Eliano racconta un ultimo episodio dell’amicizia tra Abdalone e Ettore il Bruno (1-67)
1Incominciò: «Tre anni almeno innanti
che d’Abdalon il Bel venisse amico,
Ettore fu d’una sua suora amante
ch’ebbe nel nascer qui sì il Cielo amico
che passò di bellezza tutte quante
donne del nostro e d’ogni tempo antico,
la qual senza Abdalon dieci fratelli
ebbe com’ella et ei leggiadri e belli.
2Allora avea fidata compagnia
di Elianor, il Povero appellato,
che pel valore e la virtù ch’avia
era dal Brun come il suo core amato,
et esso ancor l’istessa malattia
nell’alma porta, ch’era innamorato
della donna medesma, ma nessuno
sa l’un dell’altro, e ’l cela a ciascheduno.
3Avviene un dì ch’un porta la novella
e ’l dice ad ambe due che insieme stanno
come l’amata lor, ch’era pulzella,
i suoi parenti per mogliera danno
al re d’Orcania, il qual per esser bella
domandata l’avea di più d’uno anno,
e le nozze ordinate eran lì presso
per dare effetto a ciò ch’avean promesso.
4Divennero i compagni sì smarriti
quando udiron la nuove, che certa era,
sì dolenti a veder, sì sbigottiti
com’uom ch sa che morir dèe la sera,
non son di ragionar fra loro arditi,
ascondendo di ciò la cagion vera,
ma Amor, che de i segreti è sol la chiave,
aperse al bruno il mal che l’amico have.
5E gli dice: – Fratello, a che pensate?
di che mostrate in voi sì acerba doglia? -.
E l’altro: – A voi, che quel medesmo fate,
qual è venuto mal più che si soglia?
con esser voi cotal cagion mi date
ch’ogni prima dolcezza l’alma spoglia -.
– Ah (disse Ettor) cagion non ne son io
ma sol Amor, quel faretrato dio -.
6Fecesi in volto rosso e vergognoso
Elianoro il Povero, e poi nega.
– Non (disse il Brun), non mi tenete ascoso
il mal che se medesmo scuopre e piega,
ditelo a chi di voi bene e riposo
più che ’l suo brama, e ve ne stringe e prega.
Chi è colei che vi conduce a tale
che sembrate un troncon, non uom mortale? -.
7- Contento son (Elianor rispose)
di scoprirvi ogni cosa, ma con patto
ch’a me diciate vostre pene ascose
così libero e ver come avrò fatto -.
S’accordò l’altro, e quel le sue dogliose
cure gli narra, tormentoso in atto,
dicendo: – Amor, come diceste,
tien le mie voglie disperate e meste.
8Vero è che pur assai mi riconforta
che da fiamma cotal viene il mio ardore
che sopra quante son la palma porta
di beltà, di virtù, di vero onore,
ma quel ch’a l’alma mia di doglia morta
e che mi fa cader la mente e ’l core
è la novella c’ho sentito adesso
che in altrui mani il mio tesor sia messo -.
9Ben riconobbe il Brun senz’altro udire
che dell’istesso amor piangeva seco,
e con irato suon comincia a dire:
– Ei vi conviene aver battaglia meco,
da poi che di bramar prendete ardire
quella ond’io vivo addolorato e cieco,
e l’antica amicizia vada altrove,
ché comportar rival non potrei Giove -.
10Già la crucciosa man mette alla spada,
né sa quasi il meschin quel che si faccia;
Elianor, che quel che men gli aggrada
sente parlar, ontoso alza la faccia,
e dice: – Signor mio, non così vada,
né sì tosto al dever si contrafaccia:
perché deve or venir fra noi discordia
s’aviamo in troppo amar troppa concordia?
11S’io non sappea di voi, né parimente
voi di me nulla pensavate ancora,
qual odio esser fra noi può drittamente
più che si fusse quando nacque allora
il nostro amore? e s’ora insiememente
ne siam privati, e ’n altrui man dimora,
senza profitto alcun guastato avremo
d’amicizia immortal l’esempio estremo.
12Né pur me sol, ma poi mille altri e mille
sète pur certo in ciò compagni avere,
ché troppo ardenti son l’alte faville
che in quei begli occhi si posson vedere,
e se voi fuste cento volte Achille
e cento volte il dì morto cadere
mi faceste appo voi, nulla fia fatto,
ma ritorla a chi l’ha sarebbe il fatto -.
13Al discreto parlar l’ira raffrena
Ettor il Bruno, e riconosce il vero,
magli domanda fede intera e piena
ch’a lei più non rivolga il suo pensiero.
L’altro, ridendo: – Ei no ’l farebbe a pena
il gran Motor c’ha di là su l’impero,
ch’io disponga del cor quel che a voi piace,
e tanto più s’al crudo Amor dispiace -.
14Or dopo il disputar restano amici
e s’accordan tra lor di ritrovarse
al giorno delle nozze e quai nemici
allo sposo nell’arme dimostarse.
In tanto diversissime pendici
ricercar ognun sol per disfogarse,
poi, secondo che ’l Ciel spirati gli aggia,
di tentar avventura quale accaggia.
15Partonsi adunque, e ’n qua e ’n là sen vanno
in lontan parti tra lor due remote,
di tori in guisa che con sangue e danno
perdute aggian le spose, e quanto puote
ciascun di lor mugghiando del suo affanno
empie le valli e le campagne vòte,
infin ch’Amor di nuovo gli assicura
di tornar a tentar nuova avventura.
16Delle invidiate nozze arriva il giorno,
già son le case di allegrezza piene.
Giovine bella né scudiero adorno
non resta indietro ch’alla festa viene.
A’ due guerrier, che girano all’intorno,
si raddoppia nel cor dispetto e pene,
e ciascun sconosciuto all’ora istessa
del destinato dì quivi s’appressa.
17Si conobber fra loro e si parlaro,
e ’l buon Ettore il bruno all’altro chiede
che non gli sia di discoprire avaro
della sua impresa che nel cor gli siede.
