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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro VII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 13.09.15 9:03

Eliano, già Garzone di Girone e ora cavaliere, intrattiene Meliadusse con dei racconti: racconta di come è certo che Girone non sia morto, a differenza di quello che tutti credono (1-38)

1Ma il re Meliadusse, che rimaso
era soletto attender il re Laco,
che avvenuto gli fusse qualche caso
che ’l facesse tardar divien presago,
e perché il sol s’attuffa nell’Occaso
di spogliarsi e riposarsi vago,
cerca pur nel castel delle sue suore
commodo albergo e quanto può migliore.

2Poi ch’egli è disarmato e dato han loco
i prudenti scudieri al suo destriero,
la cena a comparir dimora poco;
mettesi a mensa, che n’avea mestiero,
un vecchio cavalier ch’era per gioco
venuto il giorno al torneamento fiero;
se gli presenta inanzi, il buon re prega
che compagnia gli tenga, esso no ’l nega.

3Cominciasi a parlar tra le vivande,
com’è l’usanza d’ogni nobil alma,
chi furo i cavalieri e di quai bande
chi tempesta menò, chi stette in calma;
e sopra tutti a i neri et al più grande
s’accordano a donar la prima palma.
Poi prega il cavalier che ’l re gli dica
qual parte ebbe contraria e quale amica.

4Domanda anco quali arme e sopra vesta
portasse il giorno, et esso gli risponde
che ben mise egli il dì la lancia in resta
ma i color per onor suo gli nasconde,
che fe’ sì mal che svergognato resta
nel suo giudizio e tutto si confonde.
«Come,» gli disse l’altro «un così bello
come voi sète è di valor rubello?».

5«Io vaglio bene un cavalier moderno»
rispose il re «quando il bisogno viene,
ma de i grandi come io pochi discerno
ch’al par de gli altri si dimostri bene».
Dissegli il cavalier: «Forse per scherno
e per gioco ciò dir vi si conviene,
ma molti ho visto della taglia vostra
ottimi nella spada e nella giostra.

6E fra i molti un che molto vi assimiglia,
di Lionese il re Meliadusse,
valoroso nell’arme a maraviglia
quanto altro mai ch’ai nostri tempi fusse».
il re, mostrando a lui turbate ciglia,
«Affezion più che dever v’indusse
a lodarlo,» dicea, «ché molti innanti
son da pregiar de i cavalieri erranti».

7«Io vi dirò se questo assai non fia»
disse il buon vecchio «un di maggior grandezza,
che non penso il miglior nel mondo sia
d’ardir e di possanza e di prodezza;
poi luce in lui sì rara cortesia,
tanta virtù, bontade e gentilezza
che sia pur ove vuole in guerra o ’n pace
lì di valore e qui d’onore è face».

8Diviene stupefatto a questi detti
il re, pensando a chi si voglia dire,
che de i guerrieri conosce i più perfetti
per pruova quanti son, non per udire,
né si può immaginar ove si getti
il suo giudizio, se non vuol mentire,
e disse: «Troppe insieme e belle cose
mettete tutte in un maravigliose».

9Risponde il cavalier tutto crucciato:
«Perché sentiate voi codardo e lento
ragion non è che ogni altro giudicato
sia da voi nel vostro pensamento,
ma quello ond’io vi parlo è più stimato
ch’io non vi so narrar per ognun cento
in tutte quelle lodi, in quelle parti
rischieste a mille Apolli, a mille Marti.

10E se voi il conosceste com’io chiaro,
ne direste più forse ch’io non dico».
Il re, che di saperlo aria più caro
ch’aver trionfo di ogni suo nemico,
«Deh non mi siate di scoprirlo avaro,
ch’io voglio esser di lui servo et amico»
disse al buon vecchio, et ei: «Sievi palese
l’onor del mondo: egli è Giron Cortese».

11Come Meliadusse il gran nome ode,
ch’egli adorava sopra ogni altro loco al mondo,
d’udirlo ricordar già seco gode
e n’è più che altro mai lieto e giocondo,
che sa ch’era guerrier di somma lode
e ch’a nessun che fusse era secondo;
ma per morto il tenea, tanto tempo era
che non ebbe di lui novella vera,

12e dice: «Io non sapea che fusse vivo,
per ciò d’udirvi maraviglia avia;
e se ’l mondo non è di tal uom privo
ben siam più ricchi assai ch’io non credia,
ch’io vi consento che sia fonte e rivo
del vero onore e di cavalleria.
Ma ditemi, vi prego, quel che voi
potete certo dir de i casi suoi».

13«Io vel dirò;» diss’egli «e’ non è molto
ch’io ’l vidi lieto e tutto sano,
quando il verno era più di ghiaccio involto
e c’ha il lume del sol breve e lontano.
E ch’io bene il conosca al pelo e ’l volto
non sia persona che ’l ritrovi strano,
perché mentre che ei visse in questo loco
non mi partii da lui molto né poco.

14Gli fui sempre scudiero e nel partire
mi fece cavalier, quantunque indegno.
Fui lungo tempo senza nuove udire
della sua vita in questo o in altro regno,
e per adempir or vostro desire
a raccontar com’’io l’ho visto vegno.
Io mi partii sei mesi sono intorno
di casa mia con un compagno adorno,

15adorno, armato, bello oltr’a misura
da far tremar il mondo e nulla vale.
Menava il verno la più gran freddura
come esso suol quando Aquilon l’assale;
trovammo in mezzo un bosco per ventura
ove la valle alla montagna sale,
disteso un padiglione, et alla porta
quattro ricchi scudier faceano scorta.

16I quai di noi dier nuove al lor signore,
sì ch’al nostro arrivar incontra viene
un cavalier che ’l viso dal calore
e dal freddo e dall’arme e dalle pene
avea di sì ferrigno e stran colore
che non l’avria riconosciuto bene
la madre istessa, non che i servi sui
che gran tempo lontan furon da lui.

17Avea seco una dama, la più bella
che vedesser di molto gli occhi miei,
e che seco restiam cortese appella
e ’l digiuno schivando e i freddi rei;
e che piacer faranne alla donzella
che non più tutta è sua ch’ei sia di lei.
il dever, il bisogno, il gielo estremo
fece accettarlo, e ’n terra discendemo.

18Quanto portar poteva il tempo e ’l loco,
pur da forti guerrier fummo trattati;
poi che di vin, di cibi e di buon fuoco
furono i nostri spirti ricreati
il mio compagno, il cavallier da poco,
il primo de i codardi e de gli ingrati,
si volge al buon signor, pregal che dica
se quella damigella era sua amica.

19Et ei cortese: – Mal non le voglio,
anzi le bramo onor, bene e contento,
e per conto d’altrui più che per mio
ch’io l’ho tolta a condurre a salvamento,
a chi molto amo e prego umile Dio
ch’aiuti in questo il giusto mio talento,
perché sempre sarò son pena e doglia
fin che ’l compagno mio non me ne spoglia -.

20Dunque dice costui: – Signor, vi pare
il menar una donna assai periglio? -.
– Sì (dice l’altro), ch’è molto da fare
tra ’l menar ben le mani e ’l buon consiglio:
s’un miglior cavalier vengo a incontrare
e che per mio dever la guerra piglio,
io cadrò in terra vinto et ella seco
piangendo andrà quando io la vorrei meco -.

