Danaino incontra due cavalieri codardi (uno dei quali di nome Ennor) con i quali raggiunge i suoi nemici e li batte, mentre i due codardi fuggono (1-65)
1Già Danain il Rosso d’altro canto
de’ due fratei della terra Forana
l’orme cercava, ch’egli odiava tanto
per opra scelerata, empia e villana,
ch’ucciso hanno colui che molto ha pianto
e ch’egli amò sopr’ogni cosa umana,
posposto il buon Giron, che tenea caro
alle luci, alla vita, all’alma a paro.
2Cavalca adunque, e poscia che la notte
vede già quasi al mezzo del suo corso,
va pur cercando ove sien spechi o grotte
per al quanto posar lo stanco dorso,
poi che non truova alberghi ove ridotte
aggian le gregge i pastor fuggendo il morso
de gli affamati lupi, ch’a quell’ora
si fanno preda di chi fuor dimora.
3Dopo avvolgersi un pezzo, vede un foco
che gli fa creder ch’ivi gente sia;
addrizza tosto i passi verso il loco
e lascia a dietro la tenuta via,
tanto ch’a ritrovarlo stette poco
e vede un padiglion che steso avia
un cavaliero, ove la notte il prese
e per cena e scaldarse il foco accese.
4Scoperto ha Danain due de i suoi servi
ch’erano in guardia, e diconlo al padrone.
Ei tutto uman rispose: «Dio ’l conservi
s’egli è buon cavaliero o buon campione,
la cortesia dovuta in lui s’osservi».
L’accoglie e ’l mena tosto al padiglione,
e gli dice: «Signor, possiamo insieme
se troppo altra occorrenza non vi preme».
5Accetta Danaino, ivi si assiede,
cominciano a parlar di varie cose.
L’altro, che costui sia tal uom non crede,
gli va narrando l’opre valorose
di due cui tutto il mondo onora e cede,
che sotto color brun l’arme hanno ascose
al torneamento, che si fe’ il dì fuore
al castel ch’è chiamato delle suore.
6E quando quel più grande e quando lui
va pur lodando, e gli domanda appresso
s’ei v’era stato e s’ei vide ambe dui.
Ei dice sì, ma non ha già messo
la fantasia per rimirar altrui,
ch’aveva altro che fare, e molto e spesso
sendo stato nell’arme tutto il giorno
con molte lance e molte spade intorno.
7E conta poi che riportato avea
più che lode et onor travaglio e danno.
L’altro gli dice che ’l medesmo fea
ma che non molto avea sentito affanno,
perch’una vera et immortale dea
riguardò sempre, che dall’alto scanno
è qui discesa, et è più bella assai
che Venere e Giunon furon mai.
8E vuol saper se mai conobbe o vide
l’alma donna gentil di Maloalto.
Di no l’altro risponde, e nel cor ride;
e quel: «Voi fuste al periglioso assalto,
e non vedeste le due luci fide
d’ogni onorato cor, che stavano alto
sopra i merli a mirar le nostre pruove,
ch’avrien tolto di man lo scettro a Giove?
9Ben vi dico che sète senza vista,
senza ingegno, senza alma e senza amore
se non vedeste chi ogni mente trista
lieta farebbe, e ’l più selvaggio core
empieria di dolcezza e virtù mista,,
da spender mille vite a tutte l’ore
in pruova d’arme, e per piacer a lei,
et io per ella il ciel ne lasserei».
10E Danain gli dice: «Or s’ell’è tale
che la faccia tal l’uom che la rimira,
perché non fuste a quei due neri eguale?
non venne in voi l’alto valor che spira?
Ma di molto si loda e poco vale
la vista d’una donna ch’al fin tira
l’uom più tosto a lascivia che a grandi opre,
come il sa forse tal che ’l ver ricuopre».
11Questo dicea: «Non perché il pensi o voglia
ch’altri se ’l creda ch’il contrario intende,
ma perché natural il sentir doglia
s’un per la sposa sua d’amor s’accende».
Però di cortesia quivi si spoglia
e fuor d’ogni ragion la lingua stende,
ma mentre in questo stanno un cavaliero
viene alla porta, in vista ardito e fero,
12tutto d’arme coperto, e porta in mano
la lancia come sia nella battaglia.
Saluta ben, con certo atto strano
che par ch’ei mangi sempre or piastra or maglia;
è ricevuto con sembiante umano,
da i due guerrier che non san quanto vaglia,
et ei superbo: «Or vegna qui di voi
chi meco giostri e parleremci poi».
13A risponder d’accordo ambe due foro
ch’avean di cena e non di giostrar voglia,
e s’a lui piace di posar con loro
ch’entrasse dentro alla cortese soglia,
che anch’ei devria più tosto di ristoro
che di in arme cercar novella doglia,
né che giostra miglior potrebbe fare
che disarmarsi e ’n compagnia mangiare.
14Con orgoglio maggior e’ quel risponde:
«Io non accetto vostra compagnia
s’io non so ben se valorosi e d’onde
l’ordine aveste di cavalleria,
ché la virtù di Marte in altri infonde
convien che con ragion guardata sia,
o più tosto vorrei morir di fame
che ’n compagnia mangiar codarda e ’nfame.
15Danain se ne ride che si assida
nella vera virtù di c’ha il cor pieno;
l’altro del padiglion «All’arme» grida,
ché di sdegno vien colmo e di veleno,
e nell’alto valor sì buona guida
non ha che ’l tenga con ragione a freno.
Mettesi il ferro intorno e già procura
di voler or quistion a notte oscura.
16Ma il cavaliere stran ch’ogni altra cosa
cerca che guerra, e del contrario mostra
come ciò scorge, faccia graziosa
scuopre et umana, e non vuol più la giostra,
e dice: «Omai convien ch’io prenda posa.
quando a voi piaccia. nella tenda vostra,
ché senza esperienza veggio segni
che d’avermi con voi non sète indegni.
17Smonta ivi, si disarma e con lor siede
privatamente; e già ne vien la cena,
qual la stagione e ’l loco la richiede,
ma di dolcezza e di allegrezza piena.
Poscia ch’al cibo l’appetito cede,
più d’un discorso la vivanda mena,
tanto che Danaino in sé raccoglie
ch’egli eran cavalier di basse spoglie.
18Né ne i conti ch’ei fa gli raffigura
che ben gli ha visti e maneggiati altrove,
e di farsi a lor simil mette cura
di sé narrando assai villane pruove,
e fa che l’uno e l’altro s’assicura
di narrar lor prodezze antiche e nuove
in cui s’essaltan molto, e fanno scorto
ch’a sentir lor ragioni han più che torto.
19Già trapassava via il tempo e gli consiglia
il sonno a riposar le stanche membra.
Ciascun fra l’erba il commodo si piglia
e s’addormenta sì che morto sembra,
che l’esser lasso e la lunga vigiglia
maggior quiete che ’l buon letto assembra.
Già vien l’aurora e ’l primo è Danaino
che si sveglia e svegliar fa il suo vicino,
20ch’aveva in cor quell’onorata impresa
di vendicar del suo cugin la morte.
Già surge in piede e già s’ha intorno presa
l’armadura e l’usbergo greve e forte,
lo scudo appresso; e la lancia, che impesa
era in un ramo, porge, ché le porte,
al scudier ch’è sua guida, e gli altri in tanto
in ordine son già dall’altro canto.
21Chiama i compagni e dice che vicino
vuol ivi andar a certa sua bisogna.
Ciascun esser compagno al suo cammino
mostra desire e che servirlo agogna;
or, ben che sappia il saggio Danaino
che di lor non può aver se non vergogna,
per la sua gran bontà non sa disdire
e gli lassa con lui pel bosco gire.
22Va volgendo la vista d’ogni intorno
s’ei può veder de i due segnale et orma.
In tanto parla sempre in beffe e scorno
del cavaliero stran, ma in dolce forma
fa qualche conto di dolcezza adorno,
ond’ei si pensi la memoria dorma.
Dice il nome di lui, che ben sa, spesso
mostrando non saper ch’ei sia quello esso.
23Perché Ennor Della Selva era chiamato,
più famoso codardo che mai fosse,
costui fu mille volte svergognato
senza averne una pur le gote rosse.
