Prosegue il racconto del vecchio: Febo assedia il terzo re, ottiene la mano della figlia (1-48)
1«Da poi che Febo di Norgalle il regno
ebbe recato all’ultima sua sorte,
ch’ogni guerriero e cavalier più degno
era condotto di sua mano a morte,
comincia a far fra sé nuovo disegno
che, poi che ’l Cielo aperte gli ha le porte,
sia suo il resto dell’isola intorno
e lo spera ben fare in breve giorno.
2Al gran re vien Noromberlando
con grandissima gente del paese,
ch’ogni buon cavaliero il segue, quando
di lui sì grandi e belle pruove intese,
la vicina contrada al suo comando
con mille ambasciador tosto si arrese,
et ei gli accetta, et usa cortesia
loro appresso domanda ove il re sia.
3Gli rispondon color che ben il sanno
che dentro ad un castel s’era fuggito,
che di genti e vivande per uno anno
ottimamente tutto avea fornito:
– Ove non può temer vergogna o danno
se da gli stessi suoi non fia tradito,
ch’ei sapeva di già ch’eri in camino
per occupare il resto del confino -.
4- Ah (rispose Febo), io ho credenza
ch’anco ciò no ’l terrà da me sicuro.
Vanne oltre adunque assai veloce senza
posar già mai nel chiaro o nell’oscuro -.
Nel quarto giorno arriva alla presenza
di quell’alto castel cinto di muro,
grosso e fore, e di larghi e fondi fossi
ove senza ali penetrar non puossi.
5Quando Febo il riguarda, e tale il truova
ben divenne in se stesse mal contento,
perch’ei conosce come umana pruova
era tutto in tal loco fumo e vento,
e risoluto al fin, ch’altro non giova,
tutto sdegnoso e pien di rio talento
l’assedia intorno, e ’n guisa tal il serra
che chi ’l crede soccorrer di lungo erra.
6Ricerca appresso da i vicini intorno
se dentro a quel castella figlia avea;
fugli affermato che co ’l padre il giorno
medesmo entrò quella terrena dea.
Chiama egli allor un cavalier più adorno
e più saggio tra’ suoi che conoscea,
comando gli ch’al re sen deggia gire
e poi gli narra quanto egli abbia a dire.
7Vanne l’ambasciador, e fugli aperta
la porta, et al lor re tosto menato;
quel cortese l’accoglie, e mostra certa
assai converso chi l’ha mandato.
L’altro con fronte umile e discoperta,
con riverenze degne all’alto stato
comincia: – O re della Noromberlanda,
Febo il gran mio signor a voi mi manda,
8Febo il più prode e degno cavaliero
che montasse destrier, ch’arme vestisse,
che di vostre onte e vostri danni altero
qui vuol finir le incominciate risse;
vi fa saper che s’al suo sacro impero
oggi o doman questo castel venisse,
per vostro buon voler, che dolce amico
esser vi vuol, se non aspro nemico.
9E se voi no ’l farete vi protesta
che l’avrà in terzo giorno a forza viva,
che basta tutto sol, signor, a questa
e via impresa maggior condurre a riva.
Or se vi cal la real vostra testa
salvar, ché del suo tronco non sia priva,
arrendetevi ad esso e non aggiate
nel vostro et altri mal voglie ostinate.
10Or pensateci bene, e fate tosta
resoluzione in voi di tanto affare,
che dalla vostra o buona o ria risposta
vita o morte crudel può derivare -.
Quando il dubbioso re l’alta proposta
con parole cotai si sente fare,
s’ei temea prima or ha sì gran timore
ch’a rispondergli sol gli trema il core.
11Pur di gesti reali ornato il volto
diceva: – Ambasciador, quanto si vaglia
il vostro re per pruova o ben raccolto
e con molto mio danno alla battaglia,
ma, lasso, mi pensai ch’avermi tolto
l’un e l’altro german che Marte agguaglia
gli devesse bastar, non invidiarme
un sì picciol castel per riposarme.
12Ma poi che così vuol il Cielo et esso
sarò co i miei più saggi ora in consiglio,
e doman poi per sicurato messo
saprà partito certo ch’io ne piglio -.
L’altro sen torna, e narragli il processo
del suo messaggio, e con turbato ciglio
sdegnoso in sé gli diè Febo udienza,
pur al fin per un giorno ha pazienza.
13L’altro re intanto i suoi fedeli aduna,
e consiglia con lor che da far sia.
Cede ciascun aperto alla fortuna
che toglie il senno all’uom quand’essa è ria:
ogni varia sentenza cade in una
ch’a discrezion di lui tutto si dia.
S’accorda anco ei, che più de gli altri teme
e che morti i fratei non ha più speme.