Quel gli fa noto il tutto aperto e chiaro
che come il re con la sua sposa vede
ch’a gir nel regno suo prenda la via
che vuol tutta assalir la compagnia.
18E seguane che vuol, che in ogni modo
se scamperà di là si darà morte.
Risponde il Brun: – Sì come da voi l’odo,
tentar voleva la medesma sorte,
ma, poi che ’l primo a dirlo, affermo e lodo
che andiate primo e Dio vi doni scorte.
Io sarò ben vicin, ma vi prometto
che nulla per mia mano vi sia disdetto -.
19Molto cortesemente Elianoro
gli rende grazie; e già la notte imbruna,
vanne ciascuno a ripigliar ristoro
del mal che gli apparecchia la fortuna,
né squilla ora sonò ch’ivi da loro
non fusse annoverata ad una ad una.
Ben si posan nel letto ma il discorso
va pel mondo volando a maggior corso.
20Ma più va quel el Brun, poi che la prima
pruova ha concessa al caro suo compagno.
Poi si conforta perché tal no ’l stima
ch’ei possa intero aver sì bel guadagno,
ché ’l suo valor tenea ch’andasse in cima
come fa il puro argento al basso stagno.
Pur nulla cosa Amor ci pon mai certa,
e ’l falso sovra il ver sovente inserta.
21Già del nuovo mattin risurge il sole
e ’l castel d’ogni parte intorno suona,
chi con canti, con danze o con parole
dolci amorose le muraglie intuona.
Elianor, che dorme come suole
chi dentro ha il fuoco ove sia l’esca buona,
dalla finestra fa la sentinella
fin che vide passar la damigella.
22Fassi dare il caval perch’armato era,
passa davanti alla sacrata chiesa,
ove il re giura che la donna altera
per legittima sposa aveva presa.
Ivi truova di giovini una schiera
che di giostrar fra lor faceano impresa;
quando veggion venire Elianoro
domandan che incontrar si voglia a loro.
23L’altro, che pensamento avea più duro,
rifiuta i colpi e vuole oltra passare.
Fannosi i cavalier riparo e muro
e dicon ch’ei convien lance spezzare.
Risponde il Pover, con sembiante oscuro:
– Poi che in voi discrezion non so trovare,
vi dimostrerò, forse a vostre spese,
quanto sia grande profitto esser scortese -.
24E senza più parlar sopra il primiero
si lascia andar così rabbioso e crudo
che di non ritrovare il cimitero
no ’l potero scampar usbergo e scudo.
Poi si volge al secondo cavaliero
e ’l passò tutto come fusse nudo.
E provàr quel che sia tener a bada
cui sproni Amor per disperata strada.
25Voleva ancor seguir, ma gli altri assai
fatti già saggi per l’altrui follie,
gli disser: – Cavalier, passate omai -,
e gli aperser non ch’una mille vie.
Ei, che sol pensa a gli amorosi rai,
lì non spende parole o buone o rie,
va innanzi un miglio o più, si riposa
nel gran cammin sotto una quercia ombrosa.
26Il valoroso Brun, che stava in parte,
che ’l tutto ha visto e poi la sua partenza,
aspetta miglior ora, e non si parte.
In questo viene a molti in conoscenza
ch’uno stran cavalier che pare un Marte
non potendo altrimenti aver licenza
in due colpi di lancia aveva morti
due de i miglior guerrier e de i più forti.
27Quattro de i lor parenti c’hanno inteso
fanno i cavai menar, s’armano in fretta,
che contra a chi il lor sangue aveva offeso
voglion far, se potran, giusta vendetta.
Ettor, ch’ad ogni cosa l’occhio ha teso,
come gli vede andar più non aspetta,
ma chiama i quattro ch’eran già montati,
e lor domanda ove sieno inviati.
28Dicon: – Cercando un cavaliero strano
che due nostri cugini ha quinci uccisi -.
– Ah (disse il Brun), che pensamento vano,
e come sète da ragion divisi!
Se cento come voi trovasse al piano
gli avria tutti in un’ora in pezzi misi,
e io ’l conosco, e se morir bramate
la disegnata impresa seguitate.
29E vi assicuro ben che ’l mondo tutto
non ha due cavalier di lui migliori -.
Essi restàr, ché di futuro lutto
s’avea fatti di già presaghi i cori.
E così l’arbor buon sempre buon frutto
produce, e di virtù sono i tesori,
le cortesie che s’usan ne gli amici
e ne i miglior se ben sieno inimici.
30Or fatti i giuramenti, i sacri altari
lassa la bella sposa, e ’n casa torna.
Ivi di cibi preziosi e rari
truovan la mensa riccamente adorna.
Chi va danzando, chi instrumenti vari
suona, e nessuno indarno si soggiorna.
Finiro il desinar cessano i balli
e ’n su le porte già sono i cavalli.
31Aveva il re cinquanta cavalieri
che sempre gli tenevan compagnia,
dei meglio addritti in arme e de’ più feri
ch’avesse il suo reame d’Orcanìa.
Poscia i dieci cognati animi alteri,
quantunque ad Abdalon par nessun sia,
armati in sella e con la lancia appresso
seguono il bel drappel quel giorno istesso.
32Or si mettono in via lieti cantando
rimettendo i cavalli indietro e ’nnanti.
Chi con l’asta alla coscia, chi co ’l brando
minaccia tutti i cavalieri erranti,
sì come avviene a i giovani, ch’in bando
hanno i gravi pensieri e ’n beffe e ’n vanti
spendono il tempo, e pensan non trovare
se non quando poi ’l provano a lor pare.
33Tosto che ’l buon Ettor da lunge mira
che già si dipartia la ricca schiera,
rimontato a cavallo in lungo gira
e ritorna per fianco dov’ella era.
Entra fra gli altri, e pare a chi ’l rimira
un della compagnia del re più vera.
Vaglia tutti squadrando e tiensi a pena
di non dar lor la disegnata pena.