Or nella valle all’arrivar d’un prato
ove eran acque cristalline e grosse,
si sovvien Danain d’una sua pruova
che pari essempio in codardia non truova,
24e ne ride intra sé tutto soletto;
gli altri, che ’l veggion, chieggon la cagione,
et ei: «S’io non avessi in ciò sospetto
di dar alcun di voi perturbazione,
io vi farei sentir, per dar diletto,
una avventura che ’n questa stagione
qui stesso avvenne, e ’n questa propria fonte
delle più belle che mai fusser conte».
25Domandano ambe due: «Perché pensate
che ’l vostro ragionar dispiaccia a noi?
Deh, di narrarlo omai grazia ci fate
ch’altrui dilette e che sia spasso a noi».
«Così farò, da poi che mi pregate»
diss’egli, et ad Ennor si volge poi:
«Aveste un cavalier mai conosciuto
che di bianco e di verde iva vestito?
26E questo fu quando la corte tenne
il buon re Pandragone a Camalotto,
in cui della Brettagna si convenne
qualunque in arme fusse ardito e dotto.
In conoscenza mia costui non venne
ch’io mi ricordi, e ciò fu il primo motto
che mai n’udissi». Quel risponde e ’ntende
ch’ei fu quello esso, e di sé nuova attende;
27e se temesse l’onta ne saria
cangiato in volto, ma se stesso asconde.
Qui segue Danain: «Sia pur chi sia,
basta che ’n fra queste erbe e queste fronde
venne il buon cavaliero in compagnia
sul mezzo giorno a rinfrescarsi all’onde
con tre altri guerrier, de i quali io fui
l’un ch’a quell’ora mi trovai con lui.
28Così, mentre che stiam fra l’ombra e l’acque,
ecco apparir d apresso una donzella,
ch’ogni uom dicea ch’en paradiso nacque
tanto era graziosa, onesta e bella;
seco una vecchia che cotanto spiacque
a gli occhi nostri quanto aggradò quella:
ell’aveva anni più che la Cumana,
grinza, torta, riarsa, nera e strana.
29Un nano appresso de i più lordi e brutti
che ’l più indotto pittor facesse mai;
scende la bella e ne saluta tutti,
con dolce riso che l’adorna assai.
Noi, ch’eravamo a riposar ridutti,
lasciando ogni altro, a i luminosi rai
quanto esser può cortesi ci volgemo
e con dolci parole l’accogliemo.
30Quando il buon cavalier, ch’è verde e bianco,
la rarissima giovin sola vede
la pigliò per la gonna presso al fianco,
e dice che la vuol tra le sue prede.
La miserella piange e si duole anco
che sia sforzata e sotto nostra fede
noi diciam tutti che non è ragione
guadagnar donna che non ha campione.
31Or mentre noi parliamo et ei replica
e fa onta a se stesso et a lei sforza,
esce da canto l’aspra vecchia antica
e quanto può co ’l buon voler si sforza;
vede una spada in terra e con fatica
la prende, e tra’ la della propria scorza,
e diede un colpo a lui sopra la testa
ch’ei come morto cade e ’n terra resta.
32- Se non fusser (poi disse) i molti onori
ch’io deggio a voi cortesi cavalieri,
farei lo essempio de i malvagi cori
tra gli uomini vili e tra le donne feri -.
Ripon poi l’arme ch’avea tratta fuori
là dov’ella era, e con sembianti alteri
– Andianne, – disse alla donzella pure
– che le strade da i rei ci son sicure -.
33Il cavalier percosso intanto sorge,
guardasi intorno e cerca di costei,
e poi che al fin del suo partir s’accorge
accusa seco in Ciel tutti gli dèi.
Poscia, irato, allor scudo e l’elmo porge
la man, mota a cavallo e segue lei
ove un scudier gli ha detto, e corre in fretta
con animo di farne aspra vendetta.
34Io, che ’l veggio partir con mal talento,
prendo l’arme, vo appresso per vedere
che non fesse alla vecchia oltra il spavento
oltraggio e danno, e sprono il mio mestiere.
E ben ch’io ratto andassi fui sì lento
ch’arrivai tardo a lui veder cadere:
il truovo a piedi in terra e gli domando
chi l’aggia ivi abbattuto, e come e quando.
35Risponde: – Un cavalier troppo invidioso
per tradimento il fianco mi percosse,
e dentro al bosco s’è fuggito ascoso
poi che di sella il disleal mi mosse -.
Io di tal caso fui maraviglioso,
poi, ricercando il tutto come fosse,
ritrovai che l’avevan la vecchia e ’l nano
con poco affanno lor gettato al piano.
36Se ne ridemmo allor pensatel vui,
ch’ancor ne rido se me ne sovviene».
Ennor, per ricoprir i falli sui,
dice ch’al cavaliero stette bene,
e che se fusse stato il dì con li
gli avria ben fatto quanto si appartiene,
spogliato nudo e datogli un bastone
e mandatolo intorno a divozione.
37Ma quanto dice più, più mostra aperto
a mille segni ch’ei fu quello istesso.
Così vanno parlando pel diserto
che di foltissimi arbori era spesso;
poco oltra son che Danaino esperto
e del loco e di lor, si vede appresso
gir davanti quei due che soli agogna
e si ferma, come uom che desto sogna.
38E si pensa fra sé ch’esser in pruova
di due nemici e cavalieri arditi
tosto conviengli, e ben che cosa nuova
non gli è di esser sovente a tai partiti;
pur non può far che ’l cor non si commuova
che non surga alla collera e l’inviti
apparecchiarse a guerra, et aver duolo
che di sì buon cugin l’han fatto solo.
39Nondimen tanto è grande il suo valore
che senza più turbarse gli vien voglia
di provar del compagno il debil core
s’or miglior sia che in altra parte soglia;
e mostra loro aver nuovo timore
cotal che a dimandar ambe due invoglia:
«Ch’avete voi, signor, che in mezzo il riso
vi veggiamo tristo e ’mpallidire il viso?».
40«Ben ho cagion» diss’ei «d’esser cotale,
ché de i due cavalier che son lì a sorte
l’uno e l’altro nemico è mio mortale,
né cercan d’altro che di darmi morte.
Et io se fussi bene all’uno eguale,
di combatter con ambe non son forte,
e penso, ahi lasso, come fuggir deggia
prima ch’alcun di lor vicin mi veggia.
41Vero è ch se prometter mi volete
di volermi aiutar contento sono
d’assalirgli con voi, dove vedrete
che forse son per la mia parte buono».
Colui del padiglion che pure ha sete
di parer uomo al meno in abbandono,
a lui si dona, e di esser seco dice
infin al fin, qual sia, tristo o felice.
42L’altro, codardo Ennor, riguarda fiso
da lunge i cavalieri, e d’alto affare
gli ha giudicati, et egli ancor avviso
ch’al torneamento gli ha veduti fare
colpi onorati, e già si tiene ucciso,
e dice all’altro pian: «Lasciamlo andare,
ch’ei son sì valorosi che faranno
mille tronchi di noi con poco affanno».
43Pur quel del padiglion rafferma ancora
quanto ha promesso, e dice a Danaino
che se dell’un combatter si rincuora,
lassi a lui la fatica del vicino.
Il Rosso, simulando, segue allora:
«Io mi truovo di forze sì meschino
che sostener l’un sol non crederei
e s’io me ne vantassi mentirei.
44Vi prego sì, per l’alta cortesia
ch’a cavalieri erranti oggi è richiesta,
che voi prendiate la querela mia
et io mi asconderò nella foresta».
«D’altra disgrazia la ventura ria
guardimi pur, ch’io fuggirò ben questa»
disse Ennor Della Selva «ch’egli è folle
chi lo ’ncarco d’altrui sopra sé tolle».
45E tanto il cavalier del padiglione
sollecita, riprega et importuna
ch’anch’ei, che no nera Ettore o Girone,
s’accorda a non tentar nuova fortuna,
e di fuggirsi fan resoluzione;
e senza scusa né vergogna alcuna
la coppia infame addietro il cammin prese
né cangeria lo spron con altro arnese.
46Fermasi Danaino e piacer piglia
di mirar quei malvagi spaventati,
et al scudier che se en maraviglia
dice : «Quanti ne son che vanno armati
con cotta aurata, argentata e vermiglia,
di spennacchi e di scudi troppo ornati,
ch’han sempre ferro in bocca, sangue e morte
e ne i bisogni poi son di tal sorte?».
47Mentre parla così già son vicini
i due fratei che l’han cercato in vano,
e van rivisitando altri confini
per far a Danain quel ch’al germano.