14Ma però che da molti aveva udito
che Febo volentier parla e sovente
della sua figlia, seco ha stabilito
di mandar lei che cerchi amicamente
d’addolcir, se potrà, l’aspro appettito
che contr’alla sua vita o la sua gente
aver potesse, e se non l’è rubello
che le chiavi gli dia di quel castello.
15Chiama adunque la figlia, e l’apre il tutto,
e le comanda poi che a lui ne vada.
La poverella il suo bel viso asciutto
tosto bagnò di semplice rugiada,
dicendo: – Padre, nell’eterno lutto
più presto andrei per la dannosa strada,
che esporre il corpo mio mondo e pudico
in man d’un sì feroce e sì nemico,
16in man di chi due re tanto congiunti
a voi, signore, e me l’altr’ieri uccise -.
Ben furo i sensi da ragion compunti
del buon parente, e quasi si divise
dal voler primo, e poi tutti riassunti
i danni che temea per mille guise
pur piangendo con lei: – Figlia (le dice),
nulla in necessità mai si disdice.
17Tu ’l fai per questa gente, per tuo padre,
per questa regione e per te stessa,
e se ben delle membra tue leggiadre
l’immagine aggia nel suo core impressa,
non stimo io che già mai sì sconce et adre
voglie aggia, e così l’anima depressa
da i malvagi costumi ch’ei non saccia
quanta di scortesia nel Ciel dispiaccia.
18Poscia il più delle volte gran virtude,
quale io conobbi ier con l’arme in lui,
castitate e modestia in sé rinchiude,
giustiziai, umanità, pietà d’altrui,
che non si fanno in sì nobile incude
crudezza, tradimenti e gli altri sui.
Va’ dunque, o figlia mia, ch’all’opre pie
aiuta sempre Dio per mille vie -.
19A i comandi del padre al fin consente
la semplicetta figlia, e seco prende
due donne per compagne, e ’ncontinente
là dove è Febo vergognosa scende.
Corron molti vèr lui subitamente
e fanno sì che sua venuta intende,
e domandano appresso s’a lui piace
che la lassin venir con buona pace.
20Quando egli ascolta quel che di che desio
nel core avea più d’ogni altra cosa,
umilemente rende grazie a Dio,
poi dice a quei che la figlia famosa
sia ben servata d’ogni caso rio,
e condotta onorata ov’ei riposa.
Poi fra sé dice: – Cortesia richiede
che in contra vada -, e già si leva in piede.
21Chiama tre cavalieri e dice: – Andiamo
a trovar questa vaga damigella,
ch’io sento dir che poi che venne Adamo
non fu mai vista più leggiadra e bella,
e ben villano e senza cor mi chiamo
se vincitor non mi do in preda ad ella -.
Così ratto si move, e poco lunge
ove pensosa vien con lei si aggiunge.
22Ella, ch’ancor già mai visto non l’have,
al suo primo apparir l’ha conosciuto,
alle fattezze, alla maniera grave,
all’esser più di tutti alto e membruto,
e Febo al portamento suo soave
lei conosce anco, e dice: – Io ho veduto
aperto il cielo e le più chiare stelle,
l’onor, la gloria de le donne belle -.
23Com’ella adunque il cavaliero scorse,
genuflessa si getta a lui davanti,
et ei tutto sdegnato la man porse
e la minaccia di non gir più innanti,
tanto ch’obbediente ella risorse,
e con dolci amorevoli sembianti
il saluta, l’inchina, et esso a lei
fa quello onor che si pon fare a i dèi.
24Poi le dice: – Signora, quei che m’hanno
la vostra alma beltà talor narrata,
forse mi disser men di quel che sanno,
poi che molto maggior l’ho ritrovata.
Fur troppo scarsi al ***
alla natura, al ciel che ***
per far fede fra noi del suo potere
e far cose incredibili vedere.
25Il più bramato onor che fusse mai
fu quando ebbi ordin di cavalleria,
or maggior il vedervi stimo assai
ch’altrove non mi stimo io che sia,
e vi giuro, almo sol de i santi rai,
che comendiate sol, e fatto fia
tutto senza indugiar, perch’io non aggio
cosa che non sia vostra e d’avantaggio -.
26Quando la bella donna il parlare ode
e ben s’accorge omai che non è finto,
si riconforta alquanto, e seco gode
che già il suo vincitor si renda vinto.
«Signor (risponde), le soverchie lode
che date a me da cortesia sospinto
care mi son, ch’io stimo più che ’l vero
dolce schernir d’un tanto cavaliero,
27e vi rendo da poi grazie infinite
della promessa offerta, e sol vi chieggio
che liberiate dall’ingiusta lite
questo castello, e non facciate peggio.
Bastivi fatte aver sole e romite
le nostre piagge e ’l nostro antico seggio;
almen mio padre et io liberi insieme
sciolti siam di timor come di speme -.
