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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro XII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 13.09.15 13:27

La donzella malvagia incontra l’empio e misogino Breusso, che se ne innamora (1-25,5)

1Partita lor la cruda damigella,
lieta nel cor de gli scampati lacci
ma tutta disdegnosa, irata e fella,
un’orsa par che l’esca si procacci
con le furie infernai Plutone appella
che l’aiutin così che nuovi impacci
tessa contro a quei due, ch’eterna sia
la fama al mondo di sua villania.

2E mentre essa ne va discinta e scalza
cercando ove il cammino era più fosco,
la vista a caso dubitando inalza
e vede comparire al fin del bosco
un cavalier che la sassosa balza
scendeva armato, e «Ben il riconosco
all’argentato drago» disse allora,
e tosto del cammin si mette fuora.

3Ma quel, che l’avea già veduta pria,
del suo ratto fuggir tosto s’accorse,
sprona il cavallo et alla istessa via
ove ascosa sedea subito corse.
Poi che scoperta fu la donna ria
al nativo ingannar trista ricorse,
e con finti sospir, singulti e pianti
si raccomanda a lui per tutti i santi.

4E ben n’avea mestier, per ciò ch’esso era
lo spietato Breusso, quel ch’io dico
di cortesia, d’amor, di bontà vera
crudo avversario e perfido nemico,
e quante donne la persona fera
trovò ch’in vita il Cielo ebbero amico
in virtude, in beltade, in nobil sorte
senza alcuno pregiar condusse a morte.

5Or costei, che sapeva i suoi difetti,
e di lui conoscea l’iniqua usanza,
non si dèe dubitar se ’n fatti e ’n detti
si mostri umil, se ben non ha speranza;
ma come adopra il Ciel segreti effetti
e che sopra mortale ha la possanza,
e che ’l simile al simil piaccia sforza,
mostrando il cor sotto l’umana scorza,

6fe’ ch’al primo arrivar dello spietato
scorse, e non seppe che, ne gli occhi suoi
tal che s’è in un momento rimutato,
dolce l’appella e la domanda poi
come giunta era in sì misero stato,
et ella: «La fortuna, che può in noi
quanto ella vuol, dal più sublime loco
m’ha posta in grado ove il remedio è poco».

7E comincia a mentir, dicendo: «Io fui
di parenti chiarissimi produtta,
tal ch’invidia già mai non ebbi altrui,
ma bene a me la mia contrada tutta
perché mi diede il mondo de i ben sui
tanti ch’io fui per lor vinta e distrutta,
che come avvien tra le delizie molte
nascon voglie talor dannose e stolte.

8Tra gli infiniti servi avea mio padre
un povero scudier di bassa sorte,
ma di virtudi e parti alte, leggiadre
quante mai si trovaro in real corte,
e spesso si trovava ove mia madre
tra cortesi donzelle e dame accorte
dava udienza a’ cavalieri adorni
per passar tempo e spender bene i giorni.

9Io per quei tempi semplicetta e sciocca
non sapendo perché con questo solo
più volentier parlando apria la bocca,
e s’io non vel vedea n’aveva duolo,
né sapeva adoprar l’ago o la rocca,
né motto dir fra ’l femminile stuolo
ad alcun ch’ivi fusse, e al suo venire
mi facea lieta e non sapea partire.

10Né molto andò così ch’io cominciai
ad avvedermi pur ch’egli era amore,
già mi sentii scaldar da i santi rai
il pria gelato e mal discreto core,
et ei, che fintamente in simil guai
di trovarse per me mostrava fuore,
accrescea di dì in dì l’esca e ’l fucile
ch’arde assai presso un animo gentile.

11E vie più de i miei ben che di me vago
delle nozze infra noi parole mosse.
Io nel primo uscir non ben m’appago,
considerato ch’a me par non fosse,
et ei, che d’ottenermi era presago
per questa strada, il piè da me rimosse
per qualche giorno, e non tornava appresso
fin ch’io no ’l fei pregar per più d’un messo.

12Tornato al fin, tante ragioni allega
ch’io, che volea ingannarmi, gliel’ammetto,
perché ’l donnesco cor tosto si piega
in quella parte ove ha dolce e diletto,
e se ben la ragion talor cel nega,
Amor ci spinge poi con più dispetto,
e mostra ben che calcitrar non vale
contra il suo laccio, dardo, foco e strale.

13Basta ch’al suo voler mi rendei vinta
celandol sempre a tutti miei parenti,
poi da sciocco desir, lassa, sospinta,
con molte gemme i miei chiari ornamenti
di notte accolsi, et al partirmi accinta,
poi che già in casa i lumi erano spenti
e che dal sonno era ciascuno involto,
fuggii, tremando e pallidetta in volto.

14E scesi al basso dove il disleale
già m’attendeva fuor della mia porta,
mi pone in groppa poi ch’a caval sale
dolcemente mi bascia e mi conforta.
Poscia, sì come fusse vento o strale,
il destriero spronato via ci porta,
e camminati quattro vote un miglio
fummo al sicuro e fuor d’ogni periglio.

15Poi con men fretta, infin che apparse il giorno,
andiamo lietamente ragionando;
giunti in un pian ch’aveva un bosco intorno
ecco una damigella vien gridando:
– Dunque pensi, crudel, con tale scorno
pagar colei c’ha per te posto in bando
la sua patria, i suoi beni, il proprio onore
per dare ad altra lo a me tolto core?

16Non farai certo, et io te ne assicuro,
o che tu od io ci lascerai la vita -.
L’altro, che sente, mostra il ciglio oscuro
e gli divien la faccia scolorita,
perché di vero amore candido e puro
l’avea gran tempo amata e riverita,
né potea senza lei vivere un’ora
ond’ei si arresta e le risponde allora:

17- Io vi confesso, o dolce anima mia,
che fatto ho contro a voi grave peccato,
ma non per vostro oltraggio e villania
ho condotta costei c’ho qui da lato,
ma sol per ritrovar più larga via
di voi nutrire in più sublime stato
con l’oro e con le gemme ch’ella adduce
pensando ch’io le sia merito e duce.

