Girone libera Meliadusse battendo gli Scozzesi (1-40,4)
1Vansene adunque in mezzo al foresta
ove impedito più segue il cammino,
né truovan cosa lor dolce o molesta,
che tutto solitario era il confino.
Sul mezzo giorno il buon Giron s’arresta
e gli par di sentir assai vicino
calpestar di cavai che ’l bosco preme
e già si scuopre molta gente insieme.
2Questo del re di Scozia era il nipote,
che con la compagnia restata in vita
più diligentemente ch’allor puote
cerca il suo albergo ch’a posar l’invita.
Vengon le bare innanzi assai remote
da gli altri che seguian la strada trita,
portando quei che ’l re Meliadusse
sì valorosamente a morte indusse.
3Dopo le bare i cavalieri armati
venivan presso, e po’ la damigella,
cagion che questi furono ammazzati
e che molti altri divotàr la sella.
Indi vien con le mani e i piè legati,
il re lionese, che sua stella
biasma in se stesso, e più si duol del caso
del suo compagno così mal rimaso.
4Come son più vicin, tra pianta e pianta
Giron e ’l cavalier rato s’asconde
per rimirar qual sia la schiera e quanta
e spiar di lor gire il dove e ’l d’onde.
Quando vede color che croce santa
portan sopra la cassa d’erbe e fronde
dice all’amico: «A quel ch’io ne riscontro
han trovato costor non buono incontro».
5Quando è passato ogni uom veggion venire
sopra un ronzino il re a guardia stava
di quattro rozzi arcier che ’l facean gire
e ciascun assai spesso il minacciava.
Ei va pensoso e tra disdegni et ire
mal volentieri a questo s’accordava.
Giron riguarda il portamento altero
e pensa in sé che sia buon cavaliero.
6E ’l dice all’altro, e quello: «Or che sia vuole,
villano o buon guerrier che a noi ne cale?».
Gli risponde Girone: «Ei me ne duole
e lassarlo così saia gran male ».
Et ei, cruccioso delle sue parole:
«Se ve ne incresce bene, a lui che vale?».
«Varragli sì, ché trarlo di prigione
in ogni modo vo’» disse Girone.
7E ’l suo scudo ad un ramo tosto appende,
la lancia appoggia in quel medesmo lato,
spinge poscia il cavallo e ’l passo stende
ove il re passa tutto addolorato.
Il saluta, il domanda e da lui intende
come era cavalier ma sventurato,
né così forte come allor bisogna
tal che di se medesmo avea vergogna.
8«Mio mancamento e mia tristizia» dice
«mi fan questo disnore e questo danno».
Allor un di sua guardia: «Tu, infelice,
t’hai procacciato stolto tanto affanno.
Non sai ben tu ch’al saggio si disdice
cose tentar che riuscir non sanno?
credesti esser un dio, che tutti noi
pensasti disfar co i colpi tuoi?».
9«Dunque» disse Girone «ha combattuto
con quanti sète qui costui sì solo?
e tanto danno avete ricevuto
quanto io veggio a i segnali e tanto duolo?».
Guardal poi meglio e l’ha riconosciuto,
e dice: «Questo è l’uom ch’onoro e colo,
il re Meliadusse, e ben son io
se no ’l so liberar codardo e rio».
10E ritorna volando ov’è rimaso
lo scudo, la sua lancia e ’l suo compagno,
e perché non si può quel ch’è nel vaso
veder, quando esso sia di argento o stagno,
il vuol tentar, e dice: «In altro caso,
caro fratel, se aveste mai guadagno
o se fuste prode uomo, in questo punto
ben vi è mestier, ché ’l gran bisogno è giunto».
11Rispose quello: «A dirvi il ver mai troppo
non valsi in arme, et oggi manco vaglio,
egli è ben ver che per un solo intoppo
a mezzan cavalier talor m’agguaglio,
e quando fugga più che di galoppo
il mio nemico allora io frappo e taglio,
ma là dove ei s’arresti e mostri il dente
penso al mio fatto e vo come prudente».
12«Oggi» dice Giron «disposto m’aggio
di farvi aver onor in sempiterno
e far veder di voi sì altero saggio
ch’ogni miglior guerrier avrete a scherno,
e che mandiate a vostro gran vantaggio
molte anime peccanti nell’Inferno,
e liberiate di prigione un degno
d’aver sopra i miglior lodato regno.
13Noi girem tutti soli, e voi et io,
contro a quei pochi che passati sono;
non può ben contrastare il buono al rio,
sì che tosto n’andranno in abbandono.
Onor di qua, di là merto da Dio
n’avremo, e ’l cavalier di ch’io ragiono
ci fia sempre obligato, e vo’ che vostra
sia senza il nome mio la gloria nostra.
14«Io non compro la gloria così cara»
risponde il cavalier, «ma vostra sia,
e se vi costerà la morte amara
dovuto guiderdone il Ciel vi dia,
ch’io non ebbi ancor mai la mente avara
di tentar cosa che certa è follia.
Andate tutto solo e fia la palma
del corpo vostro che serà senz’alma».
15Furo in contenzion per poco d’ora,
ma il buon Giron, che tutto fa per gioco,
gli dice che convien che quivi mora
per le sue man come guerrier da poco,
o che seco verrà. Quel si scolora
e per fuggir la brace entra nel foco;
per timor c’ha di lui di andar fa patto
ove pensa esser già vinto e disfatto,
16dicendo: «S’io ne scampo a questa volta
non vo’ compagno aver più di me ardito».
Vannosi adunque per la selva folta,
l’un tutto ardente e l’altro sbigottito.
Giungon correndo ov’è la schiera accolta
e ’l cavalier ch’avea preso partito,
e per disperazion fatto è sicuro,
grida da lunge in parlar alto e duro:
17«Io vi disfido, a morte or vi guardate,
cavalier, da queste arme ch’io vi porto».
Il primo che ritruova a gambe alzate
abbatte a terra in un momento morto.
Un altro che di quello ebbe pietate
getto sì ben che poi non è risorto.
Poi segue al resto quanto può più innante,
fatto migliore all’opre ch’al sembiante.
18Che tanta fede aveva nel valore
ch’ei vedeva in Giron ch’appresso viene
che non conosce più che sia timore
ma lion rapacissimo diviene.
E discorreva ben dentro al suo core
che a sì gran cavalier non si conviene
mettersi in perigliosa aspra avventura
se l’altrui forze e sue prime non misura.
19In questo che ciascun dubbioso resta
onde lor vegna l’improviso assalto,
ecco il fero Giron con lì’asta in resta
com’aquila venir che scenda d’alto
sopra cervetta lunge alla foresta
ove sia senza prun nudo lo smalto
con l’ali chiuse e con gli aperti artigli,
desïosa di fargli in lei vermigli.
20Ben si scorge il valor ch’ei porta in seno
a vederlo arrivar per ch’il rimira.
Il primo ch’ei ritruova sul terreno
pon di maniera che mai più non spira.
Fère il secondo e non gli nuoce meno
perch’addoppiando va la forza e l’ira,
ch’ei vede ben che son tai cavalieri
ch’oprar tutto il potere era mestieri.
21Dopo i due primi sopra il terzo spinge
ch’era del re di Scozia assai congiunto,
la grossa lancia del suo sangue tinge,
e gli toe l’alma in quel medesmo punto.
Roppesi l’asta et esso non s’infinge
ma, come quel ch’è di desir compunto,
già fuori ha tratta l’onorata spada
larga facendo e sanguinosa strada.
22Folgore il dì parea, tempesta e vento
dal ciel mandato per disfare il tutto.
Ivi non val fortezza o ardimento,
ché contra a tal guerrier non facea frutto.
Son molte selle vòte in un momento,
in un momento è pien di sangue e lutto
la terra e l’aria, e troppo taglia e pesa
il nobil brando a cui non val difesa.