28Non ebbe il suo parlar compito a pena
che ’l buon Febo le disse: – Io son contento
ch’a voi sì bella e di tal grazia piena
di dar l’istessa vita avrei talento -.
Et ella in vista più che ’l sol serena
lieta il ringrazia, et egli appresso intento
umil la prega che gli voglia dire
s’egli ha tutto accompito il suo desire.
29La donna riverente di sì dice,
ond’ei con accortissimo sermone:
– Adunque in caso tal non si disdice
ch’io vi domandi un picciol guiderdone -.
Et ella: – Io mi terrò troppo felice
s’io posso cosa far che fia ragione
a casta voluntà già mia per voi.
e non mi curerei di morir poi -.
30Dicele Febo allor: – Sol vi domando
che mi facciate don del vostro amore,
e come vostro servo vada errando
che ne sarò, credo io, molto migliore -.
Ella arrossisce, e vaga riguardando
dice: – Io ’l vorrei, ma che vi fia, signore,
che sète peregrin, sète cristiano,
e ’l mio seme e mio padre è pur pagano?
31D’un’altra cosa poi non vi sovviene,
a me sì bene e sempre fia nell’alma
che ’l vostro ferro entrò dentro alle vene
di quei due re di cui portate palma,
il galese e ’l norgallo, che sì bene
tenner comun co ’l padre mio la salma,
i quai fur suoi fratelli, e s’amàr tanto
che ’l vecchio mio parente muor di pianto.
32Voi d’alto stato poi messa m’avete
in maggior povertà ch’esser mai possa;
la vostra man, la vostra ardente sete
del dominar d’ogni mio ben m’ha scossa.
Or dunque, cavalier, come volete
che d’amar voi con zelo oggi sia mossa?
La volontà con le sue mobil rote,
la fortuna cangiar già mai non puote? -.
33Ivi il gran Febo, che l’amava in prima
come fa chi per fama s’innamora,
poi l’ha trovata più d’ogni sua stima
leggiadra e bella come estiva aurora,
sentesi al cor aver doppia la lima
d’Amor, che in lei gli strali aguzza e ’ndora.
Già si è proposto o di venirle in grazia,
o farla tosto di sua morte sazia,
34e risponde: – Alma stella mattutina,
da cui sol può venir la mia salute,
se queste dure man che ’l Cielo inchina
a combatter per gloria e per virtute
han condotta, ignoranti, tal ruina
la vostra regine e sian perdute
per lor di quei due re l’acerbe vite,
sian l’empie e peccatrici omai punite.
35Sian punite le mani, e non il core,
che vostro è sempre stato e sempre fia,
che fallito non ha, non fece errore,
né contro a voi pensò mai villania.
Perdonate a lui sol, se ’l resto muore
pur ch’a voi, donna, di servizio sia,
non me ne cal, vi giuro, e son contento
sopportar vivo e morto ogni tormento.
36Non rifiutate, donna, i preghi miei,
né mentir fate la bellezza vostra,
che fatta in Ciel di man di tutti dèi
che pietade albergate fuor ne mostra.
Crediate pur che volentier farei
se tanto andasse in là la forza nostra
con la mia vita istessa che quelle alme
rivestisser tra noi l’antiche salme.
37Ma poi ch’esser non può, caggia in oblio
l’odio che mi portate a tutti i torti,
sì come ho volentier deposto il mio
contro al parente vostro, e si conforti
ch’io ho sì grande di mostrar desio
la servitù ch’al vostro sangue porti
ch’io non gli feci mai sì grave male
che maggior non sia il bene o almeno eguale.
38Datemi il vostro amor, non mi sia tolto
ciò che al mio buon voler dovuto appare,
voi mi farete allor miglior di molto,
ché Venere è cagion dell’opre rare -.
La vaga donna, asserenato il volto,
dolce risponde: – E chi vi puote alzare
più di quel che voi sète, che natura
in farvi senza par pose ogni cura?
39Non porria il Ciel, non che bellezza umana
farvi, signor, maggior di quel che sète,
Scacciate pur questa credenza vana
e di cose impossibili la sete,
che me fanciulla semplicetta e strana
di schernir e di far gran torto avete,
né si convien a cavalier pregiato
verso una prigioniera in tale stato -.
40Or esso, dentro al qual si accresce il foco
come per la secca esca in la fornace,
risponde: – Damigella, non per gioco
domando vostra grazia e vostra pace,
e giuro al Ciel che fia molto, non poco,
l’alto valor e quello onor verace
che venir mi potrà dal darmi voi
il vostro amor, che mai non manchi poi.
41Lealissimamente adunque vegna
da voi risposta che men faccia dono -.
Et ella, sorridendo: – Benché indegna,
di concederl’a voi contenta sono,
pur che la trionfante vostra insegna
difenda e guardi il real nostro trono -.
Il promette egli e la ringrazia e parte,
essa torna al castello et ei si parte.
