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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro I

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 12.09.15 14:33

Proemio (1-6)

1Io, che giovin cantai d’ardenti amori
i dubbiosi piacer, le certe pene,
poi destai per le selve tra i pastori
zampogne inculte e semplicette avene,
indi l’arte e l’oprar a i buon cultori
mostrai ch’a i campi e gregge si conviene,
or de i miei giorni alle stagion mature
narrerò di Giron l’alte avventure.

2Il qual di Gallia errante cavaliero
del gran re Pandragon passato in corte,
d’esso e d’Artù sotto ’l famoso impero
ebbe fermo il valor, varia la sorte,
allor che gli Angli di Sassonia fero
al britanno terren mal fide scorte.
Or qui mi presti Apollo ogni favore,
che non ebbe ancor mai più degno onore.

3Perché l’alto Francesco, il grande Enrico,
la real Caterina e Margherita
con benigna udienza e core amico
con dolci sproni a ragionar m’invita,
qui dove lieta stampa il lito aprico
la chiara Sena, e fa così gradita
la riva intorno che farebbe il cielo
lasciare a Febo non pur Delfo e Delo.

4Il cortese Girone a suo piacere
stando in Val Bruna, volontà gli viene
di Danain il Rosso rivedere,
ch’a Maloalto assai lontan si tiene.
Le sue gravissime armi a lui leggiere
veste, e prende il corsier, che così bene
l’avea portato in mille assalti e mille
ch’al Xanto non cedea del forte Achille.

5Partito a pena, una fanciulla truova
ch’al suo castel che la conduca chiede;
ei per la cortesia, che non gli è nuova,
la prende in compagnia su la sua fede.
Poco oltra va che perigliosa pruova
fortuna invitta a trapassar gli diede,
ch’un cavaliero incontra armato in sella
ch’ebbe troppo desir della donzella,

6e senza ivi tener cura d’altrui
le comincia a parlar tutto orgoglioso
che per legge di Logres fia di lui,
s’alcun di contrastar non sia stato oso.
Tosto disse Giron: «Già mai non fui
parco a mostrar a chi mi vien noioso,
e fusse ei d’adamante, alla battaglia
che la mia lancia e spada e punge e taglia.

Lungo la strada per Maloalto Girone incontra il Cavaliere Senza Paura, si batte con lui e ne diviene amico (4-26)

7Non senza sangue e non senza sudore
di tanto difensor la donna avrai.
Dopo aver ben provato il mio valore
tua si sarà, se ’n vita resterai;
ben che certo, credo io, che ’l tuo migliore
di seguir il cammin sarebbe assai
che senza gran cagion tentar un giuoco
in cui meco ciascun guadagna poco».

8Rispose il Cavalier Senza Paura
(che così nome avea di ch’io ragiono):
«Poi che tu tien di me sì poca cura,
vengasi all’arme, che già presto sono
di farti oggi veder che la natura
sopra ogni altro che sia m’ha fatto dono
ch’io potrei ben trovar di me più forte
ma ch’io non temerei l’istessa morte».

9Così parlando il destrier ratto gira,
né il cortese Giron sospeso resta.
Pien l’uno e l’altro di valore e d’ira
la dispietata lancia pone in resta.
Quando torbo e crucioso l’Euro spira
non mena tal romor, furia e tempesta
il mar d’Ionia, come questi fanno
tornandosi a incontrar con egual danno;

10perché tanto aspro fu l’incontro e fero
che i cavalli ambe et ambe i lor signori
cadder di par riversi sul sentiero,
dentro percossi e sanguinosi fuori.
Ma vie più che Girone il cavaliero
restò ferito, e par che s’addolori,
ché, più che ’l danno, la vergogna stima
ch’avvenuta cotal non gli era prima.

11El pensava in suo cor quanto è follia
spregiar alcun se non si è visto in pruova;
il medesmo fra sé l’altro dicia,
che fuor del creder suo steso si truova.
Ma in un tempo medesmo, o buona o ria,
vuol ciascun ritentar fortuna nuova,
e con la spada in man, col forte scudo
va contro l’altro disdegnoso e crudo.

12Come talor tra le mugghianti spose
due innamorati tori intorno ai prati,
che quanto han più le fronti sanguinose
più s’accende il furor da tutti i lati,
né ferire è che ’n pace gli ripose
fin che i fidi pastor già tutti armati,
e di ferro e di foco, in mezzo stanno
e con periglio assai divisi gli hanno,

13così costor co i più gravi e diversi
colpi che far si pon, sull’armadure
mortualissimi danni e piaghe fèrsi,
perché tempra non è ch’a questi dure.
E di sangue e sudor che stilli e versi
non è de i due signor chi pensi o cure,
ché della morte sua non ha spavento,
ben della vita altrui doglia e tormento.

14Chi potesse or narrar a parte a parte
i colpi che veniano a mille a mille,
porria contar il numero che parte
di Mongibello ardente di faville;
parea ciascun di lor vie più che Marte,
non pur Tidide, Aiace, Ectore, Achille,
e quando più combatte il caldo e ’l gielo
non sì spessa ci dà grandine il cielo,

15come i colpi che fan, ch’occhio mortale
non che lingua agguagliar, scerner non puote.
In un momento istesso e scende e sale
ciascuna spada in fiammeggianti rote.
Lo schermo è in bando, il ricoprir non vale
che le percosse lor non vanno vòte,
e più tosto che un piè tirar indietro
vorrien sotto a Ciclopi esser di vetro.

16Già tutto il campo di loro arme è pieno,
già il corpo di ciascun vermiglio pare,
non resta membro san ch’el core in seno,
quel vive solo, e ’n contra vuole andare;
il resto tutto e l’anima vien meno,
tanto che quello al fin che non può fare
spavento o ferro la stanchezza face,
di pensar infra lor di tregua o pace.

17Nel vero, il Cavalier Senza Paura
più perduto avea già di sangue e forza,
ché ’l suo avversario spada oltra misura
miglior avea, ch’ogni lorica sforza;
pur quel feroce, che sol pregia e cura
il vero onor e non l’umana scorza,
pensò che morto ancor oprato avrebbe
quanto il miglior guerrier del mondo debbe.

18Ma il buon Giron, che fu tanto cortese
che dir non si può l’istessa cortesia,
e ’l vantaggio ch’avea tosto comprese
e che ’l potea condur per mala via,
di ritirar il piè partito prese,
facendo opra onorata, altera e pia.
L’altro, che ben conobbe il tutto a punto,
fece il medesmo e nel medesmo punto.