18E non crediate che lassar vi voglia,
e s’io ’l volessi, ben che forza io n’aggia -.
L’altra, rabbiosa più che serpe soglia,
o fera qual più sia cruda e selvaggia
gli disse: – Or dunque questa trista spoglia
s’ogni sospetto vuoi ch’a terra caggia,
e la fai batter bene e poi la lassa,
secondo i merti suoi, cattiva e lassa -.

19Quello spietato non più oltre aspetta
ma mi spinge co ’l braccio e getta a terra.
poscia, sceso, mi spoglia e tutta stretta
con cinture ch’avea forte mi serra.
Indi come uom che tradigion commetta
per due scudier sentii molesta guerra
di corde e di baston, sì che le membra
divenner tai ch’ancor me ne rimembra.

20Pur mi fe’ tanto ben la donna rea
che dopo assai martir mi fece sciorre,
e questa vesta che di sotto avea
con la camicia intorno mi fe’ porre.
Restai piangendo, e pur morir volea,
ché morte solo a i miseri soccorre,
ma Dio no ’l volse, e così stata sono
molto tempo alle fere in abbandono».

21Come ebbe così detto, amara e folta
pioggia di lagrimar versando tacque.
Il fer Breusso volentier l’ascolta,
ché l’odiò tutte, e pur costei gli piacque,
e sentì in lui pietade a questa volta
che fu come se ’l foco ardesse l’acque,
e le disse: «Donzella, assai mi duole
di veder in tal grado un sì bel sole.

22E se qui fusse chi vi ha fatta tale,
e fuss’ei pur Ettorre e fusse Marte,
gli mostrerei con l’arme ch’ei fe’ male
e che dal vero e dall’onor si parte;
ma da poi che ’l preterito non vale
forza umana a distor, né ingegno od arte,
soffrir convienne, e vi assicuro ch’io
sarò quel ch’io non soglio e fido e pio.

23E compagnia farovvi in tal maniera
che di me ben lodar poi vi potrete,
e dentro un mio castel per questa sera,
e quanto piace ravvi, poserete.
Poi, volendo ire altrove, amica e vera
licenza e sicurtà meco avrete,
né in casa vostra a vostra madre in seno
stato avreste più dolce e più sereno».

24Allor la traditrice fe’ risposta
che, poi ch’era lontana al natio loco,
e che ’l sole al Marrocco omai s’accosta
sì che del giorno ci avanzava poco,
di seguirlo ove vuol s’era disposta,
se la volesse ancor condur nel foco,
ma che ’l pregava ben riguardo avere
all’onor suo da nobil cavaliere.

25Breusso adunque al suo scudier comanda
che le dia il suo caval, quantunque indegno.
Monta ella tosto, e vanno in quella banda
che lassa indietro di Norgalle il regno
e da man destra la Noromberlanda;
né molto camminarono a quel segnoBreusso viene a duello con un cavaliere e lo vince (25,6-64)
ch’un cavaliero armato riscontraro
ch’una vaga donzella aveva a paro.

26La quale un palafreno ornato e bello
aveva sotto e sen veni gioiosa.
Breusso il guarda, e poi si volge a quello
che la menava seco amica o sposa,
e gli dice: «Signor, se mai rubello
di cortesia non fuste in altra cosa,
or mi farete una grazia e vi prometto
ch’ella vi tornerà dolce e diletto».

27Rispose il cavalier tutto gentile:
«Poi che voi sète cavaliero errante,
vi mostrerò ch’io non ho l’alma vile
e ch’al mio l’altrui ben sempre ho davante,
pur che non sia fuor del dovuto stile:
la damigella di ch’io sono amante
ch’al gran re Pandragon non darei, questa,
poi tutto vostro fia quel che mi resta».

28Replicò lo spietato: «Grazie assai
del buon vostro voler, signor, vi rendo,
non vo’ la donna dei lucenti rai,
che d’averne una sola in grado prendo,
ma quel ch’io bramo più che nulla mai
è il palafren di lei, che ben comprendo
che caro esser gli dèe, ma grazia o dono
che non sia con suo sconcio non è buono.

29E la mia, ch’è più bella assai, più il merta
che qui la vostra, et ha sì mal cavallo».
Quel, che sua villania conosce aperta,
restò ben doloroso senza fallo,
perché ’l negarlo è romper fede certa
alla donna chiarissima, levallo
come ogni uom può pensar troppo gli pesa,
pur a lei più ch’al ver vuol far offesa.

30E si volge alla sua con dolce viso
dicendo: «Or discendete, anima cara,
che per salvar mia fede mi fia avviso
che non sarete d’un cavallo avara,
et ei se non sarà tutto diviso
dell’alma cortesia pregiata e cara
certo ve ’l renderà per non soffrire
di veder bella donna a piedi gire.

31Quella, che di piaccergli aveva voglia
e che forse il temea, ratta dismonta,
e sì mal volentier se ne dispoglia
che in corruccio grandissimo ne monta;
pur, come donna ammaestrata soglia,
dentro il ricuopre e prega danno et onta,
a *** fu cagion, l’altro lo prende
e ’n ringraziarla assai parole spende.

32Ma il cavaliero stran, poi che l’ha tolto
si rivolge a Breusso e gli ragiona:
«La vera cortesia stimata è molto
tra cavalieri, e quella e rara e buona
che presa essendo con allegro volto
larga poi ricompensa altrui ne dona,
però, signor, non vi sarà molesto
s’un picciol cambio vi domando a questo».

33Gli risponde Breusso: «Io son contento
sol che non rivogliate il palafreno,
nel resto adempierò vostro talento
e la fede vi do che non vien meno».
Et egli allora piglia ardimento
d’approssimarse alla malvagia al freno,
dicendo: «Io voglio aver costei da voi,
che sia compagna alla mia donna e noi.

34E le sarà co ’l camminare a piede
dolce rilevamento e fida scorta,
e voi del palafren sarete erede
che con acconcio passo agiato porta».
Quando Breusso esser gabbato vede
tanto sdegno ha ch’a pena si comporta,
dicendo: «Se vorrete damigella
ne cercherete un’altra, e mia fia quella».