42Ritrovato il suo re lieto gli conta
il grande acquisto, e ’l fa già suo prigione.
Quel dal dolore in allegrezza monta,
e dice: – Di star lieti aviam cagione,
costui d’ardire e di valor sormonta
ogni re, cavalier, duce e barone.
S’egli è cotal per noi ciascun ci teme,
e d’aver meglio un dì portiamo speme.
43Perché in un giorno sol con la sua spada
ci può riguadagnar più che non tolse,
e darci in signoria nuova contrada
se per noi vuol quel per altro volse.
Fate pur quanto ei brama e che gli aggrada,
serrate il laccio dove Amor l’accolse,
servando il vostro onor, che castitate
fa durare il desio più lunga etate.
44Non pensi donna mai ch’esser cortese
di quel che non si dèe sia forte accetto;
ben per un tempo tien le voglie accese
d’un servitor il micidial diletto,
ma poi si sente uscir di mese in mese
l’appetito già stanco, e vien negletto,
apronsi gli occhi allora, e ben si vede
che ’l puro amor non vuol lorda mercede.
45E là dove ei s’amavan di buon zelo
in odio s’han, ché la ragione il mostra,
però che i detti dispregiando al Cielo
e l’onore offendendo e legge nostra,
lassi, han vergogna che ’l terrestre velo
greve, macchiato e vil ha vinto in giostra
l’anima divinis sima, e si fanno
inimici tra lor del comun danno -.
46Ascolta e nota la sua saggia figlia
i ricordi paterni, e gli consente,
poscia un fermaglio de i più cari piglia
che d’infinite gemme era lucente,
di bella guisa e ricco a maraviglia
una vaga cintura parimente,
e con licenza di suo padre manda
a Febo entrambi, e sé gli raccomanda.
47Portogli una donzella ammaestrata
che ben seppe narrar quanto ella disse.
Febo accetta i bei doni e l’imbasciata,
e mille baci nel fermaglio affisse;
ponselo al collo, alla cintura ornata
adattò il brando, e poi mentre che visse
per mal che’ella gli fesse o beffe o scorno
non se gli volle mai levar d’intorno.
48Anzi all’ultimo dì ch’a morte venne
comandò che con quei sotterra andasse
com’or vedete, e ’n questo modo avvenne
della donzella che là dentro stasse.
Or vi ho conto, signor, come sostenne
l’alta cavalleria, come passasse
Febo di forza ogni uomo, e da lui scende
Giron, ch’al mondo d’agguagliarlo intende».
Tuttavia la donzella lo odia, e cerca di ucciderlo chiedendogli prove impossibili: lui cattura il re d’Orcania (49-76,4)
49Qui taceva il buon vecchio, ma Breusse
quanto può il stringe con preghiera umile
che voglia dir ancor quale il fin fusse
tra lor del nuovo amor raro e gentile,
e come a morte poscia si condusse
quell’alto re ch’ebbe ogni vizio a vile,
perché d’averne voglie ha ben ragione
poi che del sangue suo nacque Girone.
50«Deh ditemel,» dicea «ditemi ancora
la bella damigella ove morio,
e dove ebbero i quattro l’ultim’ora,
e come echi quaggiù li sepellio,
e voi quando eleggeste tal dimora,
e perché ’l vostro figlio vi seguio,
che troppo veramente avrei pe male
di non saper il fin d’un conto tale».
51Quando intende il buon uom che pure il vuole
disse cortesemente: «Io vi prometto
che pria partito e ritornato il sole
sarà ch’io v’abbia tutto il caso detto».
L’altro: «Di star tre giorni non mi duole
perch’aver non potrei maggior diletto».
E ’l vecchio: «Se vi piace ora ascoltate,
ch’io vi narrerò tutto in veritate».
52E seguitò: «Da poi che tutto lieto
quanto mai fusse Febo di quei doni
si partì dal castel, mandò secreto
un messaggier de i suoi che a lei ragioni
che non avrebbe mai l’animo quieto
né si terrebbe un servitor de’ buoni
se per lei qualche prova non facesse
ond’ella il suo buon zel riconoscesse,
53e che fusse contenta comandare
che non rifiuterà danno o periglio,
e quanto scalda il sole e bagna il mare
farà pe lei du sangue uman vermiglio.
Ella, che l’odia forte e no ’l può amare,
subito contro a lui truova consiglio,
e risponde al mandato: – Or gli direte
che poi che di piacermi ha tanta sete,
54ch’egli avrà l’amor mio saldo e sicuro
s’ei vuol d’un mio fratel far la vendetta,
che ’l re d’Orcania il micidiale, impuro
uccise a torto in una valle stretta;
e se ’l mena alla morte allor gli giuro
che d’amarlo ad ognor sarò constretta.
or per me faccia una tal pruova ardita
che mai simile a lei non fusse udita -.