23Quando vede lo scoto il duce loro
tanti colpi incredibili e tai pruove,
benché in arme non sia semplice e foro,
e grandissime guerra ha fatte altrove,
si maraviglia, e pallido come oro
per la pietà de i suoi pur dice: «O Giove,
è questo Marte, il fero tuo figliuolo,
che tanti uccide e si può dir ch’è solo?».
24Un de’ suoi cavalier che si fuggiva
e sente il suo signor che così dice:
«Rafferma e non ci fia persona viva
di quanta aviam con noi turba infelice
se noi non ricerchiam qualch’altra riva
che sia ben unge e nuova altra pendice,
e se noi fussim quattro volte o sei
più che non siam, l’istesso ne direi».
25Ben conosce egli in sé che ’l vero ha detto,
pur più che ’l danno la vergogna teme,
e pensa: – Troppo è sconcio e gran difetto
l’abbandonarsi alle disgrazie estreme -.
Tra fuor la spada e colmo di dispetto
ne va dove Giron la turba preme,
grida: «Voltati a me, lassa ire omai
gli altri, e forse tuo par ritroverai».
26No ’l rifiuta Giron, ma lieto e presto
ratto ne va dove appellar si sente,
e ben gli fa veder ch’a lui molesto
non men sarà che fusse alla sua gente,
ma con più forza che non fea nel resto
gli scaricò su l’elmo un tal fendente
nel suo proprio arrivar che piastra o maglia
contro a tanto furor non è che vaglia.
27Cade a terra stordito e non rinvenne
di gran tempo di poi; né lui riguarda
il buon guerrier, ma come avesse penne
sopra gli altri s’avventa e non ritarda.
Or nessun più la forza sua sostenne
quando il capo ch’avea per morto guarda;
fugge ciascuno e resta il campo solo
al feroce Giron rotto lo stuolo.
28Due sue donzelle e la dama penosa
e ’l re Meliadusse ancor legato
soli erano ivi, e l’altra turba odiosa
parte è fuggita e parte è morta al prato.
Giron con la sua spada sanguinosa
taglia le corde ond’era circondato
il famoso guerrier l’altere mani,
da i vicin già temute e da i lontani.
29Poi scende del cavallo e dolce il prega
che gli monte di sopra, e mostra doglia
della disgrazia avuta; esso no ’l nega,
accetta il don con amorosa voglia,
il ringrazia e la fronte in basso piega
come uom cortese che ’l dever suo scioglia.
Gli rispose Giron: «Se ’l poter nostro
fusse maggior, tutto sarebbe vostro,
30ché gran peccato par ch’ad un uom tale
altro già mai che gran ventura avvegna.
Ma che or libero siate d’ogni male
a Dio la gloria e non ma ne vegna;
il qual, sapendo quanto in alto sale
la virtù vostra e dell’onor ch’è degna,
non l’abbandona ove il bisogno chiede
dando a i merti di lei giusta mercede».
31E così detto sul picciol ronzino
onde era già disceso esso rimonta.
Il re, che ’l vede, riverente e ’nchino
gli dice: «O signor, mio troppa è grand’onta
ch’un cavalier sì raro e pellegrino,
al cui sommo valor nullo oggi monta,
cavalchi bestia tal, che nata appare
per far l’onor sovr’essa vergognare».
32«Perdonatemi pur,» dicea Girone
«ché vergogna altrui far non può cavallo
e sia vituperato oltra ragione
tutto pien d’ogni macchia e d’ogni fallo.
Sendovi stato sopra un tal campione
ch’avanzò ogn’altro, e tutto il mondo sallo,
anzi d’esserci io su mi pregio tanto
ch’eterno serverò l’onore e ’l vanto.
33Né compagnia potendo a voi tenere
in miglior grado almen la terrò io
nelle disgrazie, ché sovente avere
veggiamo i buon che cose piace a Dio;
e ’l mio caval vi supplico godere
infin che se ne truovi altro men rio».
Mentre parlan così con dolce riso
viene il guerrier che lo scudo ha diviso,
34e dice: «In mia malora vi scontrai,
per mia rovina sola e per mio danno!
Sopra me son caduti tutti i guai,
voi sète sano e costui fuor d’affanno.
Io mi truovo ferito e non fui mai
in peggio stato, e vissi pur qualch’anno.
Voi sète allegri insieme et io mi truovo
in antica sventura e dolor nuovo».
35«Or (rispose Girone lieto e cortese)
non restate perciò sì sbigottito
ch’un’atra volta a vie maggiori imprese
san resterete voi quand’io ferito;
e se ben questo è stato a vostre spese
ne sarete tenuto alto et ardito,
che si può dir ch’el vostro brando e voi
guadagnar l’avventura e salvar noi».
36Non si accorda sì bene il cavalliero
all’onorato dir, ma pur si tace.
Giron, che solo al re tiene il pensiero,
gli domanda: «Signor, s’ei non vi spiace
ditemi l’arme vostre in qual sentiero
lassaste, et ove il scudo e l’almo giace».
«Elle son là» diss’ei «dove disceso
fui come morto e poi legato e preso».
37Dismonta ei da cavallo e l’arme prende
d’un ch’era morto e tosto ne ricuopre
il re famoso, ch’ancor esso scende
ringraziandolo assai di sì care opre.
Poi, di cortesia pien, la vista stende
e squadra ben lo scudo ch’ivi adopre,
e gli dice: «Signor, vergogna parme
che voi portiate, ohimè, sì ignobili arme.
38Or voi portate un scudo abbietto e vile
che quei di Cornovaglia usano in guerra.
Non si conviene a cavalier gentile
che sì alta virtù nel petto serra».
Giron risponde: «Io non so quale stile
sia quel de gli altri, o chi ben face o erra;
questo so be, ch’assai forse onorato
si può dir ch’oggi sopra me sia stato».
39«Io ’l credo e l’ho ben visto,» il re replica
«pur io vi prego ch’el lassiate stare».
Giron, che ’n compiacergli s’affatica,
ad un arbor l’appende, ch’ivi appare.
Poi ne prende un della schiera nemica,
l’adatta al collo e se ne vuole andare.
Come il re appeso il vede il prende tosto
e sopra il petto suo se l’ha composto.
40«Come,» disse Giron «s’ei fa disnore
e perché voi medesmo ora il portate?».
Rispose il re: «Perché più grande onore
non ebbe scudo ancor per altra etate».
Rise il Cortese, e con benegno amoreGirone, Meliadusse e la donna di Absalone tornano sul luogo dove del primo scontro con gli Scozzesi, trovano Absalone morto e la donna muore anch’ella (40,5-84,4)
lui domanda: «Ove gir vi contentate?».
Et ei: «Dov’io lassai con disconforto
ferito il mio compagno e forse morto».
41E così detto verso la donzella
il passo addrizza, che dolente stava;
la racconsola e poi ricerca s’ella
di tornar a veder si contentava
che fusse di colui che la sua sella
sì gran pruove avea fatte e che l’amava
più che se stesso, et avea mostro segno
di non esser di lei campione indegno.
42Rispose ella piangendo: «S’a voi piace
di farmi ove offerite compagnia
maggior non posso aver dolcezza e pace
ch’esso vivo o morto sia;
e ben mi credo ch’amorosa face
non fusse ardente mai quanto la mia
verso di lui, né fede così pura
vide forse già mai tempo e natura».
43Così tutti il cammin prendono insieme,
e Giron del compagno alle preghiere
lassa il picciol ronzino e ’l dorso preme
al più forte destrier che puote avere
di quelli il cui signor è morto o geme,
che molti fur dell’abbattute schiere,
e si fa per la via contare il caso
per lo qual prigioniero è il re rimaso;
44e di quel cavaliero ha gran pietade
e brama assai di ritrovarlo in vita.
Ma la sentenza in altra parte cade
ch’al meschin l’età sua trovan finita.