Non è di lor alcun che s’indovini
che sia quello esso: in abito sì strano
divisato era et altro scudo avea
di quel che poco avanti usar solea.
48L’han salutato, et ei superbo in vista
e con voce crucciosa e pien di sdegno:
«Io non saluto gente iniqua e trista
e chi non sia di ben ricever degno»,
risponde «e doglia con affanno mista
con l’arme porgo a chi nemici tegno».
Si meravigliano essi e dicon: «Come?,
piacciavi dirne al meno il vostro nome».
49«Il Rosso Danain» disse «sono io,
che v’ho cercato e cerco lungamente
per darvi punizion del fallo rio
d’aver ucciso sì fellonamente
il Mareschiera, sì prod’uomo e pio,
amicissimo caro e buon parente,
e voto ho di morire o vendicarlo,
e Dio ringrazio qui, che posso farlo».
50Fu certo ognun di lor lieto e contento
d’aver trovato chi cercando giva,
e dicongli ambe: «L’ultimo momento
della tua bassa vita è giunto a riva».
«Ah,» fe’ il buon Danain «se non è spento
in me il valor che pur l’altr’ier fioriva,
vi farò ben sentir se queste mani
san castiga i cavalier villani».
51Parlando tal, nell’arme si ristringe,
cos’ la coppia ch’è d’ardir fornita
di sodisfar al suo dever non finge
ma l’avversario alla battaglia invita.
Il fero Danain gridando spinge
l’animoso corsier per la via trita;
con la lancia in man, ch’è scorta e grossa,
fa verso lor l’estremo di sua possa.
52Va sopra il primo ch’a ’ncontrar il viene,
che ferocissimo era e molto addritto,
ma non seppe dell’arme tanto bene
che nel mezzo del scudo fu trafitto;
entrò nel petto, e dietro nelle rene
e nel mezzo del cor passò per dritto.
Cadde il misero a terra al tutto morto
e così va chi mal difende il torto.
53L’altro fratel, che solo esser si vede,
ben si duol di colui che soverchio ama,
non già per questo alla fortuna cede
ma Danain per vendicarlo chiama,
dicendo: «Or volgi a me la fronte e ’l piede,
se tu sei cavalier di tanta fama,
e mostrerò che caso e non virtute
a lui data ha la morte, a te salute».
54E con la lancia in resta lui s’avventa;
l’altro, che rotta l’ha, trae fuor la spada
né di vantaggio ch’aggia si spaventa
ce penseria tra mille farsi strada.
Vien quel che di ferirlo s’argomenta
ma Danain, che intende come vada
del marzial lavor la divina arte,
come pardo il destrier rivolge a parte.
55E d’un colpo mortal la lancia taglia
con tanta forza che ’l medesmo scende
al collo del caval, che piastra o maglia
ch’avesse intorno a lui male il difende.
Da quella spada ch’adamante taglia
e tanto ne levò quanto ne prende,
il ferito corsier morto si stese,
e destro il cavalier un salto prese.
56E coraggioso e forte più che mai
già il brando ha in mano e ’l suo nemico appella:
«Vien via, ch’assai miglior mi troverai
con l’arme a piè ch’io non fui forse in sella».
Risponde Danain: «Tu durerai
men certo in questa che non festi in quella».
«Ah,» disse il cavalier «prima ch’io mora
non sarai del voler che ti mostri ora».
57Già sceso è Danain, che mai non volse
vantaggio aver sopra i nemici suoi,
e tutte le sue forze in un raccolse
ch’ebbe mai rima e ch’egli avrà da poi,
e d’un fendente sopra l’elmo il colse,
gridando: «Or mi dirai se più ne vuoi?».
Quel restò vivo pur, ma in tanta pena
che non si regge su le gambe a pena.
58Pur perché ha grande il cuore e non vuol dare
a chi percosso l’ha tanta allegrezza,
ruota la spada e ’ncontro vuole andare
dissimulando fuor la sua gravezza.
Il fero Danain, che dritto stare
il vede ancor con vie maggior fierezza,
raddoppia il colpo, e di tal sorte il fère
che no ’l poté più il ferro sostenere.
59E di due dita entrò dentro alla testa
la greve spada, ond’ei tutto stordito
di spirto privo e della mente resta,
come delfin che ’l mar percuota al lito.
Pur risorto saria ma giunge in questa
chi l’aveva ridotto a tal partito,
e ’l rotto elmo gli sveglie e lunge il getta
e s’apparecchia all’ultima vendetta.
60Non si apparecchia no, ma mostra bene
che vuol il capo tòr dal crudo busto,
ben sa che a cavalier non si conviene
l’esser crudel ne i suoi prigioni e ingiusto.
Or ei, che ’l vede che adirato viene,
si fugge indietro, ancor che sia robusto,
«Tu temi adunque?» Danain gli disse,
et ei, superbo e con le luci fisse
61«Io temo sì» rispose «che io mi veggio
senz’elmo avere, e presso un gran nemico,
né per ciò perdonanza o tempo chieggio
che più l’onor che ’l viver tengo amico.
Ma tu forse di me sei molto peggio
e per cavalleria questo ti dico,
che disarmato m’hai per tuo vantaggio
e più che ardito mostri d’esser saggio».
62«Ah,» disse il Rosso «vile e traditore,
per questo ancor non fuggirai la morte,
che con troppo impia voglia e disonore
festi del mio cugin l’ore sì corte?».
«Tutto fu per vendetta e per dolore»
soggiunse l’altro «ch’all’istessa sorte
uccise egli il mio adre, e sallo il mondo,
e fu il primo al mal far, io fui secondo.
63Ma lasciam questo andar, io ho mostrato
in ogni parte ardir, virtude e forza,
ma ben tu con ragion sarai biasmato
se la tua spada un disarmato sforza.
Poi ch’un fratel mi è morto, non più grato
mi fia salvar questa terrena scorza;
tu perderai l’onor et io le membra,
qual perdita maggior di due ti sembra?».
64Oltra l’odiarlo, tai parole fanno
nel petto a Danain più grande sdegno:
vorria fargli temenza ma non danno,
e l’altro audace non ne mostra un segno.
E poi ch’un pezzo al fin disputato hanno
gli dice: «Io ti vo’ far di viver degno,
se mi prometti andar ovunque sia
di colui il padre e darti in sua balia».
65Non volea farlo, e poi s’accorda al fine
che pur nel buon vecchione ha qualche speme.
Lassalo Danaino e tra le spine
si mette a camminar e i cespi preme;
non molto ito lontan per quel confine
scorge i due che lasciò che vanno insieme,
dico Ennor Della Selva e ’l suo compagno
c’han messo ne gli sproni ogni guadagno.
Danaino ritrova i due cavalieri, salva uno di loro dalla morte e per dare una lezione a Ennor lo esorta a sfidare il cavaliere vermiglio, dal quale è abbattuto (65-100)
66Gli arriva, et essi veggion volentieri
e come ad uom rinato gli fan festa;
poi gli domandan come i cavalieri
l’abbian trattato e come in vita resta.
Dice lor che l’un morto sul sentieri
lasciò, l’altro ferito nella testa.
Creder no ’l san, ché ciò che non è in nui
ci par sempre miracolo in altrui.
67Come porria pensar un che non vale
né di ardir né di man ch’un altro possa
a più d’una con la lancia esser eguale
e far la terra di suo sangue rossa?
Guardanlo pure, e non gli veggion male,
né sopra l’arme aver macchia o percossa;
ben veggiono il caval sudato e lasso
e pensan ch’ei fuggì più che di passo.
68E gli dicon ridendo: «Il miglior vostro
di fuggirvi con noi stato pur fora;
noi vi avremmo il cammin più breve mostro
e riposato e fresco sareste ora,
che, come amico e buon compagno nostro,
bramiam vedervi di periglio fuora;
e se non fuste mai da noi lontano
vivreste più che Nestore e più sano.
69Quando il buon Danain vede che pure
come fusse a lor par ne prendon gioco,
anch’ei ne ride, e mostra che si cure
di vergogna o di onor niente o poco.
In modo fa che seco si assicure
Ennor e fermo nel medesmo loco
gli dice: «Se tal è la virtù vostra,
provatel meco con la guancia in giostra».
70«Ah,» disse Danain «Dio me ne guardi,
maggior sète di me due palmi interi
(e dicea ver, che ’l padre de i codardi
era maggior di tutti i cavalieri).
Meglio è schivar che ’l fuggir tardi
ch’io non mi sento l’un di quei più fieri;
combatterei con certi buon compagni
con cui poco si perda e men guadagni».