19Così fermati e riprendendo lena,
che ben bisogno n’han, posano alquanto.
Già del sangue corrente d’ogni vena
bagnata han tutta l’erba d’ogni canto;
Giron, con voce di lassezza piena,
comincia: «O cavaliero a cui do vanto
di valor, di prodezza e d’alto affare,
quanto il sol veggia e quanto cinga il mare,

20sì lungamente combattuto avemo
che di posarci alquanto è ben mestiero,
e mi credo io che pari al tutto semo
d’onore e danno nell’assalto fero.
E s’ambe o l’un de i due nel punto estremo
giungesse per furor così leggiero
e per querela tal danno saria
e ’l mondo tutto ce ne scherneria.

21Io ho provato in guisa il vostro ardire
e la forza, il valor, il senno e l’arme
che di restarvi amico ho gran desire,
né di tal cavalier mai scompagnarme.
E s’io potessi ben farvi morire
(che so ch’io non potrei tal gloria darme,
tal vi conosco omai), vorrei questa alma
perder più tosto, e darne a voi la palma.

22Però vi prego che vi piaccia omai
prima che ritentar nuova battaglia,
che la donzella de i lucenti rai
d’aver contro a ragion più non vi caglia,
ché vergogna maggior più d’altra assai
saria lassarla in fin che ’l brando taglia
per darla a voi, poi che l’incarco presi
di condurla sicura in suoi paesi».

23Queste dolci richieste udendo allora,
con note inferme, afflitte e sbigottite,
rispose il cavalier: «Gran torto fora
se mi pregiaste tal come voi dite,
ch’avendo io travagliata sì lunga ora
non ho condotto a fin sì breve lite,
e nel primo incontrar giurato avrei
far voi prigione e mia compagna lei.

24E veramente mi credeva avanti
di valer molto più ch’or non mi credo,
ch’omai di tutti i cavalieri erranti
mi chiamo il peggio e ’nferior mi vedo;
né degni son quei ch’a me son sembianti
d’aver donna cotal, ond’io la cedo
a voi, che ben defender la sapeste
vie più ch’io guadagnar, come vedeste.

25Sia vostra adunque, che ’n tutte maniere
più di me assai la meritate voi,
e quando ben mia fusse, volentiere
la torrei a me per darvela da poi,
ché la potreste in arme sostenere
contra il re Pandragone e tutti i suoi.
Et io della mia voglia ingorda e pronta
me ne porto sol dannaggio et onta».

26«Poi che così vi par, «dicea Girone»
l’accetto in dono, e grazie ve ne rendo,
e prego il ciel che giusto guiderdone
vi dia della virtù che ’n voi comprendo.
Né poss’io qui restar lunga stagione
sì debil sono, onde licenza prendo
per girmi a risanar in qualche parte,
e vi accomando a Dio». Quinci si parte.

Nel castello in cui si ritirano viene loro raccontato del tributo di sangue che due giganti esigono ogni anno: i due li affrontano e li battono, quindi si dividono (37-79)

27Vassene ad un castel poco lontano
e commodo per lui l’albergo piglia;
ivi si posa, e cerca farsi sano
ch’aveva percosse e piaghe a maraviglia.
E perché il troppo attender parea strano,
con due scudier ne rimandò la figlia
ov’ella esser bramava, et ei si resta
con dispetto e con doglia che ’l molesta.

28Né per quindici giorni molto o poco
poté di letto uscir, non ch’ire a torno.
L’altro buon cavaliero al proprio loco
per l’istessa cagion venne in quel giorno,
piagati i membri e l’animo di foco,
ripieno il sen di maraviglia e scorno;
e mentre si guariva solo attende
a spiar di Girone, e nulla intende.

29Prega gli amici, prega i conoscenti
de i quali aveva molti in quella parte,
e per saper chi sia mille istrumenti
adopra, e notte e dì l’ingegno e l’arte,
né il nome intender mai puote altrimente
se non che ciaschedun l’estima un Marte,
e ch’egli avea valor sopra natura
s’adegua il Cavalier Senza Paura.

30Così stando ambe due senza sapere
chi fusse l’uno e l’altro assai vicini,
già comincian le forze a riavere,
già il calor e ’l dolor par che declini.
Già par ch’ogni uom di lor in breve spere
d’esser ridotto a i naturai confini;
già risaldan le piaghe e ’l corpo infermo
vigor prende, e ’l piè ritorna fermo.

31Già son guariti, e ’l verdeggiante aprile
giunto era al fin, quando il signor li viene
di quel castel, e con sembiante umile
dice a i due cavalier che in casa tiene:
«Signor miei cari, non m’aggiate a vile
s’io scuopro a voi quel che scoprir conviene
da chi si trovi in casa acerbo e rio,
e vuol verso i miglior mostrarse pio.

32Saper dovete come già molti anni
suggetta fu questa infelice terra
a due giganti, che con molti danni,
con lungo assedio e faticosa guerra
la saccheggiaro, e dopo gli altri affanni
condannàr tutto il cerchio che la serra
in dar ogni anno lor giovin quaranta
e donzelle bellissime altrettanta.

33E nel mese di maggio il dì primiero,
che fia dopo doman, non mancan mai
d’esser qui sempre, et a noi fa mestiero
con quei lamenti e quei dogliosi lai
che potete pensar, mostrar intero
il popol che ci aviam, ch’è pure assai,
e non celarne un sol, ché cagion fora
di far ciascun perir che ci dimora.

34Ivi fra gli anni quindici e fra i venti
il numer prendon ch’io vi dissi pria,
de i più bei volto vaghi e più lucenti
e nel paese lor gli menan via,
talché preghiamo Dio che n’aggia spenti
e che l’ultimo dì per noi già sia,
ch’altra pietà non è che padri e madri
veder lor dietro in panni oscuri et adri.

35Son questi scellerati e questi feri
terribili e spietati oltra misura,
né di farsegli amico alcuno speri,
ch’egli hanno in odio il cielo e la natura;
e sopra ogni uom gli erranti cavalieri
di trar del mondo fuor si prendon cura,
ché dove è più virtù più ad essi spiace,
sol lor sangue, dolor e morte piace.

36Han per arme un baston nodoso e greve,
fatto alle fiamme più che ferro duro,
men che al foco la cera o al luglio neve
contro a i colpi di quei va l’uom sicuro.
Né vale ivi al fugir la pianta leve,
ch’ei volan come uccel per l’aer puro,
e qual noi picciol, lassi, cespi e zolle
svegliono agevolmente un monte, un colle.

37Poi l’avventan sì forte e sì lontano
che con men furia ci saetta Giove,
l’arme fatal del fabro siciliano
quando il nostro fallir talor il muove.
Io ho veduto far la sconcia mano
pur già scherzando le terribil pruove,
pelar le selve in fino nelle radici
come un di noi faria polli e pernici.

38Or dunque, valorosi cavalieri,
vi consiglio a seguir la nostra via,
pria che si mostri su’ nostri sentieri
per farci oltraggio questa peste ria,
che ’l fidarsi nell’arme e ne i destrieri
contro a forza cotal tengo io follia,
ché monstri son usciti dall’inferno
sol a far ai miglior dannaggio e scherno».