55Ritorna il messo e porta le imbasciate
di che Febo ebbe sopra modo gioia,
né pensa il miserel che sien mandate
da quella aspra donzella a fin che muoia,
ma per provar le forze sue nomate
e vendicar la ricevuta noia.
Si muove allor con poca compagnia
e ’nvêr Orcania già prende la via.
56Non era ancor cristian tutto quel regno,
ma ven eran pagan la maggior parte;
ei con sei soli segu il suo disegno
a gli altri dice che l’attendan, parte
in un castel che per uman ingegno
e per natura poi congiunta all’arte
fortissimo era, ch’acquistato avea
nella Norgalla ch’esso possedea.
57Entrato adunque presto e così solo
nel reame d’Orcania, quivi intende
che ’l re, ch’è detto Orcan, con grande stuolo
di tener ricca corte tosto attende.
Apparecchiato il core a dargli duolo,
un suo varletto de i più saggi prende:
– Va (dice) al re d’Orcania, e narra appresso
quel che vuol che per lui racconti ad esso -.
58Vanne adunque costui, quel re ritruova
dentro il palazzo a i suoi baroni in mezzo,
e gli dice: – Un guerrier di tutta prova
d’inaudito valor, di sommo prezzo,
sagratissimo re, prima che muova
della vostra provincia il passo sezzo
vi fa intender per me che morte acerba
nella punta del brando vi riserba.
59E ’l farà per punir l’onta e l’oltraggio
che gli feste altra volta, e vi assicura
che non vi può scampar forza o vantaggio,
non lo schermo, non l’arte o l’armadura,
ch’egli è di tal possanza e tal coraggio
che contro a quel che vuol niente dura,
né vi brama assaltar in minor sorte,
ma nel gran dì che voi terrete corte.
60E ’n mezzo a gli altri vostri cavalieri
spera a dispetto lor la vita torvi,
e negarvi sepolcri e cimiteri,
ma farvi esca di lupi, cani e corvi.
Ora io come i fidati messaggieri
non vorrei tòrre all’imbisciata o porvi,
vi dirò pur che gran miracol fora
se vivo di sue mani usciste fuora -.
61L’ardito re d’Orcania, ch’era in vero
grande, ardito e possente a maraviglia,
di trovar uom tanto orgoglioso e fero
che sì forte il minacci ha maraviglia.
Dice al varletto poi: – Da qual sentiero
vien or costui che tal baldanza piglia
di disfidar un re tal qual io sono,
che contro un Marte ancor mi terrei buono? -.
62Gli rispose egli allor: – Sacciate, sire,
che colui che mi manda è di tal forza
da dar effetto a maggior suo desire
e non val contro a lui l’umana scorza -.
Il re, ridendo: – Or piacevi di dire
il nome suo che tutto il mondo sforza -.
L’altro gli replicò: – Poi che ’l volete,
or tutto il vero a punto intenderete.
63Questo è quel cavalier c’ha miso al basso
Noromberlanda, Galese e Norgalle,
due re condusse all’ultimo lor passo,
al terzo rivoltar fece el spalle,
pur con quaranta soli, e non è lasso,
anzi cerca la gloria in ogni calle.
Questo adunque verrà, questo è colui
che quanto a gli altri fe’ vuol fare a nui -.
64Quando ha chi sia il guerrieri quel re compreso,
dice: – Or va’, dunque, e narra al tuo signore
che bench’io aggi di più luoghi inteso
lodar la sua prodezza e ’l suo valore,
pur temenza non ho d’esser offeso
da lui qui dentro, o in altra parte fuore,
sì che vegna a sua posta, ch’io l’aspetto,
né lascierò la corte e ’l mio diletto.
65E gli risponderò di modo tale
che forse riportar ne potrebbe onta -.
Vanne il buon messaggiero, e mette l’ale
e tutto il fatto al suo signor racconta.
Già s’apparecchia a festa reale
quando sceso l’aprile il maggio monta,
e fu in una città famosa e bella
e ricca, ch’Esenon da lui s’appella.
66Ivi concorron tutti i suoi vicini,
i suggetti, gli amici e i conoscenti.
Non resta cavaliero in quei confini
che quanto ornato può non si presenti.
EI coperto di perle e di rubini
d’adamanti e di gemme più lucenti,
con la corona in testa e tutto adorno
muove per onorar l’eletto giorno.
67Con ricca e numerosa compagnia
dal suo ricco palazzo al tempio viene,
poi sen torna per la istessa via
e venti cavalier armati tiene.
Comanda che ciascun li presso stia
perché della minaccia gli sovviene
che da parte di Febo avea sentita
e teme o dell’onore o della vita.
68Or mentre vuole entrar dentro alla porta
ove tutte le tavole eran poste,
ecco Febo arrivar con poca scorta,
che sol di sei guerrieri avea fato oste.