21Al semplice parlar il mio compagno
seco sorride, e già disegna in seno
che questa era uom da far con lui guadagno,
e già d’amor verso la donna è pieno.
Parla aspro e grave, e fa l’occhio grifagno
da far tremar il ciel non che il terreno.
Tosto dopo mangiar, ché ’l giorno è breve,
montiam tutto a caval sopra la neve.

22Camminato non siam cinquanta passi
che l’indiscreto il suo cavallo sprona,
poscia il ritorna e ’ncontro all’altro fassi
et orgogliosamente gli ragiona:
– Convien che questa donna oggi mi lassi
o pruovi l’arme mia come sia buona -.
– Deh no (disse il guerrier), non fate cosa
ch’a gentil cavalier sia vergognosa.

23S’io non vi fui già mai se non cortese,
perché volete a me far villania? -.
L’altro, che il suo parlar per vil riprese,
ben crede certo allor che sua saria.
Io gli dissi ben pian (ma l’altro intese):
– Prendetela ora mai che vostra fia -;
tal ch’ei mi parla umil: – Sacciate certo
ch’anco questo da voi signor non merto.

24E vi fo fede, ancor che con ragione,
e con pace d’ogni uom guardarla ho voglia;
ma se bisogni pur farne quistione
forza mi fia, ma con estrema doglia,
e chi mi abbatta non avrà cagione
di dir che senza l’arme me ne spoglia -.
Il mio compagno, ch’ode le parole,
diventa fiero ancor più che non suole,

25e ’nvêr la damigella il passo ha volto,
e la pensa menar senza contesa.
Ride ella allor, e si fa lieta in volto
quando si scorge per la briglia presa,
e me tien senza senno e quello stolto
che ben sa il difensor suo quanto pesa.
Poscia ne dice: – Se voi fuste saggi
cerchereste per voi miglior viaggi.

26Non fate come quel che ben si truova
e va cercando il mal per medicina -.
Non sa parola dir che ne rimuova
dal van pensier ove follia ne ’nchina.
Il cavalier, che vede che non giova
per farci intender ben questa dottrina,
si fa dar il suo scudo e la sua lancia
per finir con nostra onta questa ciancia.

27E s’acconcia alla giostra, et io riguardo
che non ha l’elmo in testa e sì gliel dico;
egli a me volto con feroce sguardo
risponde: – Io vi ringrazio, come amico,
ma di esser a caval vile e codardo
mi tengo ancora e di valor mendico,
contra due soli a semplice battaglia
che non so l’uno e l’altro quanto vaglia -.

28Poi, rivolto a quell’altro, lieto in vista
gli dice: – E’ son passati oggi quattro anni
ch’io non ho rotta lancia buona o trista,
né provai d’arme gli onorati affanni.
Voi sète il primo alla novella lista
e guardatevi ben da i primi danni,
perché sì fresco e riposato sono
che non avrete usbergo che sia buono.

29E vi consiglio ancor che mi lassiate
in pace aver costei, che non è vostra -.
Ei, che le voglie avea più che ostinate,
no ’l vuol udir, e sol domanda giostra,
ma il buon guerrier, ch’avea molte fiate
e sopra maggior uom sua forza mostra,
con quanto può vigor sprona il cavallo
e ’l suo duro ferir non venne in fallo.

30Ché ’l suo destrieri e lui tutto in un monte
gittò per terra, e non gli valse usbergo,
ché gli passo la spalla e della fronte
stampò la neve e dell’armato tergo.
Troncosse l’asta e con parole pronte
quasi sdegnato co ’l celeste albergo,
disse: – O lancia infelice, rotta in vano
sopra un cavalier tristo e villano!

31Quanto più fortunata e d’altra forte
fu l’ultima ch’io ruppi e ch’io portai,
con la qual posi un cavalier a morte
de i più famosi che s’armasse mai!
Questo fu il franco Elionoro il forte -;
et io, che de i suoi detti m’avvisai,
conobbi ben che questo era Girone,
né mi potea fallir il suo sermone.

32Perch’io era in quei tempi suo scudiero
quando l’uccise, e mi trovai presente,
e mi venne in temenza, a dir il vero,
quando io mi vidi in man di sì possente.
Mi tirai in dietro, et ei che ’l mio pensiero
conobbe e la paura veramente,
mise mano alla spada per suo spasso
e ne vien verso me con ratto passo.

33Allor per riverenza e tema scendo
e gli lasciò il ginocchio e ’l piede abbraccio,
e non pur prigioniero a lui mi rendo
ma servo umil e schiavo me gli faccio.
M’accuso peccator, perdon chiedendo,
d’aver dato quel dì disturbo e ’mpaccio
a chi m’avea gran tempo nutricato
e, nel suo dipartir, troppo onorato.

34Resta ei meravigliato e mi richiede
ch’io gli racconti ch’io mi penso sia.
Rispondo: – Quel che più bontade e fede,
valor, senno, fortezza e cortesia
ch’ogni altro cavalier oggi possiede,
quell’anima gentil, ornata e pia
del mio primo maestro e gran padrone,
e per dir tutto in un sète Girone.

35Il vostro obligatissimo Eliano
son io, che v’ho seguito in ogni impresa,
che quattro anni ho cercato e monte e piano,
né di voi mai certa novella ho intesa.
Ringrazio il Cielo e ’l suo Motor sovrano
ch’io vi ho visto alla fine e non mi pesa
il morir più, da poi ch’io lasso in vita
chi è stato mia stella e calamita.

36Io fui già cavalier fatto da voi,
e da voi riconosco ogni mio bene -.
Egli sta alquanto, e mi risponde poi:
– Io non so qual Giron in cor vi viene;
un ne fu già che finì gli anni suoi
come per certo qui fra noi si tiene.
S’io vi fe’ cavalier troppo m’è caro
e vi prego a seguir cammin più raro.

37Né vogliate esser mai noioso e grave
ad uomo estran in questi o in quei confini.
Di Dio son figli e ’n sua difesa gli have
i poveri del mondo e i peregrini -.
Poi, come quel che d’udito esser pave,
cenno mi fa che più me gli avvicini,
e mi dice a l’orecchie: – Il restar senza
meco venir prendete a pazienza,

38ch’io me ne vo sì solo e sconosciuto
che di seguirmi voi vergogna fora.
Ma come il tempo buon sarà venuto
quel che mai fuste mi sarete allora -.
Così con cortesissimo rifiuto
il perdei il giorno e spero ad ora ad ora
di ritrovarlo tosto, s’a Dio piace,
e di mai non lassarlo in guerra o ’n pace».

Dell’apprendistato di Girone presso Galealto e di un’impresa di quest’ultimo (39-65)

39Qui finisce il suo dire, e ’l re, che presta
alle parole udite fede intera,
già nel suo cor assicurato resta
che l’un de i due che sopra l’arme nera
alla giostra portò la sopravesta,
ch’abbatté tutti da mattino a sera
è Giron senza fallo, che trovare
non gli parve mai forza a quella pare.

40E che l’altro compagno è Danaino,
per contrasegni assai seco ritruova.
Lieto n’è molto, e poi ch’egli è vicino
di Maloalto vuol mettersi in pruova,
di esser amico al cavalier divino
pria che d’indi e d’intorno il passo muova,
e di tal avventura ha più dolcezza
ch’avaro d’improvisa e gran ricchezza.