39Giron, che per sé avea sì grande il core
che l’altissimo Olimpo gli era piano,
giunta poi la pietà di quel dolore,
che nel popol vedea, quantunque strano,
gli pungea dentro sì focoso ardore
che quasi si tenea pigro e villano
di non gir tosto, e senza compagnia,
a ’ncontrar i giganti alla lor via.

40Pur, temprato il voler, con dolce volto
e con atto umilissimo e cortese,
al cavalier ridendo s’è rivolto,
e disse: «Io so che le parole intese
avete, e di costor fra voi raccolto
l’alta necessitade e del paese
la miseria sì grave, che ne face
voglia di guerra aver per dar lor pace,

41e la vostra virtude ho conosciuta,
qual conoscer convien con lancia o spada,
sì ch’io so ch’ella è tal che non rifiuta,
per fatica che sia, d’onor la strada,
e tanta occasion sendo venuta
non vorrà in modo alcun che se ne vada
senza tentar per lei se la sua sorte
gloria trar ne potrà per sempre o morte.

42E vi prometto in ciò, quando a voi piaccia,
che compagno m’avrete amico e fido,
e ’nfin che l’uno e l’altro in guerra giaccia
mi vi do tutto e mai non mi divido.
E per l’alto Motor che ’l tutto abbraccia,
che ’l tutto ha fatto e ’n cui solo io m’affido,
non lasciam questa impresa che non fia
mai più sì grande, perigliosa e pia,

43né che più si convenga a due cotali
ch’io credo che miglior non ha di noi,
ovunque spiega il sol le dorate ali,
che così poss’io dir certo di voi
ma di me il penso, poi che forse eguali
furon l’altr’ier le forze d’ambi duoi
e con voi crederei Sicilia tutta
con tutti i suoi Ciclopi aver distrutta.

44E se non spendiamo in simil pruove
che intendiam noi di far di queste vita?
Noi scappiamo oggi e doman forse altrove
son le nostre ultime ore stabilite.
Preghiamo il Ciel che tali et altre nuove
ci doni alte cagion, per cui gradite
sien le nostre arme, e dopo morte poi
molto più che i più vivi viviam noi».

45Il fero cavalier, che veramente
senza paura visse e senza pare,
rispose al buon Giron cortesemente:
«Non vogliate, o signor, più faticare
la lingua a ben dispormi, ch’al presente
grazia maggior non mi potreste fare
che menarmi ov’io mostri che in altrui
son miglior forse che con voi non fui.

46E ch’io mi cingo sol queste arme intorno
per spender sangue e guadagnare onore,
e che piango la sera s’in quel giorno
non passai con sudor le maggior ore
per difender gli umìl di danno e scorno,
et al superbo tòr l’ira e ’l furore.
Venghin pur tosto, che non torneranno,
per quel ch’io speri, poi nel futuro anno».

47Così d’accordo, insieme si tornaro
a ritrovar ciascun l’albergo e ’l letto,
né mai poi si rividero o parlaro
fino al giorno di maggio che avean detto.
Gli altri, che i lor disegni ivi ascoltaro,
preser tutti nel cor dubbio e sospetto
ch’assai più che valor certa follia
di tanta impresa la speranza dia.

48Chi per invidia, chi per gran temenza
gli biasma intorno, e co i suoi par si duole,
che i lor leggier ardir e la credenza
farà il danno più grave che non suole:
– Perché i giganti e quella ria semenza
manderan questi ove non luce il sole,
poscia irati vêr noi di sangue e foco
empieran per vendetta il miser loco -.

49Altri di più bontade e di più fede
in Dio sperava e nelle forze loro,
ch’avea visto il valor ch’ogni altro escede
de i due campion quando a battaglia foro,
e prega il Ciel che sia larga mercede
a i magnanimi cori e dia ristoro
e pace intera a quella afflitta terra
contra il tributo della ingiusta guerra.

50Or chi vedesse li divoti intorno,
gli infermi vecchierei, le stanche madri
discinti e scalzi andar la notte e ’l giorno
fra mille volti pallidi e leggiadri,
d’un giovin stuol neglettamente adorno
tra i fratelli, i congiunti e i giusti padri
di fanciulli e donzelle a crine sciolto,
di lagrime e sospiri e doglia involto,

51ben per vera pietà venuto fora
d’una vil pecorella aspro leone,
e mille vite e mille spese allora
avrebbe volentier per tal cagione.
Chi si straccia i capei, chi grida e plora,
là dove l’uno e l’altro si ripone,
e come a salvator di quel paese
di preghi, doni e voti gli è cortese.

52Non si porria narrar s’in le chiare alme
de i miglior cavalier che ’l mondo avesse,
oltra il natio desir di simil palme
e virtude e pietà suo seggio fesse,
non si troverian mai sì gravi salme
ch’esse ciascun di lor non sostenesse,
e vorrien volentier tutti i giganti
che mai furono in Flegra aver innanti.

53E quei due giorni che menaro il maggio
per due secoli par ch’allunghin l’ore,
tal ciascun brama il nobil paraggio
co i feri mostri e ’l non creduto onore.
Ben compensano in sé quale ha vantaggio
l’intrepida virtù contro al furore,
ma non l’osan di dir, ché intendon bene
che ’l prometter soverchio a scherno viene,

54e chi sa fare assai co ’l parlar poco
fa il futuro e ’l preterito più caro,
e che ’l fumo ch’è troppo adombra il foco
e che ’l fa a riguardar men bello e chiaro.
Sta l’uno e l’altro in solitario loco,
né si lassan veder dal vulgo ignaro,
e contenti sarieno esser altrove
per lì piover il dì dell’alte prove.

55Venuto il maggio, all’apparir del sole
spuntato a pena con l’aurora innanti,
nel punto istesso che gli altri anni suole
ecco arrivar la coppia de i giganti.
Ciascun di nuovo si lamenta e duole,
fuor che i due rari cavalieri erranti,
che rendon grazie alla celeste gloria
che apparecchia il dì lor tanta vittoria.

56Giunti essi adunque, sopra certi prati
ch’eran vicini alle funeste mura,
con loro arnesi stran sono accampati
ove più folta aveva la verdura.
Molti prigion con loro eran legati,
che di portar le some avean la cura,
come cavalli e muli in altro loco,
miseri schiavi ch’ei tenean per gioco.

57Cominciano a sonar certi strumenti
questi aspri mostri, con sì gran romore
che Giove in aria non tuona altrimenti
quando più cerca all’uom donare orrore.
Poi metton grida piene di spaventi
da far tremar ogni più altero core,
e domandan da lunge il lor tributo,
di cui il termine dato era venuto.

58E minacciano il ciel non che ’l castello
se non vien tosto il popolo a spiegare
del numero del qual prenda il più bello;
e ben pensan in lor cortesia fare
da poi che ’l resto del nativo ostello
fuor che i promessi già lascian restare.
E perché indugian pur un’ora o meno
par l’uno e l’altro d’ogni rabbia pieno.