71Allor, come a poltron, cresce l’ardire
quando vede costui che lui rifiuta,
e ridendone molto il fa ridire
né Danain la sua sentenza muta.
Non si porria narrar s’egli han desire
di far nascer fra lor nuova disputa,
e dargli assai spavento e sbigottirlo
per poter poi tra le lor glorie dirlo.
72E perché poco avanti avea promesso
di mostrar un che faria lor vergogna,
gli dicon camminando poco appresso
che se non vuole aver detto menzogna,
tempo è di farlo replicando spesso,
che di vederlo in ver ciascuno agogna.
Ma ’l dicon anco per aver cagione
di far seco a ragion qualche quistione.
73Si ferma Danaino e dice: «Poi
ch’io son tenuto alla promessa fede,
io son colui che farò ad ambe duoi
esser di biasmo e di disnore erede».
Ridonsi più che mai de i detti suoi
e ciascun di quei due non più se ’l crede
che s’ei parlasse un matto, e gli hanno detto
ch’al suo poco discorso ebber rispetto.
74In questo lor parlar veggion non lunge
quattro gran cavalier venir pe ’l bosco.
Or quel del padiglion come gli aggiunge
con l’occhio dice: «Ohimè, ben gli conosco,
e s’un di lor ov’io sia sol mi giunge
io dirò allora d’aver l’ultimo tosco,
che tutti quattro son giurati insieme
di condurmi con l’arme all’ore estreme.
75Come dice, il codardo: «E voi temete
sopra sì buon cavallo alcun che sia?
Spronate or forte, e ’n mezzo vi mettete
della foresta fuor d’ogni altra via».
«Troppo grave onta innanzi mi ponete,
atta a scurar tutta la vita mia:
resterò pur» rispose «e venga morte,
ma voi non mi lasciate in simil sorte .
76«Sì farò» disse Ennor «in questo affare,
ché per me proprio tanto è periglioso.
Non ardirei l’un sol quinci aspettare
non che di tre combatter io fussi oso,
ch’io so ben questo conto tutto fare
ch’un faria contro a voi solo sdegnoso;
gli altri a provar verrieno il mio valore,
e ’l giusto porteria pel peccatore.
77E per questo vi lasso, e dico a Dio»,
e mostra di fuggir, ma si nasconde,
che pur di riguardar avea desio,
ma come uccellator tra fronde e fronde.
Quel, che si vede solo, il destin rio
danna, e da gli occhi versa le salse onde,
come fanciul che fuor di tempo scherza
e del suo precettor sente la sferza.
78Dice allor Danain: «S’al mio periglio
voi non mi aveste tutti abbandonato,
forse il brando per voi farei vermiglio
o morto resterei, credo, onorato.
E più d’aiuto assai che di consiglio
per ristorarvi avreste in me trovato,
e veramente io sol mi terrei buono
combatter tutti se ben quattro sono».
79Su le parole sue coraggio prende
quello, e ’n mezzo il cammin, con scudo e lancia,
la schiera de i nemici solo attende
pur sotto l’elmo avea cangiato guancia.
L’un de i quattro il conosce
all’arme sue che non avea per cianca
che d’asta feritor era e di spada
de i miglior quasi che d’intorno vada.
80Come lupo e mastin vanno a trovarse
che nimicizia antica fra loro era;
ha quel del padiglion le forze scarse
l’altro il percuote, e di cotal maniera
che fu constretto in terra riversarse,
e, sendo il sol in ciel, gli parve sera.
Gli altri, che veggion ch’abbattuto resta,
gridan crudeli: «Or taglia l’impia testa».
81Discende il cavaliero e l’elmo tira
del capo fuori a quel che vinto giace;
ma il rosso Danain, che ciò rimira,
a cui tutto il mal far sempre dispiace,
in mezzo del cammino il destrier gira,
e di voler ferir sembianza face,
ma in cambio di far lor co i fatti assalto
fa con le voci e grida: «Maloalto».
82Gridò due volte e quei, che l’hanno inteso
si pensan ben che Danain sia quello,
ch’è non sol conosciuto dal paese
ma da chi vide mai giostra o duello.
Quei tre n’andar con tutto il loro arnese,
l’altro, ch’era anch’a piè leggiero e snello,
trova tosto il cavallo e via si fugge
come cervetta suol se leon rugge.
83Lassagli Danaino, incontinente
vanne a trovar chi già si tenea morto,
e gli domanda uman come si sente,
e del passato mal gli dà conforto.
«Com’io stia» gli risponde «veramente
voi più di me ve ’l conoscete scorto;
confesso ben che ’l Cielo e vostra aita
m’han per certo salvata oggi la vita.
84Come tutto è finito egli esce fuora
il cavallier codardo allo scoperto,
e dice sorridendo; «Mai non fora
creduto quello ch’abbiam veduto certo,
che v’ha costui scampata l’ultim’ora
per sua follia, dov’un ardito esperto
campion con mille colpo a pena avria
di potervi salvar trovata via».
85Rispose il Padiglione: «Io so che senza
lui sarei fuor di questo mondo omai,
e più la sua follia che tua prudenza
posso lodar ne’ miei bisogni assai».
Danain ride, e nella sua credenza
mette studio che duri più che mai,
dicendo: «S’a fuggir restavan molto
io m’era già per loro in fuga volto».
86Or mentre son così veggion venire
un cavalier che l’arme avea vermiglie,
quel che senza la vecchia non sa gire,
e che nell’armi fa gran maraviglia.
Danain il conosce et ha desire
che ’l codardo con lui la giostra piglie,
perché prima che il lassi in quella valle
vorria vederlo a terra con le spalle.
87E parla al cavalier del Padiglion:
«Ecco venir un uomo il più codardo
che fusse in questa o in altra regione:
temeria d’una donna il solo sguardo;
leggiero e pronto a prender la questione,
al menar delle man pesante e tardo;
e delle membra bel ma rio del core
da portar sempre al suo nemico onore».
88Ennore è indietro, e tutto questo ha inteso
ma d’altrove pensar facea sembiante,
e contro a lui di già partito preso
di far del prode cavalli ero errante,
e dice: «Ecco un che ’ngiustamente offeso
m’ha più d’un tratto, e poi che m’è davante
non partirà ch’io non gli mostri chiaro
che chi torto mi face il compra caro».
89Poi pur s’accosta sì ch’ancor finito
non avea Danain di lui parlare,
e mostra sol d’aver il fin udito
ove egli il sente forte biasimare,
e dice al Padiglione: «Egli ha mentito,
che questo è cavalier di grande affare,
e so per certo quel ch’io te ne dico
che l’ho provato come mio nemico.
90E poiché la fortuna mel dà in mano
vo’ vendicar l’antico oltraggio,
ché chi l’occasion lassa ir in vano
non si deve stimar fra gli altri saggio.
Sprona verso il vermiglio a mano a mano
e con men riverenza ch’a vil paggio,
«Guardati» disse «e metti in Dio tua spene
poi che meco aver giostra ti conviene».
91L’altro per meglio udir arresta il passo,
poi risponde: «Signor, se voi vorrete
oggi giostrar per passatempo e spasso
un altro ch’io ve ne trarrà la sete,
ch’io son sì travagliato, vinto e lasso
che d’impacciarmi scortesia farete».
Quando il codardo l’ode così dire,
allora ha sopra lui più grande ardire,
92e dice: «Non varrà lassezza o scusa;
perché porti tu lancia o spada a canto?
In Cornovaglia il negar giostra s’usa,
non dove l’arme qui si pregian tanto;
chi pur la fugge e di viltà s’accusa
ad altrui dà la damigella e ’l vanto».
«Questo» disse il vermiglio «vi assicuro
di mai non far infin che ’n vita duro.
93E se pur mi farete forza tale
che d’aver con voi guerra mi convegna,
senza rispetto alcun vi farò male
e la pena sarà del fallir degna».
Or segue Ennor: «Il ragionar non vale,
l’esperienza in testimon ne vegna».
S’apparecchia con l’arme e l’altro ancora
e tornansi a ferir senza dimora.
94la lancia del codardo in aria trema
come anco il cor se gli scotea nel petto.
Il vermiglio, che mai non ebbe tema
e ch’era cavalier più che perfetto,
perch’è crucciato, ogni sua forza estrema
mette per fargli estrema onta e dispetto,
e lo investe sì ben che a terra il caccia
lunge dal suo caval più di sei braccia.
