commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro II

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 12.09.15 15:00

Girone giunge da Danain, decidono di partecipare in incognito a un torneo di lì a poco (1-13)

1In questo mezzo, verso Maloalto
quanto può sprona il buon guerrier cortese,
e volentier vorria solo in un salto
aver passato tutto quel paese,
però che del suo cor teneva in alto
Danain Rosso, poi ch’amico il prese,
e più lui pregia e per più lui faria
che per tutto altro che nel mondo sia.

2E Danain vêr lui non era ingrato,
anzi più l’ama ch’ei non fa se stesso,
né mai fu lieto e sempre addolorato
se no ’l vedea o no ’l sentiva appresso.
E ben n’avea cagion, che ’n più d’un lato
l’esperienza n’avea vista e spesso,
che mille volte per tòr lui da morte
la vita pose in perigliosa sorte.

3Or giunto adunque dopo il dì secondo
al bramato castel del chiaro amico,
non bisogna narrar come giocondo,
come fu dolce al suo compagno antico,
che non avea lasciato un luogo al mondo
del brittanno terren diserto o aprico
là dove non mandasse messaggiero
per intender di lui novelle al vero.

4Mille volte l’abbraccia e mille poi
la bella sposa quel medesmo face,
che lo stimava sopra gli altri eroi
e lontana da lui non avea pace,
ché delle sue virtù, de gli occhi suoi
ardea secreta in amorosa face,
e già due volte con tremante affetto
tra lagrime e sospir glie l’avea detto.

5Ma il cortese Giron, che ’l suo devere
più che tutte le donne pregia assai,
l’avea ripresa con parole vere,
e pregatola appresso che più mai
parlamento cotal con lui tenere
non voglia, se donar non gli vuol guai,
o via scacciarlo, che morir più tosto
ch’offender Danaino era disposto.

6Così la bella donna a poco a poco
di fuor mostrava d’ubbidirlo in questo,
ma tanto ardeva più, quanto più il foco
che s’asconde con paglia è più molesto,
e sol seco godea e prendea gioco
di averlo presso, temperava il resto,
pascea gli occhi di sguardi e nutria il core
di pensier dolci e chiamare amore.

7Danain solo e solo ella sapea
il nome di Giron; l’altra famiglia
(però che ’l fior de gli uomini parea
cortese, bello e forte a maraviglia)
il Cavalier Perfetto gli dicea,
né d’intender più oltra s’assottiglia,
che in carezzarlo assai secondo i merti
e che ’l padron il vuol, son più che certi.

8Mentre che così stan, viene un corriero
ch’al Rosso Danain un vicin manda,
ch’un torneamento molto ornato e fero
al castel delle suore il re comanda,
che di Norgalle domina il sentiero,
contra il gran re della Noromberlanda.
Diss’ei: «S’ei piace a Dio, questo non fia,
come fu l’altro già, ch’io non vi sia».

9In questo ecco arrivar Giron ch’allora
quando venne il messaggio era lontano:
il suo buon Danain senza dimora
gli fa quanto avea inteso aperto e piano.
«Or via,» rispose a lui «venga pur l’ora
ch’anch’io quivi sarò con l’arme in mano,
ché ’l troppo in pace star troppo in un loco
nella cavalleria si loda poco.

10«Non sarà prima,» l’altro gli replica
«che passati non sien quindici giorni.
In questo mezzo prenderem fatica
in far noi stessi e i destrier nostri adorni,
ché io penso ben che senza ch’altro dica
vi piacerà ch’io venga e ch’io ritorni
voi seguitando, e tanta grazia farme
che compagno vi sia di onor e d’arme».

11«Non solo in compagnia meco vi accetto,»
dicea Giron «ma ve ne stringo e prego,
che devreste saper quanto ho diletto
di compiacervi e nulla mai vi nego.
E così possa io far co ’l vero effetto
come con tutto il cor sempre m’impiego
verso i nostri desiri, i quai tanto amo
ch’adempir quei più che i mei stessi bramo.

12Ben vorrei (s’a voi par) che sconosciuti,
con non usati scudi e strani arnesi,
con due soli scudier taciti e muti
andassimo, a nessun conti o palesi.
Più grande l’onta fia de gli abbattuti
che per poveri e vil n’avranno presi,
più gloria fia di noi, che di valore
dentro cinti sarem, non d’oro fuore».

13Ben s’accorda il compagno volentiere,
dicendo che a proposito saria
portar gli scudi e tutte l’arme nere,
con quella ascosa e breve compagnia.
così danno l’ordine d’avere
il tutto in punto pria che ’l tempo sia,
divisando ogni dì come e ’n qual parte
deggian la forza lor spiegar e l’arte.

La moglie di Danain chiede e ottiene il permesso di poterli precedere (14-30)

14Mentre ei parlan così, la vaga sposa
di Danain, che ben fu la beltade
leggiadra, cortesia, grazia amorosa
che avanzò quella e ciascuna altra etade,
si sta nella sua camera nascosa
d’amor piangendo e di sua crudeltade,
ch’ogni uom l’adora, e tutto a lei dispiace,
un sol vorrebbe, et ella a lui non piace.

15E dicea pur tra sé: – Come esser puote
che tanto alto valor, tante virtudi
sian di pietade e di dolcezza vòte?
più dure, ohimè, che siciliani incudi?
più sordo a i miei lamenti, alle mie note
ch’al saggio incantator gli aspidi crudi?
che s’io gli chieggo aita non m’intende,
o mi consiglia indarno e mi riprende?

16Che farò dunque, Amor? sarò sì ardita
ch’ancor la terza volta io mi procacci
d’esser così da lui, lassa, schernita,
che di vergogna e duol dentro m’agghiacci,
e da me tutta afflitta e sbigottita
fugga oltraggiando, o che da lui mi scacci,
e mi neghi le luci che son sole
la mia vita, il mio ben, l’anima e ’l sole?

17So ben ch’egli è sì fero che non guarda
al duol ch’io porto e mi tiene impudica;
non può seco estimar che fiamma mi arda
ch’a vera castità non sia nemica.
Io fui pur sempre alle vili opre tarda,
presta al ben far e d’onestate amica,
et or son più che mai, s’ancora il fui,
se non per altro per piacere a lui.

18Per piacer solo a lui, per somigliare
lui che più pregio che questi occhi e ’l core,
sol per lui simigliar che non ha pare
e che farebbe i sassi arder d’amore,
non pur colei che gli porria parlare,
riguardar e sentire a tutte l’ore,
e che ’l può misurar a parte a parte
ch’egli avanza Mercurio, Apollo e Marte.

19Or che torto può dir questo spietato
ch’io faccia al mio consorte quando io l’amo?
s’io lodo quel ch’esso ha sempre lodato?
s’un cercato da lui ricerco e bramo?
Solo in questo è contrario il nostro stato,
ch’ei corre a lui, me fugge quando il chiamo,
e pensa bene oprar e fa sì forte
ch’io n’ho torto, disnore e ’ngiusta morte.

20Io non cerco altro aver se non che voglia
ascoltar quando io narro i miei martiri,
ch’ei prenda in grado la soverchia doglia
cha da lui vien, le lagrime e i sospiri,
che non mi fugga più di quel ch’ei soglia,
le donne estrane e che talor mi miri,
e che scerna talor nel volto mio
ch’egli è mio sommo ben, signore e dio.

