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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro XIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 13.09.15 13:44

Breusse racconta a un vecchio che si trova nella spelonca chi sia il miglior cavaliere dei tempi moderni (1-40,4)

1Mentre intra sé pensava in questa guisa
vede un vecchissimo uom a punto entrare,
con una cotta bianca rotta e ’ncisa
tal ch’alla vista di mille anni appare;
la lunghissima barbar in due divisa
fino al ginocchio si vedea cascare,
candida più che in Apennin la neve
quando più l’Aquilon nel verno è greve.

2Del medesmo color inculta scende
della antica sua fronte alla cintura
la reverenda chioma, il corpo pende
stanco, incurvato vêr la terra dura.
Con tutto questo pur vi si comprende
che già sia stato grande oltr’a misura,
perché di molto ancor Breusso avanza
e gli altri poi della moderna usanza.

3Ben pareva a mirar caduco e frale
e non molto possente della vista,
ma presenza mostrava alta e reale,
non molto lieta, non del tutto trista.
A gli antichi profeti pare eguale,
c’hanno alla deità natura mista.
Passa oltre lento lento e di Breusse
non più s’accorge che s’altrove fusse.

4Ma il cavalier, ch’a canto lui si vede,
gli disse tutto umil: «Dio sia con voi».
Il buon vecchion, che solo esser si crede,
non ebbe tal timor prima né poi,
e se avesse sì pronto avuto il piede
com’egli ebbe altra volta a i desir suoi
si fuggia certo, dubbio tal l’ingombra
che non fusse lì scesa infernal ombra.

5Ma quel, che del timor suo s’era accorto,
tosto soggiunse: «O santo padre antico,
non dubitate no, che nessun torto
da me riceverete che d’amico.
Vesto le membra ancora e non son morto,
cavalier vivo all’opre rie nemico,
e qui dal mio destino scorto sono,
né so ben anco se malvagio o buono.

6Pur mi conforto assai poi che ci trovo
quel ch’io non mi credeva, uomini in vita».
Drizzò il vecchio la fronte al parlar nuovo,
e con voce tremante ma gradita:
«Signor,» disse «al dir vostro mi commuovo
più che di cosa c’ho gran tempo udita,
perché molti anni son che cavaliero
non vidi mai per questo stran sentiero,

7fuor che due soli che qui dentro stanno.
Per ciò vi prego per cavalleria
che non vi apporti il seder meco affanno,
e darmi nuove come il mondo stia,
chi sieno i cavalier ch’oggi il pregio hanno
e che van dritti all’onorata via.
Anch’io fui cavalier, ma troppo tempo
è ch’io lassai, né lo lassai per tempo.

8E se buona avventura mi dia il Cielo
più di cento anni son ch’io spogliai l’arme,
e ben aveva allor sì bianco il pelo,
sì frale il resto che de i membri aitarme
più non poteva, e poi che qui mi celo
non ho potuto ancor mai disfogarme
di ragionarne pur se non co i duoi
ch’io vi dissi davanti et or con voi.

9Però vago sarei, se ciò vi aggrada,
d’udir da voi di lor vere novelle,
chi con la cortesia, chi con la spada
fa più che ’l mondo d’oggi ne favelle,
perché mentre io seguì la vera strada
non feci già dell’opere più belle,
ma le feci pita tai ch’alcuna volta
non m’era de i miglior la palma tolta».

10Gli rispose Breusso: «Io son contento»,
e così insieme acconci s’assedero.
Ivi il domanda s’ha conoscimento
di che regga di Logre il sommo impero.
«Non,» disse il vecchio «e ben n’avrei talento»,
et egli: «Oggi n’è re, per dire il vero,
un che d’esser cotal ben è ragione,
il grande Artus figliuol di Pandragone».

11Rispose il vecchio: «Assai parlar udio
del buon re Pandragon, ma no ’l vidi unque,
e ch’era valoroso, saggio e pio,
e se questo il simiglia è tale adunque».
Gli conferma Breusso: «O signor mio,
quanto ricuopre il cielo e tutto ovunque
abiti seme umano in terra o ’n mare,
non si ritroverebbe al nostro pare.

12Il grande Artus la regia mano in prima
ha valorosa e forte, e ’l core ardito,
cortese e liberal, che tien la cima
d’ogni altro rege e ’mperador compito.
Solo il ben far non le ricchezze stima
tal che la fama corre in ogni lito».
«S’egli è qual dipignet» disse il vecchio
«veramente è del cielo essempio e specchio,

13e s’egli ha cavalieri a lui d’intorno
che ben sien degno della sua virtude
tosto avrà il capo di corona adorno
di quanto il ciel sotto il suo manto chiude.
Ma, senza avergli, tal dannaggio e scorno,
come chi nuoti in mar sopra una incude,
ritrarrà d’ogni impresa, ch’un sol uomo,
s’ei non ha buon compagni, tosto è domo ».

14Rispose allor Breusso: «Io vi prometto
che non gli manca ancor di questa altra parte
che dugento anni son che sì perfetto
non fu il nostro paese di buona arte».
Replica allora il vecchio: «Il vostro detto,
per quel ch’io pensi, da ragion si parte.
Or non pensate voi che molto meglio
fusse Marte in onor nel tempo veglio?

15E che fusser più grandi i cavalieri
e di più forza e di maggior ardire?
Ditemi, prego, se tra quei più feri
mi potreste il maggior o ’l minor dire».
Breusso, che in vero era un de i più alteri
e più membruti, disse: «A non mentire
io sono un de i più grandi e meglio aitanti
che sien là su tra i cavalieri erranti».

16Rispose il vecchio: «Adunque molto poco
posson valer quei ch’oggi al mondo sono?
Di breve esca non può nascer gran foco,
ma resta al cominciar in abbandono.
un picciol come voi mi sembra un gioco
da dargli in guerra ogni vantaggio in dono».
«Come,» disse Breusso «in un minore
non si truova sovente un maggior core?».

17«Sì» disse il vecchio, et egli: «Or non vi pare
che in voi più faccia il cor che tutto il resto?
Quel può sol l’uomo infino al cielo alzare,
terrestre, grave e di vil loto è questo;
questo ubbidire e quel dèe domandare,
questo cerca il riposo e quel l’onesto;
quello in somma è il signore e questo il servo,
tra la carne legato l’osso e ’l nerv».

18«Voi parlate come uom d’onor ripieno,»
soggiunse quel «ma dite se vi piace
se ’l cuor grande è soverchio e ’l corpo meno
può che ’l suo disegnar, come allor face?
Ragion mi par che di egual posse sieno,
se non sovente l’uno e l’altro giace,
e ’l bene incominciar per fornir male
è folle impresa che niente vale.