95E gli fe’ molto mal, ma il poco cuore
che già mai di viltà simil non ebbe,
co ’l pianger, co ’l gridar il fa maggiore
e dice in suo pensier che morir debbe.
Danain mostra duol del suo dolore
ma dentro nulla o poco gliene increbbe,
e coma stia domanda quel codardo
ch’a lui rispose con turbato sguardo:
96«Sto come avete sol voluto voi,
che come frale e vil il dipigneste,
e l’ho trovato tal ch’a tutti noi
per porci a terra avria le forze preste.
Ma chi s’impaccia pur con matti poi
non dèe dolersi se gli avvien di queste,
non so s’io mi dirò disgrazie o doglie,
ch’un simil caso mille nomi accoglie.
97Io non sarò mai più nell’arme buono,
ch’io non ho membro alcun che non sia rotto».
Sì lascia Danaino in abbandono
le risa andar, che non potea dir motto;
poi segue: «Ei me ne duol, ma lieto sono
ch’un’altra volta più nell’arme dotto
sarete, che ’l piegarvi in simil caso
cagion fu che così sète rimaso».
98Poi il lassa et al vermiglio cavaliero
s’appressa, e ’l prega che gli dica il nome,
et ei, benché umanissimo e non fero,
gliel nega al fine, e non riguarda come.
N’aveva Danain gran desidero
ch’al torneamento mai non vide dome
le rare forze sue, poi vide al piano
gittargli il siniscalco e ’l forte Ivano.
99Pur il piglia cortese in pazienza
e si torna a schernin colui ch’è in terra.
or mentre è così lieto e vive senza
cura noiosa ch’ogni dolce atterra,
e di cosa mortal non ha temenza
c’ha vendicato con felice guerra
il suo caro cugin, vinte l’invidie
de i due germani e le a lui tese insidie,
100non sapea, lasso, che fortuna altrove
doppia e dolente piaga gli apparecchia,
e che la ruota a suo gran danno muove
seguendo inverso lui l’usanza vecchia;
ché colui che più lieto al mondo truove
e che nel suo ben esser più si specchia,
allor lo spinge impetuosa in giuso
quanto pria già montar l’ha fatto in suso.
Danaino riceve notizia parziale e falsa dei fatti occorsi a Girone dal cavaliere che voleva sottrargli la spada: cerca Laco ma trova Girone, dopo una lunga indagine ne accerta la buona fede e lo soccorre (101-189)
101Or ecco un messaggier venir volando
pien d’affanno e sudor, dal capo al piede;
Danain resta e ’l riconosce quando
più vicino è sì che più chiaro il vede,
ch’era un de i servi suoi, che ’l va cercando,
ma che sia il suo padron già non si crede,
perché avea stran vestir; e, domandato
che novelle aggia e da chi sia mandato,
102rispose la più triste che mai furo
per Maloalto e per chi in lui si tiene,
ché ’l chiaro onor ch’avea s’è fatto oscuro,
son l’antiche sue lodi ontose pene.
S’al parlar di costui noioso e duro
il Rosso Danain doglioso viene
dir non saprei, che per mezza ora almeno
non può trar fiato e ’l cor gli è morto in seno.
103Pur ritornato gli ricerca ancora
chi di tanto suo mal fusse cagione.
il messo gli racconta il dove e l’ora
fur posti i cavalieri a perdizione,
e tratta del cammin la moglie fuora
da un che forza avea più che un leone.
Ricerca ancor se ciò vide egli stesso,
«Sì come io veggio or voi né men d’appresso».
104Gli risponde esso, et ei, seguendo, fassi
l’arme e i color del cavalier ridire;
gliel conta l’altro et ei con gli occhi bassi
quasi di rabbia si pensò morire;
pur cerca ancor in qual paese andassi
con la sua preda, e quel per non fallire
che no ’l sa dice, ch’ebbe tal paura
che non poté di tutto tener cura.
105Or dice Danain: «Ritorna meco
e menami ive fu tanta battaglia».
Il messo nega di voler ir seco
sì come quell’a cui tornar non caglia.
Pur, con timor ma con lo spirto bieco,
poi che scusa non ha che tanto vaglia,
com’asin col baston, ratto s’invia
e mostra al cavalier la vera via.
106Non molto andati son che scontrato hanno
due cavalier di quei ch’eran fuggiti.
Non domanda chi son né dove vanno
ma gli lassa ir tremanti e sbigottiti
il fero Danain, che ’l proprio danno
volea veder, e ne i medesmi liti
non son tre volte andati il tran d’un arco
che sono al tristo e periglioso varco.
107Ivi è tutto di sangue e d’arme pino,
e molti vi giacean su l’erba morti,
molti altri stanno all’ombra sul terreno
che non hanno vigor ch’indi gli porti;
chi testa o gamba o spalla o braccia o seno
mostra impiagato, e par che si sconforti
che non pur da curar la sua ferita
ma l’esca man all’affamata vita.
108Gli riconosce tutti en’ha pietade
il miser Danain quanto conviensi;
quei non già lui, ché ’n tal calamitade
non è di lor chi sì vicino il pensi.
E gli domanda poi per quali strade
sia gito quel che dopo avergli offensi
n’ha menata la donna; essi han risposto:
«Chi noi a tal l’ha ben discosto;
109ch’a pena ebbe la donna in suo potere
ch’uno stran cavalier più di lui forte
con un sol colpo a terra il fe’ cadere
e lungamente fu vicino a morte.
Poi prese verso il bosco il suo sentiere
senza aver scudier né altre scorte».
Fassi dar d’ambe due tutti i segnali
ch’al cor gli sono avvelenati strali.
110Ma quando sente poi dir del secondo
che di rosso zendado il scudo cuopre,
fu nell’animo suo lieto e giocondo
e che ciò sia Giron di certo scuopre,
fra sé dicendo: – Il maggior uom del mondo
ha per me fatte mille cortesi opre,
ma questa è la più grande, a dirne il vero,
d’aver tolta mia moglie all’altrui impero,
111e ritornata nella mia possanza,
che forse lungo tempo era dispersa.
Di vero cavalier l’antica usanza
quante ha virtudi il Cielo in esso versa,
e qual di alto valor ogni altro avanza
tal in somma bontà l’alma ha sommersa -.
Così parla in se stesso e mai creduto
avrebbe quel che già n’era avvenuto.
112Dell’altro cavalier poscia s’informa,
che il voleva seguir per far vendetta;
ciascun gli mostra assicurata l’orma
ch’alla foresta va per valle stretta.
Qui si parte, e prima che mai dorma
o ch’acqua i cibo in bocca mai si metta
vuol costui ritrovar, o vivo o morto,
che gli avea fatto il discortese torto.
113Muove con lo scudiero e passo passo
esaminando van tutto il cammino;
non ha la selva sterpo, macchia o sasso
che non cerchino intorno ogni confino;
ma indarno avranno il piè per quivi lasso
perché il re Laco omai non è vicino,
ma co ’l re di Gallia Faramonte
era prigion e molto lunge al fonte.
114Però che andando di trovar bramoso
il ferito Girone e la sua stella,
trovò nel bosco, ove più cresce ombroso,
ch’ad un buon cavalier la sua donzella
avea con l’arme tolta il re famoso
e se ne gia trionfator con ella,
lasciando il suo primero conduttore
percosso a morte a lamentar d’Amore.
115Trovollo il chiaro Laco e glie ne increbbe,
el’aiuta e ’l conforta e gli promette
che la donzella sua tornar gli debbe
et all’inchiesta di costei si mette.
lassa ivi lo scudier che per guida ebbe
e Faramonte trova, ch’alle strette
era con un che poi gittò per terra
ché volea quella donna aver per guerra.
116Combatté poscia Laco mezzo il giorno
con quel gran re, che non vi fu vantaggio,
in quel che si travaglian fa lor scorno
l’abbattuto guerrier, men buon che saggio,
che la fanciulla con inganno adorno
rubò da quelli, et a lei fece oltraggio,
che mostrando menarla ov’ella vuole
la mette in loco ove non luce il sole.
117La serra ad un castel dentro una torre;
i due, che poi s’accorgon dell’inganno,
lassando l’arme, ognun d’accordo corre
dove ch’esso sia gito pensato hanno.
Vanno al castello e l’altro gli fa porre
in oscura prigion ove anco stanno;
il traditor guerrier che gli have in mano
era il Nero Nabon, crudo, inumano.