41E volto al cavalier molto il ringrazia
che sì buone novelle gli ha portate,
e di lodar Giron mai non si sazia
di cortesia, di forza e di bontate.
Poi gli domanda che gli faccia grazia
di raccontargli se di quella etate
che serviva Giron conobbe mai
Galealto lo Brun, ch’amava assai.

42E chi miglior teneva di lor due,
d’alta prodezza e di maggior possanza.
L’altro gli dice ch’alcun mai non fue
che ne possa il ver dir meglio a bastanza,
e ricomincia le parole sue:
«Un giudice sarebbe in gran dottanza
di chi devesse a l’un l’altro preporre,
e non dar troppo a quel né a questo tòrre.

43Perché fur cavalier così perfetti
che alla somma virtù mancò niente.
Ma Galealto con più grandi affetti
di maraviglia empié tutta la gente,
perché ne gli anni all’alte imprese eletti
era ei già giunto, e questo era apprendente
nell’età giovanile, ove la scorza
non amministra al cor sì ben la forza.

44E sendo domandato di Girone
rispondea Galealto ch’ancora era
non cavalier ma semplice garzone
di virtude incredibile et altera,
e quando fia nell’ottima stagione
avanzerà quel che di lui si spera,
«Non per compagno ma scolare il tegno
che vivendo di me sia stato degn».

45«Ben fu» rispose il re «soverchio ardito
chi di un tal cavalier così parlava,
e ch’aveva il suo core stabilito
che nessuno altro a lui si approssimava».
Esso replicava: «Egli era sì fornito
di quel che a buon guerrier più bisognava
che non disse mai cosa che poi l’opra
non restasse al suo dir sempre di sopra.

46E tra l’altre io ne vidi una cotale
ch’ogni nostra credenza vinta avrebbe:
sei mesi appresso del cristian natale,
che d’esser cavaliero il titol ebbe
il cortese Girone e sotto l’ale
di Galealto d’onoranza accrebbe,
l’un e l’altro di corte si partio
con una damigella, un altro et io.

47E cavalcando per sollazzo un giorno
giungemmo stanchi a piè d’un alto monte,
sudati tutti in florido soggiorno
ci riposammo al fine a piè d’un fonte.
Noi ci ad dormiamo, e i due signori intorno
là dove l’ombra difendea la fronte,
eran giti a diporto ma disgiunti,
secondo che ’l desio gli aveva giunti.

48Dentro una torre alla montagna in cima
d’un feroce gigante era l’albergo;
discende in basso e li ritrova in prima
la bella donna, e d’improviso a tergo
l’abbraccia, e di securo averla stima.
Grid’ella, io mi risveglio e la fronte ergo,
e veggione portar la nostra dama
ch’or questo or quel nel suo soccorso chiama.

49Noi seguiam l’altro et io di costui l’orme,
ma forze non aviam né quello ha tema.
Sente tosto Giron, perché non dorme,
corre ove noi gridiamo e quella trema;
domanda del gigante ch’io l’informe
et io gli narro la grandezza estrema,
ma ch’esso è disarmato; et ei che ’ntese
spogliò l’altre arme né la spada prese.

50Quanto può corre e sulla mezza costa
assai veloce il gran gigante arriva,
che la donna posando a lui s’acosta,
lo abbraccia, il scuote e ’l getta su la riva,
sì che rizzar non si puote a sua posta;
in questo torna alla fontana viva
il forte Galealto, e poi ch’egli ode
il caso tutto di furor si rode.

51Chiamami perché io ’l segua e ch’io lo scorga
ov’è il gigante e la sua preda insieme;
comanda poi che nullo aiuto porga
ché la vergogna più che ’l danno teme.
Vegnamo ove non par che più risorga
Giron, che faccia un uom cui morte preme,
l’ha percosso e gittato il monstro crudo
sotto un gran tronco, di pietade ignudo.

52Galealto che ’l vede forte grida:
– Lassa ir, villano, i debili garzoni,
riguarda un uom ch’a morte ti disfida,
che forse ti parrà per tre lioni -.
Se gli volge il gigante e par che rida,
schernendo altero i gravi suoi sermoni;
poi gli domanda: «Se sì forte sète,
ditemi il vostro nome se volete».

53- Non vi sarò di questo poco avaro;
io son (gli disse) Galealto il Bruno -.
L’altro risponde: – Io vi tengo anco caro,
né di vostra notizia son digiuno,
ma il padre vostro al terren nostro amaro
ho ben più conosciuto, e so ch’alcuno
non fu più forte mai né valoroso,
et io ciò pruovo e non ne son gioioso,

54ch’egli uccise mio padre e due fratelli
ch’allor aveva, et io sol scampai
per questi boschi, ch’ebbi i piè più snelli
che gli altri miei, che morti ritrovai.
Or poi che vendicar non posso quelli
contro ad Ettore il Brun, ch’è morto omai,
sopra voi sarà fatto, e ’l Ciel ringrazio
che mi vuol far di vostro sangue sazio -.

55Sorride Galealto, e poi gli dice:
– S’a scampar già del padre mio le mani
vi fu la sorte assai più che felice,
non scamperete omai le mie, ch’a i cani
non vi faccia oggi qui preda infelice,
come son degni vostri par villani -.
Poi s’apparecchia a guerra, et io che ’l veggio
pur andar senza spada una ne chieggio.

56E per onor e tema grido allora:
– Deh prendete, signor, questa mia spada,
che senza vostro danno il crudel mora,
né si buon cavaliero a rischio vada -.
Diss’ei cruccioso: – Or tacito dimora,
né mi mostrar in ciò l’ontosa strada:
non stimo il brando mio cotanto poco
ch’io ’l voglia insanguinar in sì vil loco.

57S’io non avessi ferito un tal villano
no ’l vorrei più portar né veder anco -.
Poi se gli avventa sopra a mano a mano
e ’l prende ove l’aggiunge a mezzo il fianco;
lo scuote e batte sì selvaggio e strano
che la lena e lo spirto gli vien manco,
e chi soleva abbatter otto o diece
per la forza d’un sol la sua fin fece.

58Cadde come un fanciul tenero e frale
disteso quanto egli è più lungo in terra.
Poi con un pugno che per mille vale
gli ha il cervel rotto e finita la guerra.
Indi va invêr Giron, ch’ancora ha male
sì che la vista e ’l capo gira et erra;
l’alza, l’aiuta, l’accarezza e cura,
come il buon padre che ’l figliuol procura.

59Poi gli disse: – Girone, or vi sovvegna
che voi non sète tal che vi stimate;
per esser cavalier convien che vegna
con la forza la pratica e l’etate.
In un giovine cor sovente regna
onorato desire e volontate,
ma il valor, la prodezza e ’l buon discorso
s’assembran soli in chi molti anni ha corso -.

60Sì sdegnato è Giron, sì mal contento
di quel che egli ode e che confessa certo
che lassar Galealto avea talento,
ma il buon signor il vieta a viso aperto.
Poi ’l conforta, e gli dice che spavento
di ciò non aggia, perché poi ch’esperto
sarà nell’arme alquanto ha fede in esso
che null’altro guerrier gli arrivi presso.