Giaceva esangue e ’ntorno avea le strade
vermiglie sì che ben pareva uscita
con vendetta del cor la ben nata alma
che in una ora acquistò cipresso e palma.
45Di che tutti si fan dolenti e tristi,
ma più de gli altri la vezzosa figlia,
che con pianti e strida e sospir misti
a disperata cosa si assimiglia.
«Ahi cruda terra, perché non t’apristi»
dic’ella, e tiene in lui fisse le ciglia
«quando si spense il sol d’ogni virtude
fabbricato alto e da celeste incude?».
46Gettasi a terra e così gli altri fanno,
truovan ch’el volto avea di sangue pieno.
Ella con quel che può pensarsi affanno,
del lagrimar ond’avea colmo il seno
lava le piaghe, e co i capei che stanno
con Febo al par quando è più il dì sereno,
l’asciuga e netta, e poi gli dona baci
senza numero aver fidi e veraci,
47dicendo: «O vita, o speme, o desir mio,
troppo compraste, ohimè, l’amor mio caro.
Per me sempre mai pena e dolor rio
aveste in vita, et or fin troppo amaro.
Dolce, onesto, cortese, fido e pio
fuste vêr me, né mai vi vidi avaro,
se non in ubbedirmi ove il periglio
vi pregai di schivar con buon consiglio.
48Quanto il vedervi mio mi dava gioia
tanto il timor ch’avea m’era più doglia,
sempre par che d’altrui si fugga e muoia
quel che si brama più che far si soglia.
Sempre ha mille cagion di eterna noia
l’impia fortuna infin che al tutto spoglia
ogni bene a i miglior, d’essi nemica
troppo possente e de i peggior amica.
49Deh, come sul fiori di sì verdi anni
tanto valor fu secco e tal bontade?
Non porrà ricovrar gli avuti danni
il misero mondo in alcun’altra etate.
L’alta cavalleria sempre in affanni
esser devria, ch’è giunta in povertate.
Sian tutte l’arme insieme e i cavalieri
per lui sol vendicar crudeli e feri.
50Poi che per me perdeste voi, voi stesso,
che posso in cambio or io perder per voi,
che, se mancasse mille volte adesso,
non avria ben pagati i dever suoi?
Questo spietato spirto che sì presso
vedendo quello a cui prima né poi
non visse e non vivrà persona eguale
giacer così non spiega a fuggir l’ale.
51Io non sapeva pria che fusse amore,
ma come vidi voi ben lo imparai,
ben m’arse e m’arde et arderammi il core
foco più degno, ohimè, che fusse mai;
ma in breve ben lunghissimo dolore,
in poco dolce molto fel trovai.
e quando poi sperai più amica sorte
truovo il mal vivo e le speranze morte.
52Truovo morto il mio ben, truovo me viva
di che troppo ho vergogna e me ne duole.
Io vivo, ahi lassa, della vita priva,
priva di tutto, ohimè, priva del sole.
Son di questa alma e di me stessa schiva,
di questo spirto che fuggir non vuole;
non vuol forse fuggirsi infin che scerna
vicin voi seggio di virtude eterna.
53Ben scerne il seggio, ma la miglior parte,
me lassando soletta, in alto è gita,
ove onorata da Ciprigna e Marte
s’è col sommo Fattor per sempre unita.
Di me so che le incresce e forse parte
a sciorre il nodo e lei seguirmi invita,
il che tosto avverrà, ché senza lei
non pur qua giù ma in Ciel non resterei.
54Perché il mio paradiso e la mia pace
esser non può se non ov’essa sia,
se nulla al tutto fuor ch’ei sol mi piace
com’esser può che lunge mai ne stia?
Il cieco mondo misero e fallace
come poss’io pensar che ben mi dia
poi che piacque a chi ’l fe’ di rispogliarlo
e pover meco in sempiterno farlo?
55Io, fuor che voi, null’altra cosa bramo
e certo so che voi me sola amaste;
so che sentite con che duol vi chiamo,
con quale amore e con quai fiamme caste;
ch’ognor di pudicizia il verde ramo
mantenni intero e voi me ne lodaste,
mi stimaste da più, teneste in pregio
questo assai più che di beltate il fregio.
56Io ’l pensai sempre, e se n’avea dottanza
troppo me ne accertò questo impio giorno,
che per me non temeste la possanza
di tanti gran guerrieri aver intorno,
ché abbatter mille mondi have speranza
chi sia d’amor e di valor adorno,
e non senza ragion, ché la mia sorte
non la virtù d’altrui v’ha data morte».
57Così disse la donna, e poi si tacque,
dal dolor, da i sospir, dal pianto vinta.
Mirando quel che troppo, ohimè, le piacque,
e l’imagine sua senz’alma estinta,
di più calde rigando e più larghe acque
la bella faccia di pietà dipinta.
Ma poi ch’alquanto può ritrar la lena
al re parlava di cordoglio piena:
58«Deh ditemi, signor, s’al suo morire
o innanzi pur vi fece mai palese
ove deveste il corpo seppellire
in questo quinci o in altro stran paese».
Et ei contento fu del tutto dire
a parte a parte, quanto desso intese.
Quando l’ode Giron tener non puote
che non bagni di lagrime le gote,
59dicendo: «Ahi troppo danno ha il mondo avuto
di perder un tal uomo, e vorrei bene
aver per lui gran patre sostenuto
delle sue piaghe e di sì indegne pene,
o d’esser vosco a guerreggiar venuto
che forse non saria quel ch’or n’avviene
o che fatta gli avrei fida compagna,
che non sempre chi ’l pensa si guadagna».
60Dicegli il re: «Se voi l’aveste visto
e come fece ben nell’ore estreme,
più ne sareste ancor doglioso e tristo,
ché più valea che mezzo il mondo insieme,
e s’a torto di lui credenza acquisto
che ei fusse frutto buon d’ottimo seme,
vedete ch’ancor morto su la strada
tien come vivo in man la cara spada».
61Maraviglia ha Girone e poi s’abbassa
e truova che la tien sì forte stretta
ch’a pena il pugno aprir da lui si lassa,
come se brami ancor nuova vendetta.
La bella donna sazia no, ma lassa
di lagrimar, quando la spada eletta
piena di sangue in man vede a Girone
il prega, sì come era, ginocchione:
62«Deh, cortese guerrier, per quello Dio
che vi fa tale e per la virtù vostra,
fatemi don del brando che fu mio
mentre era in vita la dolcezza nostra.
io gliel donai nel giorno acerbo e rio
che cavalier fu fatto a degna giostra.
Ben poss’io dir che fu pessima l’ora
poi che con quello uscì di vita fuora.
63Or non mi sia negato, e mi rendete
il primo don che mai d’amor gli fei,
sì ch’io ’l possa bacciar, che n’ho più sete
che vi d’esser immortal non averei».
Disse Giron: «Se voi mi promettete
di non dar fine a i vostri giorni rei
con esso io vel darò, ch’io morrei poi
s’a mia sola cagion moriste voi».
64«Non» rispose la donna «io vi assicuro
ch’io non mi anciderò già mai con quello,
che vergogna n’avrei; così vi giuro
per che non mi saria morire onesto,
se di tanto mio danno il dolor puro
senza altra forza non mi ancide presto,
che dell’odiato mondo, s’io non erro,
me ne trarrà la doglia e non il ferro».
65Dagliel dunque Girone, et ella il prende
e con mille sospir trista il riguarda;
poi dolce il baccia e ’n questo mezzo scende
pioggia di lagrimar che ’l dir ritarda.
Indi che l’alma pur vigor riprende,
come chi dentro agghiacci e di fuor arda,
e che cerchi l’oscuro e fugga il sole
altamente dicea cotai parole:
66«Famosissima spada, eterno segno
dell’amor ch’io portava e porto sempre
a chi tener sovr’ogni cosa regno
devea per merto in disusate tempre,
a chi nel suo morir è stato degno
ch’ogni uom, non ch’io, di pianto si distempre,
a lui ti diedi, ahi lassa, e non pensai
d’averti in man ne i comun nostri guai.