59Ma i due buon cavalier ch’avanti il giorno
già furo armati, e ne i sacrati tempi
divotamente i sacrifici intorno,
seguendo de i migliori i veri esempi,
hanno ascoltati, e l’immortale adorno
Padre han pregato che da i duri scempi
quella terra fedel quel dì rimuova
e lor dia forze di ottener la prova,

60dicendo umili: «E non di queste spade,
non del nostro valor, ch’è tronco e frale,
la gloria sia, ma della tua bontade
della tua gran pietà che tutto vale.
E se ben è che le tue dritte strade
tratti da questo incarco impio mortale
accecati perdiam, guarda a te stesso
non al nostro peccar sì grave e spesso»;

61dopo il lor breve orar sopra i destrieri
ch’attendevan di fuor tosto montaro.
Come umili ivi a Dio qui tutti alteri
a gli uomini in sembiante si mostraro,
le genti intorno, che n’avien mestieri,
alzando al cielo i volti s’adunaro,
dicendo: «Così Dio palma vi doni
come sète più d’altri arditi e buoni.

62Andate pur, che ’l vostro nome fia,
e segua quel che vuol, perpetuo in terra,
per cagion tanto chiara, onesta e pia,
prendete or aspra e perigliosa guerra;
né chi vi agguaglie più nel mondo fia
ad Ercole e Teseo, che del tutto erra,
ché più val l’alta impresa ch’oggi avete
che mille mostri, Minotauri e Crete».

63Era proprio a veder tra ’l vulgo inerme
i duo chiari guerrier due belle rose,
nate d’un verde avventuroso germe
che la natura provida nascose
tra mille secchi prun, cui foco o verme
spogliò le frondi o le radici ròse,
che l’uno dell’altro il bene e ’l male accresce
per la contrarietà che in lor si mesce.

64Come s’alzava il core a mirar ivi
gli animosi corsier girarse intorno,
d’ogni timor il fren mordendo schivi
biasmar quasi ne gli atti il lor soggiorno,
e chiamar tosto il campo in cui s’arrivi
nell’alte pruove, ove poi veggia adorno
ciascuno il suo signor, qual sia la sorte,
o di vittoria o di lodata morte.

65Comandan che lor sien le porte aperte,
e l’uno e l’altro al par si rappresenta.
Sopra le mura va la turba inerte
a veder quanto il ciel di lei consenta.
Le lucentissime armi hanno scoperte
già i fer giganti, e in essi si spaventa
l’anima di ciascun, presaga forse
di quel che appresso ne i suoi danni occorse.

66Pur la rabbia di lor vinse il timore
e ’ncontra fèrsi minacciosi e crudi,
e con parole e suon ripien d’orrore
dicon: «Chi apporta a noi quest’armi e scudi
non dee saper qual sia il nostro furore,
come ben san le siciliane incudi,
che gli parria per noi picciola preda,
come il potrà provar chi pur no ’l creda.

67E sopra il Cavalier Senza Paura
s’aventa l’un di lor co ’l tronco in mano,
menando colpi fuor d’ogni misura,
ch’un forte muro avrian gettato al piano.
Ma l’altro, ch’al suo caso avea ben cura,
svolge il cavallo, e ’l furor scende in vano,
e ’l gigante che ’l piè mal tenea fermo
sopra il peso cascò qual ebbro e ’nfermo.

68Il buon campion che ’l suo vantaggio vede,
sprona al traverso con la lancia in resta,
e ’n mezzo il fianco con tal forza il fiede
che ’n terra l’asta più che mezza resta.
Discende allor vittorioso a piede
e l’orgogliosa e minacciante testa
con la spada dispoglia al busto rio,
per farne essempio a chi dispregia Dio.

69Nell’istesso momento il buon Girone
va incontro all’altro, che fermato aspetta,
e s’acconcia sì ben co ’l suo bastone
ch’ei par che d’arrestarlo si prometta.
Ma il cavalier con l’uno e l’altro sprone,
spinge avanti il caval come saetta,
e va via tanto destro e sì veloce
che la clava va indarno e non gli nuoce.

70Pon la mira alta e non gli aggiugne a pena
a far quanto più può sopra il ginocchio;
ivi il ferisce, e con sua tanta pena
che gli fe’ lagrimar l’orribile occhio.
Poi tra le gambe per l’erbosa arena
gli varca, come suol talpa o ranocchio
tra rare canne ch’al suo picciol orto
fece siepe il villan non bene accorto.

71Indi volando con la spada in mano
qual ruota leggerissima è rivolto;
gira l’altro il baston, ma sempre in vano,
ch’un sol ne basteria ch’avesse colto.
Qual cieco suole a cui vespa o tafano
gli rintuona l’orecchie o punge il volto,
che quanto più lo scaccia i più sovente
il ritorna a infestar molestamente,

72tal gli parea Giron, ch’or punge or taglia
o la gamba o ’l tallon del fer gigante.
Né si deve estimar che non gli caglia
dell’arme del nemico aspra e pesante,
ma come ammaestrato a tal battaglia
sempre gli è sotto, e non gli vien mai innante;
né sa il Ciclopo aver modo né via
che serrato con lui sempre non sia.

73Vassi schermendo pur, ch’or alza un piede
or gli alza entrambe, et or si muovea corso,
or co ’l baston irato in terra fiede
or cerca co ’l fuggir nuovo soccorso.
L’altro, che sanguinoso e stanco il vede,
no ’l lassa riposar, ma nuovo morso
della tagliente spada ognor gli aggiunge,
e con forza maggior il batte e punge.

74Era proprio a veder quivi Girone
ch’all’asprissimo monstro intorno gira,
nell’arenosa Libia un fer leone
che ’l possente elefante in guerra tira,
ch’or di dietro or davanti se gli pone
e per destrezza alla vittoria aspira;
quel si cruccia in suo cor, che grande e forte
un più picciol di lui già ’l meni a morte.

75Pur tanto dura il faticoso gioco,
e ’l cavalier pur tanto esso molesta
che gli mancan le forze a poco a poco,
né più di sangue in ogni gamba resta.
Così, nel fin, sopra il vermiglio loco
rovinò steso innanzi, e della testa
e del viso stampò la riva intorno
che vi restò la forma più d’un giorno,

76qual più robusto nell’alpestre monte
ch’el saggio architettor risega in basso,
per farlo tal che la spumosa fronte
calchi a Nettuno con veloce passo,
che le radici ancor tenaci e pronte
tristo abbandona, e con sì stran fracasso
batte a terra le chiome e l’alte spalle,
ch’ei fa lunge tremar ciascuna valle.

77Tralle crucciosa grida e ’l gran romore
che fe’ cadendo il non credibil peso,
non si porria pensar sicuro core
ch’allor non fusse di timor compreso,
E per poco fallì che l’ultime ore
non portasse a colui che l’have offeso,
ché se Giron non prevedeva il caso
gli saria co ’l caval sotto rimaso.