61E gli ricorda poi ch’a giovinetto
ben si convien lo sdegno alcuna volta,
ma non si tenga lungamente in petto
perché in biasmevol l’ira si rivolta.
E sopra tutto aver giusto rispetto
all’età vecchia, e saggio è chi l’ascolta,
che in un dì può insegnar quel che mill’anni
non c porrien mostrar con mille affanni.

62E che fugga l’error de gli altri tanti
ch’alle moderne cose dan sol fede,
né lodar sanno color che furo innanti
et a chi gli ricorda non si crede,
mille altri essempi producendo avanti
di quel che fra gli antichi esser si vede;
così facendo al giovane Girone
come all’invitto Achille il buon Chirone.

63Ammonendolo appresso ch’a vergogna
non si tenga or se vinto l’ha il gigante,
perché forz matura aver bisogna
per tener contro a tal salde le piante.
Ma venuto all’età che più si agogna,
che ’l mezzo giorno del mortal Levante
i sei passati intorno a i sette lustri,
tutti altri avanzerà possenti e ’ndustri.

64E ch’ei medesmo, ch’è di salda etade,
a pena contra lui seppe a bastanza
che ’n quelle prima e poi in altre contrade
trovata non avea simil possanza.
E ’n somma tanto fa che di rugiade
s’empion gli occhi a colui ch’ogni altro avanza;
perdon gli chiede, e servo a i detti suoi
ritornò sì che non partì da poi».

65Quando ha finito il re tacito resta,
tutto pensoso, e ’l cavalier domanda:
«Forse il mio ragionar già vi molesta?
Io no ’l noierò più se mel comanda».
Et egli, in guisa d’uom ch’allor si desta,
si scusa e quanto può si raccomanda
che non ne sia degnato, ché ’l dolore
di non aver mai visto un tal valore

Di una grande impresa di Galealto contro il Cavaliere Senza Paura e Meliadusse (66-98)

66era cagion che sì pensoso stesse,
e poi il riprega che gli piaccia ancora
di raccontargli, che giudicio fesse
de i giovin cavalier ch’erano allora
ove il re Pandragon soggiorno avesse,
i cui gran fatti tutto il mondo onora.
«Di quai mi dite voi?» soggiunse quello
«Per ch’eran molti nel reale ostello.

67Tra quai l’un di Benico era il re Bano,
l’altro dicean di Gave il re Boorte,
Senza Paura il Cavalier umano,
di Listenesse l’Amoratto forte,
di Gallia Faramonte il re sovrano,
il re Meliadusse d’alta sorte,
signor di Lionese, a lui vicino,
era poscia il re Laco e Danaino.

68Fuor che questi otto io non saprei contare
altro uom di pregio e di nomarsi degno».
«Di tutti questi or che solea parlare
il vostro Galealto e di quel regno?»,
il re domanda, et ei: «Molto lodare
che di tutti altri trapassasse il segno
l’Amoratto gli vidi, ma nondimeno
più che di forse, di buon core in seno.

69Dicea del Cavalier Senza Paura
questo medesmo, e maraviglia avea
di chi buono il chiamò senza misura,
perché qual sia valor poco intendea,
che chi forza non ha sopra natura
che buon guerrier non fusse gli parea,
che chi saldo have il core e fral la possa
spesso ha guasto il suo onor e rotte l’ossa.

70E ben il potea dire arditamente
ch’ei fu più che lion di forza assai;
io gli vidi pur far subitamente
due più bei colpi che saran già mai,
e le virtù vitai quasi già spente
erano a quel che prima le trovai».
Il re gli chiede allor che a contar questo
non gli sia più che l’altro anco molesto.

71«Io ’l dirò,» disse il vecchio «e quando fosse
e sopra chi, come l’udiste spesso:
il primo al franco re Meliadosse,
al Cavalier Senza Paura appresso».
Divennero al buon re le gote rosse
sentendo il danno e l’onta di se stesso,
pur ascolta intentissimo e colui
segue il suo conto e non riguarda in cui.

72«Nell’ultimo anno che cavalleria
Galealto perdé, ch’era il suo fiore
verso Norgalle, avea preso la via
per trovar una donna che nel core
già gli avea fissa di gran tempo pria
nobile, onesto e ben lodato amore,
né ben sano era ancor d’una ferita
che ’l tenne in gran pericol della vita,

73la quale a Roestotto al torneamento
ebbe, quando con essa ebbe vittoria.
Noi n’andavano insieme a passo lento,
di ciò che n’avvenia facendo istoria,
lodando or questo or quel com’è l’intento
di chi segue il cammin di vera gloria,
e stanco essendo pur volse riposo
prender sul giorno in luogo fresco, ombroso.

74Fa disarmarse, e mentre si rinfresca
vede passar un cavalier davanti
che par che dall’abisso e di morte esca,
tanto aveva dolor ne i suoi sembianti.
A Galealto par che ne rincresca,
ché troppo amava i cavalieri erranti;
lo squadra e guarda, et ei non vede noi
così pensoso va de i fatti suoi.

75Era grande e ben fatto et a maraviglia
e senza altro color tutto era verde.
Lodalo il mio signor, e piacer piglia
di veder il valor che si rinverde,
et a guerrier famoso l’assimiglia
se natura il suo dritto in lui non perde,
né di molto era ancor da noi passato
ch’uno scudier veggiam tutto affannato,

76e ne dice: – Signor che in ozio sète,
perché più bella e nobile battaglia
che fusse mai vedere or non volete
che qui molto vicina si travaglia,
tra due guerrier ch’io credo che direte
che l’uno e l’altro mille mondi vaglia? -.
– Troppe gran cose dite, pur io voglio
veder questo miracol ch’io non soglio -.

77Così rispose il Bruno, e fa portarse
l’arme e veloce sul caval rimonta.
Poco oltra va ch’a noi vicin mostrarse
un cavalier veggiam pien d’ira e d’onta,
ferito in petto sì che non può atarse,
ma va come colui che i passi conta,
sospirando, piangendo e pien di duolo
qual vecchia madre cui muore figliuolo.

78Salutal Galealto, e poi gli dice:
– Di che sète, signor, doglioso tanto?
Or non sapete voi che si disdice
a cavalier errante aver mai pianto?
Il caso avventuroso o l’infelice
non deve il cor cangiar mai tanto o quanto
a chi si cinge spada, e nulla sorte
ha da temer né pur l’istessa morte -.

79- Ah (disse il cavalier), se fusse noto
a voi com’a me troppo il mio gran danno
non mi terreste di virtù sì vòto
che qual uom femminil prendessi affanno;
se mai fuste ad Amor servo o divoto,
signor, vi risovvegna come stanno
quei che perdon l’amata, e non han via
di trarla fuor dell’altrui forza ria -.

80Il Brun gli replicò: – Vostra è la colpa
se non sapeste far per lei difesa.
Sovente il Cielo e la fortuna incolpa
tal che solo a se stesso ha fatta offesa -.
– Or (disse quel meschin) di ciò mi scolpa
la gran piaga ch’io porto, e che mi pesa,
perch’ucciso non m’ha; poi vi prometto
che chi l’ha fatta è cavallier perfetto -.