21Tu sei, tu solo, o disleale Amore,
d’ogni mio danno e d’ogni mio mal cagione,
che quando io son della sua vista fuore
sì ben mi mostri a dir la mia ragione
ch’io giurerei di tòrre il suo furore
al più affamato e rabido leone,
e mi riempi il cor di tal baldanza
che di far lui prigion avrei speranza.

22Poi che per ricercarlo ho mosso i passo
e ch’io mi truovo alla presenza amata,
m’insegni solo a tener gli occhi bassi,
a ragionar con voce sì affannata
e con gli spirti così uniti e lassi
ch’ei non m’intende, et io qualche fiata
discerner non saprei s’io parlo o taccio:
so ben che arrosso, imbianco, ardo et agghiaccio -.

23Mentre così fra sé divisa e plora
la troppo innamorata e troppo bella,
sente ch’apre la camera di fuora
una sua secretissima donzella,
e le porta le nuove che in quell’ora
d’un vicin torneamento si favella,
e che ’l forte Giron di girvi intende,
e per compagno il suo marito prende.

24Or qui si rinovella il pianto e l’ira
contro Amor, contra il Ciel, contro a se stessa.
Sopra il letto si pon, grida e sospira,
che la sua cara lucea avea pur pressa.
Or nuovo vento a lei contrario spira
che via la spinge ove non può gir essa:
la gelosia qui surge, e non in vano
contro la miserella ha l’arme in mano.

25E le dice all’orecchia: «In quella parte
ove andrà il vostro ben son mille donne,
ch’oltre a chiara bellezza han senno et arte,
e san gli animi ornar, non pur le gonne,
e con le grazie ne i lor detti sparte
farian di foco venir fredde colonne;
non son qual voi, che non sapete fare
se non pianger, dolerse e troppo amare.

26Ei senza dubbio alcuno avrà la palma
d’ogni altro cavalier che lancia porte:
ben puoi pensar s’un’amorosa salma
volentier segue l’onorata sorte,
qual fia in tanto favor sì rigida alma
contro a quel fero arcier sì dura e forte
non piagata alla fine, e che non voglie
render di sé le mal difese spoglie.

27Non pensate aver sola gli occhi in testa
per conoscer le cose vaghe e belle;
non è fera sì rozza alla foresta
che non discerna il sol più che le stelle.
S’a voi severo et implacabil resta
non sarà forse al supplicar di quelle;
marito non avran ch’egli ami tanto
come fa Danain, per dar lor pianto.

28Come al geloso dir dava udienza
chi ’l può narrar questa infelice amante?
Poi fra sé parla: «Io giuro al Ciel che senza
ch’io seco sia non moverà le piante
di qui l’aspro e crudel, ch’a sofferenza
non vo’ più armarme e lagrime cotante
sparger senza profitto in doglia e lutto,
ma più tosto morir co ’l viso asciutto.

29E se ben bene accorge anche il mio sposo,
ch’altro mi può venir che morte acerba?
Qual fine esser mi può più glorioso
s’a cagion di Giron il cielo il serba?
A me fia dolce, a lui non fia noioso
se in altro modo amor no ’l disacerba;
e ’l mondo che può dir se non che amai
il miglior cavalier che fusse mai?

30Ma spero pur ch’amor qualche consiglio
mi porrà in core, onde con loro io vada -.
Così dicendo il volto suo vermiglio
s’adorna, e secca a gli occhi la rugiada,
simile a quella che ’n su rosa o giglio
poco avanti l’aurora al maggio cada.
Poi se ne venne fuor leggiadra e bella
che sembra al vespro la ciprigna stella.

Danain e Girone incontrano per strada Ivano e Creuso, che li schernisce per le brutte armature (31-63)

31Truova i due in sala che parlando stanno
dell’arme, de i cavalli e lor divise:
incontra lietamente se le fanno,
narranle tutte le pensate guise.
Ella, che già il sapea come essi sanno,
se ne fa nuova e dolce ne sorrise;
poi dice: «Essendo il loco così presso
dell’usanza servar mi fia concesso.

32Che voi sapete pur s’una giornata
e nono più lunge nobil festa fassi,
ch’ogni donzella o donna maritata
di fratello o di sposo segue i passi.
So ben che non mi fia da voi negata
grazia, ché ’l tempo lietamente passi
con voi, consorte caro, in veder ivi
mille di vostra man dell’arcion privi.

33«E ’l cortese Giron sarà contento»
soggiunse e di color venne di foco
«di voi pregar ch’io vegna al torneamento
né qui stia, lassa, in solitario loco».
Poi pallida tornata in un momento
il resto del parlar fu tronco e roco.
Volgesi egli al marito, e tanto il prega
che di tutto fa grazia e nulla nega.

34E seguì Danain: «Che con noi vegna
come intendete mal possibil fia,
perché propria saria la vera insegna
di mostrar fuor chi l’uno e l’altro sia,
E noi, perché celato si ritegna,
lassiam la necessaria compagnia,
ma tanti avrà donzelle e cavalieri
che d’averci con lei non fia mestieri».

35Ella accetta, il ringrazia, e poi gli chiede
ventisei suoi baron che sien con lei,
di più alto valor e di più fede
da poterla scampar da i casi rei.
Il marito ogni cosa le concede,
e vengon tosto accompagnar costei
sopra destri corsieri e bene armati
e d’altri arnesi riccamente ornati.

36Et esso in tanto cerca in ogni parte
arme e cavai che venghin di lontano,
ascosamente pure, et usa ogni arte
ché l’abito s’acconci oscuro e strano.
La innamorata donna indi si parte
in bella compagnia co ’l cor non sano,
e nel castello arriva delle suore
già di gente ripieno e di romore.

37Ivi è da tutti chiaramente accolta
come cosa onorata e d’alto affare;
racconta a molti, e ’l crede chi l’ascolta,
che ’l Rosso Danain passato ha il mare,
e ’l Francia è gito, là dove altra volta
avea fatte opre gloriose e rare:
or per salvar d’un suo cugin la vita
quindici giorni son fece partita.

38Lì si vede arrivar più d’una banda
di guerrier valorosi, arditi e forti:
sonvi i miglior della Noromberlanda,
così dell’altre più famose corti.
Cerca ogni uom che la fama l’ali spanda
e che ’l suo nome sopra il ciel ne porti,
ma quei di Logres sopra gli altri vanno
minacciando a i nemici or onta or danno.

39Or messi in punto i due compagni veri
d’arme e d’amor, appresso si partiro.
Han lance, arme, cavalli e scudi neri,
lassano il cammin dritto e vanno in giro
per boschi e mal segnati aspri sentieri,
ove sol fere videro et udiro.
Giunsero ove un romito avea la stanza
che solo in Dio servir avea speranza.

40Era presso una lega al detto loco,
ivi si riposàr per quella sera;
non dormìr, troppo agitati, e mangiàr poco,
benché ciascuno accostumato n’era.
Poi la mattina se n’andàr per gioco
godendo il fresco e ’l bel di primavera,
nel verde bosco, e posano i cavalli
perch’al bisogno estremo alcun non falli.