34Ma la fé data al franco amico caro
gli contempra la voglia e l’ira insieme,
Or così men d’una ora camminaro
ch’al bosco sono ove aspettando freme
Elianoro, di lo sangue avaro,
e d’aver quella onde sospira e geme;
il quale incontinente si dimostra
ardito e fero apparecchiato in giostra.
35E con orribil voce altero grida:
– Fugga ciascun di voi che brama vita,
ché Marte tutti a morte vi disfida
per la mia lancia di sua man forbita -.
E sopra il primo che di sé si fida
ove la pancia vien co ’l petto unita
tutto passa a traverso, indi il secondo
e ’l terzo, e ’l quarto caccia fuor del mondo.
36Rotta ha già l’asta e, presa in man la spada,
in minaccioso orribile sembiante
ove la squadra più ristretta vada
spinge il cavallo e più si mette innante.
Con riversi e con dritti truova strada
e gli fa verso il sol volger le piante.
Ne gittò dieci in quattro colpi o sei
tutto in un punto, e furon i men rei.
37Ma quei diedi fratei ch’eran de i buoni
troppo han vergogna di veder un solo
che faccia a tanti abbandonar gli arcioni
dando alla suora lor temenza e duolo.
Si mosser tutti, e come venti e tuoni
corron rabbiosi in un medesmo stuolo
sopra il forte guerrier, che intanto stava
in altra banda, né di lor pensava.
38E da due ricevé piaghe mortali,
da gli altri a viva forza è miso in terra,
e ’n guisa sta che gli amorosi strali
non sente, et è per lui fatta la guerra.
Un di quei che volea gli avuti mali
vendicar de i parenti a lui si serra,
a piè disceso, e con la spada appresta
di tagliar impio l’onorata testa.
39Ma il buon Ettor, che interamente ha visto
le prodezze e ’l dannaggio dell’amico,
non si porria contar quanto sia tristo
perché di vita il tien omai mendico.
Con dolor d’ira e di pietà commisto
dice: – O fato crudel, de i buon nemico,
ben m’hai tolto un che di mille anni mai
il mondo, ahi lasso, non ristorerai.
40Ben sarei più crudel ch’aspro serpente
se in questo stato un tal non vendicassi,
vituperato e degno veramente
che mai più lancia o spada non toccassi -.
Così dicendo sprona incontinente
ov’ei senza spirar misero stassi,
getta steso lontan quel che volea
la testa in pegno di sua morte rea.
41Corre indi sopra i due che l’han ferito
e d’un colpo gli ha posti sottosopra,
che qual leon da i Libici assalito
miracolosamente intorno adopra
indi co ’l brando furiando è gito
ove d’Orcania il re par che si cuopra,
tra gente e gente, e lui percuote in guisa
che la fronte gli avria per mezzo incisa.
42Se non ch’al grave brando acconsentio
e ’n sul collo al destrier andar si lassa,
né si ritien, perciò che ’l colpo rio
il getta al prato con la testa bassa,
né per questo il buon Brun pone in oblio
gli altri che con lui son, ma oltre passa
ove i dieci fratei della donzella
s’eran ristretti e ben fermati in sella.
43Come affamato astor tra le pernici
verso la sera, ove il digiun più sprona,
tra lor si mette e ben come a nimici
di tutti insieme le cervella intuona.
E quei di lor più di fortuna amici
furo a cui chiaro Brun men piaga dona,
ma chi n’andò co ’l meglio ebbe le spalle
distorte o rotte dal sabbioso calle.
44Va verso gli altro poi, che restàr meno
contra lui sol che contro al foco paglia,:
chi è morto, chi fugge, a ch’il terreno
cacciato ha fin nell’ossa o piastra o maglia.
Già di sangue e di ferro il tutto è pieno,
resta a lui vinto il campo e la battaglia,
e ben mostrò quali aggian forze estreme
amor, pietà, valor congiunti insieme.
45Riguarda intorno e ’l passo addrizza poi
ov’è la preda sua che cotanto ama,
dolce l’accoglie e gli ragiona: – Voi
sète oggi mia non so prigiona o dama -.
Poscia in guardia la dà d’alcun de i suoi
scudier, ch’eran con lui di poca fama,
che la tenghin pel fren, e sen va dove
Elianoro è in terra e non si muove.
46Pensa fra se medesmo che sia morto,
né si porria narrar qual aggia doglia.
Pur, poi ch’ei fu vicin, prese conforto
ché gli par che si svegli e ’l fiato accoglia.
Dicegli allor, in parlar grato e corto:
– Caro fratel, come vi sta la voglia?
vi sentite ferito in parte alcuna,
o pur vi salvò in ciò l’aspra fortuna? -.
47Il Povero apre gli occhi e ’l vero amico
riconobbe ben tosto, e ’l capo leva,
ben che di sangue sia più che mendico,
e con quel poco spirto ch’egli aveva
risponde: – Il Ciel m’è stato sì nemico,
ché ’l viver più ch’ogni morir mi greva,
sendo io rimaso in questo mondo crudo
il più svergognato uom che porti scudo.
48Non mi consoli più, non mi conforti,
se non la tosta fin, chi m’amò mai.
Un colpo sol m’ha tolto a mille morti,
gli onor passati e m’ha lassato in guai.
Ma fieno i giorni miei sì scuri e corti
che non molto di me ti riderai,
secol maligno, incerto e disleale,
vòto d’ogni dolcior, pien d’ogni male.
49Et oltra il vero onor ho la speranza
perduta in tutto della donna mia,
per cui mi porse Amor troppa baldanza
perch’io cadessi al mezzo della via -.
Così dicendo, senza dimoranza
l’elmo si trae con quel poter ch’avia,
a terra il batte, e quel medesmo face
del forte scudo con rabbiosa face.
50Tratta la spada poi ragiona al Bruno:
– Signor, fatte ho con questa molte cose
che non pur nel giudicio di ciascuno
lodate son ma fur maravigliose.