81- Or se la ricoverasse e dolce dono
un caro vostro amico ve ne fesse? -,
gli fece il Bruno, et egli: – In abbandono
sarei del tutto alle sue voglie stesse -.
E l’altro: – Andiamo, e proverò s’io sono
quel che ’l Cielo altra volta mi concesse.
Non v’incresca venire e veder meco
s’al disegnato fin l’impresa reco -.

82Così non molto lunge il piè movemo
che veggiamo attaccata una quistione
tra due che mostra lì valore estremo
et esser buon guerrier di paragone.
Fermasi il Brun, quando presenti semo,
che sembra sbigottito su l’arcione
ch’esamina la cosa, e quel si pensa
ch’allentata gli sia la voglia intensa.

83E mezzo in cruccio gli ragiona allora:
– Or ben veggio io quel ch’io pensava prima
quando un dal praticar lunge dimora:
spesso più del dever sue forze estima
ma poi che d’adoprarle è giunta l’ora
va in fondo speme e la temenza in cima.
S’omai di far più oltra non vi aggrada
il miglior fia ch’a medicarmi vada -.

84- Non (disse sorridendo Galealto)
troppo tosto di me mal giudicate;
io sono entrato in pensier dubbio et alto
per comprender chi ei sien, non per viltade,
ch’io non so la cagion di questo assalto
né saprei giudicarlo in veritate,
se non ch’io so che l’uno è tutto verde,
candido è l’altro sì che il late perde.

85Ditemi or voi chi sono i cavalieri
e perché fan battaglia in questo loco -.
– Chi sian non so, ma ben irati e feri
son per cagion di chi mi tiene in foco,
e chi mi tolse i miei diletti interi
è l’argentato, di statura un poco
minor che l’altro, et ella dentro stassi
nel padiglion con occhi molli e bassi.

86E se volete far quel che si è detto,
buona è l’occasion se ’l cor non manca -.
Così diss’egli, e ’l saggio Brun perfetto
con la persona pur piagata e stanca,
lassa il destrier dicendo: – Gran difetto,
poi ch’io veggio la parte verde e bianca
esser a piè, farei se a caval sendo
proponessi la guerra dov’io intendo -.

87Prende il suo scudo e ne va dritto a loro
e dice: – Signor miei, restate alquanto
se ci è in piacere, e ditemi quai foro
le differenze che n’affannan tanto -.
Al parlar realissimo e decoro,
i due guerrier si ritirar da canto;
poi gli risponde il candido signore:
– A questo travagliar ne ’nduce Amore,

88ch’una donzella ho io per virtù d’arme
contra un buon cavalli ero ora acquistata;
vien questo appresso che la vuol levarme,
io la difendo come cosa amata,
né porria, credo, tutto il mondo farme
forza cotal ch’ella mi sia levata
da chi non mi leva anco questa vita
ch’è d’onor solo e di valor nutrita -.

89Dice allor Galealto: – Amici miei,
or non sia più tra voi disputa in vano,
che restasse a qual vuole io l’averei
vincendo il vincitor con questa mano,
ch’io l’ho promessa, né mancar vorrei,
di ritornarla al cavaliero strano
da chi fu tolta; or la date voi
o la torrò mal grado di ambe duoi -.

90Quando colui che ’l scudo avea d’argento
ode così parlar, si pensa seco
che non sol ha di senno mancamento
ma folle in tutto e della mente cieco,
e risponde: – Signor, io non consento
che ’l mettiate ad effetto sol con meco,
non che con l’altro insieme, il quale stimo
tra i primi cavalier secondo o primo -.

91- S’io non potrò ciò far e con Dio sia
voi ’l vederete, e si difenda ogni uno,
ch’ove arbore miglior frutto non dia
vi pianta il buon cultor la siepe o ’l pruno -.
Così detto fra lor si fa la via
con la spada onorata il forte Bruno,
percuote il verde primo il più membruto
del maggior colpo ch’egli avesse avuto,

92sì che il riversa tramortito in terra,
né per un’ora almen ritornò vivo;
lo scudo e ’l brando in mezzo il cammino era
che dell’uno e dell’altro è fatto privo.
Sopra il secondo poi ratto si serra
che d’aspettarlo non si mostra schivo;
parte il scudo argentato e fu ben presso
a tagliargli la man quel colpo istesso.

93Quando si vide il bianco in questo stato,
si tira indietro per rifarsi ancora,
ma qual leone al toro abbandonato
s’avventa il Brun nella medesima ora,
prende l’elmo e tosto disarmato
gli ha il capo intorno, e della strada fuora
ben lunge il getta, e sì gli dice poi:
– Parmi finita la quistion fra noi;

94or ritrovarete omai l’altro compagno
e finite fra voi la lite vostra,
ma dovunque alla fin resti il guadagno
la damigella intendo che sia nostra,
et al suo primo amante l’accompagno -.
Poi ritrova ove colui la mostra
nel padiglione, e la gli dona e dice:
– Gite contenti pur, coppia felice -.

95Il ringrazia umilmente, e poi gli offerse
il cavaliero estran la propria vita.
La donzella di lagrime coperse
gli occhi, e la vaga guancia colorita;
vuol baciargli la man, ma no ’l sofferse
il Brun cortese, et ella c’ha impedita
per dolcezza la lingua alla fin pure
scioe tai parole semplicette e pure:

96- Mentre ch’Amor darà gioie e dolori
a i suoi servi fedei meschiate insieme,
mentre porrà ne gli impiagati cori
sommo gielo e calor, timore e speme,
mentre neve avrà il verno e l’april fiori,
cortesia quel che son di nobil seme,
sarò vostra, signor, vi avrò nell’alma
onorata, amorosa e chiara salma -.

97Indi rivolta al caro suo campione
l’abbraccia al collo e non sapea staccarse.
Domandal come stia, dagli ragione
de i suoi danni ove fu per disperarse.
Galealto di tutto ampia cagione
non potea pur da tal vista levarse,
ringrazia il Ciel divoto e ’l prega appresso
che sì belle avventure gli dia spesso.

98Così tosto partimmo e fu la sera
il nostro albergo un basso eremitaggio,
ove detto ne fu per cosa vera
come essi erano i due che narrato aggio:
Meliadusse la persona altera,
di Lionese il re possente e saggio,
e ’l forte Cavalier Senza Paura,
tesor del cielo e pregio di natura».

Dei racconti che un vecchio fece a Galealto e Girone su Ettore il Bruno e il suo amico Abdalone (99-161)

99Finito il suo narrar costui si tace,
e ’l re Meliadusse d’altro canto,
cui ben nella memoria tutto giace
che l’ha sentito e gli donava il vanto
in guerra di prodezza e nella pace
di cortese bontade, e ’n questo tanto
il buon vecchio gli dice: «L’ora è tarda
a chi il dormir più che ’l parlar riguarda».

100Vuol licenza pigliar, et è pregato
dal re con lui posarse; et ei s’accorda,
ché cavalier gli sembra assai pregiato
e dell’antica usanza si ricorda.
Ingombrato è ciascun dal sonno alato
e da nera oblianza cieca e sorda,
infin che vien l’aurora in bianca vesta
al cui sacro apparir ciascun si desta.