41Già giunto è il vespro, ch’era ferma l’ora
di dar principio al fero torneamento;
s’arman di tutto e i destrier traggon fuora
e sen vanno pel bosco a passo lento.
Verde è il terreno e già scherzava Flora
co ’l suo Favonio, l’amoroso vento.
Son gli scudieri innanzi, che hanno in mano
lor lance e scudi, e van poco lontano.

42Van per diporto, ma per quella sera
non era il luogo lor di colpo fare,
sol volean contemplare in che maniera
veggin la bella guerra apparecchiare.
La mezza strada non han fatta intera
che ’l gran cammin della foresta appare,
ivi due cavalier veggiono armati
al castel delle suore indirizzati.

43Era l’un di quei due l’ardito Ivano,
che del re Urieno era figliuolo,
Creuso è l’altro, in guerreggiar sovrano,
che per l’arme adoprar sen vanno a volo.
Senton dietro il romor poco lontano
de gli altri che venian con poco stuolo;
si fermano ambe a rimirar chi sia
posti al proprio traverso della via.

44Disse Creuso al suo compagno e rise:
«Ecco di qua venir due cavalieri
c’han sì pochi color nelle divise
che son del tutto più che corvi neri,
e non porrian negare in mille guise
che non fusser veraci carbonieri;
et ho gran voglia di provare un poco
quanto vaglino a guerra in sì bel loco».

45E così detto grida in alta voce:
«O neri cavalier, se l’arme vostra
come spaventa gli uomin così nuoce,
volentier il vedrei volando a giostra;
non che spento carbon fuoco non cuoce
quando gli avampa più la virtù nostra.
Adunque vegna chi verrà di voi
e se vi piace ancor siate ambe duoi».

46Il Rosso Danain volto a Girone,
«Che ti pare» disse «di questo arrogante?
Volentier piglierei con lui quistione
per far mostrargli al ciel alte le piante
se a voi piacesse». E ’l cortese barone
di no rispose, e «Benché assai si vante
e per loro e per noi doman ne fia
tanto ch’adempierà la sua follia».

47Fece adunque risposta Danaino
al senescial Creuso: «O mio signore,
noi intendiam di seguir nostro cammino,
né di giostrar per or ci viene in cuore».
Ei ridente al compagno a lui vicino,
lieto fra sé del troppo vano onore,
disse: «Caro fratel, se Dio mi vaglia
questi son cavalier di Cornovaglia».

48«Perché ciò dite?» Ivan risponde allora,
«Perch’essi han la battaglia rifiutata
con disnor troppo, ’l Ciel faccia ch’io mora
prima che ciò m’avvegna una fiata.
E s’ei fusser color che mostran fuora
non romperian l’usanza ben servata
da i miglior tutti di Brettagna e Francia
che vestono armadura e portan lancia».

49Così dicevate, e ’l buon Ivan Cortese
con parole dolcissime il riprende:
«Non si deve biasmar così palese
alcun se prima il ver non se ne intende,
se bene è la maniera del paese,
come voi dite e come ogni uom comprende,
forse che passan qui per tal cagione
che chi l’udisse lor daria ragione.

50Esser parco al dannar, largo alle lodi
dove ogni buon guerrier che fama agogna
in pregio non si vien per torti modi,
né ci dà vero onor l’altrui vergogna;
la virtù nostra con più saldi chiodi
che co ’l mal del vicin fermar bisogna.
Lasciamgli qui, seguiam pur il viaggio
senza far loro o dir secondo oltraggio».

51«Or via» disse Creuso «io son contento
né so chi sien, ma ben raffermo certo
che presente ogni re prendo ardimento
di mantener a tutto il mondo aperto
ch’alla cavalleria fan mancamento;
e non più ch’alla corte in un diserto
si dee giostra fuggir et ogni cura
lasciar da parte e porsi in avventura».

52Il Rosso Danain, che tutto ascolta,
di disdegno e furor rabbioso viene,
e dice al suo Giron: «A questa volta
ben la parlan di noi come conviene;
non vogliam noi, signor, che della stolta
opinion di noi porti le pene
quel discortese e che conosca omai
che più di quel ch’ei tien vagliamo assai?».

53«Non di grazia, fratel,» dicea Girone,
«lasciamgli andar, ch’un’altra volta poi
il troverem di nuova opinione,
né ci deviam curar de’ simil suoi,
che molti son che fuor d’ogni ragione
parlano in Logres, come fa di noi,
e più sempre ch’altrui nuoce a se stesso
chi dir mal si diletta a torto spesso.

54Noi non ci resterem peggio o migliori
per parole che dichin quinci o altrove,
ben sappiam noi che di noi son peggiori
biasmando altrui se non han viste prove,
perché peccati ‘uom non fa maggiori
né che più in Ciel dispiaccia al sommo Giove
che dir mal del compagno, o vivo o morto,
e tanto più quando si dice a torto»

55Alle parole sue contento resta
il Rosso Danaino e vanno inanti,
né molto hanno stampata la foresta
ch’ei furo al par de i cavalieri erranti.
Lì di nuovo ridendo e con gran festa
si salutàr più che non fèro avanti,
e tutti quattro van di compagnia
ragionando fra lor pe larga via.

56Poi che fur cavalcati, e non già molto,
non si poté tener Creuso in pace,
e tornato a Giron con lieto volto
domanda: «O buon guerrier, se non vi spiace
dite se sète al bel numero accolto
de i cavalieri erranti che ’l re face».
«Certo» disse Giron «un ne son io
perché ’l cercate voi per Dio?».

57«Perché ciò stran mi par» Creuso segue
«se del numero sète onde voi dite,
che voi mai domandiate o paci o tregue
a guerrier sol che vi presenti lite.
E come l’alma e ’l cor non si dilegue
d’onta e si fugga alla città di Dite,
che saria meglio andar senz’arme, a piede,
che di tanta vergogna esser erede».

58«Or non sapete voi» Giron risponde
«che non siam sempre d’una istessa voglia?
Tal volta giostrerei su le salse onde,
talor ho tal pensier che me ne svoglia.
Or si veste il teren d’erbe e di fronde,
or si asconde fra ’l ghiaccio e ’l resto spoglia,
ogni cosa mortal cangia suo stato
io, se ’l medesmo fo, perch’aggio errato?».

59«Sappiate pur» riprese l’altro allora
«che se voi fuste all’onorata corte
là dove Artus il fior de i re dimora
forza saria cangiar novella sorte,
o che sbandito ve ne andreste fuora
con vitupero e con villane scorte,
ché stabilito è quivi che nessuno
deggia mai rifiutar giostra ad alcuno».

60«Ogni uom faccia che vuol» Giron dicia
«ch’io non ho pe vergogna venti o trenta
giostre fuggir, s’ad uopo mi venìa,
e l’altrui giudicar non mi spaventa».
«Ben vel credo, e per la fede mia
convien che quanto or dite vi consenta»
dicea Creuso «perché l’arme vostre
mostran ben d’esser vergini di giostre.

61Né mai più vidi più sane né più belle,
né meglio intraguardate d’ogni danno,
che sembrano al veder più che novelle
et han per aventura pur qualche anno.
Ma devete a i gran punti delle stelle
trarle di fuori e dar lor poco affanno,
e se fate così per l’avvenire
potranno a i pronepoti ancor servire».