35«Come,» soggiunge quello «e voi mancate
come mal cavalier del convenente?
Or adunque a quistion vi apparecchiate
o mia sarà la vostra incontinente».
«Ah,» diceva Breus «non minacciate
chi forse più di voi sarà possente,
e come vostro amico e ben verace
vi conforto a lassarla e starvi in pace».

36«Questo non farò già» costui replica
«ma senza fallo alcun resterà mia».
Breusso a ritenerlo s’affatica
dicendo che ’l miglior per lui saria
che l’uno e l’altro la sua cara amica
se ne menasse seco alla sua via,
ché dannosa è la speme troppo verde
e chi tutto vuol vender tutto perde.

37Non l’ascolta quell’altro e chiede pure
che venga all’arme o tenga l’impromessa
Breusso, al qual Amor le voglie impure
avea già spente e ’n cor gli aveva messa
l’ignota cortesia, fa ch’egli indure
d’aver al cavalier la sua concessa
per servar le parole, onde gli dice
«Sia dunque vostra e gitene felice».

38E glie la dona e glie la pone in mano,
poi dice: «Cavalier, troppo n’avete,
et io mi truovo povero e lontano
di quella onde ho novella ardente sete».
«Sì,» dice l’altro «e non vi paia strano
poi che voi stesso il donator ne sète».
Il confessa Breusso e poi gli afferma
che la sua possession fia frale e ’nferma,

39e gli avverrà come a chi tanto vuole
che non gli resta al fin quel ch’avea prima,
e che spesso dolerse a torto suole
chi le sue forze di soverchio stima,
ché i fatti differenti alle parole
sono, e tal è che pensa esser in cima
della fortuna e governar il mondo
che ’n manco d’un momento è posto al fondo.

40«Or adunque a tentar battaglia omai
vi apparecchiate, e che dichiarin l’arme
se voi sarete in questo caso assai
di così cara cosa a dispogliarmi,
o ch’a me donerete ontosi guai
o ch’io potrò da poi vanto donarme
d’aver questa in un’ora data e tolta
per rara cortesia, per virtù molta».

41Il cavalier allor risponde breve
che troppo si terria vituperato
se non facesse quanto guerrier deve
che vada di due donne accompagnato,
e senza oltre più dir veloce e leve
snello il forte destriero ha rivoltato;
fa il medesmo Breusso, e d’ira pieno
l’uno e l’altro s’incontra a largo freno.

42Era lo stran guerrier fero et ardito,
tenuto fra’ miglior d’alto valore;
Breusso era di forze più fornito,
di scienza nell’arme e di gran core,
e se non che fu sempre mal nutrito
ove mai non regnò pregio d’onore
ma sol la discortese crudeltade,
fu de i gran cavalier di quella etade.

43Or adunque, percossi a mezzo il corso,
non poté il duro colpo sostenere
l’altro baron, che del destriero il dorso
ben non ritenne, e gli convien cadere.
Breusso urtando qual cinghiale od orso
immobil quasi si potea vedere,
e poi che l’avversario in terra scorge
prende il caval che fugge e poi gliel porge.

44«Questo avrete da me per cortesia
ma non le damigelle, ch’a ragione
senza contrasto l’una e l’altra è mia,
e coi del vostro mal sète cagione».
Accettò altro questa cortesia
e rimontò di subito in arcione,
e confessava al vincitor aperto
che miglior cavaliero era di certo.

45«E per vostra virtù» dice «devreste
più nobil atto al vostro vinto usare,
ciò è di darmi al men l’una di queste
che perduta ho per mio troppo bramare».
«Ah,» risponde Breusso «se sapeste
che nessun uom già mai si può vantare
in questo istesso o nell’altrui paese
che io gli fussi amoroso né cortese,

46né fei cosa mai buone che per tema
o per necessitade o forza altrui».
L’altro soggiugne: «Or come venen scema
da questa parte la natura in vui,
ch’ove ardir pose e pose forza estrema
non volesse ancor por con questi dui
virtù sì chiara senza qual mi sembra
ch’è nulla il core o valorose membra?».

47Seguitava Breusso: «Or dite voi
qual cortesia da me vorreste ancora».
E l’altro: «Io sarei quel ch’aratro e buoi
adopra nella rena e ’n van lavora».
«Forse fia ver, ma noi il vedrem da poi,
ché lo stato mortal cangia in una ora;
ditemel pur» dice Breusso a quello,
et esso: «Io vel dirò, sì bramo havello.

48Altro da voi, signor, non domando io
che colei che per l’arme è fatta vostra».
Lo spietato gliel nega, e crudo e rio
più che mai fusse al cavalier si mostra,
il qual, maravigliando, chiama Dio,
dicendo: «Come uom facesti in giostra
un che in altro sia tal?». Poi lui domanda:
«Che sète voi campione? e di qual banda?».

49Et ei, ridendo: «Avete unquanco udito
ragionar di Breus senza pietade?».
E l’altro: «E’ son molti anni e ’n più d’un lito
ch’io sento già biasmar sua crudeltade».
«Or (replica egli) io fui da lui nutrito,
suo buon parente, e tralle sue contrade».
«Ben (disse il cavalier) gran danno fece
a macchiar sì gran cor di simil pece.

50E ben mal’erba è quella che fa danno
ad un ben coltivato e sì bello orto,
e gran peccato quei che ’l posson fanno
a no ’l sepellir prima che sia morto,
che tratto avrian di perilioso affanno
mille spirti gentil periti a torto.
O beata la mano e gloriosa
cui doni il Cielo un’opra sì famosa!».

51Allor domanda il fero dispietato:
«Se voi teneste qui Breusso in mano,
com’io voi tengo, e fusse ancor legato,
il lassereste voi fuggir lontano
e seguitar l’orrendo suo peccato,
o tutto il suo pregar sarebbe vano?».
Risponde l’altro allor: «Che ne farei?
Quel che si devria far di tutti i rei,

52ch della testa gli farei due parti
e ’l resto lasserei qui intorno appeso,
poi che fatto n’avessi quattro quarti
a i corvi impuri cibo vilipeso,
per insegnar all’uom che le buone arti
solo apprendesse e nessun fusse offeso
mai più dall’impia sua scelleratezza,
dell’altrui sangue di nutrirse avvezza».