101Vuol partir pur il vecchio, il re di nuovo
ch’ancor sia seco un giorno lo scongiura,
e quel: «Sì ben con voi d’esser mi truovo
ch’un dì per un momento non mi dura;
ma infin che a ricercar non mi ripruovo
il mio primo signor ho troppa cura
dentro il cor sempre, e parmi ogni ora una anno
d’esser a Maloalto ove ei si tanno.

102Pur esso replicando al fin ottiene
ch’un giorno ancor gli tenga compagnia.
Il re dentro una camera si tiene
ch’esser riconosciuto non vorria,
poi ch’a le mense di vivande piene
han cacciata la fame ch’avean pria,
il re vago d’udir vie più che innanti
parlar de i primi cavalieri erranti,

103gli ridomanda pur s’ha conosciuto
di Galealto il padre, Ettore il forte.
Risponde allor che mai non l’ha veduto,
ma di lui molto udì parlare a sorte
nel reame d’Orcania, ove venuto
era per visitar la bella corte,
«E se non vi dispiace volentiere
vi narrerò di lui novelle vere».

104E ’ncominciò: «Nel tempo che seguiva
Galealto Giron come io v’ho detto,
spesso a ragionamento si veniva
che più il padre o ’l figliuol fusse perfetto,
e quando Ettore più pregiare udiva
venìa cruccioso il fero giovinetto,
dicendo: – Io penso che nessun mortale
fu né fia mai di Galealto eguale -.

105Et esso al suo parlar gli rispondea:
– Taci, ti prego, o semplice garzone,
che se veduto avessi quel che fea
saresti ben d’un’altra opinione.
Per dieci de i miei pari e più valea
e n’avria fatto abbandonar l’arcione,
che ciò ch’io seppi mai da lui si parte
né di mille apprendei sola una parte -.

106No ’l credeva Giron, pensando in seno
che cortesia più che ’l dever il faccia.
Occorse un giorno, essendo nel terreno
che ’l re d’Orcania con sue forze abbraccia,
ch’un vecchio cavalier sì d’anni pieno
c’ha rugosa e bianchissima la faccia,
che avea cento anni almeno e forse piue
lieto n’accolse nelle case sue.

107Avea già tutte inutili le membra,
me per i suoi servi ne fe’ chiamare.
Al nostro apparir sì lieto sembra
che cose non avea di noi più care,
che de gli anni più forti si rimembra
veggendo i due guerrier che non han pare.
Gli fa sedere a canto, gli accarezza
e di fargli immortai mostra vaghezza,

108dicendo: – Un tempo fui quel che voi veggio,
cortese cavalier quanto è richiesto;
del valor non dirò, ch’io fui de i peggio
ma pur nell’arme ammaestrato e desto.
Or che non posso aitarme altro non chieggio
che di veder qualche guerrier onesto
che vesta l’arme per bontà di core
per cortesia, per fame e per amore -.

109Dopo infinite grazie che rendeo
al suo benigno affetto Galealto,
– Se Dio vi guardi d’ogni caso reo
(disse) ora in terra e poi vi chiame in alto,
ditene: quanti il sol viaggi feo
mentre seguiste il marzial assalto? -.
Et ei: – Sacciate ben ch’a quello stento
fui sessanta anni e n’ho passati cento.

110Né torneamento fu, giostra o battaglia
ove io potessi gir ch’io non andassi;
ma per narrar il ver cosa che vaglia
non fei già mai né che mi contentassi,
ben ho sempre com’uom che assai travaglia
speso sangue, sudor, fatiche e passi,
e fei già cose che lodate furo
ma sempre al mio parer fui basso e scuro -.

111- Lasciam (rispose il Brun) che questo cade
nel nostro più che nel parer di voi,
ma ditemi, vi prego, in vostra etade
chi fu il più grande e ch’avanzasse altrui -.
Il vecchio cavalier dice: – Son rade
l’escellenza dell’arme, ma pur dui
ne conobbi perfetti, e quel nemico
un gran tempo mi fu, quest’altro amico.

112Ma quel nemico fu maggior assai
e tutti altri avanzò senza contesa;
mi tenne un tempo in molti affanni e guai
e più d’una mi fe’ mortale offesa.
Poi mi ritornò tal ch’io l’adorai
e si fece per me schermo e difesa,
sì che mi trasse al fin d’acerba sorte
di vita cruda e di villana morte.

113E questo ond’io vi parlo Ettore il Bruno
fu nominato, e tutto il mondo valse.
L’altro che dopo lui sopra ciascuno
di pregio, di valor più in alto sale,
e vinto di beltà fu da nessuno
tal che più d’una donna n’arse et alse,
era il bello Abdalon, ma di coraggio
e di forza ebbe l’altro assai vantaggio -.

114Il cortese Giron, che pur non vuole
creder di Galealto alcun paregge,
del buon vecchion riprende le parole
come colui che pensa che vanegge,
e dice: – Ragion è che s’ami e cole
il tempo ove si nasce e la sua legge,
ma non pensate voi ch’oggi ne sia
eguali a quei nella cavalleria? -.

115L’antico cavalier tosto risponde:
– Non certo, figliuol mio, non vi ingannate,
che la natura e ’l Ciel men forza infonde
e men virtù che nell’età passate.
Dieci oggi prenderei dove più abbonde
di valor, di prodezza e di bontate,
e crederei che i due ch’io vi ragiono
rompesse quei come le nubi il tuono.

116E ve ne potrei dir pruove infinite
maggior di questa e certo le vidi io,
le quai mi dotto quando avrete udite
m’avrete forse per bugiardo e rio,
e pur fia così vero il parlar mio
come di cose sante e stabilite -.
No ’l può soffrir Girone e si dibatte
come in chi il senso e la ragion combatte.

117Or Galealto, che Girone ha visto
che del buon cavaliero i detti sprezza,
onde l’altro ne vien cruccioso e tristo,
con quella più che sa mostrar dolcezza
gli dice: – Signor mio, gran senno acquisto
in sentirvi parlar di quella altezza
ch’ebbero in virtù d’arme i padri nostri,
però prego seguiate i parlar vostri,

118e ’l mio compagno, che per gioventude
ben che men paia all’ascoltar intento,
tanto amico è di gloria e di virtude
ch’avervi udito poi sarà contento -.
Or quel che quasi irato a Giron chiude
la canute sue labbia et alza il mento,
si volge al Brun dicendo: – Or sono io lieto,
ch’io vi veggio guerrier saggio e discreto.

119Né tenuto vi avrei di grande stima
se non vi compungeva onesta voglia
di cosa udir che mai né poi né prima
simile ad essa raccontar si soglia,
di prosa alta degnissima e di rima
ch’ogni antica eloquenza e senno accoglia;
e poi ch’avete di ascoltar desire
vi dirò proprio il ver senza mentire -.

120E ’ncomincia: – Signor, molto è ch’avenne
ch’Esovam, di Carmelide signore,
che gran titol di re sovra essa tenne,
fu congiunto a quei tempi in vero amore
al buon Ettore il Bruno, e seco venne
lassando indietro ogni reale onore
con due scudieri, e ’n brevi giorni corre
per sorte dietro il regno di Estrangorre.

121Cavalcando ivi in tutto punto armati
e con l’elmo alla testa ricontrarlo
il leggiadro Abdalon, ch’anch’ei lassati
tutti avea quei che già l’accompagnaro.
Seco una donna avea, di più lodati
sembianti e di tal viso bello e raro
ch’ella avanzò tutte altre de i suoi tempi,
sovrano essempio di celesti essempi.