62«Sia con Dio,» fe’ Giron «forte m’aggrada,
se serviranno a i miei come a me fèro,
e se mi seguiran per questa strada
arà il legnaggio mio da girne altero.
Io so l’arme, la lancia e questa spada
ben risparmiare, e quando fa mestiero
mettere in opra ancor, pur che mi piaccia,
sì che a me non altrui ne sodisfaccia.

63Or non si porria dir che vile estima
del cortese Giron Creuso tiene,
e pensa ben ch’ei segga su la cima
di codardigia, ove più in alto viene.
Ivano ancor che ’l riprendea da prima
al medesmo giudicio si conviene,
e cavalcando van con gran piacere
d’una tal compagnia per giuoco avere.

Tutti e quattro incontrano un cavaliere dall’armatura vermiglia, che Creuso scherza: vengono a duello, il cavaliere vermiglio batte prima Creuso e poi Ivano (64-103)

64Poscia ch’insieme sono andati un miglio,
trovano un cavalier poco lontano,
che l’arme intorno e ’l scudo avea vermiglio
e gli attraversa ove più il bosco è piano.
Seco una donna, c’ha le chiome e ’l ciglio
splendenti, e vaga l’una e l’altra mano,
ritondo il collo e bianco e dolce il petto
benché mostri qualche anno nello aspetto.

65Il cavalier sì vago e sì spedito
parea nell’arme e così ben composto
che Giron disse, e fu da gli altri udito,
al Rosso Danain ch’era discosto:
«S’egli è questo guerrier nell’arme ardito,
come al vedere è bel, grande e disposto,
di tal virtude è pieno e tal valore
che ben degno saria di largo onore».

66Creuso allor, che proprio gli era a canto,
disse a Giron, quando i suoi detti intende:
«A voi darebbe questo istesso vanto
chi vi riguarda fiso e ’l ver comprende,
ché ogni uom che cura ponga tanto o quanto
dirà ch’ogni bellezza in voi risplende,
né di voi penso alcun fosse migliore
s’alle membra di fuor s’agguaglia il core.

67Ma del contrario temo veramente
per quel ch’io scerna, e che mostrato avete».
Gliel affermò Giron tutto ridente,
dicendo: «Esser porria, poi che ’l credete,
che assai pel mondo va di simil gente,
come voi più di me forse il sapete,
c’han valor solo in vista et in parole
e s’io son un di quei forte mi duole.

68Così van ragionando infin che sono
del cavalier vermiglio giunti al paro;
Creuso ch’al dir molto è pronto e buono,
e che d’altrui schernir non visse avaro,
dice al guerrier: «Se Dio vi faccia dono
di quanto al mondo ancor vi fu più caro,
è questa per amor la vostra dama,
che merita al mirarla eterna fama?».

69«Certo sì,» rispose egli «e me ne tegno
contento più che di altra donna mai,
che sia di Lionese al ricco regno
ove son bellissime et assai».
L’altro risponde : «E ben parete degno
di così vaghi e sì lucenti rai;
leggiadra parmi e tenera pulzella,
così forse piacevol come bella.

70Ripien nel petto di corruccio e d’ira
si fa il campion, perché beffatto tiensi,
e minaccioso in vista lui rimira
pur dentro all’elmo con turbati sensi.
Poi dice: «Qual follia, lasso, vi tira
a schernir questa ch’onorar conviensi?
E vi consiglio ravvedervi tosto
se non forse vi fia di troppo costo».

71Allor sorride ei più, poscia il domanda:
«Dunque volete voi per lei battaglia,
e che per cosa tal sangue si spanda
e che si rompa ferro e squarci maglia?».
«Sì,» disse quel della vermiglia banda
«e quale essa si sia più non vi caglia».
«Così sia» segue l’altro, e poi s’avventa
verso la donna e di via trarla tenta.

72E le dice: «Voi sète fatta mia
per la legge di Logres e l’usanza,
se di provar di noi chi miglior fia
il vostro condottier non ha baldanza».
Ella, che sa chi ’l suo vermiglio sia,
e c’ha suprema in lui fede e speranza,
come il più può dalle sue man si scioglie
e quante fur mai furie in un raccoglie,

73qual serpe micidial tra l’erbe ascosa
che ’l semplice pastor calcò co ’l piede,
al mezzo giorno, ove si stava in posa
quando più il luglio le campagne fiede,
ch’ella si leva irata e minacciosa,
vibra le lingue e ’n su la coda assiede,
poi gli avvinchia le gambe o salta al viso
come più danneggiar le sembra avviso.

74A viva brace avea gli occhi sembianti,
a sangue il volto e le rosate labbia,
spumose se le fan, verdi e tremanti,
di velen colme e di sdegnosa rabbia,
e disse: «O tu, che te sol pregi e vanti,
schernendo noi come ci avessi in gabbia,
dimmi il tuo nome, e non l’aver per male,
ch’a quel che tu credi troppo vale».

75L’altro, che forse ancor n’avea desio,
gabbando in tutto pur le narra il vero,
dicendo: «Poi che cerchi l’esser mio,
io son nutrito sotto il santo impero
del magnanimo Artus, reale e pio;
e da lui fatto errante cavaliero,
vo cercando avventure or quinci or quindi
né penso pari aver da i Galli a gli Indi».

76Non ha finito a pena ch’essa grida,
«Non parlar più, che omai so chi tu sei,
Creuso il senesciallo in cui s’annida
ogni difetto de i guerrier più rei.
La maladetta invidia è la tua guida,
che ’l mal oprar e dir mena con lei,
né picciolo ha né grande in quella corte
che non t’aggia più in odio che la morte.

77Non più mi cruccio, non mi meraviglio
che faccia a noi quel ch’a tutti altri fai,
anzi ti prego al farlo e ti consiglio
con patti ancor che non ci lodi mai,
perché del tuo dir mal diletto piglio
come d’un saggio se m’onora assai,
e rendo grazie al Ciel che m’ha concesso
di vederti e d’udirti oggi sì presso.

78Ché sì come il famoso e gran valore
veder vorrei del pio Giron Cortese,
così caldo desir m’ardeva il core
di te veder, essempio discortese,
perch’ogni cosa rara veglia amore
di farsi rimirar d chi l’intese,
egli è il più compito uom dell’universo,
e tu vivi di lui tutto il riverso.

79Va’ pur al tuo camin, che ben perdono
alla tua falsa e perfida natura
che solo in torto oprar ti fece buono,
né di te né di lei tengo altra cura,
che di chi sia del sacro santo trono
d’offender sempre posto in avventura.
Va’ pur, lasciami star, segui il tuo stile,
io mi resto qual fui rozza o gentile».

80«Ah,» gli disse Creus tutto dolente
«pur mostrando giudicar, donna onorata,
voi avete gran torto veramente
alla presenza di tal gente ornata
a dir questo di me, ch’ogni uom ne mente
fuor che voi, vaga figlia delicata;
s’io son matto men doglio et a voi resta
di sessanta anni aver più senno in testa.

81E di parlar cortesemente ancora,
quantunque io sia villan, come voi dite,
perché avete imparato per lunga ora
molte cose provate e molte udite,
già chi vi ascolta del buon senso fuora
vi chiama, e contra a voi di questa lite
darà sentenza, e pensa che i longhi anni
cagion sien di condurvi a questi affanni.