Or tra mille bei colpi spero ch’uno
ancor ne faccia, ove il destin mio pose
d’ogni gloria il sigillo, e sarà ch’io
renda per opra sua questa alma a Dio.
51Non fu mai spada dal signor amata
quanto questa da me, per ciò l’eleggio
al bello ufficio, e poi nulla fiata
per l’avvenir mai più grazia le chieggio.
Ben prego voi che per cagion mia grata
l’aggiate sempre e gli doniate seggio
del mio amor degno e della sua bontade,
ché regina è da dir dell’altre spade -.
52E poi ch’ebbe finito il braccio stende
per cacciarsi la spada entro la gola,
ma il valoroso brun la man gli prende,
la ritien forte e dal morir l’invola.
E tal pioggia da gli occhi gli discende
che per pietà non sa formar parola;
pur, con la voce di sospir tremante,
così ragiona genuflesso avante:
53- O dolcissimo amico, e qual pensiero
lontan d’ogni dever oggi v’ingombra?
come esser può ch’un tanto cavaliero
ch’a tutti gli altri il vero onor disgombra,
così si arrenda allo infedele impero
della fortuna, che i miglior adombra?
e di sì poco mal sia sbigottito
com’un basso guerrier, tristo e fallito?
54Ch’avrei pensato mille morti e mille
non vi avesser condotto in tale stato -.
– Ah (disse Elianoro) le faville
troppo ardenti d’Amor m’hanno cangiato,
non son più quello ove virtù distille,
l’altro chiaro desir, ch’ora è mancato,
morir voglio io poi che perduto ho quella
che fu del viver mio timone e stella.
55Senza avere il mio onor, senza aver lei
che volete ch’io faccia più ne ’l mondo?
Vero è che s’io fui vinto ben potrei
dir che non sono il primo né ’l secondo,
e spesso de i miglior, non pur de i rei,
n’aggiam veduti in questa guisa al fondo,
non per difetto lor ma perché han presa,
come ho fatto io, troppo animosa impresa,
56ma privo del mio amor e ’n man vedello
a chi non ne fu mai più di me degno
mi fa del mondo e d’ogni ben rubello
e bramoso di andar nell’altro regno.
Voi dunque, onoratissimo fratello,
se mai di voi non mi teneste indegno,
datemi, prego, in ciò l’estrema aita,
o non mi sia per voi la via impedita -.
57- Ben (gli replicò il Bruno) e chi vi desse
quella donna gentil che tanto amate,
sarebber l’impie voglie in voi dismesse
di troncar la fiorita vostra etate? -.
– Sì (rispose ei) ma chi saria che ’l fesse
essendo possessor di tal beltate?
E chi non la possiede mal porria
la cosa ch’ei non ha farla esser mia -,
58ch’el meschin non sapea che fusse in mano
del buon Ettor la donna ch’ei tanto ama,
e sel sapesse dal sperar lontano
più ne saria, ch’ei sa quanto la brama.
Ora il cortese Brun, dolce et umano,
pietoso e liberale e d’alta fama
rispose: – S’ella essendo in mio potere
la vorreste anco voi da me tenere? -.
59- Io la vorrei più tosto aver da voi
che dal Ciel quasi, o guadagnarla io stesso
(rispose Elianoro), pur che poi
mi fusse esser con voi sempre concesso.
Ma che bisogna ragionar fra noi
di quel ch’esser non puote omai permesso?
Voi non l’avete, e se l’aveste bene
ne sarei, come or son, con poca spene -.
60- Ah (disse il chiaro Ettor), che poca fede
nel mio buon cuore e ne i miei detti avete!
Io qui l’ho meco fra le chiare prede
e vo’ che vostra sia, se la volete,
né cerco altra da coi vi ciò mercede
se non che ’l vero aperto mi direte,
se pensate ch’io l’ami e se l’aveste
se a me cortese don far ne vorreste -.
61Rispose arditamente il cavaliero:
– Io penso, signor mio, che vi sia cara
non men che a me di puro amor e vero,
qual più conviensi a cosa altera e rara;
e s’io l’avessi qui sotto il mio impero
confesso che la man n’avrei sì avara
che non pur ora a voi la negherei
ma credo a Giove e tutti gli altri dèi.
62E perciò mi lasciate uscir omai
di tanti affanni, e vi restate in pace.
Diavi il Cielo a goder quei santi rai
senza disturbo alcun quanto vi piace.
Io darò fine a gli infiniti guai
con morte spegnerò l’ardente face
dell’infelice amor, che m’ha condotto
all’infimo del male e vie più sotto -.
63Lagrimava ei, ma vie più il buono Ettorre
della pietà ch’aveva d’ambe duoi,
di sé, che si volea la donna tòrre,
che più cara gli fu che gli occhi suoi,
dell’altro, che si muor né può disporre
a creder quel di lui che vide poi.
E dentro sente amor e cortesia
ch’aspro assalto gli dan per varia via.
64Dicea la cortesia che per l’amico
non si dèe risparmiar la vita istessa;
amor che ’l diventar tristo e mendico
è per altri arricchir sciocchezza espressa.
Ma l’alto cor d’ogni viltà nemico
c’ha con chiara bontà virtude impressa,
caccia amore e desir per altre strade
e sol riceve onor, grazia e pietade.
65E dopo un gran sospir, che a dentro muove,
– Prendete ardire omai, fratel mio (disse),
rivesta l’alma in voi dolcezze nuove,
ché nessun più di voi felice visse,
e conoscerete oggi a certe pruove
quel che forse non mai si vide o scrisse,
dispogliar sé per rivestire altrui
dando altrui quel ch’ei non darebbe a lui.
66E l’alluogo sì ben ch’io credo certo
che mai meglio allogar non si potrebbe,
perché alcun non trovai di tanto merto
né cui cavalleria più al mondo debbe -.