118Adunque Danaino è in van menato
dallo scudiero a quella istessa fonte,
là dove avea Laco ritrovato
ferito il cavalier da Faramonte,
e l’altro, che ’l guidava, avea lassato,
dico quel che far volle danno et onte
al buon Giron piagato e torgli il brando,
che no ’l potendo il greco andò cercando.
119Danain guarda e già pietoso viene
di vede mal condotto il cavaliero.
La cagion ne domanda e ’ntende bene
partitamente il caso tutto intero.
Non già da lui, che nel parlar ha pene,
ma da quel ch’è di Maloalto al vero.
Gli domanda da poi s’ei sa il suo nome,
di no risponde e gli racconta come.
120Poi chiede di lui stesso donde sia,
l’altro gli dice: «Io son di Maloalto,
e servo ivi il signor per cortesia
né guadagno n’aspetto o d’esse alto.
È qui il maggior guerrier che fu né fia
in ben correr la lancia, in ogni assalto.
Attendo, che a tornar non starà molto».
Di ciò s’è Danaino in ira volto,
121parlando: «Or chi fia quel che possa dire
che sia del mondo il cavalier migliore?».
«Io non vi saprei il nome riferire»
diss’ei, «ma vidi in lui sovran valore,
che ventisei guerrier fece fuggire
di Maloalto e ben degni d’onore,
n’ammazzò molti e molti vivi in terra
messe impiagati e guadagnò la guerra.
122D’esser chiamato il primo non è degno
un che può far le prove ch’io vi dico?».
«Di assai gran cavaliero ha dato segno»
Danain disse «e di virtude amico.
or da voi saver bramoso vegno
se vinto e morto e cacciato il nemico
gli restò in man di poi la bella dama
che sopra quante sono ha pregio e fama».
123«Non (rispose ei), ch’un altro glie la tolse,
che gettato l’avea fuor dell’arcione».
«Adunque il suo poter ove si volse
s’ei perdé la sua preda e fu prigione?»,
replicò Danain. L’altro si sciolse
con dire egli era stanco oltra ragione,
e domandato dove fusse allora
gli conta il tutto e quel che pensa ancora.
124Or prega Danain; «Fatemi certo
ove andasse colui ch’or la donna have».
«Io vi dirò (risponde) e ’l tutto aperto,
ché per amor di lei n’ho doglia grave:
ei la menò nel più folto diserto
presso una fonte, e di piacer soave
sodisfe’ al suo desir et all’intento,
né della donna il cor fu malcontento.
125Mentre erano tali, un cavalier di lei
che quivi a caso d’altra parte giunto,
cruccioso in sé de i lordi torti rei
al signor fatti e di dolor computo
(io lo scorsi pur io con gli occhi miei,
tra ramo e ramo ch’era insieme aggiunto),
i fianchi con la spada attraversare
a quel malvagio e non si seppe atare.
126Partissi il feritore e gli ha lasciati
questo in tal guisa e quella lagrimosa.
Or voi, se avete i patron nostri amati,
devreste averne l’anima crucciosa,
e cercar Danaino in tutti i lati
e dirgli, ohimè, che l’impudica sposa
l’ha fatto tal che senza vendicarse
non può tra cavalier mai più trovarse».
127Chi porria qui narrar l’interna doglia,
ira, rabbia, furor che dentro porta
il miser cavalier, che già si spoglia
d’ogni dolcezza e troppo si conforta.
Muto è già fatto e di gridar ha voglia
per disfogar il chiuso che mal porta.
Treman le gambe, il cor, l’alma e la lingua
et ogni forza par che in lui si estingua.
128Pur con debili note ancor domanda
se ciò sia vero, e che per nulla il crede.
L’altro il Ciel tutto sotto sopra manda,
giura ogni deità da la sua fede.
Ei l’acconsente, e chiedegli in qual banda,
e dove gli è mostrato addrizza il piede;
poi nel cammin soletto in alte grida
chiama la sorte sua crudele e ’nfida:
129«Chi porrà più» dicea «riposo darme
poi che i due soli ch’erano il mio bene
pur congiurati a tal vergogna farme,
che l’uom sepolto in questa vita tiene?
Ove potrò mai più col cor voltarme
se questi due che soli eran mia speme
m’han peggio che tradito, più che ucciso
e fatto al mondo abbominevol viso?
130Or è questa, Giron, la fede ch’io
portava a voi più che a me stesso assai?
Voi sol m’eri fratel, signor e dio,
né privato di voi fui lieto mai.
E voi, consorte mia, che co ’l più pio,
sincero e vero cor mai sempre amai,
come soffriste offender or colui
che mille volte il dì morria per vui?
131Più non sia alcun che mai sotto la luna
disegni di trovar cosa perfetta,
poi che Giron abbatte, macchia, imbruna
l’amicizia immortal, candida e netta,
e poi che quella che fu prima et una
del mio ben chiave nuovo amore alletta,
et ha per voglia ingiusta acconsentito
a sé far onta e scorno al suo marito».
132E con questi lamenti poi s’invia
ove mostrato gli ha, tanto ch’ei truova
un picciol ruscelletto che venìa
di chiara acqua di fonte e non di piova.
Già immagina tra sé che vicin sia
l’odiato loco, e pargli il passo muova
per trovar onta, doglia, morte e scherno,
anzi per gire al più profondo Inferno.
133Monta per la valletta e prega il Cielo
che quanto udito ha dir torni menzogna.
Fermasi ad ogni cespo e sente un gielo,
che ivi ritarda in guisa d’uom che sogna.
Vorrebbe avanti a gli occhi aver un velo
e d’esser cieco, muto e sordo agogna.
Non si arrischia il meschin drizzar la vista,
temendo di veder cosa sì trista.
134Poco oltre va che mentre gli occhi inganna
dell’orecchie ingannar non ben s’accorse;
sente una voce ch’a gridar s’affanna
come se fusse di sua vita in forse.
Questo all’ultima pena lui condanna,
questo l’ultimo stral di duol gli porse,
questo è l’ultimo termine d’angosce
che senza dubbio alcun la riconosce.
135La riconosce ben ch’era di quella
ch’egli amò sì che disamar non puote.
Conosce la dolcissima favella,
i chiari accenti, l’amorose note;
sente che ’l suo destin feroce appella
e che le man piangendo si percuote,
sente Ecco lì vicin che le risponde
facendo aspro tenore alle chiare onde.
136Non poté il miser far che non cadesse
pianto da gli occhi per pietoso sdegno,
e forza gli era a terra si ponesse
se non era il caval di lui sostegno.
Pur asciuga con ma le larghe e spesse
lagrime che venian, per non dar segno
alla moglie infedel che gliene incresca,
poi s’appresenta alla chiusa ombra e fresca.
137Com’ella il vide, tutta spaventata
fu ben in sé del sopragiunto sposo,
ch’al cavallo il conosce, e ’n piè levata
l’accoglie, pur co ’l volto lagrimoso.
E come donna in fallo ritrovata
che ’l subito consiglio ha più ingegnoso,
gli dice: «Anima mia, nuove vi porto
che ’l miglior cavalier del mondo è morto.
138Posso dir il miglior, ch’egli è Girone,
che da se stesso a morte s’è ferito.
Non ha voluto mai dir la cagione,
pensate s’io mi stava a mal partito.
Dio l’ha, credo, aiutato, e la ragione
che vi ha menato qui, caro marito;
aiutatel, vi prego, perché assai
più l’avete da far ch’aveste mai,
139perché sol la sua forza e ’l suo valore,
la cortesia, l’amor ch’oggi vi porta
n’ha tratto di gran danno e di disnore
e m’è stato fidata e vera scorta,
ch’un disleal guerrier pien di furore
me fe’ prigiona e la mia gente ha morta,
e mi volea menar io non so dove
se non facea Giron l’ultime prove».
140Fu il Rosso Danain sì paziente
ch’ascoltò tutto, e mai parlar non volse,
e crede tutto il mal veracemente
quando il suo ragionar a pien raccolse.
Poi, come al caldo sol vecchio serpente,
a lei tutto rabbioso si rivolse:
«Non fu degna già mai Fedra e Medea
come voi, donna, d’ogni morte rea.
141Perché non solo in voi corrotta avete
nobiltade e beltà che non ha pare,
ma rendeste colui che avea già sete
sol di gloria e di lode ornate e rare,
il miglior cavalier, come sapete,
e come or l’ho sentito a voi chiamare,
traditor, disleal, vil, crudo e rio,
vituperato per terra, in odio a Dio».