Era ben a caval, ma poche porta
arme d’intorno, rozze e mal composte,
fra gente e gente il passo al re distende
e con ambe le braccia a forza il prende,
69e gli grida: – Re Orcan, se quinci armato
staman vi ritrovava io vi uccideva,
ma perch’è biasmo contro un disarmato,
vi perdono per or la morte rea -.
Alzal così da terra, e per costato
mentre innanzi l’arcion se ’l riponea,
si leva intorno spaventoso grido
de i suoi guerrieri e del suo popol fido.
70I quai deliberati a tutto corso
per salvar il signor gli muovon guerra.
I sei compagni vengono al soccorso
di Febo, e ’ntorno a lui ciascun si serra,
mentre esso al suo caval girando il morso
cerca il cammin d’uscir fuor della terra,
e quei con lento passo a poco a poco
van sostenendo sì ch’ei vinse il gioco.
71E ’nsieme co i compagni uscito è fuora
di quella villa, e trovasi in un piano
ove è largo il paese, e pone allora
il re prigion de i suoi compagni in mano,
e lor dice: – Restate, a me tocca ora
a gastigare il popol rozzo e strano.
Voi sète stanchi, et io mi sento in forma
da cacciar tosto indietro una tal torma -.
72E con la spada in man ad essi sprona
come aspra serpe all’innocenti anguille,
sopra questo elmo e sopra quel risuona
mandando in ciel le nubi di faville.
N’ammazzò mille o più, tal che persona
più non l’attende, e si fuggieno a mille,
et ei lor grida appresso ardito e forte:
– Fugga ciascun di voi che non vuol morte -.
73E quei che ne vedean la certa pruova,
tutti obbediva più che volentieri,
né il padre aspetta il figlio o no ’l ritruova,
ma cerca un de i brevissimi sentieri,
e dicean poi – Che cosa invitta e nuova
che insiem abbatte gli uomini e i destrieri
è questa che veggiamo? Uom non è certo,
ma miracol del Cielo chiaro et aperto -.
74Così prese quel re nella presenza
di diecimila armati e d’avantaggio,
et ei da lor se en ritrasse senza
né di sé né de i suoi piaga o dannaggio.
Qui si può ben notar l’alta escellenza
del suo valore e ’l nobile coraggio,
né credo che novella o vecchia istoria
di sì bella opra mai fesse memoria.
75Or dunque con tal re lieto riviene
ove lasciò la donna al suo castello.
Mandal per un de i suoi legato bene,
che a quella il doni nel paterno ostello;
ella ne faccia quanto più conviene,
per ch’ei, che di virtù non è rubello,
avendo lui senza arme vinto e preso
troppo onta si terria d’averlo offeso.
76Ben si meravigliaro ella e suo padre,
e domandano il re come ciò fosse.
Ei contò tutto, e come le sue squadre
quasi un folgor di ciel vinse e percosse.
Poi delle sue miserie estreme et adreFebo si reca in incognito alla corte aperta di Bretagna, dove uccide due giganti (76,5-159)
ragionando a pietà la donna mosse,
la qual del don di fuor si mostrò lieta,
ma dentro al cor n’aveva ira secreta,
77ch’ancor che volentier veggia il prigione,
che sia Febo scampato assai gli spiace,
temendo al fin che non le sia cagione
di guastarle ogni bene et ogni pace,
ché ’l saper com’egli è d’altra nazione
e di contraria fede non le piace,
e va seco pensando nuovo avviso
di dargli impresa dove resti ucciso.
78Era in quei tempi tra i pagan costume
all’ultimo di maggio un certo giorno
si facean ricchi doni al santo lume
di Citerea, più di tutti altri adorno,
là presso una montagna in riva un fiume
ove poco abitato avea d’intorno,
era un tempio di lei santi e divoto
ove tutti i vicini ivan per voto.
79Il re noromberlando, che sicuro
per la pace con Febo ha il suo paese,
fa per tutto bandir ch’al chiaro e scuro
nessun de i suoi vassalli tema offese,
ma con l’alma contraria e co ’l cor puro,
adorno e cinto d’onorato arnese
venga il dì detto di Ciprigna al tempio
a ringraziarla del scampato scempio.
80Non restò adunque allor picciol né grande
che molto volentier non concorresse.
La lieta nuova già per tutto spande
la fama alata con sue voci spesse.
Apparecchia ciascun veste e vivande
le delicate più che in casa avesse,
e con dolce letizia già s’invia
d’ogni grado uomo o donna che si sia.
81Febo, ch’era in Norgalle ritornato,
cercando un che fortissimo era detto,
mentre che molto in van si è faticato
sente queste novelle ch’un varletto
gli conta a caso, et hallo assicurato
che la sua donna del divino aspetto
vi saria senza fallo, ond’ei disposto
d’andar prende il cammin quanto può tosto,
82dicendo a i suoi compagni: – Io ho perduto
di rincontrar costui, ché troppi semo,
et ei forse in suo cor avrà creduto
d’aver con tanti il suo valore scemo.