53Poi seguita: «Signor, ancor di nuovo
vi prego a mi lassar la donna mia».
Disse Breusso: «Or vi dico io ch’io pruovo
che fia l’aver desio di cortesia,
e fuor del natural per voi mi muovo
a voler che costei la vostra sia,
e quel se a farvi tale io sono il primo
voi ne ringrazio e molto più m’estimo».

54Dagli adunque al figlia, e quella prende
tutto gioioso e dipartir si vuole,
me il fer Breusso, che di udire attende
i suoi gran biasmi pe le altrui parole,
poi che ’l tesoro suo largo gli rende,
il ridomanda, pur come far suole,
s’ei pensa che Breusso usato avesse
cortesia mai ch’a questa al pari stesse.

55Il riguarda il guerriero e poi gli dice:
«Volete voi che il Diavol dell’Inferno
faccia atto mai se non tristi e ’nfelice,
che sia danno a i miglior, dolore e scherno?
Mai non farà, se non quel che disdice
ad ogni alma gentil l’estate e ’l verno,
perché tanto è indurato in oprar male
ch’essempio o prego a rammendar non vale».

56«Or mi dite» il crudel da poi seguio
«se voi vi ritrovaste a lui presente
sì come or sète nel cospetto mio
per quanto gliel direste apertamente».
E ’l cavalier: «Di ciò mi guardi Dio,
ch’io sarei, lasso, morto incontinente».
Segue Breusso: «E se voi in man teneste
un che vi odiasse assai che ne fareste,

57quando voi fuste assicurato e certo
che voglia avesse di condurvi a morte?».
Risponde l’altro: «In mezzo d’un diserto
lui vorrei porre alla medesma sorte».
«Dunque» disse il crudel «per vostro merto
e per sentenza vostra l’ore corte
per le mie proprie man devreste avere,
s’io vi bramassi ben fare il devere,

58perché nemico mio del tutto sète».
«Non son,» disse il baron «né sarò mai,
anzi di farvi ben sempre avrò sete,
et a chi vi vuol mal far danno e guai,
perché tanto di ben fatto m’avete
ch’io non vi saprei render grazie assai,
e se m’avete ben vinto con l’arme
d’esservi più tenuto in tutto parme».

59«Non bisogna più dir,» l’altro soggiugne
«ché voi m’avete in dura opinione,
né devria vostra vita molto lunge
da me partir a far dritta ragione,
poi che torto desio vi scalda e pugne
di sotterarmi senza altra cagione».
Pensa alquanto il campion e disse poi:
«Lo spietato Breusso sète voi?».

60«Sì» rispose esso «e non vi celo il vero,
ch’io son quel proprio e me ne glorio ancora,
e vo’ punir il pensier vostro fero
che mi vuol morto e che mi disonora,
e poi che sète omai sotto al mio impero
dir vi potete star del mondo fuora».
Resta l’altro smarrito e non sa bene
che dirsi o farsi, e se ne truova in pene.

61Pur riprende coraggio e gli ragiona:
«Signor, direte pur quanto vi piace
ch’a voi medesmo e null’altra persona
non crederò che testimon verace
sia che voi siate quel ch’al mondo suona
per disleal, crudel, sozzo e fallace,
che se voi fuste quel già sarei morto
e pur son vivo ancor e mi conforto».

62Disse Breusso: «Allora io vi prometto
per l’alto segno di cavalleria
ch’io son quel propriamente ch’io v’ho detto,
né porria il mondo far che ciò non sia».
E quel: «Voi sète cavalier perfetto,
pien di fede, di onor, di cortesia,
et io per pruova il so, quell’altro è tale
che si puote appellar cosa infernale».

63Ridea Breusso, e poi gli fa donare
l’altro ronzin che fu del suo scudiere.
Ringrazialo esso, e segue di pregare
che gli conti di sé novelle vere.
Egli il rafferma, e sa pur tanto fare
che di credergli al fin venne in parere,
e disse: «Io vi prometto da qui innanti
combatter mille cavalieri erranti,

64e tutti gli altri poi che dir vorranno
che Breusso non sia prode e gentile,
nemico estremo d’altrui pena e danno,
ch’ama virtude e ’l vizio tiene a vile;
e prego il Ciel umil che d’ogni affanno
vi guardi e vi mantenga in questo stile,
e sì deggio io ciò far, da poi che solo
ricevo ben da voi, tutti altri duolo».

La donzella malvagia finge di ricambiare Breusso per attirarlo in una trappola: lo fa cadere in una spelonca (65-98,2)

65Indi si parte, e lì Breusso resta
con la sua damigella assiso alquanto;
poi verso il vespro lassa la foresta
e cerca il suo ricetto, ch’era a canto
d’una montagna, fuor della via pesta,
ove solea condur per morte e pianto
uomini o donne che prigioni avea,
per condannar e porre a morte rea.

66Or quella sua compagna, che certa era
d’ogni aspra condizion ch’avea Breusse,
pensosa in sé di fuor fa lieta cera
infin che ’l tempo di tradirlo fusse,
che s’egli un tigre fu, quella una fera,
a cui la Libia egual mai non produsse,
e per conchiuder breve era una coppia
maligna, disleale, iniqua e doppia.

67Poi che son giunto all’impio alloggiamento
con quello onor che puote l’accarezza,
e ’n se medesmo si tenea contento
del guadagno di lei, che molto prezza,
e ben l’amava allor di buon talento
quell’alma micidial di odiar avvezza,
ma l’altra ogni buon fatto, ogni buon detto
come usata ch’ella è prende a sospetto,

68dicendo nel suo cor: – S’occasione
mi darà il Ciel di tradirlo mai di vita
non la lasserò gir, ché da ragione
usandogli pietà farei partita -.
Quell’altro è di diversa opinione,
pensa sol che di lei resti compita
ogni voglia ch’avesse,e e riccamente
la veste d’oro e di caro ostro ardente.