78Poi che ’l vede abbattuto non gli vuole
il cortese guerrier far altro male:
lascialo ov’esso orribili parole
dice contro al poter là su immortale;
maladice ogni Ciel, bestemmia il sole
e ’l fato che l’avea condotto a tale.
Ha perduto il baston, sì frale ha il braccio
ch’a i suoi nemici non può far più impaccio.

79Lassato lui, Girone ad uno ad uno
l’afflitta turba de i prigioni scioglie,
e con dolce parlar dona a ciascuno
la soma ch’egli avea dell’altrui spoglie.
Or tutto il popol di pietà digiuno
a sbramar corre le affamate voglie
contro i giganti, e vendicar l’offese
che avevan fatte sì gravi al lor paese.

Girone rifiuta di dire il proprio nome e fa arrabbiare i cittadini, che gli tendono una trappola: ne esce rivelando la propria identità (80-155)

80Parevan nibbi, corvi et avvoltori
sopra due gran cavalli in guerra morti.
Rendon grazie i miglior con chiari onori
a i due buon cavalieri arditi e forti,
dicendo lor: «Poi che ci troviam fuori
per voi di tanti affanni e tanti torti,
di questa villa e di chi vive in lei
eterni vi facciam signori e dèi».

81Rifiutan l’alte offerte, e ’n bel commiato
l’un e l’altro guerrier si dipartio.
Non molto lunge nell’uscir del prato
vengon due ambasciador del popol pio,
ch’espongono loro in publico mandato
c’hanno infinito e con ragion desio
de i loro scudi aver, di avere il nome
per farne a i templi gloriose some.

82Portan seco due scudi forti e belli
perché nessun di lor sia disarmato.
Il Cavalier dà il suo, prende un di quelli,
dice il nome, il cognome e dove è nato.
Non volse dir Giron come s’appelli,
né lo scudo cangiar ch’ei tiene a lato,
che di lassar in sé par che si sdegni,
per sì poca vittoria, sì gran segni.

83Tornan gli ambasciadori e narran quale
l’un de i due cavalier fu loro avaro.
Il signor del castello il prende a male,
e ’l popol tutto se ne cruccia al paro,
e poi che prego o rimostrar non vale
d’ingannarlo fra lor s’immaginaro,
e lì fanno venir una donzella
accorta in simili casi, onesta e bella.

84E seco un discretissimo scudiero
che ben sa il tutto in compagnia le danno,
che ’l preghin prima e poi, se fia mestiero,
le comandan che adopre astuzia e ’nganno.
Questi seguendo l’orme al lor sentiero
ove innanzi han passato se ne vanno;
ma la coppia magnanima ivi avìa
partita già la rara compagnia.

85Il che fece Giron dicendo a lui:
«Signor, io stimo tal le nostre spade
che non porria resister contro a nui
di tutti altri campion ogni bontade;
però direi, quando piacesse a vui,
che prendesse ciascun diverse strade,
ché saria al mondo gran disvantaggio
se così andasse insieme un tal paraggio.

86Basta che ’l vostro ardir, la cortesia,
il valor mi vi dà per sempre amico,
e dovunque io mi vada, ovunque io sia
chi sarà contro a voi mi fia nemico.
E prego il Ciel che di fortuna ria
vi guardi, e giri a i desir vostri aprico,
e sia pari il contento alla virtude
che nel cor generoso in voi si chiude».

87Approvò il cavaliero il suo consiglio,
l’abbraccia stretto e poi congedo prende.
Già l’accorta donzella a men d’un miglio
segue Girone, ove il suo gir comprende;
guardasi intorno con aguto ciglio,
esamina il cammin, che ben lo intende,
e finalmente per angusto calle
arriva in una vaga e fresca valle.

88E Giron vede ch’affannato e stanco
già s’era, e ’l suo scudiero addormentato;
l’arme avea intorno e la sua spada al fianco,
ma lo scudo avea posto sopra il prato.
Tosto ella il vede, e non bramava manco:
leggier s’appressa e glie ’l furò da lato,
ei più no ’l sente che persona morta;
dallo al compagno et esso via ne ’l porta.

89Restasi ella soletta e lì s’assiede,
destasi il buon Giron calcando il giorno;
alza la testa e ’l scudo suo non vede,
levasi dritto e ne ricerca intorno.
la donna il scorge, ch’era di già in piede,
e lui saluta con parlare adorno,
dicendo: «O mio signor, lo scudo vostro
non è lontan, e tosto vi fia mostro.

90Ma ben vorrei che per l’invitto core
e per l’alta bontà che in voi discerno,
che ad un castel qui presso per mio amore
albergar oggi non aveste a scherno.
Ivi quanto io potrò farovvi onore,
e me gli obligo poi serva in eterno,
che co ’l vostro favor, sol con la vista
mi trarrete di vita afflitta e trista,

91sì come io vi dirò quando sarete
in casa vostra, che così vo’ dire».
Giron l’alte maniere sue discrete,
riguarda, e ’l chiaro viso e ’l dolce dire,
e rispose: «Io farò quanto volete,
ché di servirvi ho già sommo desire,
né mi cingo io queste armi ad altro fine
che per simili a voi donne divine».

92Così dicendo si pon l’elmo in testa,
monta a cavallo e seguita costei,
che ’l mena per traverso alla foresta,
rivolgendo pensier cortesi e rei,
perché amica di lui perpetua resta,
e poi dice – Ingannar pur il vorrei,
non per suo danno, ma per somma gloria
della sua gran virtù pregio e vittoria -.

93Giungono ad una torre ben quadrata,
spaziosa dentro e con grandi acque fuora;
dal ponte alto e ferrato era l’entrata
che s’alza e ’nchina da chi là dimora.
Viene all’incontro lieta una brigata
d’altre donzelle che parean l’aurora
quando al più chiaro dì va innanzi al sole
vaga destando fior, rose e viole.

94Che così al suo partir era ordinato
che là n’andasse larga compagnia
di belle donne a render onorato
il cavalier quando quivi entro sia,
ché, se ben han desir che sia ingannato,
già non vogliono oprar di scortesia,.
Così quelle aspettàr leggiadre e belle
che l’altra il meni o lor mandi novelle.

95Quivi non si vede uom che inanzi vegna,
mostran che ’l regno sia delle Amazòne,
tal che cosa gli par del tutto indegna
l’esser sì solo al nobile Girone.
Pur con la cortesia che seco regna
tutte salute con gentil sermone,
e come in guerra Marte esser solea
là si fece un figliuol di Citerea,

96ché sa quanto conviensi a gentil core
tra delicate donne esser umano,
parlar discreto, ragionar d’amore,
in sembiante gioioso, amico e piano,
l’alta severità, l’ira e ’l furore
riservar ove armata ha poi la mano;
altrove andar come il bisogno sproni,
dolce a i dolci, aspro a gli aspri, buono a i buoni.