Ma s’io mi parto solo e sconosciuto
di deverlo trovar punto non temo.
Restate adunque voi diletti amici,
che tosto tornerò in queste pendici -.
83Pare strano a ciascun, e lui consiglia
che qualcun meni e se stesso appresenta;
ei nega tutti, e poi partito piglia
tal che forza è che ciaschedun consenta.
Sopra il caval veloce a maraviglia
montato, di poche arme si contenta,
che per far più cammin tutto leggieri
va d’ogni soma, e via sprona il destrieri.
84Come fu nel paese ad un castello
truova il pagano, e dolce gli domanda
s’è ver che tutto il lor reale ostello
del buon paese di Noromberlanda
vadino al tempio sì famoso e bello
che l’amorosa Venere inghirlanda.
Gliel conferma esso, e poi soggiunge: – Anch’io
son mosso a questo fin, se piace a Dio -.
85Chiedegli Febo allor se cavaliero
fusse, o pur divers’arte esercitava,
e l’altr come un povero guerriero
era stato, et ancor gli raccontava,
e Febo: – Volentieri, a dirne il vero,
vosco (dice) verrei -, poi ne ’l pregava,
e quel del suo desire il ricorregge
poi ch’egli era al veder d’un’altra legge.
86Mostragli poi che in gran periglio e greve
se da lor fusse conosciuto o visto
sé metterebbe, ché nessun là deve
esser che della setta sia di Cristo.
Febo gli dice che fia cosa leve
quando con l’altro popol sarà misto
di star ascoso: – Tal che sarò colto
per un degli altri che d’uomo hanno il volto -.
87Questo dicea per che temeva poco
tutta Noromberlanda insieme e i suoi.
Il pagan, che pigliar no ’l vuole in gioco,
dice: – Noi sarem morti ivi ambe duoi,
ma pria che noi partiam di questo loco
del medesmo che me vestirò voi,
e così se vorrete andrem celati
da gli uomini parvi e da i maligni agguati,
88ch’assai più volentier la propria morte
che la vostra vedrei, se ’n compagnia
mi vi avesse donato caso o sorte,
sendo voi peregrin e ’n questa via -.
Febo, ch nota le parole accorte
e che di leale fé stima che sia,
s’accorda al suo voler, resta la sera
albergar seco con allegra cera.
89Era costui, ch’Arsano aveva nome,
nobilissimo e ricco et onorato,
ma carco il cor di dolorose some
si dimostrava in poverello stato.
Febo il conosce, e gli domanda come
così tacito sta, se sia malato.
Risponde: «Io non son sano, anzi ferito
e di amare disgrazie assai fornito.
90Voi devete saper ch’alla battaglia
che i tre gran re in un giorno di sconfisse,
rompendomi ogni piastra, scudo e maglia
una punta di spada mi trafisse
al destra spalla, e non truovo or che vaglia,
sì son le stelle al mio dannaggio fisse,
a farmi risanar, e poscia molti
ivi amici e parenti mi fur tolti.
91Questi fan ch’io non son quel ch’esser soglio,
e che la vita mia par proprio morte -.
Poi si conforta, e dice: – In tale scoglio
dà spesso il legno dell’umana sorte,
ma chi fu la cagione ond’io mi doglio
è veramente tanto ardito e forte
ch’almen mi glorio, se ben fu cristiano,
ch’esser mai non porria più degna mano.
92Ma voi dite, vi prego: vi trovaste
alla fera battaglia ch’io vi dico? -.
– Sì (disse Febo), tra le minori aste
feci quanto potei contro al nemico -.
Et ei: – Qual armi fur che ivi portaste,
ditel senza sospetto e come amico -.
– Perch’io son di tutti ultimo (rispose
Febo) fien l’arme mie per ora ascose -.
93Rise Febo tra sé, poscia discorso
tra lor di quella guerra una gran parte
avean cenato, e già nel mezzo al corso
era la notte con sue stelle sparte.
Vannosi a riposar lo stanco dorso
ove il buon cavaliero adopra ogni arte
d’accarezzarlo assai, ch’un gentil core
anco a i nemici buoni ha grande amore.
94Allo spuntar del giorno nell’aurora
surgono, e veston d’un’egual maniera;
la spada ascosamente si dimora
sotto il gran lembo d’una veste nera,
ché non voglion senza essa nessuna ora
passar i buon guerrieri di mane o sera.
Partonsi insieme, e truovan tosto un bosco
di sacri arbori antichi ombroso e fosco.
95Una famosa tomba era all’entrata,
ricca e bella a veder, ove un gigante
una spalla tenea tutta appoggiata
e dritto sta sopra una delle piante.