67Non pensai questo, ohimè, ch’a miglior uso
sperai lassa che fussi, a miglior ore.
L’alma è fuggita e godesi or là suso,
noi lui piangiamo in questo cieco errore,
e del nostro chiamar tristo e confuso
resta, s’alberga in Ciel giusto dolore,
se del mal di quaggiù dritta pietade
si truova ove dimora ogni bontade.
68Con qual caro sembiante e con quai detti,
con che bel ringraziar da me ti prese?
qual ti fe’ poscia l’onor tra i più perfetti
prendendo dei miglior giuste difese?
quanti campioni e cavalieri eletti
sol per farti lodar a terra stese,
e più cara ti tenne e più gradita
che ’l core istesso e che l’istessa vita?
69Deh come andava io lieta et altera
d’aver campion così lodato e raro?
quante donne vid’io pianger la sera
di me invidiose pe corruccio amaro?
Et a me, il dirò pur, più dolce m’era
quanto alle mie compagne era men caro;
allor mi rallegrai del vinto stuolo,
ch’or farà quel ch’io feci del mio duolo.
70io sapea certo al men di non uscire
el suo buon cor mentre t’aveva a canto.
Io non temea se non di Giove l’ire
che mi nocesse mai tanto né quanto.
L’alta mia sicuranza era il suo ardire,
sotto il qual non provai che fusse pianto,
se non or, lassa, che ’l ritruovo tale
che per quanti mai fur tre doppi vale.
71Deh come veggio ben, spada onorata,
che dolcissima e cara eri al mio amante,
il qual per riavermi adoperata
contra una schiera t’ha così prestante,
e poi che morto fu non t’ha lassata
ma così ti tenea come fe’ innante,
ch’amor chiude la man, partita l’alma,
perché sola di me restassi salma.
72Tu fusti al suo morir sempre in sua mano,
e sarai nella mia, piacendo a Dio,
nell’estremo mio punto, che lontano
molto non è, che ben il conosco io.
Non fusti al mondo fabbricata in vano
poi che sei testimonia al giorno rio
della più fida coppia che in tal modo
legasse il cielo in amoroso modo».
73Così dicea la misera piangendo,
or la spada guardando or il suo amico,
or baccia questo or quella, e ’n grido orrendo
chiam il suo fato e ’l suo destin nemico.
Quinci parla al buon re: «Poi ch’io comprendo
che nessun cavalier moderno o antico
v’avanzò di valor, ardita sono
di domandarvi uno ultimo e gran dono:
74che mi diciate se intendete fare
quanto avanti al morir costui vi disse,
di farlo in questo luogo sotterrare
con l’epitafio proprio ch’ei descrisse».
Il re risponde: «Io penso di servare
quanto ho promesso a lui mentre che visse,
e pria ch’io muova il piè di questo loco
non fallirò al dever molto né poco».
75«Ben sarà ciò da cavalier leale,»
gli disse la donzella «e ’l don ch’io bramo
è che ’l mio corpo a quel medesmo eguale
mettiate, che ’l di lui ch’adoro et amo,
perché all’onta, all’onor, al bene, al male
sia con lui di cui serva mi chiamo».
«Come» soggiunge il re «deggio io far questo
s’ancor vivete, e Dio sa solo il resto?
76Voi sète giovinetta, e par devere
che più di me restiate in vita ancora».
«Ah (replica ella), il posso omai sapere
che mi sento appressar all’ultim’ora.
Voi mi vedrete qui tosto cadere
come la notte quando vien l’aurora.
E s’oggi io non morrò da voi non voglio
altra impromessa e ben ve ne discioglio».
77Maravigliasi il re, poi le conferma
che farà tutto quel che brama e chiede.
Ella il ringrazia, e già si sente inferma
già vicina la morte si prevede,
né cerca contra lei scudo né scherma
ma dolcemente alla fortuna cede.
Vanne ov’è il morto e se gli getta sopra
qual madre pia che ’l buon figliuol ricuopra.
78E se lo stringe con gran forza al petto
e la bocca alla bocca adatta in modo
che ciascun veramente avrebbe detto
che non si porria far più saldo nodo.
Così alquanto restata a suo diletto
con alta voce: «Io ti ringrazio e lodo,»
disse «o sommo Fattor», poi si ristrinse
dentro ogni spirto e di dolor s’estinse.
79Girone e ’l re, ch’allora intenti stanno
a spiar di costei che deggia uscire,
poi che tacita star veduta l’hanno
né senton più che pianga o che sospire,
se l’avvicinan con fraterno affanno,
ché di riconfortarla avean desire.
L’un la testa le prende e l’altro il braccio
e la truovan più fredda assai che ghiaccio.
80La rilevano a forza, e già la testa
cade, perch’era morta, su le spalle.
Immobile e pesante il corpo resta
e d’oscuro pallor son fatte gialle
le sue vermiglie guance, e manifesta
ogni suo membro ch’all’estremo calle
era giunta del mondo e ch’era andata
a ritrovar là su l’anima amata.
81Né perché morte le cadde in terra mai
la cara spada che servava in mano.
Poi che veggiono spenti i due bei rai
e lo spirto fuggente esser lontano,
l’uno e l’altro guerrier ne pianse assai;
indi che ogni argomento ivi era vano
dicean fra lor con lagrimose ciglia,
che non si può veder tal maraviglia.
82«E ben creder possiam che vero e puro
era di questi due d’amor l’esempio.
ben potea il cavalier andar sicuro
di lei, che fu di fede eterno tempio,
e meritato han ben che non sia scuro
al mondo che verrà l’altero scempio,
l’alta virtù non vista, l’alta fede
che in questi nobil petti avean la sede».
83Poi tutti insieme e ciaschedun procura
di quei luoghi vicin più chiari marmi
per dare ornata e degna sepoltura
e con lor del guerrier sotterran l’armi;
e di far l’epitafio dan la cura
ad uom ben dotto che scrisse in carmi:
Tessala con Ettor, martir d’Amore,
ucciso ha il ferro l’un, l’altra il dolore.
84E poi che i sacri ufici e i divi altari
in memoria di lor fur celebrati,
e gli trattàr come i più fidi e rari
che mai servi d’Amor si sien trovati,
disse Giron a i due compagni cari:Girone prende commiato da Meliadusse (84,5-98,4)
«Altri liti per me fien visitati,
e qui vi lasserò, pregando Dio
che a i vostri gran desir sia largo e pio».
85Quando il re intende che lasciar il vuole,
non fu mai ne’ suoi dì sì mal contento,
ché così sol restar troppo gli duole
e di mai non partir avria talento,
e prega con dolcissime parole
il buon Giron che cangi pensamento,
e gli acconsenta poi che l’ha trovato
che ’l possa seguitare in ogni lato,
86dicendogli: «E’ son già molti e molti anni
ch’io ho bramata vostra compagnia,
né per trovarla ho rifiutato affanni
e perigli infiniti e lunga via,
per esser sempre mai sotto i suoi vanni
né mai partimmi ovunque vada o stia,
e quando la fortuna un ben ne dona
troppo gran fallo fa chi l’abbandona».
87Risposegli Giron molto cortese
che gli doleva assai di non potere
esser con lui, perché ’n altro paese
e tutt sol volea cammin tenere,
e che non men di lui piacer si prese
d’incontrar lì sì nobil cavaliere
sì come era esso, che per tutto il mondo
a nessun buon guerriero il fea secondo.
88Ma che dove stringea necessitade
era forza inchinar le spalle e ’l fronte,
e che ben tosto le medesme strade
di ricalcar avea le voglie pronte.