82Guardate all’età vostra, all’onor vostro,
non alla mia, se pur vi par follia,
ch’io son giovin mal pratico e ’l dimostro
e lieta e aperta è la natura mia».
Risurge in questo il nano, il picciol mostro,
quando sente a costei dir villania,
e dice: «O cavalier disonorato,
taciti omai, ché troppo hai già parlato.

83E verrà un dì che giusta penitenza
riporterai d’ogni peccato antico,
ché ’l Ciel se tarda ben la sua sentenza
non perciò è sempre de i gran falli amico,
ma quanto indugia più tanto credenza
aver deggiam che più ne sia nemico.
Non sai che senza par codardo e matto
quel ch’offende una donna in detto o in fatto?

84Or quanto il senescial sia mal contento
non porria dirsi, e quanto si disperi,
ché ben conosce il suo gran mancamento
e se ne rode il cor dentro a i pensieri.
ma troppo tardi viene il pentimento
che la parola parte di leggieri,
e non può ritornar quando bisogna
che non riporti altrui danno o vergogna.

85E tanto più ch’ei sente i circunstanti
rider fra lor del suo cercato scorno,
– Non son (direbbe) ingiuria a tutti quanti –
anzi alle mosche ancor ch’egli have intorno.
Sfogasi sovra il nano e i suoi sembianti
biasma e poi dice: «Damigello adorno,
io non sapea che tu fussi il compagno
a menar sì bella asina a guadagno.

86Or vi dich’io che ’l vostro gran guerriero
due diavoli ha menati dall’Inferno,
e s’io dico di voi sì mostra fero
e crede ch’io ne parli per suo scherno».
Ma il cavalier vermiglio, che di vero
era legato e d’alto amore interno
per la donna sbeffatta, in ira viene
tal che ’l caldo furor più non contiene.

87E certo ell’era tal che se qualche anno
era corso per lei con veloci ali,
la bellezza natia copriva il danno
mista in atti cortesi, alti e reali.
Mille secreti poi che le sagge hanno
la mantenea l’antiche membra tali,
ch’a più giovin di lei di tempo molto
faceva il suo mostrar men vago il volto.

88Ma qualunque si fusse ell’era in modo
ch’al vermiglio aggradava oltr’a misura,
e chi da legge all’amoroso nodo
non sa ben qual si sia la sua natura:
l’un d’una cosa et io dell’altra godo,
chi lo spirto ama e chi sol la figura,
chi diletta la vista, chi l’udire,
chi sfoga ogni desir solo in servire.

89Basta che furiando si rivolse
al senescalco, e per nome l’appella:
«Con più danno nessun mai voci sciolse
come voi feste per offender quella,
e come ogni dispetto e mal s’accolse
in vostra lingua velenosa e fella,
così presenti or qui questi signori
vi darò in preda a mille disonori».

90Vero è che a disonore anch’io mi tegno
di combatter con voi, perduto e vile,
ma mi perdonin quei, ch’un grande sdegno
sovente sforza un animo gentile.
E Dio sa ben se di onestate il segno
volentier passo, e s’io son sempre umile,
e per verace onor queste arme porto
non per far ad alcun mai danno o torto».

91Or su,» disse Creùso «l’arme sieno
del vostro e mio valor giudicatrici;
s’io son d’orgoglio o di virtù ripieno
queste man ne saran dimostratrici.
Ma se i pianeti in cielo oggi non fieno
più di quel ch’esser sogliono inimici,
farò che voi, la brutta vecchia e ’l nano,
mi chiamerete prode e non villano.

92E così detto il campo a correr prende,
come l’altro avea fatto tutto irato.
L’un invêr l’altro con furo discende
e s’incontrano i colpi a mezzo il prato.
Il siniscial niente o poco offende,
il possente vermiglio in alcun lato,
l’altro il percosse sì ch’esso e ’l destriere
in un medesmo fascio fe’ cadere.

93Così il miser Creùso tutto ontoso,
non senza riso altrui per terra giace,
e quel ch’ogni altro tiene avventuroso
di restar senza piaga più li spiace.
Il vermiglio guerrier vittorioso
dell’onor suo nessun sembiante face,
ma chiama con la man la compagnia,
saluta ogni altro e poi si mette in via.

94Disse Giron ridente al suo compagno:
«Quanto è bella virtù l’esser cortese!
Egli è sempre d’onore e di guadagno
con tutta gente e per ciascun paese.
Costui che d’argento par non è poi stagno,
e pensa migliorar co ’l far offese,
e non sa ancor che la cavalleria
non può in piè star senza cortesia.

95Com’io veggio qualch’un che parla molto
e piacer prende di schernir altrui,
oltr’a ch’io tengo senza senno e stolto,
penso ch’ogni altro fallo aggia con lui,
sia di pigrizia e codardigia involto,
dall’ignoranza e da i seguaci sui,
ciò è superbia, invidia, ira e menzogna,
senza dramma d’onor né di vergogna.

96Ma il valoroso Ivan, che questo vede,
e cruccioso e doglioso è nel suo petto,
ch’alla ritonda tavola è per sede
obligato ciascun non far difetto
al suo compagno, e diventare erede
d’ogni suo disonor s’al suo conspetto
non cerca in ogni guisa vendicarlo,
e privato del seggio senza farlo.

97Duolsi d’aver a far con lui battaglia
e combatter per un c’ha tutto il torto,
e perché forse ancor quanto più vaglia
alle spese d’altrui l’ha troppo scorto.
Sforzato al fin, ché del dever gli caglia,
da lunge il chiama: «O cavalier accorto,
provar convienvi ancor la forza vostra
se intera dura alla seconda giostra».

98Gli risponde il vermiglio assai cortese:
«Signore, cercate di giostrar altrove,
che a me convien calcar altro paese
né far voglio io per or novelle prove;
né tra voi né tra me son nate offese,
né voi né me malevolenza muove;
io vi stimo onorato, et anco in vero
d’esser simil da voi tenuto spero».

99«Ah,» disse Ivano «io ben vi stimo tale
e ’l sosterrei con l’arme in ogni parte,
né ricever vorrei né farvi male
né mi chiamo maggior di forza o d’arte;
ma cortesia (né scusa in ciò non vale,
perché dalla ragion troppo si parte,
e voi ’l sapete ben) chi non si metta
del suo compagno a far, s’ei può, vendetta.

100Però dover non mio, voler mi spinge,
prendete il campo, che così conviene».
Quel che lo scudo suo vermiglio pinge
disse: «Per vostro onor l’approvo in bene,
ma desir grande di saver mi stringe
il vostro nome, e di che parte viene.
Fatemi questa grazia, se vi piace,
se non volete pur meco oggi pace».

101«Per or dir non vi posso il nome mio»
rispose il franco Ivan, «ma ben vi accerto
che cavaliero errante sono anch’io,
e vo cercando onor con l’arme e merto».
Or rispose il vermiglio: «Sia con Dio,
poi che meco giostrar volete certo,
facciam pur tosto», e così lieto e snello
spazio guadagna come un leve uccello.

102Poi si vanno a trovar con tanto ardire
che l’uno e l’altro un fer leone appare;
poi ch’abbassan le lance nel ferire
fe’ la terra il romor tremar e ’l mare.
Ma ’l vermiglio baron, che a non mentire
sopra ogni buon guerrier si può lodare,
in così duro urtar percuote Ivano
che lunge al suo caval si truova al piano.