142Or non sia maraviglia se colei,
che in gravissimo fallo si sentiva,
fu sbigottita più ch’io non direi:
morta non cadde e non rimase viva,
tutta prostrata se gli getta e i piei
gridando: «Non sia in voi di ragion priva
l’ira contra me, né il vostro petto
fuor d’ogni colpa mia prenda sospetto».
143Danain non l’ascolta, e tutto dritto,
poi che smontato fu, ritrova il loco
ove il miser Giron giaceva afflitto,
che di forza e di vita avea già poco.
Ivi, d’alta pietade il cor trafitto,
il guarda alquanto, e fassi un vivo foco
di vergogna, di sdegno, d’ira estrema;
poi così parla, ma parlando trema:
144«Io non avrei pensato che già mai
un sì grande e cortese cavaliero,
ch’io teneva il maggior di tutti assai,
l’almo sol di virtù, l’essempio vero
di bontà in terra, e quel ch’io tanto amai,
ch’era il spirto, la vita, il cor mio intero
obligando se stesso e ’l suo valore
facesse a Danain tanto disnore.
145Né so come il pensier non vi uccidesse
sendo contro a colui ch’ancor v’adora,
come l’iniqua man non vi cadesse
ch’oprar tanto devea del dritto fora,
come rubella a voi non si facesse
l’anima e verso me volasse allora
gridandomi perdon, pace e mercede
della dubbiosa ancor non rotta fede.
146E se pur del mio danno non vi calse,
né dell’alta amicizia il sacro nome,
la pietà di voi stesso a voi non valse
a scacciar del suo sen l’ontose some?
Quanto voglie in altrui crudeli e false
con parole e con ferro avete dome?
Né frenar voi sapeste al cieco punto,
che di scelleratezza al sommo è giunto,
147che vi son più, signor, le somme glorie
vostre di cortesia, di senno e d’armi?
Le incredibil prodezze e le vittorie
celebrate nel mondo in tanti carmi,
i trionfi, i trofei, le gran memorie
stampate in mille bronzi, in mille marmi
s’un sol momento, una dannosa voglia
di quanto aveste ben ratto vi spoglia?
148Sarà il titol miglior di disleale,
di traditor, di adultero, d’infido.
La fama or ne va già battendo l’ale
e tra i buon cavalier n’è corso il grido.
Voi fareste a voi stesso micidiale
volendovi or chiamar leale e fido
e ’l torto a forza far, ch’alla battaglia
il ferro di chi l’ha non punge o taglia.
149Ma ciò non vi avverrà, ch’io son disposto
far dell’offesa mia giusta vendetta,
che non vo’ che mi sia per fallo imposto
ch’a sì gran peccator perdono ammetta.
Poscia il medesmo a chi devrei più tosto
farò dell’infedel moglie imperfetta,
e com’io v’aggia ancisi tutti duoi
darò la morte a me medesmo poi.
150Ch’avendo io fato danno così grave
a me proprio, a natura, al mondo tutto
di tòrgli un cavalier che par non have
sul suo più bel fiorir e sul far frutto,
e toltomi colei che fea soave
la vita mia, non vo’ restare in lutto,
furioso e mai sempre in voglie meste,
come già fece l’infelice Oreste.
151Così le meritate vostre piaghe
laverò del mio sangue e del mio pianto,
pregando Giove umil che se ne appaghe
poi che l’ira e ’l dever mi spinge a tanto.
Le due vostre alme di mia morte vaghe
insieme andran sotto amoroso manto
nel terzo ciel, la mia sola in disparte
girà sdegnoso al quinto ciel di Marte.
152E l’uficio farà l’istessa spada
ch’io porto al fianco e che fu vostro dono,
con cui sempre seguii la dritta strada
fuor che, forse, oggi, che forzato sono.
Ma far convien quel che a chi puote aggrada
e lasciarsi al destino in abbandono,
che vuol che per colui che ancor vi adora
ambe moriate et ei per ambe muora».
153Non seppe il pio Giron formar parola,
non per doglia, per ira o per paura,
ma per pietà di quella donna sola,
di lei gli ’ncresce e più di sé non cura.
L’altra, ch’apprese all’amorosa scuola
di non si abbandonar, tutta sicura
si getta ginocchion, pe altri il prega,
se stessa accusa e l’altrui fallo nega,
154dicendo: «O valoroso cavaliero,
se mai fu in voi virtude e ’n altri fede,
crediate a me, che dirò proprio il vero,
chiamando testimon chi tutto vede,
che contro a me potete esser severo
e ne riceverò giusta mercede,
non già dell’opre rie sì ben del core,
che talor si scaldò d’ingiusto amore.
155Ingiustissimo certo ma non tale
che si possa biasmar da dritta mente,
sendo qui per Giron che tanto vale,
ch’è stupore e miracol della gente;
e tanto men che l’anima immortale
al fragil senso suo non acconsente:
amol di quella sorte ch’io farei
s’io fussi anch’uomo e mai no ’l lascerei.
156Se volete punir questo il potete
a gran ragione, né me ne chiamo indegna,
ma contra a lui men fallo non farete
che contro a deità nel ciel più degna,
ch’oltr’a a l’altre virtù che voi sapete
tal leal cortesia nel suo cor regna
(e l’ha mostra vêr voi) sì pura e chiara
ch’esser vi può più che la vita cara.
157E se ’l sapesse ogni uom come il so io
n’andrebbe sopra il ciel la fama eterna.
O celeste Motore, o sommo Dio,
deh fa che ’l mio consorte il vero scerna,
non per iscampar me di caso rio
ma per aprir quella bontade interna
ch’altri non crede e che Tu vedi solo;
poi mi colma di pianto, empi di duolo.
158Or non vi sia cagion falsa credenza
di tòrre al mondo un così bel tesoro,
che ben povero fia restando senza
e no ’l può ricovrar terreno od oro.
Una sì rara e nobile escellenza
è certo divinissimo lavoro,
ch’adorar si devria, rendendo al Cielo
grazie infinite con divoto zelo.
159Volgete adunque in me, sposo diletto,
ogni vostro disdegno, ogni vostra ira.
Di me fu il fallo, se fallire è detto
chi di cortese amor talor sospira.
Di questo cavalier più che perfetto
date soccorso all’anima che spira,
sì che per vostra colpa, ohimè, non fia
vedova e nuda la cavalleria».
160«Ah,» disse Danain «donna villana,
per voi non cangerò d’opinione,
ch’io ben so come sia bugiarda e vana
femmina ritrovata in falligione;
e non men la celeste che l’umana
legge offendete fra noi nel suo sermone,
e di sua lealtade, o dritta o torta,
sanguinoso segnal Giron ne porta.
161or non pensate voi ch’io sappia a punto
che nel bel fabbricar del mio disnore
un cavalier fedele è sopra giunto
che di nostra vergogna ebbe dolore,
et ha Giron ferito e ’n luogo punto
che egli pensò lassar di vita fuore?».
«Lassa, » diss’ella allora «non veggia io sole
se non so tutte false este parole».
162«Come andò dunque? » il sposo le risponde,
et ella: «Io vel dirò di parte in parte»,
e da gli occhi asciugando le salse onde
cominciò, infin che dal castel si parte
come un forte guerriero i suoi confonde,
come il vinse Giron che parve un Marte,
come vennero al bosco et alla fonte
e tutte lor parole al vero ha conte.
163E ch’attendendo lei non lunge molto
vide al franco guerrier mirar il brando,
e dopo alquanto l’ha in se stesso volto
et ella tosto accorse lagrimando;
e come un cavalier del bosco folto
uscì bramoso di spoliarlo, quando
così ferito il vide, e gli volea
la spada tòr, ché morto sel credea.
164«Ma il cortese Giron co ’l solo sguardo
come cervo il leon fe’ lui fuggire
ben due fiate, e lui cruccioso e tardo,
rimontando a caval vidi io partire.
E che sia ver prendete voi riguardo
solo alla spada che non può fallire,
e la vedrete tinta del suo sangue
che sì valoroso uom ha fatto essangue».
165Prende ora la spada Danaino in mano,
l’esamina del tutto e truova il vero,
e pensa ben ch’un cavaliero estrano
non l’avrebbe mai tolta a tal guerriero.