L’altro, a cui par per dolor l’animo cade,
dolce gli dice: «O d’ogni gloria fonte,
se non vi è il nome mio palese ancora
come mi troverrete et a quale ora?».
89«Io vi conosco assai,» dicea Girone
«voi sète il nobil re Meliadusse,
che reggete l’armorico leone,
più famoso ch’alcuno in arme fusse».
«A lodarmi così non già ragione
ma vostra cortesia, signor, v’indusse,
e ben mi tengo or più pregiato e caro
da poi che mi consoce un uom sì raro».
90Così diceva il re, che tutto ardia
di desire e d’amore e di dolcezza,
soggiugnendo: «E sarà la sorte ria
ch’io mi parta da quello in cui prodezza,
in cui virtù, valor e cortesia,
carità, senno, onor e gentilezza
s’hanno fatto famoso e degno seggio,
sì come già il sentiva et ora il veggio?».
91Sentendo ivi di sé sì larghe lodi
ne divenne Giron tutto sdegnoso,
e gli rispose in troppi dolci modi:
«Mi fanno i vostri detti vergognoso,
e ben fatte a voi stesso inganni e frodi
se di creder di me tanto sète oso,
e tanto più che conosciuto innanti
da voi non son tra i cavalieri erranti».
92«Ah,» disse il re «non ascondete in vano
che troppo splende or qui la luce vostra;
non si truova guerrier presso o lontano
con spada a piede o con la lancia in giostra
che non conosca omai quel che sovrano
sopra ogni altro miglior fra noi si mostra,
quel che più in alto con la gloria intese
e che non truova par, Giron Cortese.
93Di Galealto l’onorato amico
che già mai no ’l lassò mentre era in vita,
et io son testimon di quanto dico
che la memoria ancor non mi è fallita,
ch’essendo io contro a voi del stuol nemico
venni vosco a battaglia mal partita,
e ’l primo fuste voi che su la strada
mi gettò l’elmo fuor con la sua spada».
94Quando ha visto Giron ch’egli è scoperto
e che ’l suo più celar niente vale,
«I’ son» disse al buon re «colui per certo
che voi pensate, ma non già cotale,
e se grazia da voi ricever merto
non parlate di me, né ben né male,
con altre genti, ché si crede scorto
che molti anni son già ch’io restai morto.
95Sì come anco di voi fu già creduto,
et io per un che molto duol mi diede».
«Io ’l farò,» disse il re «ben che tenuto
menzogner ne sarò di falsa fede,
che ’l nome vostro a tale è già venuto
che qual villa o castel quinci aggia sede
dell’opre vostre e di voi sol ragiona,
e tra i buon cavalier null’altro suona.
96E se non fusse che ’l cangiar sovente
arme, scudo e caval v’aiuta alquanto,
avreste intorno una infinita gente
di quelli oppressi che si stanno in pianto,
né ritruovan guerrier così possente
ch’addrizze i torti che gli nocquer tanto.
Pur io, poi che a voi piace, andrò celando
di giorno il sol quando ha le nubi in bando».
97Il ringrazia Giron senz’altri detti,
e prende il scudo d’un ch’ivi giacea.
Toglie il peggior, e lassa i più perfetti,
che ’l color giallo e non meschiato avea.
poscia piglia un caval de’ meno eletti,
montagli sopra e già il cammin prendea
co ’l cavalier che ’l scudo avea partito
poi che ’l re seco molti passi è gito.
98Indi il lascia soletto e poco appresso
dal cavaliero ancor si discompagnia,
ch’a Maloalto va, ch’era lì presso,
a guarirsi le piaghe ond’ei si lagna.
Poi che ha passato un folto bosco e spessoGirone incontra uno scozzese sopravvissuto, lo rimprovera aspramente (98,5-124)
e viene ove s’apriva la campagna,
truova due cavalier che assisi stanno
piangendo insieme il ricevuto danno.
99Gli conobbe a gli scudi, che l’uno era
bianco per tutto, et era quel guerriero
che avea seco parlato l’altra sera
e battuto l’avea d’un colpo fiero.
L’altro, che non tenea bianchezza intera
ma di verde mischiato avea il cimiero,
del chiaro re di Scozia era il nipote
ch’ancor si bagna l’amorose gote.
100Passando sconosciuto fu pregato
da quel c’ha l’arme candide ch’ei voglia
scender con loro a riposarsi al prato
e mitigar per cortesia la doglia
di quel meschin ch’è tanto disperato
che di saver e di ragion si spoglia.
Per cortesia discende e per piacere
il buon Girone e vuol tra lor sedere.
101Poi saluta il dolente, indi gli chiede
che del suo così star dia la cagione.
L’altro, piangendo: «Divenuto erede
son d’ogni male», e le sue pene espone,
dicendo: «Or non mi biasmi chi mi vede
lamentar forse fuor d’ogni ragione,
poi ch’oggi tolto m’ha sorte noiosa
l’onor, gli amici e la mia cara sposa.
102E di sì dure piaghe anco impedito
son ch’io mi sento assai debile e gramo,
ma quel che più mi fa tristo e smarrito
e che la morte per soccorso chiamo,
è ch’un buon cavalier prode et ardito
c’ho sovra ogni altro amato et ancor amo
ucciso ho di mia mano, e ’l Ciel non sazio
mi lascia in vita pe mio scempio e strazio.
103E ’nfino a ier di me fu più felice
nessuno al mondo, o fusse in guerra o pace,
or pruovo la sentenza che si dice
che di mille anni il bene un punto sface,
né beato può dirsi od infelice
persona mai fin che sotterra giace.
Io, ch’invidia ad alcun non ebbi in terra
vaso sono or che ogni miseria serra.
104E per più mal mi avvien che per un solo
ricevuta aggio l’ultima ruina;
un solo ha vinto tutto il nostro stuolo
come folgor che d’alto a noi cammina
con fatal danno, o buon falcon ch’a volo
viene affamato verso la mattina
dentro una schiera di colombe pure
che da gli assalti suoi givan sicure.
105Il che mi grava troppo e troppo pesa
perché prima impossibil ciò credea
ch’un solo a tanti far devesse offesa.
se ben lor fusse la fortuna rea».
«Ah,» rispose Giron «sì fatta impresa
ha pur gran tempo già ch’udito avea
che si potea condur, pur che ’l valore
trovasse in cavalier sapere e cuore».
106Come gli dice, l’altro: «Io vidi un giorno
ove il buon Cavalier Senza Paura
si trovò venti soli armati intorno
né poté superar quell’avventura,
anzi rimase con suo danno e scorno
com’un fanciul battuto alla verdura».
«Esser può questo ben» Giron rispose
«che non forse ivi ogni sua forza espose.
107Poi vi confesso ben che chi voi dite
è fornito di forza e d’alto affare
e d’altre assai virtù belle e gradite,
ma si potrebbe pur anco trovare
superior di lui, che di chiarite
non sono a noi le genti, come pare,
e tal ch’è di men fama spesso avviene
che sopra più nomati il seggio tiene.
108Or che sapete voi s’un altro od io
non conosciuti quasi in questa parte
avesser grazia più di lui da Dio,
di forza, di valor, di senno e d’arte?
Ciascuno ha mano e piè, ciascun desio
di agguagliarse potendo in cielo a Marte.
Non riesce ad ogni uom, ma non per questo
si dèe dar tutto ad un per torlo al resto.
109Conchiudo al fin che quel ch’è a lui disdetto
potrebbe a qualcun altro esser concesso.
Or non aggiate questo a gran dispetto,
ch’avvenir puote et avvenuto è spesso.
Or vi dirò quanto contato e detto
di tal mi fu che ’l conosceva espresso
che voi fuste un gran tempo il più cortese
e leal cavalier d’altro paese.
110E mentre cortesia regnò con voi,
tutto onor, tutto ben v’era incontrato,
ma come abbandonaste quella e i suoi
vostra sorte miglior vi avea lassato».