122L’ama il bello Abdalon ch’una sola ora
non penseria di viver senza lei,
ove in viaggio va, dove dimora.
in guerra, in pace vuol presso costei.
E non pur esso ma se ne innamora
ogni uomo in terra e credo in Ciel gli dèi;
è veramente degna di colui,
che non ebbe in beltà simile a lui.

123Or quando Ettore il Brun la donna vede
come guerrier famoso e d’alto affare,
all’amorosa face il suo cuor cede
e gli prende desio costei menare,
e senza più pensar rivolge il piede
verso il guerrier che valoroso appare,
e gli dice: “Signor, per cortesia
ditemi se coi voi al donna sia”.

124“Sì,” disse l’altro, “ma per qual cagione
mi fate voi, signor, domanda tale?”.
Rispose Ettore: “Assai fuor di ragione,
e ch’a buon cavalier starebbe male
che ’n non far dispiacer sua cura pone
come voi, credo, e chi nell’armi vale,
ma come ciò s’appelli io voglio avella,
se non prendete voi l’armi per ella”.

125Ride Abdalon, e poi il riguarda in volto
e gli dice: “Varletto, se vorrete
donna menar vi affannerete molto
e ’n altra parte al fin vi provedrete,
o vi avvedrete almen d’essere stolto;
con tanto sangue ve la comprerete
e non vi basterebbe una ora sola:
sì ben m’apprendo quei della mia scuola”.

126“Come,” risponde Ettor “tal sète voi
ch’a difenderla meco avete spene?”.
Replicò l’altro: “Ei son dieci anni poi
ch’io provai d’arme l’onorate pene,
né ritrovai chi con gli arnesi suoi
si tenesse a caval mai così bene
che non cadesse e fusse egli una torre”.
“Tosto adunque il vedrem” gli dice Ettorre.

127Io, che mi venìa con Abdalon il bello,
mi facea di costui gran maraviglia,
et esso stupefatto era a vedello
né saziar puonne le crucciose ciglia,
ma quanto il mira più, più vago e snello
gli pare, e ch’ad uom prode si assimiglia.
Poi dolcemente gli domanda: “Come
siate appellato e quale è il vostro nome”.

128“Non ve ’l vo’ dir per ora” il Brun rispose,
“infin ch’io non vi mostri a lancia e spada
s’io son tralle persone valorose
degno d’andar per la più altera strada”.
“Or lassiam adunque andar tutte altre cose”,
gli dice il bel, “e così far vi aggrada”.
S’apparecchia alla giostra e correr lassa
l’uno incontro dell’altro e l’asta abbassa.

129Fu il ripercuoter del Brun sì grave e duro
che ’l caval d’Abdalon et esso insieme
cadde come veggiam talora un muro
che l’iberno torrente in alto preme.
Ruppe il collo al destriero et io vi giuro
ch’ogni volta ch’io ’l narro avvien ch’io treme.
Ciascun diria che fu folgore ardente
che gli fe’ allora cader veracemente.

130Sì drizzò tutto ontoso e disperato
il feroce Abdalon, ma il caval giace.
Tosto che ’l vide a terra dismontato,
Ettore il Brun, che non vuol anco pace,
trae fuor la spada et esso da un lato
si tira, e “Signor (dice), se vi piace
bastivi questo colpo infino a tanto
che con voi ragionato averò alquanto”.

131IL forte Brun cortese glielo accorda,
l’altro comincia: “S’io vi conoscea
com’or davanti non saria discordia,
mia voglia stata come allor parea.
D’avervi visto mai non mi ricorda
e vi conosco per mia sorte rea
avendo fatto più che mai nessuno,
ond’io dirò che sète Ettore il Bruno.

132Già son dieci anni che la prima nuova
di voi mi venne, e da ciascun fu detto
ce senza fallo voi per ogni pruova
erate in terra il cavalier perfetto,
e ch’a voi similiante non si truova
fuor ch’io, non men di voi da Marte eletto.
or ben veggio il contrario, e certo affermo
che miglior sète, più sicuro e fermo.

133Perch’io vi dico omai senza ritegno
che me medesmo e la ma donan cara
rimetto in vostra man, ch’ad uom sì degno
esser mai non devria persona avara”.
L’altro, che scorge a manifesto segno
che non si troverria virtù sì rara,
se non in un, fra sé dice: – Egli è questo
che val più sol che tutto insieme il resto -.

134“Io v’ho desiderato di vedere
quasi dal primo dì ch’io portai l’arme,”
gli risponde egli “o franco cavaliere,
e qual voi me di voi conoscer parme,
che s’a voi fu disgrazia di cadere
a me somma ventura di salvarme.
Il bello Abdalon sète e per un colpo
non me più onor né voi troppo incolpo.

135Torto saria ch’un solo incontro scuopra
la viltade o ’l valor ch’un in sé chiude.
Io non vi fei cader per mia buon’opra,
né voi cadeste a falta di virtude;
il vostro fral destrier vi cadde sopra,
il mio fu saldo come ferma incude.
Ma il voi rimetter e la donna vostra
tutto in mia man la vera altezza mostra.

136E ve ne rendo grazie senza fine,
quali a sì gran guerrier dovute sono,
e delle sue bellezze pellegrine
e del vostro valor vi faccio dono.
Ma poi c’han fatto le virtù divine
ch’io vi son parso a questa volta buono,
fatemi una sol grazia, qual io spero,
ch’onor vi tornerà lodato e vero”.

137“Domandatela pur” dice Abdalone,
“che se possibile è, fatta vi fia”.
Il Brun gli scuopre che sua intenzione
è di star seco sempre in compagnia,
né gli possa partir tempo o stagione,
né fortuna, quai vegna, buona o ria:
“Voi sète il miglior uom che lancia porte,
io sarò qual vorrà la nostra sorte”.

138Quando Abdalon la sua domanda udio,
si gittò tutto innanzi genuflesso,
e dice: “Testimon ne chiamo Dio
ch’io ho sempre bramato questo istesso;
voi scorta, voi fratel, voi signor mio
sempre m’avrete ove girete appresso,
e sì ricco oggi son ch’io non ho invidia
a quanti ebbe mai re Persia e Numidia.

139E ne ringrazio voi, signor cortese,
che di quel ch’io non son mi fate degno”.
E tal fra lor congiunzion si prese
che mai nulla in amor passò quel segno,
né mai nacque nascosa né palese
invidia, inimicizia, ira o disdegno.
E poi c’ho conto il lor fraterno amore
solo un saggio dirò del lor valore.

140Poi che stando così passàr due anni,
avvien che ’l re della Noromberlanda
tiene assediato in perigliosi affanni
un castel molto forte d’ogni banda,
e temendo il signor gli ultimi danni
al fratello Abdalon si raccomanda,
ei della Stretta marcia signor era,
che non voglia soffrir ch’a forza pèra.

141Al suo nobil compagno tutto conta
et egli mostra d’aver soverchia tema
che ’l suo german riporti o morte od onta
e venga il suo terreno all’ora estrema.
“Ah,” disse il Bruno “il vostro cor che monta
più su che Marte or s’avvilisce e trema?
Non al sommo valor del tutto poggia
chi pe cosa che sia paura alloggia.