19Arditi esser ben pon ma di gran forza
non potrei creder qui ch’ei fusser mai,
e so che la midolla alla sua scorza
deve spesso donar soverchi guai,
e se i desiri il debil non ammorza
al giudicio di me fallisce assai
solo al bisogno estremo den provarsi
questi tali e nel resto essere scarsi.

20Io vidi un tempo i buon signor di guerra
sì feroci, sì arditi e sì possenti
che se fussero or tai saria la terra
sempre in pena, in periglio, in fiamme ardenti,
et ogni buon che non vaneggia et erra
deve Dio ringraziar che sieno spenti
perché a valor sì grande, a tai disegni
eran poco tre mondi e mille regni.

21Era un sol cavaliero ardito e spesso
d’assalir una grande oste e bene armato,
e la vittoria si restava ad esso
sì che da gli inimici era adorato,
e s’ei si fusse tutto il mondo appresso
visto all’incontra non avria voltato;
e ben potea di loro uscir tal frutto
perché egli eran guerrier compiti al tutto.

22Era forza incredibile la loro
a piedi et a caval, con lancia o brando,
o ’l cipresso portavano o l’alloro
d’ogni alta impresa, e ’l timor giva in bando.
Ma or qual far porrian sommo lavoro
i moderni campion?, che immaginando
vo quali e’ sian con la misura vostra
in lotta, in guerra, in torneamento o in giostra.

23Noi siam qui dentro di sì lunga etate
tre cavalier che ci reggiamo a pena,
con tutto ciò mi penso in veritate
ch’al più forte di voi daremo pena,
tanto mi par che alle stagion passare
ne creasse natura d’altra vena
e di nervo miglior e di più possa,
come ben il mostriamo a i membri e l’ossa».

24Sorridea molto forte in sé Breusse
delle parole del guerriero antico,
e gli parea che come vecchio fusse
del suo tempo passato troppo amico.
L’altro, che ’l vide in cruccio, si condusse
dicendo: «Io prego il Ciel mi sia nemico
s’io non vi mostro con parte pruove
che non follia ma il vero a ciò mi muove».

25Allor ride ei più forte, e gli soggiugne:
«Or vi stimate voi di me più forte
che giovin sono e voi non sète lunge
dall’ultima vecchiezza e debil sorte?».
L’altro, che or sente che sì dolce il punge,
dice: «Quantunque io sia vicino a morte
e ch’io sia curvo e basso, ancor sono io
di voi molto maggior al parer mio,

26e maggior forze assai di voi farei.
Non già snello e leggier porto le membra
sì come nel fiorir de i giorni miei,
d’esser quanto alcuno mi rimembra,
e menzogner del tutto mi terrei,
che peccato vilissimo mi sembra,
se d’avanti, signor, il partir vostro
non vi ho co i fatti ch’io sia tal dimostro.

27Pur questo sarà poi, ma in questo tanto
dite s’ora è fra voi guerrier perfetto,
che sopra tutti gli altri si dia vanto
d’esser nel mondo per migliore eletto».
Quando l’ode Breusso pensa alquanto
ch’all’onor d’altri e suo porta rispetto,
poi gli risponde: «Molti ne conosco
famosi cavalier che vivon nosco,

28ma se, mi salvi Dio, di chi sia tale
qual voi volete dir mal si porria,
se ciò non fusse pur un ch’ora eguale
là su non truova di cavalleria.
Questo ond’io vi ragiono in guisa vale
in ogni alta virtù che ’n pregio sia
che non ha pari e ’l vede apertamente
la gran Brettagna e tutta l’altra gente.

29Questo è perfetto sol, de gli altri dire
non ardirei il medesimo sì certo».
Risponde il vecchio: «Io ho sommo desire
che mi narrate il suo legnaggio aperto,
perch’un tal cavalier, di tale ardire
non devria il nome suo tener coverto».
Disse Breusso: «In vero io non so il nome,
né so d’onde si venne o quando o come.

30Né penso anco che in Logres sia chi ’l saccia,
tanto va sempre tacito e nascoso,
di gran persona, di gioconda faccia,
dolce, cortese, umano e grazioso,
e solo in operar cosa che piaccia
a tutto il mondo sempre è desioso.
Chi gli domanda il nome o non risponde
o che ’l suo ragionar rivolge altronde.

31Quando si truova a i principi in presenza
non fu più costumata mai donzella,
poco ragiona e dà grata udienza,
loda ciascun, di sé mai non favella,
nulla offende egli e porta a sofferenza
la gente ignara e di virtù ribella,
tal che chi no ’l conosce crederebbe
che più codardo il mondo mai non ebbe.

32Or chi ’l vede da poi con l’arme in mano
può ben dir di veder gran meraviglie.
Non libico leon, non tigre ircano
si porria immaginar che a lui simiglie.
Otto e dieci per colpo manda al piano,
né pensate che in ciò gloria si piglie,
com’ei l’arme si trae, l’ira si spoglia
perdonando a ciascun di lieta voglia.

33E s’io volessi a voi narrar a pieno
l’infinite virtù che sono in lui
prima il giorno ove siam verrebbe meno,
e seco ne trarrebbe anco altri dui,
tanta ha grandezza e nobiltade in seno
che simil mai non fu vista in altrui.
Ma come ho detto non sa poi persona
la schiatta sua, ma ben deve esser buona.

34Basta che ’l suo buon cor per mancamento
di fortezza e valor non ha vergogna.
Alto, membruto, nudrito allo stento,
fame, freddo, calor quando bisogna
non teme, e tra le pioggie, nevi e vento
così dormir alcuna volta agogna
come altri fa tra delicate piume,
e raro arme spogliar ha per costume.

35Poscia è di sì piacevole figura,
sì bel nel volto e tutto ben composto
che in lui se stessa vinse la natura
ch’a quanto nacquer mai l’ha ben preposto.
Dell’altrui ben più che del suo tien cura,
tardo al consiglio, allo aiutar è tosto,
e ’n somma al giudicar di tutto il mondo
uom non fu mai che non gli sia secondo».

36Maravigliando il vecchio allor gli dice:
«Chi puote esser costui ch’è senza nome?
troppo a tutti voi vivi si disdice
di non saper il quando, il d’onde e ’l come
venne un tal cavalier che fa felice
il secol vostro, e di sì rare some
carca il presente secol che d’invidia
empier devria la Scizia e la Numidia.

37Ma ditemi vi prego, se anni molti
passati son da poi che l’arme veste».
E quel: «Quindici almen già son rivolti
ch’esso già illustra quelle parti e queste».
E ’l buon vecchion: «Ben sète sciocchi e stolti
se in sì gran tempo lui non conosceste».
Disse Breusso: «Egli è che ben dieci anni
è stato imprigionato in mille affanni».