97Or gli son tutte intorno e fanno a prova
chi più può il gran barone accarezzare.
Cercan tutte fra lor materia nuova
come il tempo a fuggir men può noiare.
Beata chi miglior ve la ritrova,
ché ne sente piacer che non ha pare.
Chi gli dislaccia il piede e chi la testa
sì ben che in breve disarmato resta.

98Posta la mensa di vivande carca,
secondo la stagion, le più gioconde,
ivi Pomona i suoi tesor scarca,
lì versa Bacco le più chiare sponde.
Dieci donzelle son, nessuna parca
di lui servire, et han tra fiori e fronde
coronata la fronte, e i bei capelli
per gli omeri correan lascivi e snelli.

99Altre tante ne son ch’assise a canto
gli facevan mangiando compagnia,
diece altre che con vezzoso canto
empion la adorna sala d’armonia.
Vien già la notte e splendon d’ogni canto
ricche lumiere tai che par che sia
tornato il sol per rallungar il giorno,
ché non rompa il dormir sì bel soggiorno.

100Dieci altre nella camera restate
sono, apprestando un prezioso letto,
ov’ei possa le membra affaticate
riposar quando voglia a suo diletto.
Così quaranta son donne adunate
senza compagno aver, sposo o valletto;
Giron col suo scudiero ivi era solo,
guardian del vago femminile stuolo.

101Poi ch’ebbe fin la delicata cena
tra mille acque odorate e mille fiori
con lieta vista e con fronte serena
incominciò Giron: «Gli antichi amori
onde ogni carta de i poeti è piena,
che van scaldando i lascivetti cori,
non ebbero altro albergo mai che questo
perch’io maravilioso e vinto resto.

102Qui l’accoglienze pie, gli atti gentili,
il cortese ascoltar, i bei sembianti,
il parlar dolce, le risposte umili,
il pietoso mirar, i risi, i canti,
che veramente son l’esche e i fucili
da far pietre divenire amanti,
con mille grazie riccamente accolti
tra queste mura son, tra questi volti.

103Maravigliomi poi come e ’n qual modo
voi tante donne nessun uomo avete,
che mostra pur che del venereo nodo,
onde tutti nasciam, selvagge sète.
Di che, forse, in mio cor vi pregio e lodo,
ma non so immaginar come potete,
tra sì vaghi lacciuoi sì nobili alme,
discarche andar delle amorose salme».

104Quella che l’ha condotto e che ben mostra
che sia di tutte l’altre la più accorta,
disse alle donne: «Con licenza vostra
narrerò al cavalier quel che n’apporta
la lontananza e solitudin nostra
dall’uom, ch’esser di noi suol fida scorta,
non perch’io sia più saggia ma perch’io
ho di lui compiacer maggior desio».

105E cominciò sua certa invenzione
all’inganno gentil dando colore:
«Noi siam» gli dicea «per devozione
come son l’altre che si chiaman suore;
ma quelle del peccar ogni cagione
fuggono, cred’io, perc’han fragile il core,
con digiuni, orazion, sole e serrate,
giungendo al buon voler necessitate;

106ma noi, che l’alme avian bel salde e pronte
e più speranza nella grazia eterna,
non ci cal se leggiadre, ornate e conte
questo e quel cavalier talor ne scerna,
e parli a noi, pur che le forze e l’onte
lontane sieno, e ’l nostro onor non scherna,
né canti e suoni e favole amorose
ci son, come all’ipocrite, noiose.

107Anzi quella ha fra noi più pregio e lode
che più sa qualche amante intrattenere,
pur che poi da gli inganni e dalle frode
schermir si sappia e gli sia puro il volere.
E s’ella al fin di maritarsi gode
gli vien concesso, se ben sa tenere
termini onesti e l’ordinato stile
e che ’l marito sia chiaro e gentile.

108Noi siam quaranta, e qui la notte e ’l giorno
in opere lodevoli spendiamo,
in far le membra e pria l’animo adorno
e ’nnanzi a tutti al Creator supremo
grazie rendendo, che di Adam lo scorno
co ’l sangue del Figliuol vinse all’estremo,
e spese in sé giustizia, in noi pietade
per aprirne del Ciel le chiuse strade.

109Così vivemo, et è di noi ciascuna
per sette dì dell’altre ampia regina,
esamina i lor fatti, ad una ad una
riprende o loda, dove più s’inchina.
Il ben che può venir dalla fortuna
in publico servizio si destina,
altre vecchie provedono all’ostello,
ma non possono entrar dentro al castello.

110Né noi possiamo ancor di fuori uscire
se non una di noi per un dì solo,
e solo un cavalier ci può venire
con un compagno e non con altro stuolo.
E non più ch’una notte mai dormire
quinci il lasciam, che come il nostro polo
alluma il sol co i raggi licenziato,
può ben tornar s’un mese sia passato.

111E se quella ch’è fuor per avventura
ne ’ncontra alcun ch’a riguardar el piaccia,
il può dentro menar di queste mura
ché mangi in compagnia, soletto giaccia
la notte poscia. E tutte mettiam cura
che l’averci vedute non gli spiaccia,
non per diletto, premio o per amore,
ma per virtù, per gloria e vero onore.

112Questa adunque è, signor, la nostra vita,
questa dell’esser sole è la cagione,
e ciascheduna in ben di esser gradita
ogni suo spirto, ogni sua cura pone.
Chi vorrà l’età sua qui aver finita
il potrà far, e ben n’avrà ragione,
ché eterna gloria, eterna lode merta
e la strada del Ciel truova più certa.

113Chi vorrà ritornarse al natio loco
con onorato sposo il potrà fare
(perché la patria nostra è lunge poco
ove incontra la Gallia in lito al mare),
e menar i suoi giorni in festa e ’n gioco
tra i buoni parenti e le compagne chiare,
vantaggio avendo che sian state insieme
ch’ottimo frutto avrà di questo seme.

114E non vi paia stran se i padri nostri
in queste acerbe etadi hanno tal fede,
che in sì selvaggi e solitari chiostri
senza rettor alcun ci danno fede,
ché noi giurammo i sacrosanti inchiostri
di non muover mai quinci il vergin piede,
salvo che per onor e già mai senza
il consiglio di loro e la licenza.

115Poi ch’al suo ragionare ha dato fine
l’accorta figlia, il buon Giron rispose:
«Oltra le forme vaghe e peregrine,
così sagge vi veggio e valorose
che fra l’anime altissime e divine
vi posso por, non fra l’umane cose;
e vostra chiara impresa estimo tale
che memoria et onor merta immortale.