69E moltiplica ognor l’avuta gioia
quanto la guarda più, quanto è più adorna.
Non sentì mai dell’amorosa noia
ch’or nel principio in allegrezza torna;
se non è con lei sempre par che muoia,
onde la notte e ’l dì quivi soggiorna,
Dio ringraziando che gustar gli face
sì dilettoso cibo e ’n tanta pace.

70E quella, che sa bene oprarlo a punto,
non si può dir come il raccende e tira:
mostra di aer il cor per lui compunto
quanto esser possa, e ’l guarda e poi sospira,
tiene il piè sempre a i passo suoi congiunto,
e s’ei mostra partir, dolce s’adira,
dicendogli: «Or ch’io v’amo oltr’a misura
so che nulla di me tenete cura,

71ma non è maraviglia, ché l’uom suole
sempre meno stimar chi troppo l’ama,
aver più in odio chi l’adora e cole,
seguir chi fugge e fuggir chi lui chiama.
Ma che gloria vi fia, sommo mio sole,
d’aver tradita semplicetta dama?
Ma sia pur come vuol, per voi morire
più tosto vo’ che con altrui gioire»,

72e poi mill’altre cose che dir sanno
tutte le donne ammaestrate in arte,
e chi provato ha il mondo più d’un anno
e che dal buon sentiero onesto parte,
il suo crudo amoroso sente affanno
del duol che mostra, e la conforta in parte,
dicendole: «Il mio ben, madonna, sète
e la mia vita, e sempre la sarete.

73E vi assicuro che i bei vostri lumi
m’hanno abbagliato sì ch’altro non veggio,
e felice sarei tra gli aspri dumi
pur ch’io fussi con voi, ch’altro non chieggio,
ché ne fate cangiar vita e costumi,
ch’oggi sono il miglior che già fui il peggio,
voi mi feste vestir vera virtude,
e spogliar le maniere ingiuste e crude».

74Così la scelerata coppia insieme
van ragionando, ma l’uno è ingannato,
l’altra, che ’l rio consiglio in petto preme,
aspetta il tempo all’opra accomodato.
Or venne un giorno, quando il caldo preme,
che ’l fero amante con la donna a lato
ben tre giornate lunge a suo diporto
andò dove fortuna l’avea scorto.

75Poi ch’ebber trapassata una campagna,
ritrovaro in un bosco una fontana
che distillava giù dalla montagna
altissima e di là poco lontana.
Ivi, appo un rivo dove l’acqua stagna
e poi corso riprende dolce e piana,
l’una e l’altro si posa e si rinfresca
dell’onde vive e della portata esca.

76Han dato fine alla lor mensa a pena
ch’una voce l’orecchie lor percuote
d’uomo o di donna che si truova in pena.
Corre Breusso alle ascoltate note,
pregando lei che la corrente vena
non abbandoni, e tosto quanto puote
ritornerebbe, et ella gliel promette;
esso in cammino a ricercar si mette.

77Come è partito l’impia damigella,
che sol pensa a i suoi danni, indi si muove,
va ricercando questa parte e quella
perché spera trovar, ma non sa dove,
modo che l’aspra odiosa anima fella
o con morte o con mal da sé rimuove.
Guarda nel monte or a sinistra or destra
se cosa vi ha per traboccarlo destra.

78Perch’ivi eran gran massi, sterpi e grotte,
profondi fossi da torrenti fatti,
ove nel mezzo dì, non pur di notte,
periti vi sarien le capre e i gatti.
Ivi esamina ben se a pien condotte
aver porria le voglie a i tristi fatti,
e le vien pur veduto nella fine
uno spiraglio ascoso tra le spine,

79il qual mostrava ch’artificio umano
l’avea fatto con ferri e con ingegno.
A lui s’appressa, e ben ferma la mano
che le sia dal cader fermo ritegno;
scorge là dentro un luminoso piano
che di casa real mostrava segno,
bella e vaga a mirar, con mille porte
che avean tutte davanti loggia e corte.

80Ben era profondissima la cava
sì che sembrava a colei gran maraviglia;
dirupate le mura onde s’entrava,
sì ch’a pozzo o cisterna si assimiglia.
Considerando ciò fra sé pensava
che cosa fusse, e poi partito piglia
di provar se Breusse per là entro
si porria traboccar infin nel centro.

81Poi guarda intorno se vede altra uscita
che le tornasse vano il suo pensiero,
né la trovando spera tutta ardita
che ’l mal disegno le riesca interno.
indi si parte e rattamente è gita
ove lassolla il suo compagno fero,
ivi si assiede come stava innante
che non appar che mosse abbia le piante.

82In questo ecco arrivar Breusso a lei,
senza dannaggio aver nella persona,
et ella: – Or fustu morto, o re de’ rei -,
nella sua mente tacita ragiona,
pur lieta dice: «Io rendo grazia a i dèi
che n’han data fortuna chiara e buona,
e vi prometto, ohimè, che in doglie e pene
sono stata per voi tra tema e spene.

83Deh, signor, per l’amor che tal vi porto,
non mi lassate in questa guisa mai
che infin che qui non vi riveggio scorto!
Non vi porria narrar s’io vivo in guai:
voi la mia gioia sète, il mio conforto,
la mia luce, il mio ben più caro assai
che l’istessa mia vita, che ’l mio core,
che l’alma propria, e così vuole Amore».

84E l’accoglie, racconsola e le dice
ch’ami ella quanto vuol, ch’ella è più amata,
e che si tien que dì più che felice
che a lei piú cosa far che torni grata,
e che da quivi innanzi ogni pendice
ch’ei cercherà con lui sarà menata.
Scende, l’elmo si cava e l’arme posa,
lassa il caval sopra la piaggia erbosa.

85«Or che trovaste voi» la donna chiede
«in quella parte là dove ne giste?».
L’altro risponde: «D’uno stagno al piede
due cavalier trovai, due donne triste,
ma belle assai, per quanto fuor si vede,
di alti sembianti e di leggiadre viste,
quelli altri ben guerniti a piastra e maglia
avevano infra lor dura battaglia.