Di poi con l’opre mostrò bene aperto
ch’al Bruno egual nessun mai secolo ebbe:
prende per man la donna il guerrier buono
e ne fece al compagno altero dono.
67Poi gli accommoda agiata tra due legni
una rozza lettica, indi il conduce
in un castel vicin ma fuor de i regni
di quello a cui fu tolta la sua luce.
Così fu il fior di tutti gli altri degno,
il grande Ettor, de i buoni speglio e duce,
mostrando ch’al valor esser devria
direttissima sposa cortesia».
Meliadusse parte per trovare Laco, incontra per via un cavaliere triste, Absalone, nipote di Ettore il Bruno, e si offre si aiutarlo (68-102)
68Qui fece fine il saggio cavaliero
al lungo ragionar di quei migliori,
quando il re leonese, che nel vero
quasi era andato di se stessi fuori,
risorto dal profondo suo pensiero
ch’avea la mente in mille vaghi errori,
traportata in questo ora et ora in quello
de i buon guerrier del secolo novello,
69disse: «Non ebbi mai gioia altrettanta
quanto oggi et ier delle parole vostre,
ov’ho riconosciuta virtù tanta
che ben fatta ha vergogna all’età nostre,
e de i famosi Brun quel che si canta
e ben più là che tornea menti o giostre
e le lor cortesia, l’altezza e l’arme
che fusser sopra umane al tutto parme».
70Mentre parlan così viene un valletto
dicendo: «Gran novelle signor miei
vi apporto, che pur or di certo ha detto
un che si è ritrovato a i casi rei
d’una alta donna di reale aspetto
degna in ciel del convito de gli dèi,
dico di Maloalto la signora
che si truova in prigion non so dove ora».
71E senza i nomi dir, ch’ei non sapea,
conta ogni caso che avvenuto gli era.
Quando Meliadusso l’intendea
meravigliato resta in gran maniera,
e ben pensò che nullo esser potea
che ’l suo re Laco la persona fera,
e fra sé dice: – S’egli ha fatto questo
ben vive oggi in periglio manifesto,
72ché Danain, d’alto valor fornito,
non vorrà sopportar tanta vergogna,
la vorrà vendicar come marito
e come quel che solo onore agogna.
Poi il gran Girone, il cavalier compito,
avrà fido compagno alla bisogna,
et ei si truova solo, onde io conchiudo
che poco gli varrà corazza o scudo -.
73Così dicea fra sé pietosamente
il re cortese, che ’l vorrebbe aitare,
ma non aveva inteso il rimanente
e ’l differente fin ch’ebbe l’affare.
Già di quattro ore è Febo in Occidente,
onde ne vanno il letto a ritrovare.
La mattina si leva in diligenza
e dallo estran campion piglia licenza.
74Cavalcò molti giorni, ch’ei non truova
cosa degna di conto o di scrittura.
Passato un mese o più che ’l canto innuova
ne gli augelletti lieti alla verdura,
un cavalier perfetto ad ogni pruova
incontra, il quale oppresso oltr’a misura
mostra d’esser di cosa a lui molesta,
sopra la strada, a canto a una foresta.
75Salutalo cortese, ei non risponde,
e par che esso disprezzi in prima vista.
il re, che pensa ben che ’l core asconde
cura cotal che l’anima gli attrista,
a lui ritorna, e gli domanda: «Donde
cosa vi vien di tanto amaro mista
che vi toglia il veder passarvi innanti
un che pur è dei cavalieri erranti?».
76L’altro, come svegliato d’un profondo
sonno, il riguarda, e fa dolce risposta:
«Non vi maravigliate, ch’oggi al mondo
nessun più al sommo d’ogni suol s’accosta
di me, ch’ogni speranza al basso fondo
d’aspra disperazion al tutto ho posta,
e ’l dirvi io la cagion sarebbe in vano
cotanto ogni rimedio aviam lontano».
77Rispose il re cortese: «Io vi concedo
che, poi che ’l dite, in tutto indarno sia,
pur vi supplico a dirmelo, ch’io credo
che in alcun modo nuocer non porria,
e la mia fede in testimon vi cedo
che la lancia, la spada e l’alma mia
quante esse più potran compagne avrete
ascoltar vosco con Caron in Lete».
78Il cavalier doglioso dice allora:
«Bench’io sol morte per aita attenda,
tale spirto gentil che ’n voi dimora
ben è ragion che mie querele intenda».
E ’ncominciò, com’uom che parlar e plora,
ma più che detti assai lagrime spenda:
«Il nipote di quel ch’oggi have il regno
di Scozia, valoroso in altro e degno,
79ma poco in amicizia, già molti anni
m’ha tenuto con lui compagno d’arme.
Comuni eran gli onor, comuni i danni,
che sempre al par di sé volse trattarme;
ma nell’ultimo poi per darmi affanni
gli nacque in cuor voglia impia di levarme
una donzella, ohimè, da me gradita
più che le luci e che l’istessa vita.
80Et io, che non potrei viver senz’ella,
ma in ogni modo intendo di morire,
l’aspetto in questo luogo armato in sella
là dove oggi o doman devrà venire.
Vo guadagnarla, e se fortuna fella
mi fia contraria, adempierò il desire
d’uscir del mondo, e non vedrò più almeno
il mio sommo tesoro in altrui seno.
81Egli ha trenta guerrieri armati seco,
cavalier onorati e d’alto affare,
et ei, quantunque sia di fede cieco,
è colmo di valor che non ha pare.
Et io, ch’altro non ho ch’Amor con meco
(è la ragion che tutto mi fa fare),
potete ben penare che certo sono
d’aver messo la vita in abbandono».
82Il re, che tal di lui prese pietade,
ch’a lui sol pensa e sé pone in oblio,
gli dice: «O cavalier di tal bontade,
non rifiutate in ciò l’aiuto mio,
ché se noi lo incontriam per queste strade
veder farovvi s’io son buono o rio;
e non vi sbigottite, ché speranza
reca miglior fortuna e più baldanza».