116E vi prego e conforto a tener salda
la santa, casta e rara intenzione,
che l’onor della donna è bianca falda
di pura neve all’ultima stagione,
che se la fiamma talor o sol la scalda
di torle ogni suo ben tosto è cagione,
e come era a veder pulita e monda
la rivolge in negletta e torbida onda.

117Et io con tutto il core offero loro
questa lancia ch’io porto e questa spada,
per difender da forza un tal tesoro
ch’a i miglior più ch’altra ricchezza aggrada;
perché la possession di gemme e d’oro
al men convien che con la morte cada,
la bontà splende in vita e dopo morte
a i vicini e i lontan luce più forte».

118Qui si tacque il barone, e quella prima
gli replicò: «Signor, di quanto dite
vi ringraziamo e della vostra estima,
e del vostro poter che ci offerite,
ma la ritonda luna arriva in cima
del nostro cielo et ha mezze compite
le notturne sue strade, e ne consiglia
che al sonno presentiam le stanche ciglia».

119E tutte in piè levate lui menaro
con belle e soavissime maniere
là dove la sua camera apprestaro,
scorgendo i passi lor mille lumiere;
quando il ciel gira più sereno e chiaro
la notte è men piacevole a vedere,
che le gemme del letto e i ricchi fregi
fatti per onorar principi e regi.

120Ivi con chiare assai parole oneste
accomodato a Dio, si riman solo,
tornarsi indietro ad ingannarlo preste
se non si fugge invisibile a volo.
Il suo fido scudier gli trae la veste
poi che fuor sente il femminile stuolo,
pone in letto il padron, serra la porta,
e ’n altro letticciuol si riconforta.

121Erano i letti in tal guisa ordinati
che ’l ciel di sopra i lor pendenti intorno;
di dentro son di spessi ferri armati,
come gabbia ove canti o merlo o storno,
il di fuori è di perle e drappi aurati
tutto coperto, e riccamente adorno.
L’altro è di fine acciaro al paragone
che non lo sforzeria toro o leone.

122Del medesmo metallo hanno i bastoni
che reggono il bel letto saldi e grossi,
sostenuti da piè con certi coni
ben sotto al palco ove veder non puossi;
e son forate le travi e i mattoni
tal che s’ei son per forze indi rimossi
cade il ciel co i pendenti duri e gravi
e si ficcan nel letto in certe chiavi.

123Che di maniera son che ingegno o mano,
senza chi ’l modo sa, no ’l puote aprire.
Chi dorme quivi allor il truova strano
che prigion resta e non si può fuggire,
come affamato uccel che ’l buon villano
fra la neve adescato suol coprire
con l’annodata rete, che da lunge
ascoso tira e con inganno il giunge.

124Così il fero Giron spogliato giace
sopra l’infide e sconosciute piume,
e benché in alcun loco in guerra o ’n pace
di così riposar non ha costume,
anzi quando ha più il luglio ardente face,
o quando gielan più l’algenti brume,
sotto l’aperto sol, sopra la neve
dormia con l’arme indosso dura e greve.

125Pur sendo ei lasso e sendo disarmato
dalle lascive man delle donzelle,
trovando il letto dolce e delicato
non vuol la cortesia spregiar in elle;
e sa poi seco quanto sia lodato
chi in tutte le maniere, o queste o quelle,
ben s’accomoda al tempo e non oblia
con tutto questo di virtù la via.

126Basta ch’ei s’era in tutto nudo e sciolto
tra il lin corcato senza alcun pensiero;
già l’avea il sonno tra i suoi lacci avvolto
e sopra lui tenea saldo l’impero
quando otto donne, con ridente volto,
sendo assai presso Apollo all’empispero,
gli otto ferri dal basso scoccato hanno
e dato fine al destinato inganno.

127Il soverchio romor subito desta,
ché profondo dormiva, il buon Girone;
non si può dir se allor troppo il molesta
il vedersi caduto il padiglione.
Va da prima tentando con la testa,
e vede finalmente ch’è prigione,
poi prova con le spalle e con la mano,
et ogni suo sforzar conosce vano.

128Quale il leon trall’africana sabbia
cui tese insidie il libico pastore,
che poi ch’ei si conosce esser in gabbia
e speranza non ha di uscirne fuore,
rode il ferro e se stesso, e per gran rabbia
or ralpa or rugge con sì gran furore
ch’ogni fero animal che lunge il senta
non che le gregge umili spaventa.

129Delle donne infedel la bella schiera
lieta sen va dove una ascosa porta
ch’a null’altro palese ch’a loro era,
monta là su per una scala attorta,
e truova il cavalier che si dispera
e con voce e sospir si di sconforta;
stansi ascoltando e che dèn far non sanno,
ei non le sente pur tanto have affanno.

130Quai pecorelle timide che scorto
o per opra del cane o del pastore,
veggiano il fero lupo o preso o morto
sì ch’esser pon d’ogni sospetto fuore,
che ’l fuggono pure e pur il guardan torto
e di pascergli presso hanno timore,
tai son quelle donzelle intorno sparse
né baldanza hanno poi di a lui mostrarse.

131Pur quella che solea con voci franche
comincia: «O cavalier che nostro sète,
forse vi par che in noi la fede manche
e disleali in tutto ci tenete,
ma vi assicuro che mai pigre o stanche
in oprar ben per voi non ci vedrete,
e sapendo or chi semo e la cagione
a voi darete torto, a noi ragione.

132Noi siam quelle quaranta miserelle
ch’esser devean de i sue giganti schiave,
ma l’arme vostre valorose e quelle
del cavalier che niente pave
han dalle perigliose impie procelle
condotto in porto omai la nostra nave,
sì ch’eterna memoria, eterne some
d’obligazione avremo al vostro nome.

133E mille onor come a i sacrati tempi
di far lor in quel dì ci siam votate,
che voi da i monstri scellerati et empi
con tal virtù ci avete liberate,
minacciando i malvagi e dando essempi
di ben far sempre all’anime ben nate,
co i vostri scudi e ’l titol vostro insieme,
che venuto è fra noi di divin seme.

134E che sia ’l ver ben ricordar vi deve
di quello ambasciador che venne a voi
pregando umil che non vi fusse greve
manifestarne il nome d’ambe duoi,
e con benigno cor, qual più si deve
verso amici divoti e servi suoi,
donàr gli scudi e per restar armati
prender in cambio quei ch’aveam mandati.

135Consentì il Cavalier Senza paura,
disse il suo nome e ci mandò il suo scudo;
voi, senza aver di noi rispetto o cura,
via ve ne andaste, di dolcezza nudo,
e la vostra alterissima natura
men spiegò al suo dir ch’un fermo e nudo
scoglio in riva del mar all’onda e ’l vento,
tal che ontoso tornò non che scontento.

136Noi, che siam donne e che sapete bene
quanto natura ci ha fatte sdegnose,
e quanto quel che più negato viene
più ci fa d’ottenerlo desiose,
con quella compagnia che n’appartiene
venner qui l’altre contro a voi noiose,
fecer l’insidie ove or sète incappato
io vi venni a cercar per altro lato.