Alzò l’altro la vista e disse: «Poi
che mostrate saper tutto il mio stato,
quando fu ch’io lassai la dritta strada
di quella cortesia ch’a i buoni aggrada?».
111«Io vel dirò» Giron risponde allora
«e ben vi narrerò quel che sapete.
Voi la lassaste alla medesima ora
che ’l maggior vostro amico avendo sete
di sposar, come fa chi s’innamora,
quella donzella ch’or perduta avete
prometteste d’oprar di darla a lui
e, venendovi in man, restò per vui.
112Perché senza pensar all’onor vostro,
oltr’alla data fede la prendeste,
tradiste quel che tanto avea dimostro
in voi fidanza; e come far poteste
di versar così sicuro e lordo inchiostro
sopra la vesta candida ch’aveste,
e d’esser disleale a chi non meno
a voi credea ch’al cor ch’aveva in seno,
113ogni vostra virtù fu allora in bando,
l’alta cavalleria vi fu rubella,
né bastò questo ancor, ché ’l vostro brando
il gettò morto po’ fuor della sella.
or non vi andate adunque lamentando
più del Ciel crudo e di fortuna fella,
doletevi di voi, che chi male opra
mai d’impresa che sia vien al di sopra.
114Non vi avvenne poi, ben ne aggiate speme
ch’avvenir ve ne deggia e ve ne accerto,
non è la sorte che vi abbatte e preme
ma il sommo alto Motor che guarda al merto.
vedete ben che tanta gente insieme
quanta allor fuste all’orrido deserto
miseramente e per le man d’un solo
sosteneste onta, danno, morte e duolo.
115E non avete ancor quanto conviensi
alla gran fellonia di ch’io vi parlo
ma pria ch’aggia perduta l’arte e i sensi
il corpo vil, che devea innanzi farlo,
mille disgrazia, mille mali intensi
vi roderan qual legno vecchio tarlo,
perch’il vostro inaudito e fero scempio
di tutti i traditor sia chiaro essempio».
116Quinci il domanda il cavalier dolente:
«Deh ditemi, signor, se sì severo
contro un vostro compagno veramente
sareste e di giudicio così fero?».
Disse Giron: «Sien le mie forze spente,
e preda sien d’ogni altro cavaliero,
s’offendendo un amico di tal sorte
io non mi dessi di mia man la morte.
117Sapete ben ch’un uom di nobil alma
quando perde l’onore il tutto perde,
il qual non come uliva, lauro o palma
appassisce talor, talor rinverde,
ma come lassa l’onorata salma
non ha più bene in lui che resti verde,
tutto viene in eterno morto e secco
in dispregio d’ogni uom qual vile stecco.
118E s’io punissi me di questa guisa,
pensate ben s’un altro punirei».
«Ah,» disse il cavalier «ogni uom divisa
e sa lodar i buon biasmando i rei,
ma la natura, che ’l contrario avvisa,
spesso incorrer gli fa ne gli error miei,
né sète tal qual fors emi mostrate
ove l’occasion vi fusser date.
119Ch’io non penso ch’uom di tal virtute,
quale io vi stimo, fusse mai sì crudo
ch’al peccator amico la salute
non concedesse e se gli fusse scudo,
ché non son grazie a tutti concedute
l’esser perfetto e d’ogni vizio nudo,
né cosa è più che s’assimigli a Dio
che contro a gli offensor mostrarsi pio».
120«Io so» dicea Giron «chi già se stesso,
e per fallo minore, uccider volse,
e ’l facea sì se non correa lì presso
chi gli ritenne il braccio e ’l brando tolse;
il qual tra le sue coste avea già messo
e tanto sangue e tanto indi si sciolse
che maraviglia fu che ne scampasse,
ma così piacque al Ciel che ’n qua il ritrasse».
121«Io vel credo (diss’egli) e vi assicuro
ch’io non mi stimerei di esser cotale,
e ben può viver l’altro assai sicuro
d’un compagno sì fido e sì leale».
«Ah,» soggiunse Girone «et io vi giuro
che gli fu poi per ben renduto male,
che l’inganno medesimo gli feo
ch’al vostro voi quello spietato e reo».
122Allor quel che lo scudo avea d’argento
sottentrato al parlar dice a Girone:
«Danain, che di forza e d’ardimento
in questo regno ha poco paragone,
or non ha fatto un simil tradimento
ad un amico suo fuor di ragione?
Di cui il nome non so, ma certo sono
che di lui cavalier non è più buono.
123Costui, pregando adunque Danaino
ch’egli andasse a condurre una donzella,
v’andò di buon volere, e nel cammino
tanto la ritrovò leggiadra e belle
che d’amor vinto, in un castel vicino
ascosamente si fuggì con ella,
né di renderla udir parola vuole
ch’essa è l’anima sua, la vita e ’l sole.
124Or mi dite, signor, vorreste voi
che per cagion di donna, e qual si sia,
un sì gran cavaliero i giorni suoi
finir devesse mai per questa via?».
Giron si turba, e gli domanda poi:
«Io non so ben come la cosa stia»,
e per tentarlo che la conti il prega;
l’altro che ’l brama far non glie lo nega,
Un cavaliere racconta a Girone e allo scozzese dell’inganno di Danaino perpetrato a un suo amico (125-155,2)
125e dice: «Di narrar contento sono
questa novella, poi che non vi è nota,
ma sedetevi qui mentre ragiono
sopra questa erba dal sentier remota,
e forse udirla al cavalier fia buono
perché il soverchio duol del petto scuota,
et a voi forse, ch’imparar potrete
ad esser men crudel ch’oggi non sète.
126Voi devete saper che per un bosco
tre giorni son soletto camminava;
sul mezzo di venir per sentier chiuso
venni ad un fonte che nascoso stava;
la sua freschissima acqua riconosco,
altra volta assaggiata ove stillava.
Scendo da lei invitato, ivi m’asseggio,
mi guardo intorno et una donna veggio,
127che la più bella parse a gli occhi miei
che di gran tempo mai veduta avessi.
Ella dormiva e nel romor ch’io fei
si risvegliò come che in tema stessi.
Io la rimiro, e sol truovo con lei
un picciol nan tra quei virgulti spessi,
la prendo a riguardar e tal mi parse
che per fiamma minor più d’un cor arse.
128Mi parea di sognar sola vedendo
sì gran beltade in loco sì selvaggio,
che fusse qualche ninfa discorrendo
uscita lì di qualche abete o faggio.
Pur animosamente il passo stendo
ratto verso di lei, che desir aggio
di saver tutto, e le ritrovo il volto
tutto pien di dolor, di pianto involto.
129Pur graziosamente mi saluta
et io prego per lei buona avventura;
poi riman come prima trista e muta
né di meco parlar pigliava cura.
Io, con la riverenza a lei dovuta,
prego che non oltraggi la natura
in guastar co ’l dolor tanta bellezza,
ché gran fallo è di chi tal dote sprezza.
130- Or perché sète sì dogliosa in vista
di dirmel prego non aggiate a sdegno,
che talor carità con amor mista
aiuta il buon voler, desta l’ingegno,
e la vera pietà talora acquista
in nobile alma di virtude il regno,
ove prima non era, e in me porria
fare il medesmo, né miracol sia.
131Io non vi mancherò di quel consiglio
ch’a me proprio farei, né della aita,
infin ch’io sia di sangue sì vermiglio
che mi abbandoni l’anima e la vita -.
La donna allor con lagrimoso ciglio
e con tremante voce e sbigottita
mi risponde: «Signor, tal doglia porto
che consiglio non val, non val conforto.
132i quai troppo oggi son da me lontani
che così vuol la cruda mia fortuna,
né fu già mai tra i Tartari e gli Ircani
tradita più di me persona alcuna,
ch’essendo io capitata nelle mani
in chi più mi fidai sotto la luna,
mi sono a tal condotta che mi duole
d’esser più viva e rimirar il sole.
