l’onor propio e guadagnar l’altrui. Et allor che, tutti mischiati, l’una delle parti, oppressa di soverchio, parea vinta del tutto, uscivan da banda i non conosciuti e valorosissimi cavalieri, i quali il più sovente aiutando i più frali gli facevano vincitori, se da altri novelli e per il medesimo effetto li armati non eran la seconda volta condotti ad ultima perdizione, talmente che dall’uno e l’altro canto più volte variata la scambievol fortuna, si vedeano i vincitor vinti e sopra gli estrani correva il grido popolar dicendo: i tali del tal color guadagnata han la guerra. Or, del tutto senza altra nuova speranza, rotta una delle parti si refuggiva, il campo abbandonando, dentro alla foresta, né poi si ardiva appresentarsi, se non per uno a piede e disarmato. Et i vincitor senza menar più colpo, con atti d’allegrezza si rimettevan tutti sotto l’insegna.
Avvenia ben sovente che gli incogniti cavalieri si partivan, quantunque vincitori, così celatamente da torneamento che niun se non per coniectura pensar poteva chi esso fusse, per che molti si intrometteano all’inchiesta per ritrorvarlo e ricondurlo alla corte del re Artus, ove fusse da lui accolto e riconosciuto con sommo onore. Vera cosa è che alcuna volta ferito il torneamento era lecito alla parte vinta di domandar nuovo incontro per l’altro giorno, o qual miglior le era aviso, posto che l’assemblea non fusse ancor partita e ritornata alla case sue e tal fu la costuma del reame di Logres.
La maniera di donar il pregio era che quando il vincitor celato si potea ritrovar o che pur fusse un de i conosciuti, che il principe vincitor, ascoltato il rapporto degli spettator tutti intendenti, di uscier d’arme, di cavalieri antichi e de i combattenti altresì, secondo l’opinion de i più e quel conferito alle dame con buon voler di esse e de’ su detti, preso il giudicato per mano gli parlava in cotal guisa: «Messer tale, per il grande sforzo che ciascun ha veduto oggi fare e perciò che per vostro valor e prodezza è stata principalmente vincitrice la nostra parte, col consentimento di tutti i miglior e voler delle dame, il pregio e la lode vi si dona, come a quello a cui bene è dovuto». Alle quai parole il cavalier rispondeva in questa forma: «Onoratissimo mio signor e sovrano (se di lui era suggetto), il più umilmente che far si possa a voi rendo grazie infinite et alle dame et a i cavalier qui presenti del’alto onor che vi è piaciuto di presentarmi. E come che io conosca nullamente averlo guadagnato, nondimeno per ubbidire a i vostri buon comandamenti e delle dame sendo tal il voler vostro il prendo e l’accetto».
Il cavalier era per questa sera e per il seguente giorno tutto assiso a canto al principe, nel più alto della tavola, servito né più né men di lui, e comeesso proprio vestito di par cotta e di mantello ove da lui e da tutti i più onorati cavalieri era presentato. Di cari doni il terzo dì si partivano i principi in grande amor alcuna volta e quando con qualche agror nell’animo, ma ben ascoso, per la qual cagione si rinnovavano spesso i tornea menti, talmente che pochi mesi passavano senza quelli nel reame di Logres, et i buon cavalieri eran tanto perciò pregiati et accarezzati in quei tempi che molti furono in più onor avuti che i principi stessi, la qual cosa diede a molti larga occasione di divenir prodi et arditi in opra d’arme.
Duraron le su dette forme infino alla morte del buon re Artus, et infino a tanto che il reme di Brettagna fu trasportato in quei di Sassonia, e diviso in molte parti né solo fu ciò in quella isola ma parimente in Francia tutta, in Alamagna, in Ispagna et altre parti, e tanto montò la cosa che grandi inimicizie e quistioni assai sovente ne sorveniano, e morti d’uomini molte, per che Papa Bonifazio vietò per interdicione tai giostre e tornelle. Pur a fin che la cavalleria e nobilezza non restasse in ozio d’arme, a i tempi di pace furon appresso essercitate in più dolce modo, come può vedersi.