83Il cavalier discreto non volea
questo accettar, dicendogli: «O signore,
convenevol non è che a morte rea
venga per mia cagion tanto valore
quanto in voi scerno, e la ciprigna dea
vi ristori per me nel vostro amore.
Voi ne morreste certo, e doppio duolo
il mio sarebbe che s’io moro solo».
84Il re Meliadus, quasi cruccioso,
dice: «S’io vo’ morir perché ’l vietate,
bench’a più tosto il popol doloroso
farem che vi furò tanta beltate?».
Così parlando, per pigliar riposo,
ché già le stelle in ciel son allumate,
sen vanno al romitorio ivi vicino
aspettando l’aurora al buon mattino.
85La qual non giunta ancor nell’Oriente
surge e s’arma ciascun, truova il destriero
là dove dèe passar la scota gente.
Si ripongono insieme sul sentiero,
or il domanda il re cortesemente
della sua patria e del suo nome vero.
Gli risponde esso: «Ettore è ’l proprio nome,
poscia Absalon mi chiamo e non so come.
86E dal buon cavalier Ettore il Bruno
portato fui su la sacrata fonte».
Or gli replicò il re: «Certo nessuno
vi porria de la Scozia stare a fronte
se a lui sembraste che fu nel mondo uno,
e ben potreste vendicar vostre onte».
«Voi dite il vero,» il cavalier gli afferma
«ma possanza non ho sì rara e ferma.
87Pur non dimorerà ch’io non impieghi
ogni mia forza in ricovrar colei.
So ben ch’io ne morrò, ma il dorso pieghi
convien ciascun all’ordin de gli dèi,
né si può per fuggir per pianti o preghi
sempre cangiar in buoni i casi rei.
almen cadrò con l’arme e nel cospetto
del mio perfetto bene e mio diletto».
88Gli ritorna il re a dir che cosa stolta
è d’un quando si mette a tale impresa
non aver di timor l’anima sciolta
e dal Cielo e da sé sperar difesa:
«Quando sarete nella schiera folta
e che tutti verran per farvi offesa,
menate ben le man, sperate in voi
che giustizia e virtù sien lì per noi».
89«Io vi dico signor, e non per tema,
che della vita mia giunta è la fine,»
risponde il cavalier «né forza estrema
contrastar puote a volontà divine.
Il Ciel che già mi diè gioia supprema
e c’ha le rose mie converse in spine,
vuole oggi farme con crudele scempio
martir d’amore e d’alta fede esempio».
90Mentre parlan così senton nel bosco
gente venire, e ’l re tosto gli dice:
«Ecco costor venir che in mèle o tosco
v’apportan l’ora lieta o l’infelice.
Onorato guerriero, or vi conosco,
fate pur quel ch’al vostro nome lice.
Entriam senza altra cura arditi e franchi
loro aprendo animosi il petto e i fianchi».
91Vien tinto in volto di pallore smorto
il miser cavaliero, e ’l prega presso
che se gli brama dar gioia e conforto
un picciol don da lui gli sia concesso.
Risponde il re che a dritto o torto
tutto quel che vorrà gli fia permesso,
con questa condizion: che in ciò non sia
di rifiutarlo allora in compagnia.
92«Io vi prometto sì che non fia questo,
anzi vi prego pur d’esser presente
e che veggiate Amor quanto sia presto
a far un servo buon tristo e dolente.
Chieggiovi sol che non vi sia molesto
di sotterrarmi quinci incontinente,
solo scrivendo nel mio marmo fuore:
Absalon giace qui, martin d’Amore.
93Il re, che l’angosciose sue parole
ascolta, ne divien tristo e pensoso,
e del buon cavalier molto si duole,
presago al tutto del suo mal doglioso,
e gli dice: «Signor, quando altri vuole
morir espresso viene al Ciel noioso.
Forse il vostro temer sarà più vero
e prima ancor che non vi fia mestiero».
94«Sia pur che vuol » dice ei «perciò ch’io ’l bramo.
Di voi mi duol, che ’n travagliato intrico
per me sarete e per la donna ch’amo,
in mezzo a troppo stuol crudo e nemico.
io per me di cipresso cerco il ramo,
per voi di palma alla vittoria amico».
«Or lassiam questo gir,» il re risponde
«che Dio sa il tutto sol, ché ’l tutto infonde.
95Questo so ben: che quanto il viver dura
sarò con voi, vi serverò la fede».
In questo comparir per la verdura
un drappel disarmato già si vede.
Viene un valletto che con somma cura
dell’arcione e del braccio facea sede
ad un picciol cagniuol, ch’a pena visto
se ne mostra Absalon irato e tristo.
96E rivoltosi al re: «Signor,» dicea
«ben potete veder quello animale;
egli è molto più caro alla mia dea
che potesse esser qui cosa mortale.
Io solo in guardia aver sempre il solea,
et oggi in mano altrui il veggio, tale
ch’io no ’l posso soffrir, e mi conviene
dare a ch’il porta meritate pene».
97E si vuol avventar sopra il valletto,
se non che ’l re gli ha ritenuto il freno,
dicendo che faria troppo difetto
tale onorata impresa avendo in seno:
«A quel che dèe venir s’aggia rispetto,
che chi guadagna il più tiene anco il meno.
Quando la donna avrem, avrem ben poi
cani a cavalli e tutti arnesi suoi.
98Ove il romor correndo dell’assalto
fatto ad un servo gli farà più saggi,
s’aduneranno insieme, faranno alto,
prenderanno sopra noi tutti i vantaggi.
Aspettiam con silenzio ove lo smalto
è più impedito e più stretti i passaggi;
arte convienci, senno et ardimento,
ch’uno improviso colpo ne val cento.
99Mentre parlan così veggion venire
schiera grande di donne e cavalieri,
armati tutti e ’n ordin da ferire
bene a cavallo, e ne i sembianti feri.
Fra questi è ’l duce lor di grande ardire
ma con sospetto va per quei sentieri,
non già di lor ma d’un signor vicino,
tiranno e predator di quel confino.