38L’altro, che l’ode, va pensando un poco,
e ridomanda appresso in mezzo il fronte
s’ha breve piaga, che par fatta a gioco
per render più le sue bellezze conte.
«Sì,» rispose Breusso «al proprio loco
cotai margine appar che in alto monte».
«Et io ’l conosco» adunque il vecchio accerta
«et è di luogo tal che lode merta.

39E ben avria, se ciò non fusse, il torto,
di sì gran cavalieri al mondo è nato:
il suo gran padre, a somma gloria morto,
visse sopra ciascun troppo onorato,
per ciò s’è valoroso, ardito, accorto
maraviglia non fia, né in questo lato
l’ho riveduto poi che giovinetto
mi fu portato, et era d’alto aspetto».

40Seguì Breus: «Se Dio vi guardi, allora
deh ditemi di lui tutto il legnaggio,
e ’l nome suo, che vince dall’aurora
fin sotto Irlanda ogni gentil paraggio».
Rispose quel: «Et io con la buon’oraIl vecchio è il nonno di Girone, che inizia un lungo racconto di vicende famigliari: dapprima narra la vicenda di Febo (ed elogio di Francesco I ed Enrico II di Francia) (40,5-66)
di tutto quel ch’io so vi farò saggio.
Il suo principio fu quel ch’ivi giace,
con le membra su ’l letto e l’alma in pace.

41Il qual fu di costui proprio bisavo,
e visse in terra con suprema lode.
io di questo son figlio e di quello avo.
Suo padre, mio figliuol, le inutil fronde
fuggì del mondo, e ’n questo loco cavo
tranquilla e quieta vita meco gode,
lassato avendo nel mortale agone
questo, onde noi parliam, detto Girone».

42Quando ode il nome allor ch’udito avea
mille fiate, al vecchio s’è rivolto
Breusso, e dice: «Mille volte avea
udito ragionar di costui molto,
ma che già fusse morto mi credea,
e più di un meco tale errore ha involto,
né potea cosa udir la più gradita
che saper sì gran nome e che sia in vita.

43E poi che infino a qui fuste cortese
non vi incresca a narrarmi ancora appresso
di che sangue sia nato, in qual paese,
se ignobile o gentil, lontano o presso».
Il vecchio, che di ciò diletto prese,
disse: «Signor, e ciò vi fia concesso,
e senza altro proemio dico in prima
che di gran nobiltade esso ha la cima.

44Or dovete saper che ’l più gran regno
che già mai fusse in terra e che mai fia
s’appartiene a Giron per dritto segno,
quando a lui fatta la ragion ne sia:
questo è ’l gallo terren che certo è degno
d’aver del mondo eterna monarchia,
perché a quel cavalier che morto vedi
esser si convenia tra i primi eredi.

45Ma perché ei nacque al mondo di tal cuore
e così grande fu con l’arme in mano
che pensando in tal modo esser maggiore,
donò quel regno al suo minor germano,
che ’l governò con senno e con valore,
crescendo il nome dell’onor cristiano.
Poi d’un mio figlio fu, di cui n’è stato
Giron, ch’or è da voi tanto pregiato.

46Ma quello ancor l’abbandonò in usa vita
e ’l rimesse in le man d’un suo nipote
per esser meco qui solo eremita
senza curar fortuna e l’empie ruote,
e l’altro al far dal corpo dipartita
lo scettro diè con amorose note
e consenso del popol ch’era a fronte
al cugin nostro, detto Faramonte.

47Il quale è veramente d’alto affare
e degno governar sì bel paese,
perc’oltre alle virtù pregiate e rare,
d’arme, di senno e di valor cortese,
sappiam certo fra noi che debbe fare
mille altere, onorate e belle imprese,
che faranno parlar mille anni e mille
più di lui, forse, ch’altri mai d’Achille.

48Ma questo è nulla al par di quei che denno
uscir di lui reggendo a i Franchi il seno;
taccia la Gallogrecia del suo Brenno,
e di molti altri che non furon meno,
che fecer all’onor ben picciol cenno
verso i futuri re che di lui fieno,
Carli, Pipini, Filippi e Luigi,
la cui fama non curi i regni stigi.

49Questi faran che l’alma Grecia e Roma
perderanno appo lor qual luna al sole,
salveranno al Pontefice la soma
delle chiavi e del manto che si cole,
coroneransi la vittrice chioma
di mille altre provincie egregie e sole,
e faran che di Cristo il sommo impero
conosceranno i più per santo e vero.

50Né ti voglio io parlar di molti, i quali
gloriosi saran, com’io ti dico,
ma d’un sol tu dirò, che tra i mortali
avrà nel nascer suo sì il Cielo amico
che la fama immortal con le sacre ali
tanto alto il porterà che ’l tempo antico
n’avrà vergogna, e ’l suo per lui lodato
fia sempiterno e detto poi beato.

51E ’l nome di costui non vo’ si taccia,
perché ’l mondo ch’ora è se ne rallegri
et a lui che verrà simil si faccia,
spogli i bassi pensier dannosi et egri
et ogni vil desir che l’alme impaccia,
di Dio servando i gran precetti integri,
imparando da lui che la virtude
ogni ben ch’esser può sola in sé chiude,

52questo detto sarà Francesco primo,
il qual dopo mille anni e poi dugento,
giovinetto nel regno alto e sublimo
farà tutti i miglior di sé contento
(e perdon chieggio se qualcun deprimo,
che di affermarlo pure aggio ardimento),
di tanto avanzerà chi avverso fia
quanto avanza il ben far la villania.

53Né l’insidiar d’alquanti suoi nemici,
né la fortuna ch’al ben far s’oppone
potrann’oprar che lunghi, alti e felici
non aggia gli anni e dolce la stagione,
e che gli ingegni di bontade amici
non l’adorino in terra a gran ragione,
e che cantin di lui penne sì dotte
che mai la luce sua non giunga a notte.

54E ben il devran far, perch’esso solo
nel nostro almo terreno e ’n altra parte
alzerà di sua mano il cielo a volo,
ogni sacra scienza e divina arte,
di povertà traendo il basso stuolo
che favorito sia da Febo o Marte,
o del saggio Mercurio o d’altro dio
che de i suoi doni altrui sia largo e pio.

55Quante carte onorate s’empieranno
di dottissimi inchiostri al suo gran nome,
in mille varie lingue che faranno
forse vergogna a mille Ateni e Rome!
E dall’Asia e di Grecia a lui verranno
quelle più illustri e preziose some
dell’alte antichità che in ogni lido
già mandaron di sé famoso il grido.