E per ciò che appresso ciò non mi par fuor del suggetto nostro il saper ancor brevemente a quanto fusser tenuti quei che dal re Artus furon chiamati compagni della tavola rotonda, dirò brevemente quel che se ne può intender a questi tempi. Il primo articolo era che quando alcuno avesse promesso o fatto voto di seguire alcuna inchiesta, o disposto di cercar maravigliose avventure, che durante il tempo esso non si spoglierebbe arme suor solamente che alcuna volta per necessario riposo della notte. Che in seguendo dette inchieste o avventure, non schiferebbe alcun periglioso passaggio né si torcerebbe dal cammin dritto per on incontrarsi in cavalier forti, di che era ottimamente fornito il regno di Logres, o per non trovarsi con monstri, bestie selvaggie, spiriti o altro spavento impedimento che un corpo d’un solo uomo potesse menar di fine. Ch’ei devesse sostener il dritto sempre de i men forti, di vedove, di pupili e di donzelle, avendo buona querela, e per loror esporsi (se il bisogno il richiedesse) a mortalissima battaglia, se ciò non fusse o contro all’onor proprio o contro al re Artus. Che non devesse offender persona alcuna né usurpar l’altrui, anzi muover l’arme contro a chi ’l facesse. Ch’ei devesse portar immacchiata fede e lealtà a i suoi compagni, servando l’onor e ’l profitto di essi intero, non meno in lontananza che in presenza, né combatter contro a quelli se ciò per disconoscenza non avvenisse. Ch’egli esporrebbe beni e vita per l’onor del suo signor e della sua patria, Che diligentemente reverirbbe Dio, udendo una messa per giorno o visitando la chiesa farebbe orazione o, per mancamento di essa, davanti una croce, delle quali molte per tale uficio assise n’erano sopra a tutti i cammin della gran Brettagna. Ch’ei non prenderebbe prezzo di servigio fatto e ne i suoi paesi propri non farebbe danno a persona, quantunque a lui nemicissima, anzi con la sua vita la guarderebbe di ogni danno. Che prendendo la condotta di alcuna dama o morrebbe o la salverebbe da tutte l’offese. Che sendo ricerco di battaglia pari, non la rifiuterebbe senza esser impiagato o aver altro ragionevole impedimento. Che prendendo impresa i la menerebbe afine o starebbe in inchiesta uno anno intero et un giorno in caso che il re Artus per suoi affari no ’l richiamasse. Che non si ritirerebbe dal voto fatto di acquistar qualche onor se non venutone al fine o condotto in quel mezzo da qualcun altro dispostosi al medesimo, perché in tal caso n’era disciolto. Che ritornando alla corte dalle avventure e dall’inchieste direbbe tutta la verità (e sì fuss’ella a sua gran vergogna) a quei ch’eran ordinati per descriver le prove de i compagni della tavola tonda, e ciò sotto pena di privazion di cavalleria. Che essendo fatti al torneamento prigionieri, oltre al lassar liberamente al vincitor l’arme e ’l cavallo, no ardirebbe di tornar in guerra senza licenza di esso. Che non combatterebbe mai accompagnato contro ad un solo. Che non porterebbe due spade se non avesse cuore e volontà di mettersiin pruova contro a due cavalieri o maggior numero, e chi ardiva di portarle lecito era che fusse da più d’uno combattuto, senza vergogna de gli assalitori, né si trovò chi con tai condizioni la portasse se non Balamet Palamedes. Che in torneamento non ferirebbe di punta. Che non farebbe violenza a dame o damigelle (quantunque guadagnate per ragion d’arme) senza piacer d’esse e consentimento. E che, sopra tute altre cose, per accidente che avvenir potesse non fallirebbe la sua parola, sotto pena di mai più non esser cavaliere appellato.