103E venne il suo cader sì sconcio e forte
che per un pezzo poi non si rileva,
e chi sia giunto al termine di morte
non men gli batte il polso o ’l capo leva.
il vermiglio ha pietà della sua sorte,
e di averlo condotto a tal l’aggreva;
smontato il riconforta, aiuta e poi
si rimette in cammin con tutti i suoi.

Arrivano al castello del torneo e ammirano le prodezze di Sagramoro (104-118)

104Quando ha vista Giron l’alta prodezza,
si volge a Danaino e s’il domanda:
«Vedeste voi già mai con che fierezza
i signori e i cavai per terra manda?
Non gli disse egli allor, ma gran vaghezza
avrei pria ch’egli andasse in altra banda
di provar se di me il medesmo fesse
o se la forza mia non sostenesse».

105«Come» disse Giron «ei son molti anni
che ’l più bel feritor di lancia ancora
non ho mai visto, e ch’a voi fesse danni
avrei dottanza come a questi allora».
Non può far Danain che non s’affanni
di tal risposta, e se ne discolora,
poi dice: «Io son disposto, quale ei sia,
di provar seco anch’io la virtù mia».

106Fassi la lancia dar dal suo scudiero
e lo scudo ch’avea poi si fa innanti.
Giron il di sconforta, et ei più fero
dispregia i suoi consigli tutti quanti,
e dice: «Io vo’ provar s’egli è nel vero
così il miglior de i cavalieri erranti,
e s’io volessi sol guerra a i men forti
a me stesso e ’l mio cor farei gran torti».

107Poi chiama e grida al cavalier vermiglio,
parte, galoppa, che da lui si guarde.
L’altro si volge e con turbato ciglio
e con voci all’uscir feroci e tarde,
«non con voi giostra né con altrui piglio,
omai signor, e se desio pur v’arde
di far quistion la cercherete altrove»,
e senza altro più dire il passo muove.

108Come fa Danain «Voi pur avete
consentito al giostrar con gli altri due».
«Allor n’avea più che al presente sete
venuta in me da le parole sue»,
disse il vermiglio, e l’altro: «Se pur sète
d’animo freddo più che in lor non fue,
men duole, e se ragione il sostenesse
ven farei forza con queste arme istesse».

109Così parlando e disputando insieme
già si viene al castel elle due suore,
ove un bel prato appar cui sabbia preme
non verde erbetta o d’altra sorte fiore.
Ivi tutto era accolto il miglior seme
di più gran nobiltà di più valore,
che di Norgalle e di Noromberlanda
l’una e l’altra provincia intorno spanda.

110Veggion ch’un cavalier molto novello
ma forte e destro chiamato Galese
avea fatto il principio così bello
che ’l pregio infin allor per lui s’intese.
Ma mentre ch’egli abbatte or questo or quello
e ch’egli onora il suo natio paese,
ecco tutto in un punto entra fra loro
il valoroso ardito Sagramoro.

111Il qual, benché assai nuovo fusse ancora,
era di sì gran cuor ch’ogni uom lo stima,
e con lodata invidia s’arma allora
verso il Galese c’ha la palma prima,
dicendo in sé: – Se costui in piè dimora
che mi varria tra gli altri esser in cima?
Io non m’acqueterei d’aver il mondo
se primier fusse un altro et io il secondo -.

112E comincia a gridar: «Or vi apprestate,
lodato cavalier, che sol voi chieggio;
non differente molto aviam l’etate,
né vantaggio è fra noi, per quel ch’io veggio;
se non che chi vorrà l’alta bontate
quel sia il miglior e l’altro sarà il peggio;
portiam di pari ardir le nostre lance
e crolli ove il ciel vuol le sue bilance.

113E cos’ l’un dell’altro incontro vanno
come due fere nobili a ferire,
e ne gli scudi lor tai colpi danno
che convien l’un riverso in basso gire,
l’altro in sella riman, con tanto danno
ch’alla vittoria s’adeguò il martire.
Sagramor vince e ’l buon Galese a terra
perde in un punto d’un gran dì la guerra.

114Sagramor sopra lui più non si arresta,
ma con doppio vigor spinge il cavallo,
con la lancia che intera aveva in resta,
né va il secondo più che ’l primo in fallo,
ch’un cavalier percuote nella testa
duro avversario del suo re Norgallo,
e del noromberlando era cugino,
e sel mette tra i piedi a capo chino.

115Va sopra il terzo, e quello istesso face
di lui di quei due che sopra ho detto.
Già si rompe la lancia e ’n pezzi giace
quando il popol fa segno in ogni tetto
come il cercato onore a lui soggiace,
e l’araldo esce fuor co ’l segno in petto,
e di cotta real d’intorno cinto
gridando «Sagramoro ha il pregio vinto».

116Se ’l chiaro giovinetto era contento
non si può dir, e se nell’alma gode
di guadagnar sì raro torneamento
e sentirsi addoppiar le vere lode;
e come in cor gentil doppia il talento
di ben far sempre se innalzar più s’ode,
ei già dipinge in sé speme infinita
d’avanzar i miglior s’ei resta in vita.

117Egli era il dì bellissimo a vedere,
di sopraveste ricco e d’arme ornato;
ciascun di rimirarlo ha gran piacere,
ma più le dame, in sì felice stato.
Chi per fratel, chi per suo sposo avere,
chi per caro figliuol l’ha desiato,
chi per amante forse, e così ogni una
l’avrebbe accomodato a sua fortuna.

118E ’nfra l’altre era assisa alla finestra
la divina beltà di Maloalto,
mille avea donne da sinistra e destra,
che stan più basse, et ella ha il seggio in alto.
ben la suora parea di Clitemnestra
che condusse a i Troian l’ultimo assalto,
e guardata da tutti et ella un solo
cerca con gli occhi e con la mente a volo.

A cena i re Meliadusse e Laco parlano della bellezza della moglie di Danain facendo arrabbiare Girone; Laco intende prendersela con la forza (119-155)

119Ella sol cerca, solo aspetta e brama
il suo acro Giron che ancor non viene,
ne i pensier, lassa, ne i sospiri il chiama
ch’ei torni a ristorar l’avute pene,
ch’a sfogar corra l’amorosa brama
de gli occhi che digiun soverchio tiene.
E se l’esser amato non gli è chiaro
non le sia al men della sua vista avaro.

120Stando in questi pensier ben tutto guarda
per far qual l’altre, ma niente vede.
Parca al parlar, al dar risposta è tarda,
se non quel sol che cortesia richiede,
e se non che si sforza e ben riguarda,
tal l’imaginazion d’amor son prede,
cose fuor di proposito direbbe
sì ch’ogni saggio se ne accorgerebbe.

121Or tutto ’l popol basso e i cavalieri
ch’avean più volte udito il suo gran nome
miran più che i lor colpi volentieri
il suo bel volto e le dorate chiome,
i celesti atti umilemente alteri,
i lucenti occhi che han mille alme dome,
della bocca i rubini e rose e perle
che dipingono il ciel solo a vederle.