86Perché l’un le due figlie aver volea,
l’altro sol che ciascun n’avesse l’una,
e per questa cagion la guerra fea
e la virtù tentava e la fortuna;
e davanti il mio arrivo già l’avea
battuto in terra e senza pietà alcuna
tratto poi l’elmo alla percossa testa
mentre che l’altro vinto e basso resta,

87e tòr voleagli il capo dalle spalle,
onde mercé gridava il poverello.
io, che lo vidi al periglioso calle,
in man dell’inimico empio e rubello,
con minacce alterissime la valle
empiei gridando, in modo tal che quello
gli perdonò, poi d’indi si partiro
con la sua donna ogni un come veniro».

88Qui si tacque Breusso, et ella allora
gli disse: «Signor mio, la vostra tale
strana avventura che n’è incontrata ora
non è da por alla mia quinci eguale;
e per mostrarvi ch’io non passo fuora
della ragion venite ove si sale
là in cima al monte e mostrerovvi cosa
ch’a ciascun sempre fia maravigliosa.

89Indi si muove, e l’altro l’arme prende,
e ratto di costei seguita il piede.
Alla finestra arrivan che discende
nell’aspra cava che là giù si vede,
la qual ben fatta in largo si distende
quadrata tutta e riccamente assiede.
Riguardala Breusso e tal gli piace
che se non va laggiù non truova pace.

90E quella disleal a ciò lo spinge
dicendogli: «Io ci vidi una donzella
che tal mi par che Citerea si pinge,
graziosa, leggiadra, vaga e bela.
Un sciamito vermiglio fascia e stringe
le bianche membra, et io vedendo quella
la chiamai forte e domandar volea
se donna era mortale o pure dea,

91e per saper ancor s’ivi altra entrata
si ritrovasse per andar là giuso.
Quando ella mi sentì, quasi crucciata,
non si degnò di rimirar in suso,
ma in quella porta ch’all’incontro guata
si mise tostamente, ond’io l’accuso
di cortesia, sì come di beltade
la lodo e pregio molto in veritade».

92Quando l’ode Breusso crede a lei
più che non si farebbe a gli occhi suoi,
le dice: «Ben codardo oggi sarei
da non chiamarmi cavalier da poi
s’io non andassi dove sta costei
e riportarne qui novelle a voi,
e ben veder se nobile avventura
trovar potessi in questa cava oscura».

93L’altra del suo periglio fa sembiante
ch’assai le doglia, e ne ’l conforta appresso.
Egli un grand’arbor, ch’era lì davante,
sfronda per tutto, poi ch’a terra è messo,
l’elmo, il scudo e l’usbergo getta innante
e le calze di ferro al modo istesso,
poi con quel tronco in man tosto s’avventa
sì ch’ei dal colpi primo lui sostenta.

94Ma non però sì ben che con la testa
non percotesse nel cadere in basso,
e tramortito per alquanto resta
che più non si movea che legno o sasso.
La cruda damigella non è mesta,
estimandol di vita privo e casso,
ma non già stette a rimirarlo molto
che d’ogni stordigion il vede sciolto.

95Duolsene ben, ma poi racquista speme
che non possa uscir mai di sì stran loco.
Il chiama adunque, e poi che più no ’l teme
scuopre la sua malizia e ’l prende in gioco:
«Voi costì sète e se ne spenga il seme,
e s’altrui v’assimiglia fia nel foco:
io ho di mille già vendetta fatta,
e posta in salvo la donnesca schiatta.

96Or voi mostrate di pregiarmi tanto
e per una costì solo in un punto
m’avete abbandonata? Ma nel pianto,
così com’io nel riso, sète giunto,
e se voi quella avrete d’altro canto
mi sarà il cor di nuovo amor compunto;
voi sarete sotterra, io qui nel mondo,
voi nell’oscuro stato, io nel giocondo».

97Disdegnoso Breusso non l’ascolta
e ch’un dì si ripenta in sé disegna.
Vassene a dentro e questa indietro volta
a caval monta d’allegrezza pregna,
dicendo. «Ben punita a questa volta
la vita è di costui d’ogni mal degna,
poi che faccendo a donne eterna guerra
per una donna vivo ito è sotterra».

98Così dicendo prende altro cammino
cercando in nuova parte il suo piacere.
Breusso solitario e peregrinoBreusso nella spelonca trova il sepolcro di Febo e dei suoi figli (98,3-138)
non sa che fine il capo possa avere;
vanne tutto pensoso a capo chino
ove una bella camera vedere
può quivi sì che l’architetto dotto
mai non la fece tale in Camelotto.

99Truova in mezzo di quella un ricco letto
di seta ricamato e d’oro e d’ostro,
e quando più di lui prendea diletto
vi scorge dentro un incredibil mostro,
ch’un morto ivi giacea che nell’aspetto
mostrava che gran tempo sciolse il chiostro
all’anima ch’avea per gire al Cielo,
ma non avea perduta carne o pelo,

100anzi era così bel che parea vivo
a rimirargli ben le mani e ’l viso.
Guardalo il cavalier, di tema privo,
e di veder un dio gli sembra avviso.
Di palma aveva, di lauro e d’ulivo
un cerchio in testa dottamente inciso,
coperto d’un ricchissimo mantello
con un fermaglio al collo vago e bello.

101Aveva l’elmo in testa et al costato
una spada ornatissima e l’usbergo,
e le calze di ferro all’altro lato,
a i piè lo scudo e la sua lancia al tergo.
Ma il brando rea oltr’a modo smisurato
sì che il fero Breusso: «Io mi sommergo
di maraviglia,» disse «e non pensai
che sì grande arme si trovasse mai».

102poi riguarda ben fiso il cavaliero
e s’accorda in suo cor ch’allor non fia
sì gran campione, e nel mirar sì fero,
ch’ogni uomo ardito ne spaventeria,
e che visso era in quel tempo primiero
che fu più in pregio la cavalleria,
e di far maggior membra la natura
che in questa ultima età metteva cura.