56Con altra sapienza, con altri modi
aperti fieno i nobili volumi
e sciolti i dubbi e inestricati nodi
che riserrano in sé leggi e costumi.
Per lui fien spente le dannose frodi
e mostreransi aperti i veri lumi,
infino al regno suo restati ascosi
per far i tempi bei più gloriosi.

57E ’l sermon che fra noi vedi or novello
di rozza antichità tutto macchiato,
sotto l’impero suo fia così bello
e di tutte le grazie sì beato
che ’l mondo ancor d’intenderlo e sapello
si vedrà pi che in altro affaticato,
e l’italico e ’l greco senza fallo
concederai la palma al nostro gallo.

58Il qual non sarà solo a donar vita
a i suoi merti reali e senza pari,
ma qualunque altra lingua sia gradita
vorrà del nome suo se stessa ornare,
e la misera Etruria che romita
oppressa sta tra l’Appennino e ’l mare
lasserà indietro un tempo ogni altra tema
sol per cantar la sua virtù suprema.

59E sol per amor suo non ne fu grave
di lassar ire il regno a Faramonte,
dal qual verrà sì grande e sì soave
pianta che presso al sol levi la fronte,
di cui frutto gentil che nulla pave
folgore, vento o pioggia che ’l sormonte
cagion sarà che della nostra schiatta
la memoria già mai non fia disfatta.

60Perché come magnanimo e cortese
e non ingrato dell’altrui buone opre,
farà lungi sonar più d’un paese
del nome nostro se oblianza il cuopre,
e ’n molte lingue renderà palese
quel ch’or da noi che ancor vivian s’adopre,
e sopra tutt il buon Giron fia tale
ch’ei passerà d’onore ogni mortale.

61Di Francesco, ond’io parlo, alto figliuolo
Enrico fia, che di secondo il nome
porterà sì, ma sarà primo e solo
a inghirlandarse le vittrici chiome
di verde lauro, poi che corsa a volo
avrà la terra et abbattute e dome
le nazioni infedeli e fatto acquisto
del nido universal sotto al suo Cristo.

62Al qual con tanta fede obbediente
e della legge santa osservatore
sarà ch’ogni vicina e strana gente
avrà di lui servir suppremo amore.
La più candida, pura e chiara mente
non aspirò già mai con tanto onore
alle cose divine come in quello
che farà il secol suo dorato e bello.

63Invittissimo fia, perché fortuna
tanto esso adorerà quanto odiò il padre,
e l’argentata sua felice luna
sormonterà Saturno e le leggiadre
luci che ’l cielo empireo in seno aduna,
tal che si mostreranno e basse et adre
le fiamme allor di tal che pensa seco
di far il sol tornar non ch’altro cieco.

64L’invidia vincerà de gli avversari
sì che cedere a lui saran contenti,
spireranno al suo sen soavi e chiari
tutti i migliori e più felici venti,
germi usciran di lui sì grandi e rari
che porrian comandar a gli elementi,
tal ch’ogni stil di virtù vera amico
stenderà in carte poi l’invitto Enrico.

65L’onor del tosco suo fiorito nido
congiunta avrà la chiara Caterina,
la qual fia detta tal ch’eterno il grido
ove il sol monta e dove il mar s’inchina,
ove ha più freddo, ove ha più caldo il nido
per tutto andrà di sua bontà divina,
di cui sì bella prole e larga fia
ch’ancor simile a lei non venne pria.

66Ma che direm della onorata suora
dell’alma preziosa Margherita,
di cui le Muse e chi Parnasso adora
sede non ebber mai così gradita?
Costei d’ogni virtù che ’l Cielo onora
sarà speglio e timone e calamita,
sì che ’l suo sangue altissimo e reale
sarà la dote in lei che manco vale.

Quindi narra della discendenza materna di Girone (67-74)

67Or io v’ho conto a punto quale e quanto
il sangue di Giron in alto saglia,
ma ben credi io ch’ei non ne sappia tanto
e sol dell’onor proprio oggi gli vaglia,
cercando in cortesie portare il vanto
di dolce in pace, di fero in battaglia,
di nobiltà tenendo il conto istesso
che di ben che fortuna gli ha concesso,

68il quale è da stimar veracemente
perché all’altre virtudi è degno fregio.
Ma chi troppo orgoglioso se ne sente
meriterebbe averne onta e dispregio,
che in molti spesso ha le radici spente
d’ogni altero desir di fatto egregio,
che parendogli assai la nobiltade
neghittosi sen van per fosche strade.

69e non sanno gli sciocchi che salire
convien a lor con più penoso passo
e mille volte il dì prima morire
che di bel faticar mostrarsi lasso.
Qual vergogna è maggior che spesso dire:
– I miei primi eran alti et io son basso? -.
E chi virtù non veste di lui degna
d’scura ignobiltà bramoso vegna.

70Sì che sotterra vivo si ritrove
ove manco sien visti i suoi difetti,
e nessun è ch’a maraviglia muove
perché di lui non par ch’altro s’aspetti.
Ma chi conta tra’ suoi Mercurio e Giove
se non avanza in tutto i più perfetti
non si fa più che onor danno e vergogna,
mentre il folle maggior mostrarsi agogna.

71Ma non così Giron, né ’l feci anch’io
mentre nel mondo fui, né tutti i nostri,
e s’io non fui maggior che ’l padre mio
fu il voler tal de gli stellanti chiostri,
ch’al men mi posi in pruova e non fui rio
come si può saper senza ch’io ’l mostri,
né tutti esser possiam Febi e Gironi,
sforziamci almen di comparir tra i buoni.

72E non far a gli antichi brutta piaga
che non possa guarir mai ferro o foco,
ma sempre s’affatica, anima vaga,
di lodi, e non si prende i biasmi in gioco,
né per l’erto e sassoso andar si smaga
fin ch’ell’arriva al disegnato loco,
e se pur in cammin montando muore
scusala il buon volere e ’l nobil cuore.

73E lassiam tutto andar, voi sapete ora
di Girone il legnaggio tutto a pieno,
il qual è nobilissimo, et ancora
dallo lato materno non è meno,
che d’Eliano il grosso venne fuora
che di Abarimizia, già d’anni pieno,
era nipote, e ’l mio figliuol suo padre
ha fatte molte al mondo opre leggiadre.

Infine della vicenda di Febo, vincitore dei tre re di Bretagna (75-150)

74Fu fortissimo un tempo e valoroso
ma non vel pensereste ora al vedere,
perché di poi che qui venne in riposo
tanto siam parci nel mangiare e bere
ch’ogni membro si fa greve e noioso
sì che possiamci a pena sostenere;
pur Dio n’aiuta, e sì farà da poi
ch’ei n’ha creati e ne ritien per suoi».