122Non era donna lì che non bramasse
ch’ella in quel giorno e sempre fusse altrove,
e di gelosa invidia non tremasse
di sua presenza da far arder Giove.
Tutte sono appo lei di splendor casse
quante vi eran bellezze vaghe e nuove,
che non che una di loro il perderia
Febo quando più chiaro e ’n alto sia.

123Non è chi sia fra lor riconosciuta,
non si volge occhi più se non in lei,
ogni altra vista ciaschedun rifiuta
e fra sé dice: – Ben felice sei,
o Rosso Danain, poi ch’è venuta
la sorte a te di posseder costei -.
Chi con l’oro vorria, chi con la spada
tosto trovar di guadagnar la strada.

124E perché il dì che l’usanza primiera
del vero torneamento il vespro appella,
qual era questo allor, fino alla sera
sol viene in preda dell’età novella,
né a cavalier provato lecito era
di romper asta o di montar in sella,
ma insegnando e mostrando stanno intorno
ferir possente e correr lancia adorno.

125Però i gran cavalieri e di più pregio
che non han molto affar fanno ghirlanda
alla bella ond’io parlo, e con dispregio
stan tutte l’altre in solitaria banda.
’l gran re Laco ch’amoroso fregio
ha sempre in cor per cui lagrime spanda,
col ’l re Meliadusso c’have a canto
più ch’a Venere in ciel dona a lei vanto,

126e dice: «Veramente io sentia dire
da tutto il mondo già ch’ella era rara,
ma tanto avanza quel ch’io soglio udire
quanto il sol vince ogni altra luce chiara.
Ben è villan chi per costei morire
non vuol più tosto o viver vita amara
che privato di lei, di tutto il mondo
tener lo scettro in man sacro e giocondo».

127Poi volgeasi al compagno a lui vicino
al re Meliadusso e gli dicea:
«deh riguardate il volto pellegrino
di quella chiara et onorata dea,
c’ha forza più ch’Amor, più che ’l destino
a rifar dolce ogni aspra sorte rea,
da far con gli occhi soli e co ’l suo viso
d’un tristo inferno un lieto paradiso.

128Che perdete voi tempo in rimirare
i colpi van di questi giovinetti,
ch’a mille a mille gli vorrei frustare
e s’ei fusser ancor de i più perfetti?
Volgete or gli occhi ov’ogni bene appare,
ove son tutti gli Angeli più eletti.
Veder sempre possiam le lance in resta
ma non sì degna cosa com’or questa.

129Guardate, dico, e non battete gli occhi
per non perder il tempo a tal dolcezza.
Vedete come Amor par ch’indi scocchi
legiadria, cortesia, grazia e bellezza,
e come dardi, strali e fiamma fiocchi
da quella vista avvampar cori avvezza,
e sappiatemi dir s’io ho ragione
d’essermi fatto a lei schiavo e prigione».

130Mentre così parla, così co ’l braccio tenta
e con la spalla, e la risposta chiede,
sempre tenendo pur la vista intenta
ove la luce sua risplender vede.
E si cruccia in sembiante e si tormenta
che ’l compagno al suo dir non molto cede,
pur tanto il rimolesta et importuna
ch’alle mille parole rispose una:

131«Veramente, signor, costei che dite
è molto bella e di gran lode è degna,
ma di tutte altre donne e più gradite
non vi consento già che porti insegna,
ch’assai ne vidi che sarian salite
dubbia a saggio uom che giudice divegna;
ma ve la mostra Amor con quegli occhiali
ch’ei presta a gli impiagati da’ suoi strali.

132«Ben a risposta tal d’ira è ripieno
l’innamorato e sensitivo greco,
o ’l vostro senno è già venuto meno»,
disse, «o che contrasta volete meco,
ché ’l sol quando è più scarco e più sereno
e che ’l Toro o v Montone il port seco,
vinto è dal suo splendor, e voi pensate
donna umana trovar di par beltate?».

133«Or sia come vi piace» allor risponde
il re Meliadusso «ch’io non voglio
con voi quistion per una cosa d’onde
sempre guardarmi con gli amici soglio,
ch’io so com’aspre e perigliose l’onde
son d’esto mar e si da spesso in scoglio
per chi vuol pur il ver mostrare altrui
o gli occhi aprirgli, sì che fate or vui.

134So ben quanto per voi miglior saria
fugir l’impresa e di cangiar pensiero,
seguir di virtù la miglior via
sì come antico e raro cavaliero,
e lassar questa a chi sì giovin sia
che di provar il mondo aggia mestiero.
Detto ho pur questo non per farvi oltraggio
ma per torvi, potendo, da dannaggio.

135È già gran tempo ch’io conosco assai
quanto amor sia nemico al buon consiglio,
ma tra noi tale è conoscenza omai
che sicurtà come vedete, piglio
di ricordarvi che sta sempre in guai
chi in donna adora il variabil ciglio,
e quanto più nell’uom sormontan gli anni
più si scema il favor, crescon gli affanni».

136Or il re Laco, che fu impaziente
quanto altro cavaliero in ogni loco,
pensar devete se l’anima sente
sdegnosa e torba, e non se ’l prende il gioco.
Divien bianco, vermiglio, freddo, ardente,
e che ben non si crucci resta a poco.
Pur aveva a tal re gran riverenza
e sa del suo valor l’alta escellenza.

137Egli rispose solo: «Or non più parli
il cieco de i color che mai non vide;
anco esser può che gli amorosi tarli
rodin il cor a chi di lor si ride,
et a chi no ’l vorria consiglio darli
opra è che da saggezza si divide.
Vivete pur voi san nel vostro stato
ch’io non vi ho invidia, e voglio esser malato.

138Guardate voi questa noioso guerra,
io guarderò là su la dolce pace;
tenete gli occhi voi bassi alla terra,
io fissi gli terrò nell’alta face;
considerate voi chi guasta et erra,
io chi ’l mondo abbellisce, giova e piace.
Seguite in somma voi la vostra strada
e mi lasciate oprar quel che m’aggrada».

139Quante parole il fero Laco avea
e ’l re Meliadusso ragionate,
Giron, che loro appresso si tenea
e Danain l’avean tutte notate;
ma l’uno e l’altro buon sembiante fea
d’aver le menti altrove indirizzate,
e stanno intenti e chi piacer ne prende
chi si duole in suo cor di quel che intende.

140Poi c’han finito, il greco un’altra fiata
con men turbato volto il re domanda
com’ella era venuta accompagnata,
di quanti cavalieri e di che banda.
Disse Meliadusse; «Più onorata
l’alta regina di Noromberlanda
non potrebbe venir, io ve ne accerto,
ché ben ha compagnia secondo il merto.

141Cavalieri ha menati ventisei,
valorosi e leggiadri, in compagnia,
che parean tutti quanti semidei
da condurla sicura in ogni via,
e tutti uomini son ligi di lei
suggetti intorno alla sua signoria,
e mille vite spenderebber l’ora
per non trar solo un piè dal dritto fuora».

142«Ah» ripose il re Laco, «a voi par molta
e pochissima a me cotesta gente,
per guardar cosa ch’aggia in sé raccolta
quanto fu mai bellezza veramente,
ché non si troveria sì rozza e stolta,
villana, mal composta e cieca mente
che non vedesse ben che chi l’avesse
non avria invidia all’alte stelle istesse.