137E per dar tempo a lor qui vi menai
per vie più lunga e men battuta via,
e lo scudo dormendo vi rubai,
mandailo al loco dove eterno fia.
Or di qui voi non partirete mai
se chi voi sète non ci dite pria,
da signor promettendo ardito e buono
d’ogni nostro fallir darci perdono.

138So che ’l farete, ben riguardo avendo
a chi ci ha mosso in ciò, non all’effetto,
e s’ognuna di noi per quanto io intendo
del vostro dispiacer troppo ha dispetto;
dichinlo pur le lagrime ch’io spendo
e voi vedete, ond’ho bagnato il petto.
Ditene il nome omai, prendete in grado,
o famoso guerrier, nobile e rado.

139Mentre ch’ella dicea, l’altre erano ivi
e piangean di pietade e di timore,
e ’n atti dolci, vergognosi e schivi
già le cortine intorno han tratte fuore,
ch’ei veggia il lume e tornin forti e vivi
gli alti spiriti oppressi dal dolore.
E ’l cavalier con vista irata e tarda
non sa quasi che dir ma in giro guarda;

140poi cominciò: «La vera cortesia
che con mille virtudi io metto al paro,
non vuol che cavalier perfetto sia
se in fra le donne è di dolcezza avaro;
ma se la vostra impresa è buona o ria
dichinlo quei che a ciò vi consigliaro.
S’io son vostro prigione e non d’altrui
già non sono altro qui ch’altrove fui.

141Perché senza catena e senza laccio
prigion son sempre delle donne oneste,
né bisognava porsi a tanto impaccio
se solo il nome mio saper voleste,
che con la spada in man, col scudo in braccio
e condurre e sforzar più mi potreste,
in questa guisa e in tutto altro loco
che mille aspri guerrier con ferro e foco.

142E se fusse venuta una di voi
quando mandaste l’uom di quella terra,
avrebbe satisfatto a i desir suoi
e me tratto di pena e voi di guerra.
Pur tutto è gito e girà ben da poi
che così piacque a Quel che mai non erra,
e per farvi il mio nome omai palese,
chiamato son Giron, detto il Cortese».

143Non ebbe quanto io narro a pena detto
che tutte si gettaro genuflesse,
«Ben siamo sciolte omai d’ogni sospetto
che ci deviate odiar più che noi stesse,»
dicean piangendo «o cavalier perfetto,
al cui valor non fia mai chi s’appresse.
Chi di voi non udì l’alta memoria
non sentì mai parlar di vera gloria.

144Non cerchiam più da voi promessa o fede»
dicea ciascuna (e ’n questo mezzo scioglie
il forte letto) «che voi sendo fede
di bontà, di virtù, d’altere voglie,
sappiam ch’ira e furor non vi possiede,
né degnitate cercar sì vili spoglie,
come noi siam se voi vendetta fesse
di noi, vie più ch’or voi, di doglia oppresse.

145Surgete adunque e riprendete omai
le vostre vesti, e quelle armi famose
c’han fatto e fanno ancor più d’altre mai,
come l’altr’ier vedemmo, altere cose».
Sprigionan lo scudier che pianto e guai
s’aspettava ivi e non donne amorose,
indi escon fuor perch’ei possin del letto
levarse e rivestir senza rispetto.

146E ’n questo mezzo la sala più grande
adornar tosto di coperte aurate,
prendon lo scudo suo, vaghe ghirlande
gli fan di lauri e di altre erbe odorate.
Chi fior, chi rose per la terra spande,
chi con fresche acque caccia via l’estate,
chi pon le mense, chi vi apporta frutte,
e varie opre fra lor divise han tutte.

147Chi le vivande poi più dolci e care
pulitamente e di sua mano appresta,
chi pon vasi di vin fra l’onde chiare
d’un fonte vivo che ’l sol non molesta.
Lì proprio il coro delle ninfe pare
che Diana, ch’è ancor per la foresta
dietro a cervo o cinghial, che torni attende,
le membra a ristorar che il luglio incende.

148Girone in tanto tra le donne arriva
fuor che la testa tutto l’altro armato;
nessuna par di rivederlo schiva
così bel pare e di maniere ornato.
Ei tutte intorno salutando giva
con parlar vago e con sembiante grato,
dicendo: «Or ecco il vostro prigioniero
che mai non si sciorrà, per quel ch’io spero.

149Né mai per tempo gli uscirà di mente
la dolce e violenta cortesia,
e servo sempre e sempre obediente
vi sarà in ogni sorte, o buona o ria;
e conterà fra la lontana gente
ciò che mai forse non fu visto pria,
d’usar inganni all’uom, forza e catene
sol per fargli ricchezze, onore e bene».

150Così, lieto ridendo a questa e quella,
da lor richiesto a tavola si assiede.
Lì sol di cose liete si favella
e spesso pure alla sua storia riede.
Venuto il fin, il duol si rinovella
tra l’alma compagnia, ch’ei surge in piede
dicendo: «Al mio partir venuta è l’ora»,
di che ciascuna si lamenta e plora.

151E nessuna si truova che non voglia
come a santa reliquia fargli offerta,
chi del caro gioiel se stessa spoglia
che del vero amator fu fede certa;
chi trapunto gentil prega ch’ei toglia,
di sua man fatto, a simili ore esperta;
e secondo ch’avvien fan tutte quante
come a buon, fido e salvatore amante.

152Ei, per la cortesia (che così vuole),
accetta tutto, e loda e le ringrazia;
poi cerca di dar fine alle parole
pur mantenendo l’acquistata grazia,
perché sa ben che sia fuggiro il sole
pria ch’una sol di lor di dir sia sazia.
S’invia pian piano, et elle pure scorta
gli fanno infino al basso su la porta.

153Ivi trova il caval, sopra vi sale,
prende il cammino e l’accomanda a Dio.
Resta ognuna di lor a marmo uguale
in cui buon mastro immagine scolpio.
Di Vener trist che dal rio cinghiale
vede percosso Adon, onde morio,
riguardan quanto pon, poi in alto vanno,
e di a casa tornarse ordine danno.

154Prendono il forte scudo, e quel gran nome
scritto di lettre, come il scudo, d’oro,
e ’nghirlandate le vittrici chiome
si tornano al castel ch’è patria loro,
scarcando liete le due sacre some
sopra la piazza ov’è il palazzo e ’l foro,
e che sien poste dan publica cura
di sopra il Cavalier Senza Paura.

155Sotto scrivendo il tempo, il come e ’l dove
avean già liberata quella terra,
raccontando di lor l’invitte prove,
l’estremo ardir, la perigliosa guerra,
e, come eterna grazia in Cielo a Giove,
aveano a questa coppia obligo in terra,
et a le due marmoree colonne
fan ciascuno anno onor giovini e donne.