75Qui tacque il vecchio, e seguitò Breusse:
«Signor, più gran piacer non ebbi mai
che di udir il buon seme che produsse
tal frutto, ch’è miglior de gli altri assai;
e ben giurato avrei prima ch’ei fusse
di re venuto e di celesti rai,
tali ha parti illustrissime infinite
da gli uomini adorate e ’n Ciel gradite.

76Ma poi che voi mi feste tanto bene
di narrar di Giron quanto io chiedea,
ditemi ancor, se non si di sconviene,
del morto cavalier la sorte rea,
che ’n quella prima camera si tiene,
poi della donna sua, che pare dea,
e de i quattro guerrier più qua sepolti
come furon là su di vita tolti».

77Quando sente il buon vecchio le parole
dice: «Signor, e quando avrò finito?».
«Come,» fece Breusse «ancora il sole
il terzo del suo dì non ha compito;
poi tanto ha il cor piacer più che non suole
che quando fugga il lume in altro lito
passerò ben con voi questo altro giorno,
poi doman verso il vespro in alto torno».

78Qui riprese il gran vecchio sorridendo:
«S’oggi d’esser con noi vi prende voglia,
vi tratteremo in modo ch’io comprendo,
che doman a fuggirà qual vento soglia».
Allor Breusso: «Di ascoltarlo intendo,
prima ch’io lassi sì famosa soglia»;
et ei: «Poi che n’avete tal desire
contento sono» e gli comincia a dire.

79«Vera cosa è che cavalier sì raro
che di là giace morto sopra il letto
del re di Gallia figliuol primo e caro
fu, che Crudente da i maggior è detto;
il quale un n’ebbe ancor in arme raro
e ’n ogni altra virtù più che perfetto;
ma questo qui, che Febo è nominato,
sopra ciascun mortal visse onorato,

80et a chi per ragion si devea il regno,
ma fu sì grande e forte cavaliero
che d’altri governar si prese a sdegno,
e sol d’alto valor cercò l’impero.
Dietro al qual venne al più sublime segno
ch’altro duce già mai, rege o guerriero,
e lo scettro di Francia altero e bello
in man depose al suo minor fratello,

81dicendo ch’a vergogna si terrebbe
d’aver quel che gli vien di patria sorte,
ma che co ’l suo sudor sormonterebbe
con l’aiuto del Cielo e con sue scorte
in alto sì ch’al mondo mostrerebbe
che più gran dote è l’esser prode e forte
che mille regni aver, mille corone
che ti vengon per dritto e per ragione.

82E ben il potea dir, perciò che visse
fuor d’ogni invidia senza pare al mondo,
e venga pur Achille, Ettore, Ulisse,
ch’a pena gli saria terzo o secondo,
ché quanto sono in cielo erranti e fisse
stelle che sopra noi volgono in tondo
fur congiurate a far un uom cotale
che superasse appresso ogni mortale,

83sì che mai contro a lui durar poteo
uomini a piedi o caval con l’arme in mano,
leggerissimo poi che il tigre feo
pigro parer e se ’l lasso lontano.
Così poi che la Francia in man rendeo
tutta queta e pacifica al germano,
con quaranta compagni passò il mare
per il regno di Logres essaltare.

84Non erano in quei tempi ancor cristiani
quei della gran Brettagna come or sono,
ma servavan la legge de i pagani,
privi del lume e del celeste dono,
e quei ch’oggi son fatti tanto umani
e di cui corre al mondo sì gran suono,
dico in Norgalla et in Noromberlanda,
erano allor della contraria banda.

85Là giunto Febo, adunque, come intese
tutta al ver la ragion del suo venire,
gioco se ne prendea tutto il paese
che con sì poca gente il vedea gire.
Solo ivi un re trovò molto cortese
che già del suo valor udiva dire
che in casa l’accettò, ma tutto il resto
lo schernia come matto a lor molesto.

86Era quivi in quei tempi un negromante
in quell’arte dottissimo et esperto
ch’all’arrivar del cavaliero errante
assai danno predisse tosto e certo,
dicendo a quei gran re che tutte quante
armasser le lor genti se diserto
non volevan veder il regno loro
e le lor case all’ultimo martoro.

87Soggiunse: – Un cavaliero è già disceso
per far serva di lui la terra vostra,
et è di più possanza e di più peso
l’impresa sua che forse non dimostra.
Soli ha per compagnia quaranta preso
ma basta ei solo alla rovina nostra,
che il secondo Sansone il chiamerei,
che a noi peggio farà ch’a i Filistei -.

88Avieno allor tre re fratei carnali
Noromberlanda, Galese e Norgalle,
che intendendo predir sì fatti mali
da quel che rare volte o mai non falle,
ancor ch’ei si vedessero esser tali
da non dar a mille uomini le spalle,
quindici mila pur missero insieme
de i miglior cavalier del miglior seme.

89In questo arriva lor già vere nuove
che co i quaranta sol ch’io vi narrai
Febo è in Norgalle e fa mirabil pruove
più ch’altro buon guerrier che fusse mai,
e se non gli soccorrono o essi o Giove
tosto avran morte o servitude o guai.
A i tre fratelli ancora essendo avviso
che ciò menzogna sia, muovonsi a riso,

90dicendo: – Ben siam noi codardi e sciocchi
a creder di sì pochi tante cose,
temendo poi che sopra lor non scocchi,
quasi al lupo lacciuol che ’l pastor pose,
improvisa tempesta -. Apriron gli occhi,
e conducon le genti paurose
sol della fama già verso quel loco
ove attaccato allor sentono il foco.

91Non giunti a pena son ch’egli hanno udito
come Febo avea preso un lor castello
che fortissimo è tal d’arte e di sito
che nullo è inespugnabil presso a quello.
Non si può dir se resta sbigottito
di tal principio ciaschedun fratello,
ragionando fra lor: – Poca speranza,
poi ch’egli ha questo in man, del resto avanza -.

92Pur vanno tanto avanti che han trovato
Febo alloggiato con la compagnia
sopra un profondo fiume, cui da lato
siede una bella erbosa prateria.
Come sì grandi schiere ha riguardato
tra sé si ride della lor follia,
e manda ad essi a dir: – Tornate indietro
ch’a me sarete come al ferro vetro -.