133Or sacciate, signor, ch’un cavaliero
di cui nome non so né ’l dar vorrei,
m’amava d’uno amor sì puro e vero
com’io lui, che per lui cerco morire.
Quanto fu dolce in pace, in arme fero
era, e gli vidi mille volte aprire
tutto sol grandi schiere, come face
di gregge senza can lupo rapace.
134Vivemmo un tempo che d’un giorno solo
non fummo l’un dall’altro mai divisi,
quai tortorelle che di volo in volo
van seguendo d’amor i dolci avvisi.
Tra noi non cadde mai sdegno né duolo
ch’erano i nostro cor due paradisi,
di farne invidia a questa etate
ma quasi in Cielo all’anime beate.
135Venne ch’un giorno pur la sorte volse
che gli convenne a Maloalto andare,
né me né servo alcun seco aver volse
per poter il cammin più di spicciare.
Con Danaino il Rosso si raccolse
che amato sempre aveva senza pare.
Stetter più giorni insieme e ’l guerrier mio
sendo ferito un dì per caso rio,
136e di me avendo riveder gran voglia,
né si potendo muover da giacere,
con quella sicurtà che far si soglia
tra i buon compagni e l’amicizie vere,
disse al suo Danain che s’alla doglia
ch’esso portava vuol pietade avere,
che sia contento gir ove lassata
m’aveva in un castello sconsolata.
137E gli mostra il cammino e ’l loco a punto,
l’accetta Danain come cortese.
Poi che con la credenza a me fu giunto.
il desio di colui mi fe’ palese;
io, che avea del medesmo il cor compunto,
per andarne con lui truovo ogni arnese.
Partiamo, e nel cammin conosco in esso
cangiar di volto e rimirarmi spesso.
138in certi ragionari entrar il veggio
che non molto a proposito parieno;
salta dell’un nell’altro e sempre in peggio
come di tema e di vergogna pieno.
In somma, in modo fa ch’io pur m’avveggio
ch’al suo onor pensa poco e molto meno
alla fé data al caro suo compagno,
e disegna di me nuovo guadagno.
139Non molto andò ch’Amor gli diè baldanza
pur con voce tremante, il tutto a dirme,
dando ragion ch’a lui furo a bastanza,
non già per me che tutta impallidirme
vide in un punto, e s’avea lì speranza
di poter fra gli sterpi indi fuggirme
e fera diventar fatto l’avrei,
prima ch’acconsentir a i desir rei.
140Pur, poi che far no ’l posso, dolcemente
riprendo ardire e tosto gli rispondo
che non devrebbe offender tristemente
il miglior cavalier ch’avesse il mondo,
che l’amò sempre mai sì caramente
ch’avea tutto e se stesso a lui secondo,
e non volesse dar simil mercede
all’avuta di lui sì larga fede.
141Soggiungendogli poi ch’un piacer breve
apporta al fin lunghissimo dolore;
e fuor era quel dannoso e greve
ch’a ciò il movea, non carità d’amore;
ch’una donna acquistar profitto è leve,
c’ha macchia eterna et ei passa in poche ore;
e che molte ne son che aver poria
senza far ivi a tanti villania.
142Et ch’a quello atto iniquo e vergognoso
tutte le donne quel medesmo sono:
“Ma l’animo e l’ingegno virtuoso
il non lassarsi a i vizi in abbandono,
è quel che in esse stima valoroso,
cavalier come voi leale e buono.
Il resto è sì comun con gli animali
che quei che ’l fan si fanno ad essi eguali”.
143Ei mi rispose allor, tutto crucciato
che non voleva aver meco dispute,
che quel che la natura have ordinato
poco saggio è chi no ’l stimò virtute.
E se ’l compagno suo sarà ingannato
per questo esser non dèe che mi rifiute,
perché il mondo da ben che simil pegno
fa passar di ragione a tutti il segno.
144Così parlando noi, fuor del sentiero
mi mena, ove or mi truovo a questa fonte,
e riservò con lui l’onor intero
che non mia ha fatto anco dannaggi od onta;
et in Dio prima e ’n sua bontade spero
che così netta un dì vedrò la fronte
del mio caro campion; pur in estrema
vivo sempre fra me dottanza e tema.
145E tanto più che forse per vergogna
ch’egli ha di questo, omai di bosco in bosco
mi va menando e di fuggire agogna
ogni altro cavaliere, e l’aer fosco
aspetta al camminar; e non bisogna
ch’alcun mai cavalier s’incontri nosco,
ché l’uccide o lo scaccia, e ’n lui fan guerra
il dever e ’l desir, che l’altro atterra.
146Né si ardisce tornare a Maloalto,
ché della gente sua teme il parlare,
ma menando mi va di salto in salto
come chi suol nella sua mente errare,
e forse il suo compagno di sì alto
cuore e valor ch’altrove non ha pare
d’aver offeso in core è mal contento,
et ha di ritrovarlo onta e spavento.
147E verso Ferolese in parte ascosa
secondo che dice ei tiene il camino».
In questo ch’ella parla trall’ombrosa
selva sento venir romor vicino,
volgomi indietro e ’n fronte minacciosa
veggio apparir il Rosso Danaino,
tutto a cavallo e l’arme nere avea,
lo scudo al collo e l’asta in man tenea.
148E come apparse grida di lontano:
– Guardatevi, signor, che morto sète,
se non vi stan sì ben l’armi alla mano
che possiate schivar la nostra rete -.
Io, che del caso inopinato e strano
mi ritrovai come pensar potete,
pur temendo risposi: – Ei fia gran fallo
se assalite uno a piè sendo a cavallo -.
149- Come (mi rispose ei) pensate voi
ch’alla cavalleria faccia tal torto?
Montate pure e vi avvedrete poi
come qui resterete o vinto o morto -.
io, che temea gli ascosi assalti suoi
e mi fidava in me, presi conforto,
e messo tutto in punto alla battaglia
gli dissi: – O cavalier, se Dio vi vaglia,
150ditemi il nome vostro -. Ei mi risponde:
– Tosto vel mostrerò con lancia o spada -,
e ’n questo mezzo fra le verdi fronde
presa avea per giostrar spaziosa strada.
“Ben (diss’io nel mio cor) poi che s’asconde
egli è colui che di mal far gli aggrada”.
Noi venimmo al colpirci e a dir il vero
io mi trovai riverso sul sentiero.
151E ben mi dimostrò ch’era maestro
di tutti quei che veramente sanno.
Io mi percossi in modo sì senestro
ch’io sento ancor del ricevuto danno.
Ruppimi quasi tutto il lato destro
e restai come morto in grande affanno
molte ore in terra, e quando men sovviene
d’esser qui vivo ancor non credo bene.
152Poi che fui risentito guardo intorno,
pensando riveder la donan e lui,
né alcuno appar, e quando assai rimiro
che dipartiti son truovo ambe dui.
Della partenza lor poco sospiro,
massimamente poi che certo fui
che ’l mio destriero all’arbore attaccato
come buon cavaliero avea lassato.
153Né di lor seppi poi certa novella,
se non ch’un cavalier ch’io rincontrai
mi disse come lui con la donzella
avea trovato ch’era giunto omai
in Ferolese, ove chi fu rubella
s’era con lui pacificata assai.
Questo so di lui dir, e con mio costo
poi che fui con tal danno in terra posto».
154Qui rispose Giron, mostrando fuore
di non dar al suo dir molta credenza:
«Io non saprei pensar che tanto errore
facesse un cavalier d’alta escellenza
qual Danain, ch’io che a tutte l’ore
visse sempre in onor né fu mai senza,
e tanto più verso uno amico, il quale
detto m’avete già che tanto vale».