100Già s’acconcian di tutto alla battaglia
i due bravi guerrier, e ’l re domanda:
«Fra quei coperti là di piastra e maglia
quale è colui che a tutti lor comanda?
Che di lui sol più che d’altrui ne caglia,
e drizziam l’arme nostre a quella banda,
ché s’abbatterlo il primo ne dà il Cielo
saran l’arme de gli altri carta e velo».
101Mostra Absalon da lungi insieme sei
che di pari armadura ivan coverti,
e dice: «Un di quegli è, ma non potrei
darne, sendo essi eguai, segni più certi».
«Or basta,» dice il re «dunque io direi
che noi non ci mostrassimo scoverti
fin che gli altri davanti sien passati
e solo i sei da noi sien ricercati.
102Or tosto, fratel mio, diam dentro omai
(seguita il re quando gli vede presso),
non vi fallisca il cor, ché importa assai
dar buon principio e ben seguire appresso.
O che noi darem lor dannaggio e guai
agevolmente in un momento stesso,
o ch’avrem troppe in noi fatiche e doglie,
ché ’l male incominciar vittorie toglie».
I due vengono a battaglia con un drappello di cavalieri scozzesi, Absalone muore e Meliadusse è fatto prigioniero (103-132)
103E così detto il caval urta innante
verso il primier c’ha rincontrato a sorte.
Colpisce al petto e tutto in uno stante
il riversa alla terra e ’l pone a morte.
Batte il secondo e di lui fa il sembiante;
non morì già, ma fu presso ale porte.
Quando l’altro il valor di lui rimira
vien tutto speme et a vittoria aspira.
104E senza dimorar la lancia abbassa
verso un di quelli, e ’l truova nello scudo,
che no ’l difese, ma tutto oltra passa
la corazza e l’usbergo il ferro crudo.
Ruppesi l’asta e morto a tutto il lassa,
va sopra gli altri poi co ’l brando nudo.
Ma quei de’ sei che tre rimasi sono
vanno avviliti e quasi in abbandono,
105che quantunque essi sien prodi et arditi,
l’improvisa battaglia e l’alte pruove
gli hanno al primo apparir impauriti
come colombi al grande uccel di Giove.
E ’l duce lor, che a simili partiti
s’era e più volte ritrovato altrove,
se medesmo riprende e riconforta
e spinge ove vendetta et ira il porta.
106Vassene dritto al re Meliadusse
che di più gran valor fornito stima,
e ’l riconosce ben, ch’esso percusse
troppo spietato la sua gente prima,
pensando in sé che se abbattuto fusse
tosto saria della vittoria in cima.
Ma il franco re che vede ch’a lui tende
con mirabil virtude il colpo attende.
107Il grande scoto, ch’era veramente
colmo di forza e di real prodezza,
il ferì di tal possa fieramente
che la fine armadura punge e spezza,
e gli fa piaga tal che se ne sente
gran tempo poi; ma l’infinita altezza
del cor il tiene in sella e non si mosse
più ch’aspro scoglio che Nettuno scosse.
108E qual tra i cacciator selvatico orso
che più piagato più vigor riprende,
con la spada alta al feritor è corso
e con tanto furor su l’elmo scende
ch’a quel grave colpir la lingua ha morso,
vien tramortito e più non si difende;
cade giù dal caval, né scorge intorno
sì che sapesse dir s’è notte o giorno.
109or ciascun cavalier ch’avea passato
più oltra delle donne in compagnia,
il gran romor in dietro ritornato
e trovato il signor in sorte ria,
per vendicarlo da diverso lato
sen vanno ove la coppia gli attendia,
e gridan: «Disleali, or sète morti,
se non sète del ferro assai più forti».
110Disse animoso il re: «Venite pure,
che tal forse morrà che ne minaccia.
Sono al venir le strade assai sicure,
a ritornar da noi chiusa è la traccia.
le membra aviam come adamante dure,
e chi no ’l crede esperienza faccia,
e ’l barri pur a chi verrà da poi
s’avrà la lingua intera o i membri suoi».
111Or qui s’addrizza la più orribil guerra
che mai possa narrar voce mortale.
Il valoroso re con lor si serra
come suol tra i mastin fero cinghiale;
or quello ancide or questo vivo atterra,
e ciaschedun di lor, che molto vale
e ch’è guerriero e cavaliero antico,
s’ei muor non lascia sano il suo nemico.
112Il re famoso la possente mano
ha sempre in alto, e i feri colpi addoppia.
La greve spada mai non scende in vano
ch’un fère al meno, et è spesso anco una coppia.
Beato quel che più gli sta lontano,
ché tutti i più vicini ancide o stroppia;
e ben bisogno gli è, ché gli altri fanno
a lui noia soverchia e spesso danno.
113E ragionan fra lor ch’un altro pare
non si porria trovar in quella etade,
poi che sol si difende e dà da fare
a tante insieme e sì famose spade,
e che bisogna stretti e fermi andare
né lassarlo posar fin ch’ei non cade,
ché, potendo ei riprender poca lena,
lor daria morte di vergogna piena.
114E ciò pensando fanno forza estrema
ma non tal ch’ei sì ben non si difenda,
doni aspro danno all’uno, all’altro tema,
a chi ’l braccio o l testa tagli o fenda.
Absalon il compagno ove più prema
la forte schiera e dove più l’offenda
ivi in mezzo si mette e batte e fère
e nobilmente fa quel ch’e devere.
115L’uno a l’altro di lor ben mille fiate
vede la morte sua vicina in volto;
non la degna guardar, ma tra l’armate
genti più va d’ogni timore sciolto.
Già si riduce a breve quanti tate
il popolo inimico che fu molto,
che di cinquanta o più ne restan venti,
son tutto gli altri o mal condotti o spenti.
116In questo mezzo il valoroso scoto,
già risentito con l’aiuto altrui,
sopra un caval rimonta, ch’era vòto
e nuova gente e fresca va con lui.