93Pensarono ei che questo per timore
fusse mandato a dir che d’essi avesse,
rendon risposta a lui che pria che ’l cuore
non gli aggian tratto ciò non attendesse,
e che l’altro mattino alle fresche ore
per far battaglia in punto si mettesse.
Ei troppo volentier dice che ’l vuole,
poi si rivolge a i suoi con tai parole:

94- Or si vedrà doman vostra virtute,
valorosi compagni e cavalieri,
poi che sì belle genti son venute
per onorarne in questi stran sentieri -.
E quei, che desperar di lor salute
cominciavan di già, quantunque feri,
dimandan tutti il numer oche sieno
quei ch’a difesa son del suo terreno.

95Rispose Febo ardito: – Ei non son tanti
ch’un buon guerrier non gli rompesse solo,
non che noi tutti cavalieri erranti
che venti volte tal vorremmo stuolo.
Quindici mila son, né fien bastanti
a regger pur il nostro primo volo,
perché facendo noi nostro devere
non potran tanta forza sostenere -.

96Quando essi udiron tanta quantitade
non è fra lor sì ardito che non tema,
e risposer: – Signor, le nostre spade
se bene aggian virtute e forza estrema,
son poche a tanti, onde a cangiar strade
vi consigliamo, e la bontà suprema
in qualche miglior parte ne fia guida
che mai non lassa chi di lei si fida.

97Or non vegnamo a manifesta morte,
che troppa ne saria vergogna e danno.
Chi cerca e tenta l’impossibil sorte
fece il contrario che i discreti fanno.
Non si deve lodar per saggio e forte
chi per vinto restar si compra affanno.
Bene è gloria il combatter con periglio
ma vie più con ragione e con consiglio -.

98Non fu irato già mai come in quella ora
il guerrier senza pari, e lor ridice
che ben or si tenea del senno fuora
d’essersi già per lor detto felice,
quando credea che quanto onor dimora
nella paterna gallica pendice
fusse in lor tutto insieme, et or s’avvede
che ben lunge è l’effetto dalla fede.

99«Io mi pensai che sotto questa insegna
temer non vi farebbe il mondo tutto,
or veggio che in ciascun temenza regna
qual contro a sferza semplicetto putto,
onde nessun di voi più meco vegna,
ché sarebbe il mio onor macchiato e brutto.
Gitene a ritrovar le vostre case
ove donne a coi pari son rimase.

100Io non cercai di nuova regione
per rifiutar già mai qual sia battaglia,
o disputar che sia senno o ragione
mentre il braccio si muove e ’l brando taglia,
e s’io non metto solo a perdizione
tutto quell’oste là Dio non mi vaglia,
e voi contate a gli altri che la mia
d’ogni lancia che punga è la più ria.

101Or vene gite adunque, o femminelle,
che potreste perir sol di spavento;
lasciatemi soletto in preda a quelle
genti che del mio fine hanno talento.
Ma se nemiche in Ciel non fien le stelle
vi farò poi saper che l’ardimento
mena a porto talor tale avventura
che la terrebbe un vil sopra natura.

102Quando i compagni il lor buon duce udiro
ch’essi avevan per guida e per signore,
senza misura allor si sbigottiro
e ’l dever combatteva co ’l timore.
Non volevan ritornar onde partiro
senza il lor capitan con tal disnore,
e guadagnar tanto difficil pruova
impossibil ciascun per sé ritruova.

103Così mentre che stan taciti e ’n forse,
Febo un de i suoi scudier fece venire,
che lo scudo e la lancia in man gli porse;
et ei, ch’era a caval, cominciò a dire:
– Quando di Francia l’altro dì m’occorse
per cercar nuovi regni dipartire,
per migliori io vi elessi tra i migliori,
or tra’ peggior vi pruovo esser peggiori.

104E perché cari amici e buon parenti
mi siete tutti, e come il mio cor vi amo,
de i vostri vili e bassi portamenti
svergognato con voi di par mi chiamo,
né mi potrei purgar certo altrimenti
che per un modo sol ch’io lodo e bramo:
questo è che di mia man vi uccida tutti
per non veder mai più di voi tai frutti.

105So ben che nel fuggirvene ora in Francia
voi sareste assaliti o in mare o in terra,
e senza oprar, cred’io, spada né lancia
sareste quai montoni uccisi in guerra,
et io n’arrossirei troppo la guancia
e cadrebbe il disnor in chi non erra,
né morir del mio brando vi dolete
ch’anche di tal favor degni non sète.

106Anzi devreste così morti poi
renderne grazia a Dio ch’io fatto l’aggia,
che voi che pasto sète d’avvoltoi
e da lupo e da fera impia e selvaggia
avreste appresso per le man di noi
onorato sepulcro in questa piaggia,
senza scrittura pure, a fin che mora
l’onta e ’l nome di voi sola in un’ora.

107Or voi guardate omai che morti sète
né contro al poter mio sarà difesa,
perché l’arme d’uom vil come sapete
non punge o taglia né può far offesa,
né sendo ancor men rei campar potrete
ch’io già condussi a fin più grande impresa,
e doman spero quei tre re prigioni
menar legati in questi padiglioni -.

108Quando i quaranta suoi guardano il volto
di Febo senza par che getta foco,
restò ciascun di tanta tema involto
che fuggito saria s’avesse loco.
un suo cugin german, ch’era di molto
valor più d’altri, si pensò per gioco
fusser fatte da lui quelle minacce,
infin ch’interamente il ver ne sacce,

109e gli dice: – Signor, dite da vero
o schernendoci pur queste parole? -.
Rispose l’altro allor più che mai fero:
– Io l’ho detto per farlo e non mi duole,
se non che tutti omai nel cimitero
non vi ho serrati ove non luca il sole.
Difendetevi pur ch’io v’assicuro
che tosto andrete per cammino oscuro -.

110Tutto cortese replicò il cugino:
– Io dissi il mio parer ch’era cotale,
ma nel vostro voler tutto m’inchino.
Seguirol vivo e morto al bene, al male -.
L’altro stuol tutto ch’ivi era vicino
si fece seco di sentenza eguale,
e giurò d’obidir Febo in quel giorno
e ’n ogni tempo e loco essergli intorno.

111Così fatti d’accordo dismontaro
sopra l’erboso prato in riva al fiume,
di vivande e di vin si ristoraro,
in tanto Apollo lor tolse il suo lume.
Stan vigilanti el’arme non spogliaro
sì per ch’era de i buon lungo costume,
sì ch’avean sì vicino il nimico oste
c’han da temer di lui l’insidie poste.

112All’apparir del dì l’altra mattina
ecco i tre re che già in battaglia stanno
per passar la riviera a lor vicina
e dar a gl’inimici eterno danno.
Quei di Norgalle, al cui poter s’inchina
la provincia d’intorno, innanzi vanno;
son cinque mila e tutti cavalieri
nell’arme ammaestrati, arditi e feri.