103Viengli nel riguardar visto ch’avea
serrata alquanto la sua destra mano;
va ricercando, e truova che tenea
un breve in essa, e non pareva in vano.
Disioso saver quel che dicea
senza offenderla pur l’apre pian piano,
spiega la carta chiusa in picciol nodo
e vede ch’er ascritta in cotal modo:

104Questa man che mi tiene in un sol giorno
vinse e distrusse le schiere Norgalle
e di Noromberlanda, e danno e scorno
fece egualmente alla gallese valle.
Così di lauro e palma il capo adorno
a tre gran regi fei voltar le spalle.
Fei cencinquanta colpi e per ciascuno
uccisi molti ’l minimo fu d’uno.

105Eran quindici mila armati in sella
quei ch’io disfeci, non vi fu contrasto,
e tutto per cagion della donzella
noromberlanda che di fuoco casto
m’ardea sì forte ch’io pigliai per ella
a far sì nobil gente a i corvi pasto.
Ella mi fece tal che con ragione
fui poi stimato l’ultimo Sansone.

106Febo sono io, non già chiamato a torto,
perciò che come il sol con la sua luce
fa restare ogni lume spento e morto
e nuovi raggi preziosi adduce,
tal io fu’ luce, lume e sole scorto
della cavalleria, d’ogni buon duce
ch’arme vestisse in questa o in quella parte,
e fei forse vergogna in cielo a Marte.

107E pur con tutto ciò vinto d’amore
fui lungamente, e poi di morte preda.
Or non sia dunque chi al terren valore
ponga lunga speranza o troppo creda;
sol si deve apprezzar il vero onore
in questa vita, e far che l’alma rieda
men macchiata che può dall’uman loto
al suo Fattor, né spender gli anni a vòto.

108Tal era scritto in quella carta breve
la qual già letta per più d’una fiata
sentì di tenerezza dolor greve;
e poscia al primo modo ripiegata
come a santa reliquia far si deve,
nella medesma man l’ha riposata,
e conoscendo il nome ancora il guarda
e par che di desire e d’amor arda,

109dicendo: «Maraviglia più non sia
ch’ei facesse a i suoi dì così grandi opre,
perch’io mi credo ben che poi né pria
quanto qui scalda il sol, quanto il ciel cuopre
fusse natura mai sì larga e pia
ovunque l’arte e ’l suo potere adopre
come fu per costui, ch’al veder solo
pur morto il temo, il riverisco e colo».

110Ragionando cotale il passo muove
per veder s’altra cosa degna ivi era.
Truova una cameretta tal ch’altrove
non vide mai di siile maniera,
e pensa allor fra sé che in alto giove
ove esso alloggia nella sesta sfera
esser mai non potesse veramente
o più bella o più ricca o più lucente.

111I palchi son di gemme, i muri d’oro
splendidissimi e fini oltr’a misura,
con mille intagli di sì bel lavoro
che l’arte avea fatta onta alla natura.
in mezzo un letticciuol che quanti foro
che di simiglianti opre ebber la cura
quando più le delizie amava il mondo
non ne vider più vago e più giocondo.

112Avea sopra ciascun de i quattro canti
un arbor d’oro e di smeraldi fronde,
et ogni ramo lor tre volte tanti
vaghi augelletti all’ombra sua nasconde,
e chi scuote la pianta in dolci canti,
sente armonia che tutto il luogo infonde,
che proprio sembra il più leggiadro aprile
che in essi infonda l’amoroso stile.

113Ivi dentro era ornatamente stesa
una morta donzella, che ben mostra
ch’angiola fusse già fra noi discesa,
nata lassù nelle stellanti chiostra,
né gli avea il tempo al volto fatto offesa
ma come viva ancor s’imperla e ’nostra,
che le labbra vermiglie e i bianchi denti
si facean rimirar vaghi e ridenti.

114Parean d’auro i biondi suoi capelli
sparsi intorno alle spalle, e crespi ancora
che ’nfin su’ piedi leggiadretti e snelli
faceano invidia alla più lieta aurora.
Breusso per miracol ferma in elli
la vista sola, e gli riguarda ancora;
scuote quelli arbor poscia, ove udir sente
mille varie canzoni dolcemente.

115E tanto ha forza in lui la vaga vista
di quella e v canto di mille augelletti
che l’alma, ch’avea già sdegnosa e trista,
par che in quei si conforti e gli diletti,
ché gran beltà con maraviglia mista
fa tali spesso e maggiori anco effetti,
e rende grazie al Ciel ch’ivi l’ha posto,
e sol gli graveria d’uscirne tosto.

116Della donzella poi mira la gonna
che di purpurea seta era contesta,
e la giudica tal che nulla donna
ebbre fra noi la simigliante a questa,
tal che, guardando, in guisa di colonna
sospeso, fermo e stupefatto resta.
Vedegli cinta una catena intorno
della qual non fu arnese mai più adorno.

117Guarda le belle mani e vede l’una
ch’è mezza chiusa e un breve aveva in essa.
L’apre e poi il legge, esamina ciascuna
parte ch’ivi era dottamente impressa,
che narrava di lei l’aspra fortuna
che d’alto luogo poi l’avea rimessa
in miser stato, e come i suoi peccati
eran d’ogni suo duol cagione stati.

118Adam (dicea) fu il nostro primo padre,
il qual di morte non fu fatto degno
in fin che per parole inique e ladre
d’Eva della ragion trapassò il segno.
Ella d’ogni miseria vera madre
ci diede in preda all’infernal suo regno,
tal di me avvenne con quel cavaliero
che di là giace e che meritò impero,

119ché, come quel di tutto il seme umano
fu sol principio e di cavalleria,
fu questo il capo, e con l’invitta mano
dimostrò al modo che prodezza sia,
l’altro, per un consiglio vile e vano
di donna, cadde in bassa sorte ria,
e questo a i detti miei prestando fede
fu di vergogna e d’aspra morte erede.

120Quel per Eva morì, per me costui,
ella il primo uomo et io il cavalier primo
con danno universal nostro e d’altrui
dal sommo grado conducemmo all’imo.
Vero è che del suo mal dogliosa fui
e ripentita sì che meco estimo
che come infino allora nessun crudele
fu più di me, nessun poi più fedele.