142Or non sapete voi la vostra forza,
non sapete la mia, ch’è vostra sempre?
Se gli inimici fien d’umana scorza
e i nostri brandi avran l’usate tempre
non altrimenti l’onda il foco ammorza
o fa il sol che la neve si distempre
che noi farem di quei se fusser poi
tre volti tanti contro ad ambe duoi.

143Deh non si cerchi omai di nuova vita,
bastin queste due spade e queste mani
in cui più gran virtù ritruovo unita
che in altri quanto son pressi o lontani.
Sia l’alta impresa nostra stabilita,
oggi sia in punto e partirem domani
ch’a gli animosi casi l’intervallo
vien dannoso sovente senza fallo”.

144Si riconforta il Bello e fa risposta
che ben il riconosce senza apre,
e che l’invitta aita c’ha proposta
sendo presente lui non può mancare.
Già il sole al mezzo dì ratto s’accosta,
già si comincian l’arme a visitare,
già de i miglior cavai fanno al scelta
di possente persona, addritta e svelta.

145Fangli vòti menar perché poi sieno
al bisogno più snelli, freschi e forti.
Non molto van che già son nel terreno
che dal re ricevea gli oltraggi e i torti;
era l’ora di prima o poco meno,
quando si son de gli inimici accorti,
che fuor de i padiglioni avean fatto alto
per donar al castel l’ultimo assalto.

146Quando scorse la coppia il tutto in punto,
secondo l’onorato suo desire
ha di tanta allegrezza il cor compunto
che quasi non sapea che far né dire.
Ma il valoroso Bruno al suo congiunto
alto parlando gli raccresce ardire:
“Quelle insegne, quelle arme e quella gente
fieno in breve ora di sconfitte e spente.

147Or montiamo a cavallo e facciam mostra
se noi semo i guerrier che ’l mondo estima.
Altro fia ciò che torneamento o giostra
di più ferro è mestier, di più gran lima”.
Io mi fo innanzi e dico: “Della vostra
vorrei che fusse la mia lancia prima
a ferir tra costoro, e farò in guisa
che non, forse, sarà da voi derisa”.

148Guardami Ettore in viso e poi mi dice:
“Dunque d’esser fra noi vi fate ardito?,
che ben sapea ch’io non fui sì felice
com’essi in arme e cavalier compito,
pur m’avea visto far quanto più lice
a guerrier che non sia tristo e fallito;
e volete esser nosco a sì gran fatti
che chi poscia il saprà ne terrà matti?

149“Ah (diss’io), signor, mio nullo ha periglio
ove è la compagnia di Ettore il Bruno”.
Et ei ridendo e con gioioso ciglio:
“Di ciò sempre vi dèe lodar ciascuno;
poi che ’l bramate, or fate ormai vermiglio
l’audace ferro e senza dubbio alcuno
vittoria avrete e noi vi seguiremo
con l’aiuto del Ciel quanto potremo”.

150Quando io sentii l’altissime parole
del maggior cavalier che fusse mai,
mi confortai qual si ravviva al sole
rosa d’april poi ch’è piovuto assai,
e come al confortar del pastor suole
fero mastino al lupo me ne andai,
contro a tutto quell’oste, e mi parea
ce solo al mio venir fuggir devea.

151E spronando il destrier d’altere grida
empiei l’aria chiamando il Bruno Ettorre,
et al primo guerrier che ’l Ciel mi giuda
gli fei la testa sopra l’erba porre.
Getto appresso il secondo, che si affida
dell’altro vendicar e ’ncontro accorre;
pui oltra non fei, poi che m’interroppe
la lancia ch’io portava, che si roppe.

152Or chi porria narrar a cui sembrava
il valoroso Brun quando si mosse?
Non ha Libia o l’Ircania fera brava
che pigra e vile appo di lui non fosse;
ove più stretta una battaglia stava,
ivi al bel mezzo co ’l caval percosse,
ne gettò più di trenta sotto sopra,
tutti in un punto con mirabil opra.

153Rotta la lancia poi dà mano al brando
e ’l caval furioso intorno gira.
Tanti n’ancide quanti va toccando
il crudo ferro, che la morte spira.
Non fiacca arbori e rami il verno quando
il più forte Aquilon con noi s’adira
com’ei fa della gente sbigottita
ch’urta, abbatte, ferisce, ammacca e trita.

154Ma che deggio io più dir, se in un momento
tutto quello squadron si truova a terra?
Chi impiagato, chi morto, chi in istento
sotto un groppo de i suoi che ’l cor gli serra;
corre or di sangue tutto il pavimento
pria che sacciano ancor chi fa la guerra.
E poi che di questa ha vittoria intera
il passo addrizza verso un’altra schiera,

155ove il re stava, e ch’aveva già intesa
la mia voce o d’altrui che ’l Bruno è questo,
e disse: “Rotta omai tutta è l’impresa
poi ch’un tal cavalier ci vien molesto;
solo il tosto fuggir ne fia difesa,
ogni altra speme è nulla e vano il resto”.
Così sen fugge, e chi non se ne accorse
incontro Ettor per sua disgrazia corse.

156Ivi fece il medesmo, e peggio ancora
che più nel faticar più prende lena,
e se gli altri ha sconfitti in sì poca ora
questi disfece in men che non balena.
Abdalon stupefatto si dimora
e non ha l’agio di mirarlo a pena;
non ruppe lancia, che non fu mestiero,
e vuol che sia del brun l’onore intero.

157Della qual cortesia molto il ringrazia
Ettore appresso, e ne mostrò piacere.
L’altro di lui lodar mai non si sazie;
ma più il fratel, che già sceso a vedere
era fuor del castello, e tanta grazia
non sapea prima a chi devesse avere.
Poscia il gran bruno e Abdalone il bello
si riposàr più dì co ’l suo fratello -.

158Così finì il buon vecchio, e poi rivolto
a Galealto il Bruno et a Girone,
gli domandò con sicurato volto:
– Che trovereste voi d’ogni nazione
ch’oggi a far sì gran cose avesse tolto
come Ettor prima e poi il bello Abdalone? -.
Galealto Giron mirando fiso
che rispondesse a lui cennò col viso.

159Rispose vergognando il giovinetto
ch’a quel ch’avea di lui contare udito
ch’Ettor fu certo cavalier perfetto
in arme, in cortesia tutto compito,
e che quanto esso sol pose ad effetto
dieci oggi o venti non l’avrian finito.
Fa piacer al vecchion, ch’assai ne rise,
e dopo ciò le tavole fur mise».

160Or qui si tacque il saggio cavaliero
quando Meliadus, che troppo intento
era stato al parlar di Ettore il fero
si mostrò del silenzio mal contento,
e gli dice: «S’io stessi uno anno intero
a sentirvi parlar maggior talento
che nel principio assai n’avrei nel fine,
d’opre sì chiare, altere e pellegrine.

161Ma perché non è ancor sì tarda l’ora
che non si possa dir qualche bell’opra
del buon Ettor, che tutto il mondo adora
e che d’ogni guerrier tiene il disopra,
ditemi se contar sentiste allora
di lui fatto altro che già il tempo cuopra».
E ’l cavalier, che volentier divisa
di raccontarne un bel subbito avvisa.