113Tosto che son di qua la compagnia
di Febo senza par già muove il piede
per assalirgli e per disfargli pria
che gli altri ch’era poi cangiasser sede.
ma il duce lor, che vuol che intera sia
la vittoria e la gloria, no ’l concede,
dicendo: – Al valor nostro pochi sono
sì che d’attender gli altri sarà buono.

114E tanto più, ché s’ei che son rimasi
vedessero i compagni vinti e morti,
fatti saggi fra lor per gli altrui casi
si fuggirebber da paura scorti -.
Di tutti quei quaranta e nessun quasi
che in suo cor non gli doni mille morti,
pensando che ’l domargli a poco a poco
era più la ragion di questo gioco,

115ma temon sì di lui ch’alcuno ardito
non fu di contradire al suo parere.
In questo già passato al proprio lito
il re galese si potea vedere,
poscia il noromberlando ad essi unito
vien con altri tanti uomini e bandiere;
fan di lor tre battaglie e della prima
il famoso Norgallo avea la cima.

116Non altrimenti il nibbio a primavera
che tutto il giorno dimorò digiuno
che ritruova una chioccia vêr la sera
su i nudi campi fuor di tetto o pruno
che con roco cantar mena la schiera
de i suoi pulcini e scuopre esca a ciascuno,
che con adunco piè, con aperta ala
e co ’l becco mordente a quei si cala

117allor corre il gran Febo sopra questi
quanto può co ’l caval di furia acceso.
Beati quei che di fuggir son presti
né cercan sostener sì fatto peso.
Tra i primi ch’al suo gir truova molesti
fu il gran Norgallo, che per terra steso
passato dalla lancia morto cade,
poi con lui dieci insanguinàr le strade.

118Né prima si troncò l’asta famosa
ch’oltr’a questi di poi n’abbatte venti.
Co ’l brando appresso non rimane in posa
ch’una tempesta par di vari venti,
ch’ora una gran pino, or una quercia annosa
sveglie, ora una capanna con gli armenti
rivolge sotto sopra e ’n aria scaglia,
e contr’al cielo ancor s’arma a battaglia.

119Ei per traverso quattro volte corse
quello squadron gettando morti a terra,
poi tutto intorno ratto il ritrascorse
tal che d’essi nessun gli fa più guerra.
Gira in questa la vista e ben s’accorse
che ’l re galese quanto puote il serra;
lassa adunque costor distrutti e lassi
e dove son gli interi volge i passi.

120Vangli dietro i quaranta in quella forma
che i piccioli bracchetti al grande alano
poi che han scoperta per la schiera l’orme
e tratto il lupo nello aperto piano,
che sol latrando il seguitano in torma
fin ch’esso il giunge a qualche passo strano,
e per modo il ferisce, ch’essi ancora
sicuri vanno ad aiutar che mora.

121Con la medesma forza e d’avantaggio
i secondi nemici mette in caccia,
muore ivi ogni uom ch’all’altrui spese saggio
la salute co ’l piè non si procaccia;
poscia il gran re, ch’al nobile paraggio
venne animoso, come l’altro il caccia
morto tra i piè del propio suo cavallo,
e ’l fe’ compagno al suo fratel Norgallo.

122Tal che in men di tre ore a fin condusse
le due prime battaglie e fece in guisa
che ’l fiume ivi vicin parea che fusse
nuovo arabico seno a chi l’avvisa,
e sì gran tema ne i nemici indusse,
oltr’a la miglior parte ch’era ncisa,
che chi vivo si vede cerca scampo
et a i franchi guerrier lassano il campo.

123Dimora intera ancor la terza banda
a cui toccò per sorte il retro guardo,
ov’eran quei della Noromberlanda
sotto il lor re che fu prode e gagliardo;
il qual tutto doglioso a i suoi comanda
che nessun sia contr’a i nemici tardo
in vendicar la morte de i congiunti
a l’estrema vergogna e morte giunti.

124Ora il feroce Febo, che non pure
stanco non è ma più che mai disposto,
a i suoi compagni in voci alte e sicure
disse: – Andiamo a trovargli e facciam tosto
pria che tardanza tanto onor ne fure,
che Dio ci ha innanzi per suo grazia posto
sappiamlo ben usar, ché la fortuna
a chi soverchio indugia il volto imbruna -.

125Non è da domandar se quei quaranta
de i quai non era un sol ferito o morto,
che ben per pruova tutto il giorno quanta
virtude fusse in esso avieno scorto,
muovono allegri, e ciaschedun si vanta
di menar gli avversari a tristo porto
perché cosa non è ch’accresca il cuore
quanto il gustar sola una volta onore.

126Ne vanno adunque stretti e Febo innanzi
par tra i minori armenti sempre un toro,
che tutti gli altri della fronte avanzi
o tra i minor metalli appariva oro
forbito e dalle fiamme uscito dianzi
per dottissima man chiaro e decoro,
e percuote in tal guisa quelle schiere
che Marte non pur lor faria temere.

127E quanto quei per le vittorie arditi
tanto gli altri perdendo eran più vili,
quei fer leoni e questi sbigottiti
sembrano agnei lontani a i loro ovili.
Pesantissimi colpi et infiniti
mena il buon Febo e ben mille fucili
mostra aver nella spada tanto fuoco
fa di loro arme uscir per ogni loco.

128Dell’arme foco trae, de i corpi sangue
quello invitto guerriero, e ’ntorno mena
già mezzo il popol di paura esangue
traboccato si truova su la rena.
un’altra parte miserella langue
nella riviera di lor membri piena,
annegata fra l’onde e tutta insieme
per paura se stessa intrica e preme.

129Era sì colma d’arme e di cavalli
e di morti e di vivi il largo fiume
ch’eran serrati i suoi correnti calli
sì che l’onda stagnava oltr’al costume.
Delle grida e rumor suonan le valli
dell’alto polverio smarrito ha il lume
il biondo Apollo in ciel, e ’n ogni canto
pare uno inferno oscuro in duolo e ’n pianto.

130E per non esser lungo, in poco d’ora
si son tutti i nimici abbandonati,
a i Galli il campo libero dimora,
né quei che son fuggiti han seguitati.
Non resta ucciso il lor signore allora,
poi per dolor de i due fratelli amati
de i morti amici e dello esilio rio
gran maraviglia fu che non morio.

131Or fu sì grave l’alta di sconfitta
dell’oste de i tre re ch’io vi racconto
che restò la provincia derelitta
di cavalieri e uomini di conto.
Sol di vil turba vedova et afflitta
di popol basso e nel ben far mal pronto
fu gran tempo abitata, pur da poi
ritornò tosto a i primi tempi suoi.