121E quanto in vita dopo lui restai,
giorno e notte lui piansi veramente,
e per far dopo me che pianto assai
fusse non sol dall’onorata gente,
ma che gli augelli ancor con dolci lai
facesser qui rintenerir la mente
di ciascun che gli ascolti, questo letto
fabbricai di mia mano a questo effetto.

122Queste parole a punto erano scritte
in sì doglioso stil com’io vi dico,
le quai fèro a Breus le voglie afflitte
quantunque di pietà fusse nemico.
E ben nell’alma sua le tien confitte
come chi sia di donne poco amico,
e perché n’have in sé novella pruova
e ch’udir biasmi lor non poco giova.

123Poscia ritorna ancor più di due volte
a scuoter quelle piante e ’l canto udire,
dubitando tra sé se ’l vero ascolte
o pur se ’l sogno gliel faccia sentire.
poi cerca tristo in quelle spoglie avvolte
se fusser brevi che sapesser dire
chi fu costei delle dorate chiome
e molto ne desia saper il nome.

124Ma no ’l può ritrovar, perché celato
l’avea la donna, per vergogna forse,
tanta e sì dura dopo il suo peccato
penitenza e dolor ne la rimorse.
Lo spietato Breus, come insensato,
di qua, di là poi ch’assai tempo corse
indi si parte, e truova un’altra stanza
in cui d’altro miracol ha speranza.

125Entravi dentro e la riguarda intorno:
ella era più dell’altre assai spaziosa,
ma non sì ricca e d’abito sì adorno;
pur era a riguardarla altera cosa.
Guarda ove più vi penetrava il giorno
e scerne sotto a quello smalto ascosa
gran quantità di ricche sepolture
di vari marmi ma di eguai misure.

126Intagliato era di ciascuna in cima
un cavaliero armato, et a i piè loro
scolpito il nome dall’antica lima.
molto argento vi luce e nulla d’oro,
descritto truova in quella che par prima
perch’era assisa in lato più decoro:
Limorse fui, del gran re Febo figlio,
ch’ogni altro superai di arme e consiglio.

127L’altra avea Naitas, quel senza pare,
e l’altra Altano aveva il bello e forte,
la quarta Siraoc, che in ogni affare
vinse ciascuno e poi lui vinse morte.
Poi quivi appresso sopra il muro appare
in porfiro descritto fra due porte:
Noi quattro figli, o tu che ne riguardi,
venimmo appresso il padre e poco tardi.

128Fu Febo il nostro padre, il vero lume
della virtude, e qui vicin si giace
sepulto no ma come vivo in piume,
però ch’al suo valor morte soggiace.
Noi qui, secondo il pubblico costume,
aggian sotterra il corpo e l’alma in pace,
e s’egli avanza i morti in grado tale
anco in vita avanzò ciascun mortale.

129E noi, quantunque cavalieri e prodi,
a lui non fummo di gran lunga eguali.
Esso ebbe qui divini onori e lodi,
non pur da noi ma da gli dèi immortali;
in guerre, in cortesie, con tutti i modi
spiegò di lui la fama le grandi ali.
Poi nel fin così nobile alto core
finì i suoi giorni per cagion d’amore.

130Perch’io, lettor, ti prego e ti consiglio
che s’aver vuoi pregiata e lunga vita
fuggi lontan l’amoroso periglio
che con inganni a i propri danni invita;
e poi che quel ch’a marte rassomiglio
fece del mondo aver sozza partita,
pensa quel che farà ne gli altri poi
più bassi ingegni e non maggior di noi.

131Così diceva il porfiro, il qual legge
molte volte Breusso, e seco dice:
– Questo mi risospinge alla mia legge
ch’or lassai, stolto, e che mi fea felice,
e fo voto a Colui che tutto regge
che dentr’al cor nell’ultima radice
avrò la notte e ’l dì queste parole
consegrate, scolpite, eterne e sole -.

132Indi guardando scorge un’altra porta
la qual era alla stanza assai vicina;
d’entrarvi il dubbioso animo conforta
e cercar s’ivi fia cosa divina,
e come chi del Ciel aggia la scorta
cotal sicuramente allor cammina;
pargli d’ogni altra pria maggiore alquanto
quadrata, e vede un letto in ogni canto.

133Di seta, d’oro e d’ostro era coperto
e dipinto a bellissime figure,
che celesti sembianze avevan certo
pur in maniere lagrimose e scure.
Lì sopra si vedea qual sole aperto
splendor di lucentissime armature,
né vi mancava scudo, lancia, spada
di cui sommo guerrier fornito vada,

134né trovar si potrebber le migliori,
e ben il cavalier le mira intento.
Gli scudi eran divisi in due colori
per lo lungo, uno azzurro e l’altro argento;
sì grandi son che quattro de i maggiori
c’oggi abbian arte, forza et ardimento
non gli avrebbero alzati pur da terra
non che portati in torneamento o in guerra.

135Poi ch’egli esaminato ha tutto bene,
entra in un’altra camera più grande,
perché di ritrovarvi ancora ha spene
di simili al suo cor degne vivande.
Vede che in mezzo riccamente tiene
un sacro altar che poco il giro spande,
ma coperto di veste aurate e belle
ove appariva il sol fra molte stelle.

136Sopra il qual vede star due ceri ardenti,
di che s’allegra, nel suo cor parlando:
– Qui si puote sperar ch’abitin genti
che ci venghin i lumi ristorando,
perciò che di ragion sarieno spenti
poi che il filo e la cera fusse in bando -.
E si rallegra tutto e si consola
di non trovar la ricca stanza sola.

137E benché fusse vòto di pietate
e sopra ogni mortal malvagio e crudo,
pur s’inginocchia e l’alta pia bontate
divoto adora e tiene il capo nudo.
prega per l’alme quivi trapassate,
per sé da poi, che gli sia scampo e scudo
contra il nemico uman per quelle cave
e di tornarlo al mondo non le grave.

138Indi in una gran sala muove il passo
che passava tutte altre di grandezza,
ma d’abito negletto, vile e basso
come di chi l’’umane cose sprezza.
Tre letti vi son nudi, et hanno un sasso
ciascun per origlier di alta durezza.
Quando vide sì povero ogni arnese
che romiti vi sien certezza prese.