155Dicegli l’altro: «Or sia come vi piace,
questo so pur: ch’io v’ho narrato il vero,
e ’n cambio ne vorrei, se non vi spiace,Girone abbatte a duello il cavaliere scozzese (155,3-176)
saper se conoscete un cavaliero
che si può dir che sia vario e fallace
perché nell’arme è valoroso e fero
quanto esser possa alcun e porta un scudo
di Cornovaglia d’ogni onore ignudo».
156«Perché cercate voi di quel contanza?»
disse Girone. E l’altro: «Io ricevei
da lui vergogna, e vivo in isperanza
che s’io ’l trovassi mi vendicherei».
«Come faceste voi cotal mancanza»
seguì Giron «che mentre ivi l’avei
non faceste di voi giusta vendetta?
forse se ne fuggi vie più che in fretta?».
157«Non,» disse il cavalier del scudo bianco
«ma con solenne onor si dipartio,
e perch’io mi sentia piagato il fianco
non mi ardì di compir il buon desio.
Or ch’io son ben sanato e meno stanco
gli penserei mostrar, piacendo a Dio,
ch’egli è più degno assai che non si crede
del vilipeso scudo esser erede».
158L’addolorato scoto, c’ha sentito
tutto il ragionar con gran diletto,
all’ultima domanda c’have udito
risponde, benché pien d’ira e dispetto:
«Che valoroso sia, che troppo ardito
ve ne poss’io far fede, vi prometto,
e sia pur quanto vuol di Cornovaglia
che a venti come voi daria battaglia.
159Io l’ho veduto pur troppo alla pruova
e lo scherniva al suo cominciamento,
opra poi fe’ maravigliosa e nuova
e ci sconfisse tutti in un momento.
Son ben certo che a lui par non ritruova
della nostra Brettagna il reggimento.
Io son per le sue man vile e distrutto
di vergogna ripien, colmo di lutto».
160«Come,» soggiunge il cavaliero «allora
dunque vi ha vinto quel di ch’io ragiono? ».
«Sì» disse il scoto «e tutto solo ancora
e di far più gran cose il tengo buono.
ben poss’io dir che venne alla malora
di Cornovaglia poi che fa ch’io sono
infermo, senza amici, senza moglie
e senza onore in sempiterne doglie».
161Tutto smarrito l’argentato resta
e ben cangia al veder l’opinione.
Allor tutto ridente alza la testa
e gli domanda poscia il buon Girone:
«Or che la sua virtù v’è manifesta,
vorreste voi tornare al paragone
dell’arme seco?». «No (l’altro gli giura),
ch’io la tengo ora impresa troppo dura.
162Anzi umil prego il Ciel che mi conceda
ch’io non riscontri mai simili a lui,
perché io son di quei che troppo creda
nelle mie forze e poco stimi altrui.
Diegli il Cielo altra gloria e altra preda
ch’io non sarò più stolto com’io fui,
e ben può dirsi del suo danno amico
chi compagno no ’l vuol più che nemico.
163Lassa lui star Girone, e poi si volta
al nipote cruccioso del re scoto,
e replica: «La mente cieca e stolta
aveste, e fuste di giustizia vòto,
la moglie avendo al vostro amico tolta,
ucciso chi vi fu fido e divoto,
poscia il miglior guerrier che sia mai nato
menaste qual ladron preso e legato.
164Questo era il nobil re di Leonese
Meliadusse, di virtude essempio,
e vi dolete poi se ’l Ciel vi offese,
e vi donò di voi devuto scempio?
ov’è la scuola dotta che vi apprese
ad esser disleale, iniquo et empio,
dispregiar la ragion, schernire Dio
e imbrattarse le man nel sangue pio?».
165Restò lo scoto tutto sbigottito
alle vere parole ch’egli udia,
ma più che d’altro ha l’animo smarrito
quando il suo prigionier sente che sia
Meliadusse il re tanto compito
che ’l fior tenea della cavalleria.
«Come,» diss’egli «è però ver che fusse
colui che m’assalì Meliadusse?».
166«Sì,» rispose Giron «fu quello istesso
che cominciò con voi primo la guerra,
e voi legato il menavate appresso
com’uom rio che tradita ha la sua terra.
Questo peccato sol merita adesso
che mille braccia al men fuste sotterra».
«Ah,» disse l’altro «s’io ’l sapeva certo
io gli rendeva ben più largo merto,
167che non saria scampato di mia mano
senza pagare il fio d’una vergogna
fatta ad un mio parente prossimano,
il qual la morte sua soverchio agogna».
«Ah,» gli disse Giron «sempre villano
sarete, se non vien quel che bisogna,
un ch’ogni vostro affar conduca a fine
sodisfacendo alle virtù divine».
168Rispose il cavalier: «Voi non sarete
per quel ch’io creda quel che far io possa ».
«S’io non sarò, qualche altro troverete
che avrà più di me ardui, valore e possa.
Questo so ben: che quel che fatto avete
a lui ch’un dì porria rompervi l’ossa,
s’a me fatto l’aveste io crederei
torvi del mondo o me ne ingegnerei».
169Così disse Girone, et ei cruccioso
più ch mai fusse si mostrò nel volto,
e «Chiamarmi uom malvagio voi sète oso,
con tanta ingiuria come fuste stolto»,
rispose. E l’altro: «Ben saria nascoso
il ver da me d’ogni ragione sciolto,
se cavalier famoso vi stimassi
che per la torta via drizzate i passi.
170Se voi fuste uom di cuore e di valore
non avreste sofferto ch’un uom solo
vi avesse il prigionier tolto e l’amore
di chi mostrate aver sì fatto duolo.
Massime cinto con reale onore
da cotanti guerrier, da tale stuolo,
né pur mostraste allor, come ora io veggio,
d’esser cattivo, ma d’ogni altro peggio.
171E tanto più ch’uscir n’udì di bocca
che conosciuto il re l’avreste ucciso.
Ben fu parola vil, crudele e sciocca
da chi sia pur d’ogni bruttura intriso,
che se non vergogna il cor mi tocca
di combatter un tal da i buon diviso
per sodisfar al mio devere in parte
lasserei qui di voi le membra sparte».
172Rabbioso e di furor tutto ripieno
al parlar di Giron lo scoto è fatto,
e senza altro parlar piglia nel freno
il suo destriero e ’l salto snello et atto
sopra vi monta, e dice: «L’armi sieno
giudicatrici nostre a questo tratto,
le quai forse diran che miglior sono
che non pensate, e voi non sète buono.
173E vi risovverrà per sempre forse
che a nessun cavalier dèe dirsi oltraggio».
Giron le luci irate in alto volse
e gli disse: «Signor, se sète saggio
prendete in grado le parole scorte,
che sarà più, credi io, vostro avvantaggio
ch’accompagnar vergogne all’altre tante
che non si pon contar avute innante.
174E se meco venir voleste in pruova
ben fia breve, credo io, la lite nostra».
L’altro, che fuor di sé quasi si truova,
e che già tutto presto era alla giostra,
risponde: «Il ragionar più non vi giova,
che penso che ’l cianciar sia l’arte vostra».
Quando il sente Giron subito monta
e senza altro più dir con lui s’affronta,
175e ’l ferisce d’un colpo così crudo
con la lancia durissima nel petto
che no ’l poté salvar usbergo o scudo
benché fusse finissimo e perfetto,
che no ’l passasse come fusse nudo;
né contra al grave peso in sella ha retto
ma in terra va con l’anima stordita,
di sangue pien, ma non perdé la vita.
176Ritrae l’asta Giron fuor della piaga
dicendo: «Ogni villan così ne vada,
e qualunque altro di far mal s’appaga
duri quanto al gran sol bianca rugiada».
Come cortese poi, che non s’indraga
dietro a chi fugga o ’n trista sorte cada,
senza lui più guardar né ’l suo compagno
va cercando d’onor nuovo guadagno.