132Già qui non resta il cavalier perfetto
ma con la compagnia quel fiume passa.
Truova poco oltre vago e bel boschetto
là dove un monte più le spalle abbassa;
lì, presso una fontana, a suo diletto
fa riposar la gente ch’era lassa,
ciascuno smonta e l’arme si dispoglia,
scaccian la fame e l’assetata voglia.

133Poi che son ristorati il guerrier franco
comincia a ragionar: – Diletti amici,
il Ciel, ch’alla bontà non vien mai manco,
ci ha di sua grazia oggi fatti felici,
ov’io lassava svergognato e stanco,
se creder vi volea queste pendici,
ricercando la Gallia dove eterno
sentito avreste dir mio biasmo e scherno.

134Ma la divina voglia e ’l mio buon cuore
e la vostra fedele e salda aita
n’han qual vedete dato un tale onore
che sempre gloriosa avrem la vita;
però non ritornate al vecchio errore
di temer troppo, e gir per la via trita
a schivando de i bassi le pedate
tentate cose escelse e ben oprate.

135E pensate pur certo che fortuna,
e ’l ciel che ne conduce e Dio che ’l muove,
mostra chiara la faccia o poco bruna
a chi si mette all’onorate pruove,
e se tutto è mortal sotto la luna
rivolgiamo i pensier in parte dove
non possa morte oprar, guardimo in suso
e sol quel ch’è divin mettiamo in uso.

136E qual è più divin, qual più simiglia
a chi qui ne creò che l’oprar bene?
che cerca cose altere a maraviglia
onde all’eternità ratto si viene?
Beato è quel che a questo s’assottiglia
e tutto il resto come fango tiene.
Questi piacer mondan, queste ricchezze
dolci alle genti fral le fere avvezze.

137Ma sopra tutto l’onorato e saggio
cavalier che l’altezza e virtù stima,
di codardigia l’ignobil paraggio
sotto i piè metta, e l’ardir porti in cima,
che sopra tutti gli altri ha gran vantaggio
chi mai non la conobbe appresso o prima,
e sappiate di ver che chi l’ha seco
è in questo mondo fral negletto e cieco.

138Pria che temenza, in noi la morte vegna,
la qual chi virtude ha curar non deve.
Seguiam del vero onor la sacra insegna
e per lui di morir non ci sia greve.
Seguitiam pur la strada dritta e degna
del nostro sangue in questo secol breve,
che lasciando quaggiù perpetua palma
gradita al suo Signor ritorni l’alma.

139Non parlo ciò perch’io di voi non pensi
ogni gran bene e già la pruova ho vista,
ma per farvi i desir più fermi e ’ntesi
di morir volentier dove s’acquista
vita più lunga e bella, che da i sensi
non ha, come ora aviam, la ragion mista,
ma tutta chiara, pura, alta, immortale,
do fortuna o di tempo non le cale -.

140Tale a i compagni suoi Febo parlava
quasi sdegnoso e gli ammoniva in parte,
come quel che formar desiderava
l’animo abietto lor con sì bella arte,
e per un’altra volta apparecchiava
che di voglia miglior seguisser Marte,
né finito have il ragionar a pena
ch’uno a lui presa una donzella mena.

141La qual del re Norgallo era figliuola,
ch’avendo inteso misera la fine
del buon padre e del zio da i suoi s’invola
tra folti boschi e tra pungenti spine,
e viene al campo ascosamente sola
trista disprezzando le beltà divine
per sotterran quei due, ché mal le sembra
lassar cibo d’uccei sì nobil membra.

142Ma i merti di pietà non potèr tanto
che non fusse in cammin trovata e presa,
e condotta ivi tra sospiri e pianto
al sommo vincitor dell’alta impresa.
Febo l’accoglie e la rimira al quanto
e di vederla in guai troppo gli pesa,
e domanda i poi la compagnia
s’alcun sapesse chi la donna sia.

143Un cavalier di quei della contrada
che ’l suo trionfator seguito avea,
ch’a i nimici anco la virtude aggrada,
sì ch’esser sempre seco omai volea,
disse: – Io non so, signor, per quale strada
l’ha qui condotta la sua sorte rea;
questo so ben, che la donzella è tale
che vien di sangue altissimo e reale.

144Ella è del re Norgallo amata figlia
ch’oggi in guerra morì per vostra mano -.
Febo cortese allor si maraviglia
come or sia quivi in questo modo strano.
Guarda il bel viso e le lucenti ciglia,
gli atti suavi e ’l bel sembiante umano,
e rispose: – Sia pur chi vuole il padre,
che maniere ha bellissime e leggiadre -.

145- Ah (disse il cavalier) se voi vedeste
la cugina di lei noromberlanda
Venere istessa la giudichereste
che venisse dal ciel, non d’altra banda.
L’alte fattezze, le parole oneste
ch’Amore in bocca di sua man le manda
trarrien certo, cred’io, fuoco del ghiaccio
et ogni suo risguardo è dardo e laccio -.

146Sente dentro al suo cor molto diletto
di sentir lei lodar che mai non vide,
e dice al cavalier che ciò gli ha detto:
– Io non so s’al parer di voi m’affide,
ché ’l tutto è di costei tanto perfetto
che primavera par quando più ride,
né creder so che si ritrovi al mondo
volto ch’a questo qui non sia secondo -.

147L’altro, quasi cruccioso, fa risposta:
– Or sacciate, signor, che come a voi
di prodezza e valor nessun s’accosta
nell’opra marzial di tutti noi,
così null’altra, e sia bella a sua posta,
s’agguaglia a quella et a i begli occhi suoi -.
Risponde Febo: «allor se vero è questo,
Dio mi dia grazia ch’io la veggia e presto».

148Alla norgalla poi lieto rivolto
le dice: – O figlia nobile e gentile,
che ben mostrate a gli atti, a i guardi, al volto
che non sète di gente abietta e vile,
come in questa miseria, ohimè, vi ha colto
fortuna iniqua e di cangiante stile?
Qual cagion in tal guisa oggi vi mena
per questi boschi di tristezza piena? -.

149Ella piangendo allor dice: – Signore,
la figlial pietade e ’l dever mio
per dar sepolcro e meritato onore
al mio buon padre ’l mio famoso zio.
E se voi porgerete il gran valore
di che sì largo onor vi ha fatto Dio,
non pur non ne sarò da voi schernita
ma mi darete ala farlo amica aita -.

150Tosto dice il buon Febo, e seco piagne
della pietà ch’avea: – Seguite l’opra -.
la fa disciorre e da chi l’accompagne
infin che quelli e chi vorrà ricuopra.
Ella, qual Filomela che si lagne,
va i corpi rivolgendo sotto sopra,
tanto che truova i due, seco gli porta
al suo castel vicin con buona scorta».