Credomi senza fallo, invittisssimo e cristianissimo re, che lungo di soverchio sarò dalla Maestà Vostra stato in ciò tenuto, sendo a lei tutto questo, come molte altre maggior cose, vie più che note; ma per i lettori, a chi nuova venir potrebbe tal materia, non per lei mi sono affaticato. Né per tutto ciò lasciar voglio in dietro di dir ancor che posto il suggetto per sé si mostri così come ancor è leggier molto e senza grand’ordine e dottrina, sì ardirò io pur di affermar che non del tutto vano et inutile esser detto dovrebbe. Con ciò sia che in esso, essendo descritto Girone il Cortese per la perfezion della cavalleria, sì come forse Ciro da Xenofonte della virtù e bontà regia, potranno i giovini cavalieri apprender anco di formar l’animo al valor vero et adattar il corpo a i militari essercizi e lodevoli in maniere assai.
Considerato primieramente che nulla ci sia di malvagio essempio, mention fatta se non per mostrar quanto si debbano schifare e come emendarsi, dalle opere di lui apertamente si mostra: con quanta tolleranza di digiuni, di freddo, di sole, di vigilie e di fatiche si aggian l’arme ad essercitarse, e con quanto ardire e fortezza nell’onorate imprese sprezzar la vita, e con quanto bel fregio al valor si accompagni la religione e la fidanza in Dio, da lui solo e le vittorie e le lodi guadagnate e non da se stesso riconoscendo; esser verso ciascun colmo di lealtà, di pietà e di carità, e più verso gli afflitti, o da malvagia fortuna o da gli ingiusti, che verso gli altri; il perdonar l’ingiurie a gli umili volentieri, di ciò più rallegrandosi che d’altra vendetta assai; non cercar sopra gli avversari vantaggio fuor del devere; esser con ogni uom cortese ancor del sangue proprio; aver i falsi onori in dispregio; non biasmar alcuno né lodar se stesso; mostrar il dritto cammin di virtù a chi smarrito l’avesse, riprendendo pianamente e senza ingiuria; avendo il medesimo nella lingua sempre che nel cuore; ne gli amori e fra le donne esser onesto, piacevole e festoso, desiderando più di onorarle et aiutarle che cercar cosa la qual con breve dolce servi l’amar lungamente; la fierezza e l’altrui spaventar servando a miglior uso nelle necessitadi e nella guerra.
Quanto al mio avere scritto, confesso apertamente di non aver in parte guardato l’ordine richiesto a chi di una in altra lingua converta istoria o scritti di altrui; anzi, quando ho molte parti lassate e molte aggiunte, e quando mischiato il mio col voler dell’autore secondo che ho pensato il meglio, a bastanza giudicando l’aver seguito un certo suo tenore, di quei musici in guisa i quali, proponendosi un semplice e conosciuto modo di canto, vi essercitano intorno l’invenzione propria secondo il saper e l’arte loro; per ciò che, a dirne il vero, la rozzezza e semplicità, forse, di quella età fu molta, et in molti luoghi mancava, sì come ne i ragionamenti che assai sovente vi intervengono e ne gli affecti di amor principalmente. Or qualunque e quantunque il presente mio libro sia, invittissimo e cristianissimo re, da Vostra Maestà prima e da gli altri poi di ciò intendenti avuto in grado, sì la supplico io con quella somma riverenza et umiltà che si conviene che per la realissima e senza pari virtù sua no ’l dispregi in tutto, riguardo avendo che non il giudicio o ’l sapere mio ma la dovuta obedienza e ’l buon voler m’avrebbe fallito, aspettando da me (se Dio mi concederà tal grazia e sì lunga vita) altra nuova opera di poesia, meno indegna del valore di tanto re, fatta secondo la maniera e disposizion antica, all’imitazion (quanto in me sarà) di Omero, di Virgilio e de gli altri migliori, ove di celebrar intendo quelli che celeste principio diedero alla realissima veramente et altissima sua progenie, la qual prego divotamente il gran Motor di tutte le cose che oggi essalti tanto in Vostra Maestà che il mondo (sì come io spero) si ristori tutto delle sue fatiche eternamente sotto la sacra ombra de i gigli d’oro in man di Arrigo secondo, trionfator di tutti i secoli passati e che verrano.
In Fontanebleo, il giorno primo dell’anno 1548
Il di Vostra Maiestà cristianissima et invittissima, umilissimo e devotissimo servo,
Luigi Alamanni