143Quanto io per me se in mezzo la foresta
o in mezzo a desertissima pianura
ritrovassi cosa come questa,
mi metterei d’averla in avventura,
né mi saria la guardia sua molesta
che di due volte lei on terrei cura,
che se non sono erranti cavalieri
lasserien per forza o volentieri.

144Voi sapete ben voi che già n’avete
più quantità sconfitti in un momento;
molti altri il sanno e spero che vederete
che di farlo ancor io non ho spavento,
pur che sì bella preda alla mia rete
di sospingere avesse il Ciel talento.
Or non si sa di ver ch’un val per mille
come si dice ancor del nostro Achille?

145Or piaccia a Dio che al quinci dipartire
io la possa incontrar , com’io v’ho detto,
che io so ch’io ven farò tai nuove udire
che mi terrete cavalier perfetto,
che a qual non si vorrà per me fuggire
io ’l faro ben pentir, e vel prometto;
voi il bramavate intender, io vel dico,
come a franco guerrier e vero amico.

146Queste ultime parole il buon Girone
ma non già Danaino aveva udite,
ché intento stava al forte paragone
di Sagramor, che già vincea la lite,
e l’ultimo ch’ei trasse dell’arcione
percosse in guisa afflitte e sbigottite
le membra in terra ch’ogni uom grida scorto:
«Il giovin cavalier del tutto è morto».

147Ciò guardava esso, ma Giron la mente
tutta avea fissa al ragionar di quelli,
e si corruccia in sé sì fieramente
ch’a pena sta che ’l greco non appelli.
Del compagno l’amor primieramente
il punge sì che par che ’l cor si svelli,
e ben n’avea ragion, che Danaino
l’amò più che fratel, padre e cugino.

148E forse, ancor che no ’l conosca allora,
pur del futuro amor i raggi prova,
basta c’ha dispiacer e s’addolora
quando alcun che la brami appresso truova.
Son effetti del ciel quando lavora
per imprimer talor la forma nuova
in materia che innanzi assai dispone
e che l’aggia di prender più cagione.

149E fra sé dice pur: – Chi vorrà fare
al carissimo amico disonore,
o mi farà la vita abbandonare
o ch’io ’l farò pentir del grave errore.
E quando ella altra fusse il devrei fare,
essendo io cavalier, per proprio onore,
e metter mille vite per ciascuna
ch’oppressa sia da forza o da fortuna -.

150E così in questa collera desia
di saver chi esser puote il cavaliero,
ch’al’udirlo parlar pensa che sia
molto animoso e nobile guerriero.
E tanto più che senza cortesia
non era il suo vantar, quantunque altero,
tanto che ritener più non si puote
che non l’assaglia in queste amiche note:

151«Deh, caro mio signor, non vi dispiaccia
di dirmi il ver se voi pensate pure
di tanti cavalier mettere in caccia,
come se fusser cerve mal sicure,
i quai seguiron l’onorata traccia
delle luci celesti, chiare e pure,
che voi sapete, senza ch’io vel diche,
che troppo sono a i desir vostri amiche».

152Diventò rosso alquanto e poi rispose:
«Io l’ho detto, no ’l nego, e vel ridico
non per dir opre mie maravigliose
né perch’io sia dell’altrui ben nemico.
Molti han già fatte più mirabil cose
e se mi fusse il Ciel non men che amico
forse anch’io tale impresa condurrei
e tanto più s’io guadagnassi lei.

153«Dunque l’amate ben» dice Girone
«poscia che per suo amor fareste tanto?».
«S’io l’amo o no non par che sia ragione
ch’io vel deggia narrar da nessun canto.
Anzi mi pento» parla il gran barone
«d’averne ragionato tanto o quanto,
e mi ravveggo or ch’io non fui saggio
e troppo ho detto a mio disvantaggio,

154ch’io non so ancor s’in ben stimata fia
l’aver io posta in cor sì rara impresa».
«Per Dio,» disse Giron «a gran follia,
come or da me, saria da molti presa,
perciò che vanto tal non si devria
far per uom mai, se non ha l’alma offesa
o di soverchio vino o di furore
o di disordinato e cieco amore».

155Or venne il greco in subita ira e fera
quanta n’avesse ne’ suoi giorni mai,
e disse: «Quando ancor ella sia vera,
vostra risposta è più scortese assai
che la mia impresa temeraria altera
ch’allor disavveduto vi contai;
e poi che così pungermi vi piace
or più oltra dirò, se ben vi spiace.

156Che vi affermo e vi giuro ch’io vorrei
pormi all’inchiesta di ch’io v’ho parlato,
e che voi fuste tra quei ventisei
cavalier di sua guardia e bene armato,
e men d’un giorno mi conforterei
d’aver voi rotti e quella guadagnato.
Detto l’ho pur, ché le parole vostre
han fatto al fin che ’l vostro error vi mostre».

157Gli replicò Giron: «Già conosch’io
per doppia prova il vostro mancamento:
ciascun saggio guerrier, s’ei fusse un dio,
di combatter con un solo ha talento,
perché non si discerne il buon dal rio
senza metterlo in opra in un momento.
Ogni uomo ha piede e mani, ogni uomo ha l’alma
ogni uom fugge, vergogna, e desia palma.

158Egli è ben ver ch’un più d’uno altro è forte,
ha più senno, più cuore e più virtude,
ma le viste mortai son troppo corte
per penetrar di fuor quel che ’l sen chiude.
Breve disgrazia spesso e poca sorte
può far ch’indarno e s’affatichi e sude
il miglior cavalier contro al più tristo,
se così piace al Ciel che l’ha previsto.

159Troppo saria dell’uom l’altero orgoglio
s’ei potesse di sé prometter certo.
Quando ha più il vento amico dà in iscoglio
il nocchier, non tien ben l’occhio aperto.
Il dolcissimo riso vien cordoglio
e diviene il giardino aspro diserto
a chi non pregia Dio, chi non tien cura
de gli uomini, e ’l suo stato mal misura.

160E poi vi dico che se io fussi tale
qual vi pensate e che volete io stime,
ch’io crederei di non trovar eguale
al torneamento, ove le lance prime
doman verranno, e chi più in arme vale
e di forze e d’onor tutti altri opprime,
ché chi vince cotanti in uno stuolo
ben può vincer un mondo a solo a solo».

161«Non,» disse il greco «questo già non spero,
ma il crederei se qui non fusse appresso
un sì possente e chiaro cavaliero
che vincerebbe in giostra Marte istesso;
ma dove egli è, per confessarvi il vero,
senza invidia che sia do il pregio ad esso.
Or potete veder poi ch’a lui cedo,
che di me il ver, non la menzogna credo».

162«Deh,» soggiunse Giron «grazia mi fate
er la virtù che dite aver in voi
di dir del cavalier di tal bontate
la patria, il nome e i gran parenti suoi».
«Non,» disse quello «in van mi domandate,
basta ch’ogni uom sel vederà da poi
che fatte avrà così mirabil prove
che n’andrà la sua gloria in grembo a Giove».

163Di tutto questo il franco Danaino
non avea pur sentita una parola,
perché, quantunque fusse a lui vicino,
avea la mente a quella giostra sola,
ove il buon Sagramoro oltr’a divino
tenuto fu dalla novella scuola;
il qual, trionfator, lieto si parte,
pien di lode d’onor per ogni parte.