Il buon Giron, che non giacea lontano,
e c’a sentito il ragionare intero,
con quel poco di spirto il me’ che puote
si volge a Danain con queste note:
166«Io vi assicuro, o mio perfetto amico,
ch’ella non v’ha pur conto una menzogna,
né per timor né speme ciò vi dico,
ch’io son presto a morir, quando bisogna.
E più per vostra man che d’un nemico
di lassar queste membra l’alma agogna,
né potrei mia vita abbandonare
tra persone più degne, a me più care.
167Il fuggir morte che venir poi deve,
se non oggi domani, a chi sia nato
è di femmina impresa sciocca e leve
e non da cavalier che viva armato.
Ben m’allegro io ché, se ’l mio viver breve,
fia per vostra sentenza a fin menato,
morrò di certo, come il cor desia,
per lealtà, constanza e cortesia.
168Alle sagge animose alte parole
non seppe che risponder Danaino.
Dargli in risposta pur lagrime sole
e sta tacito e mesto a capo chino;
e ben conosce chiaro come il sole
che ’l buon campion che fu sopra divino
non avria sì gran fallo mai commesso,
o no ’l vorrebbe al men negare appresso.
169E viene argomentando che potrebbe
quello stran cavalier di Maloalto
esser colui che voglia in quel loco ebbe
di levargli la spada senza assalto,
e la credenza facile s’accrebbe
andandogli il pensier di salto in salto
ricordandosi ch’esso gli narrava
la cosa orrenda e passion mostrava.
170Ma l’innocenza, ch’è di Giove figlia,
e mai non abbandona chi l’abbraccia
fa che ’l rio mentitor partito piglia
di seguitar di Danain la traccia,
ché, ritardando il greco, si consiglia
ch’esso all’impia sua voglia sodisfaccia
di svergognar la donna e lassar quello
esca di lupi e d’altro lordo uccello.
171Tosto ch’egli apparì raffigurato
l’ha il Rosso Danaino, e ’ncontinente
si mette l’elmo ch’aveva ivi a lato,
prende il scudo e la lancia parimente,
monta sopra cavallo e sprona irato
verso quel disleal, ch’a pena il sente
tanto era intento a rimirar la coppia,
pensando tradigion forse più doppia,
172gridando: «Or vi guardate, cavaliero,
ch’io voglio incontro a voi prender battaglia».
Disse l’altro: «Per ora, a dirvi il vero,
io aggio altro da far, se Dio mi vaglia».
Et ei «Di questo a voi lascio il pensiero:
so ben ch’io cercherò se ferro o maglia
di così buona tempra oggi vestire,
che vi scampin di morte o di ferite.
173E ’ntendo vendicar l’ingiusta morte
ch’a quel buon cavalier che steso giace
donaste a tradimento e per vie torte,
come tristo guerrier nel male audace».
Or quel, che teme l’ultima sua sorte,
e vede pur che da buon senno face,
«Mercé,» grida «signor, ch’io vi assicuro
ch’io non l’offesi unquanco, e così giuro».
174Vero è che, pensando io che morto fosse,
volsi la spada tòrgli che mi piacque;
poi vedendo io ch’altero rivoltose,
d’avergli fatto oltraggio mi dispiacque».
«Chi adunque fu colui che lui percosse
sendo ei così sol fra l’erbe e l’acque?»,
gli domanda esso, e quel tosto risponde:
«Io non saprei dir certo il come e ’l donde,
175ma ben son io di certa opinione
ch’ei ciò facesse di sua istessa mano,
perché qui non ci vidi altre persone
che questa damigella e ben lontano;
la qual non avria forza e men cagione
d’aver atto commesso sì villano,
onde ardirei giurar sopra il battesmo
che la sua morte vien da se medesmo».
176«Or perché» Danain domanda appresso
«m’avete voi narrato a quella fonte
lì vicino al ferito e pure adesso
di questa bella donna sì grevi onte?».
Et ei, che ’l suo fallir vede già espresso,
tacito resta e bassa in giù la fronte,
poi c’ha pensato alquanto l’infelice
pur riprende la lena e così dice:
177«Perdonatemi, ohimè, caro signore,
né vogliate punir questo peccato,
che per vendetta e per fraterno amore
oggi vilmente nel mio petto è nato.
Io aveva un german solo e maggiore
che poi che lungamente fu serrato
da questa dam in prigion aspra e dura
finì con empia morte, acerba e dura.
178Questo feci io perché intendeva bene
che ’l Rosso Danain ha il cor sì alto
che date le ne avria sì fatte pene
ch’essempio fora a tutto Maloalto,
e perché a cavalieri non si conviene
contro a chi prega umil esser di smalto.
Vi supplico, o baron cortese e pio,
movetevi a pietà del fallir mio.
179E tanto più che ’l vero ho proprio detto
come in luogo sagrato mai si soglia».
«Ah,» disse Danain «tristo e ’mperfetto,
degno di mille morti e d’ogni doglia,
s’io non avessi al brando mio rispetto
che di cotal villan non cerca spoglia,
conoscer ti farei che pena merta
chi ’l disnor di tal donna a torto accerta».
180E senza altro parlar a basso scende,
lega il cavallo e te l’elmo alla testa;
vassene lieto ove la coppia attende
la fin del caso sbigottita e mesta.
Lì cade a terra e le ginocchia prende
del buon Giron piangendo e mai non resta,
dicendo: «O cortesissimo fratello,
non siate al pentir mio crudo o rubello.
181Deh mercé» gridò «all’alta mia follia
che amministrate m’ha l’aspre parole,
perdonate alla cieca gelosia
che fe’ di me quel che de gli altri suole.
Pietà vi prenda della sorte mia,
che mi face oggi odiar il giorno e ’l sole,
pensate a voi magnanimo e cortese,
non al mio fallo et all’ingiuste offese.
182Datemi qual volete penitenza,
ch’io l’accetto e d’averla vi ringrazio,
pur che non sia ch’io deggia viver senza
la vostra vista, ond’io non son mai sazio,
pur ch’io sia vostro e sia in vostra presenza
sia di me poi qual più vi piace strazio,
che s’io ricovrerò con morte amara
la vostra grazia, non mi costa cara».
183Quando scorge Girone il grande amico,
ch’assai più che se stesso amato ha sempre,
ch’a se medesmo fatto aspro nemico
par che nel pianto si distrugga e stempre,
lagrima anch’ei; ma, di poter mendico,
risponde in frale e dolorosa tempre:
«Voi mercé mi chiedete et io devrei
chieder a voi de i miei peccati rei.
184Ché senza dubbio alcuno il primo intento,
che non è in poter mio, fu contro a voi:
io pensava a disnore e tradimento,
se ben pentito mi punii da poi.
Io l’ho mertato, e bene era contento
d’uscir del mondo e dagli inganni suoi,
che con maggior vergogna e mio più danno
forse che ’l lascerò dopo qualch’anno.
185E la grazia miglior che faccia il Cielo
è di conceder qui soave morte
lodata al mondo, e con ardente zelo
della divina e desiata corte,
pria che manchin le forze e cange il pelo,
fuor di vecchiezza e si sua dubbia sorte.
Questa avea tutto e ci era da vantaggio
che per una tal mano era il passaggio.
186Or qui sia fine, e poi che piace a Dio
vivremo anco e più che mai congiunti».
Già perché vien la notte e ’l male è rio
e son da Maloalto assai disgiunti,
chiama la moglie sua lo sposo pio,
l’abbraccia, bacia e salva tutti i punti
ove l’offese, e pi consiglio fanno
di menar via Giron con meno affanno.
187E fu lor la fortuna amica tanto
che molti cavalier loro, uomini ligi,
erano ivi concorsi d’ogni canto
della fama seguendo i gran vestigi.
Chi Danaino avea, chi Giron pianto,
come s’ei fusser iti a i regni stigi.
Ivi già ne son molti e fan gran festa
mettendo in aiuto a quel che resta.
188Taglian de i rami e fabbricano in fretta,
il me’ che pon, di pali una lettica,
ove di frondi intorno si commetta
chi guardi l’aria alle piaghe inimica;
poi di due buon cavai fatta l’eletta
cercan la via che men la selva intrica.
Così tutta la notte camminaro
e ’n Maloalto all’alba si trovaro.
189Ivi quanti ha cerusici e dottori
per tutta la contrada son chiamati,
e che sia di periglio al tutto fuori
si son d’una sentenza concordati.
le medicine, i cibi, grati odori
son della bella donna ritrovati,
e con più onesta voglia i miglior core
ebbe Giron per sempre servitore.