Come si fece a quella schiera noto,
addoppiò speme e cuore a tutti i sui,
come doppo gran sete all’erbe pioggia
quando l’ardente Can con Febo alloggia.
117Et egli al gran valor ond’era pieno
aggiunto sdegno e di vendetta ardore,
trae fuor la spada e grida: «Tosto fieno
apparecchiate a quel lor ultime ore»,
e voci spande colme di veleno
dicendo ai suoi: «Che grave disonore
è che due soli aggian durato tanto
contro a noi tutti, e datono onta e pianto!
118Or vendichiamo almen questa vergogna
con dar lor morte, che non possin poi
contar a tal che di biasmarci agogna
d’aver vinto un tal numero di noi».
Così parlando alla crudel bisogna
entra tutto cruccioso e spinge i suoi,
e quanto può con la possente spada
fère in testa Absalon, che ad altro bada,
119che ’l riconobbe, e pensa ch’a preghiera
di lui venuta sia questa battaglia.
Tal il percuote che convien che pèra,
che no ’l può contrastar ferro che vaglia.
Fende l’almo, la cuffia e la visiera,
arriva al teschio e tutto l’osso smaglia,
passa ove pensa alcun l’alma aggia sede,
che scacciata indi al duo Fattor si riede.
120Il miser batte il capo su l’arcione
allor ch’un altro da traverso arriva,
e ’n mezzo il cor la lancia gli ripone,
così per due gran piaghe è giunto a riva.
Ma la spada ch’amava oltr’a ragione
ritenne in man come persona viva,
e con le pugna strette e i piè battendo
finì il corso mortal con grido orrendo.
121il re compagno suo che pure allora
aveva un cavalier gittato a terra,
quando ciò vide si lamenta e plora
e come disperato gli occhi serra,
dicendo: «Un tal guerrier non vo’ che mora
senza vendetta», e si apparecchia a guerra
più ch’avesse ancor fatto, e si diria
che la forza accresciuta ancor gli sia.
122Da sinistra e da destra s’abbandona
senza ritegno alcun menando intorno
la gravissima spada più che buona,
la qual chi aspetta o n’ha dannaggio o scorno.
E se non che la piaga assai gli dona
travaglio e pena, avria mostrato il giorno
senza invidia d’alcuno a tutto il mondo
che a nessun che mai fusse era secondo.
123Ma il sangue che distilla a poco a poco
gli fa il spirto e la forza venir meno.
Non se ne accorge il misero pel foco,
per la pietà, per l’ira ch’egli ha in seno.
Gli altri l’han riserrato in breve loco
né gli lassan calcar molto terreno,
ma più ch’ogni altro lo scozzese duce
per malissima strada già il conduce,
124chiamando gli altri, e dice: «Resta un solo,
noi siam tanti guerrieri e sì perfetti
ch’a morte il doverem mandare a volo,
né so ciascun di voi che più s’aspetti».
Così parlando, fra disdegno e duolo,
con molti altri ch’avea seco ristretti
sopra l’elmo il batte d’un colpo tale
che in ogni altro che in lui saria mortale.
125E ben il posso io dir ch’ogni altro avrebbe
del tutto morto su la terra steso,
ma il gran Meliadusse, ch’estrema ebbe
e virtude e valor, sostenne il peso.
L’altro in tanta ira e ’n tanta rabbia crebbe
pensando pur ch’a pena l’aggia offeso
che la spada nel fodero rimette,
a lui s’avventa e tien le braccia strette.
126lo scuote quanto può, ma il re no ’l cura,
e ben mostro gli avria s’ei sa di lotta,
ma quattro cavalier che n’han paura,
né per ancor la lancia avevan rotta,
si metton tutti insieme ala sicura
e vanno a fare una medesma botta
sopra il caval del re, sì che a traverso
il passàr tutt e poserlo riverso.
127Così cadde egli ancora, e con la coscia
rimase sotto al suo destrier già morto.
Non gli fe’ mai la sorte prima o poscia
né guerriero inimico il più gran torto;
pur, con tutto quel peso e la sua angoscia,
a viva forza ancor saria risorto,
ma i medesimi quattro e ’l duca insieme
son già discesi e ciascheduno il preme.
128Hannogli il capo già dell’elmo sciolto,
e certi altri la man, ch’impedita era,
dopo averla percossa e stretta molto
la dspogliàr della sua spada altera.
Ivi era il popol già tutto raccolto
quai cani in caccia alla annodata fera,
né per quanto ei facesse vider mai
ch’ei s’arrendesse e non oprasse assai.
129Se ’l corpo era ferito, afflitto e stanco,
avea libero, sano e ’nvitto il core.
or mena il braccio destro or mena il manco,
e con lo sguardo sol fa lor timore.
Grida, minaccia e non può creder anco
che non si svegli in lui nuovo valore,
ma la piaga di prima e d’or la forza,
il poter natural in tutto ammorza.
130Songli addosso ben venti, e ’l più codardo
già la testa real tagliar volea,
ma il forte scoto alla virtù riguardo
ebbe, e lo scampa dalla morte rea,
dicendo che nessun mai più gagliardo
né pari a lui guerrier trovato avea.
Comanda torgli via l’arme e lo scudo
e gli leghin le man quando sia nudo.
131Fu fatto il tutto e ben con poco affanno
poi ch’è senz’arme, senza spirto quasi,
e sopra un vil ronzin portato l’hanno
d’un de i lor servitori ivi rimasi.
Indi di far le bare ordine danno
per quei portar che ne gli avversi casi
eran morti di lor, e son da trenta
tal che vive ancor se ne spaventa.
132Lasciar solo ivi il valoroso Ettorre
martir vero d’amor de’ corvi preda,
né si degnar di sassi al men comporre
tomba ove segno di pietà si veda.
Al re lionese ogni uomo accorre
e vede il suo poter né par che ’l creda,
e seguitan la via c’hanno espedita
con molti morti et un ch’è male in vita.