L’altra tien alta mazza avviticchiata
al gran ginocchio, e con crudel sembiante
guarda per la foresta, e tiene intorno
di dieci armati un bel drappello adorno.
96Quando Arsan, c’ha veduto ch’altra volta
l’avea già conosciuto, sbigottio,
e per fuggirsi a dietro si rivolta,
colmo di tema, e si accomanda a Dio,
ma ’l fer gigante, ch’el romore ascolta,
così tosto lui scorse che l’udio,
e vedendol tornar – Fermati – grida,
chiama, minaccia et a battaglia il sfida.
97Il miserel, che vede ch’è scoperto
e che scampo cercar sarebbe vano,
si volge a Febo, e dicegli: – Di certo
uccisi siam da questo gran villano;
dogliomi poi che crederete aperto
ch’io sol v’abbia condotto alla ria mano,
ma Dio sa il vero, e voi vedrete appresso
ch’avrò tradito più che voi me stesso -.
98Mentre parlan fra loro ecco arrivare
il gigante feroce e d’ira pieno.
Comanda a quei che deggino smontare
e la man stende per pigliargli al freno.
Dice Arsan pauroso: – Il convien fare -,
discende tosto, e Febo non fa meno;
attaccano i cavalli ove eran quelli
di molti altri ivi presi e miserelli.
99Vanne verso il pagan cruccioso, dice:
– Tu sei, per quanto io so, mio prigioniero -.
Rispose quel: – Nessun ciò vi disdice,
ch’io non vo’ contrastare al vostro impero.
Fatemi or voi felice od infelice,
come vi aggrada, ma il migliore spero -.
– Tu speri ben (diss’egli), e ti assicuro
già della vita, e tel prometto e giuro.
100Ma dimmi se tu ’l sai chi sia costui
che dentro a questa tomba ornata giace -.
Et ei, che ’l sa, risponde: – Egli è colui
che di Femor fu re, persona audace,
e ne i suoi dì chi s’agguagliasse a lui
non poté mai trovar in guerra o ’n pace -.
Disse il gigante: – E questo è quel ch’io voglio,
e che sia morto sol troppo mi doglio,
101ch’io vorrei di mia man la vita tòrre
a questo scellerato e disleale,
che qui proprio mio padre venne a corre
per tradimento crudo e micidiale.
L’ancise, e ’l corpo suo poi fede porre
esca di qual più sia lordo animale,
ma poi ch’altro non posso, son contento
di trarlo fuori e farne il mio talento.
102Io ’l farò strascinar per queste piagge
fin che disgiunte sian d’un miglio l’ossa,
tal che i lupi e le fere aspre e selvagge
né can mangiarne lungamente possa -,
e perché il suo parlar effetto n’agge
comanda a quei che son sotto sua possa
ch’alzin la pietra, et essi vanno all’opra
ma in van ciascun tutte sue forze adopra.
103Il gran gigante, che ciò far rimira
tutti gli prende al collo et alle braccia,
e per forza indi a dietro gli ritira
e sì come villan lor sputa in faccia,
dicendo appresso con parole d’ira:
– Il ciel di voi secondo i merti faccia -.
Prende ei la pietra, e pensa agevolmente
portarla altrove, et a se stesso mente,
104ché con molta fatica non la mosse
pur brevemente onde cangiò sentenza,
e con le guance di vergogna rosse
disse: – Nessun della mortal semenza
potrebbe questa in mille e mille scosse
far di crollarla pur poca apparenza,
se ciò non fusse per divino incanto,
da poi ch’io non la scuoto o tanto o quanto -.
105Dice allor Feo, quando questo intende:
– Parla per te, che troppo debil sei,
ma so ben tal che se l’impresa prende
che la leverà tosto giurerei -.
Il gigante il riguarda, e si raccende
più che mai fusse, e disse: – Tu chi sei
ch’ardisci di parlar, dimmi il tuo nome
e d’onde sei qui giunti e quando e come -.
106- Io sono un cavalier come tu vedi
(rispose Febo) più grande che grosso,
né persona ho trovata, e tu no ’l credi
più di me forte, e mantener il posso -.
Disse il gigante a lui: – Sopra i miei piedi
n’hai trovato uno, e romperatti ogni osso -.
– E perché (Febo gli domanda allora)
s’io no nt’offesi mai vuoi tu ch’io moia? -.
107- Per mostrarti (diss’ei) che forte sono
più di te molto -, e l’altro ne sorride,
dicendogli con beffe: – E saria buono
prima, signor, che tu a morte mi guide
che di tanta ora almen mi faccia dono
ch’io mostri quel che l’occhio tuo non vide -.
Vanne dritto alla pietra, e dice: – S’io
l’alzo da terra sarà il vanto mio? -.
108- Sì sì (gli afferma il gigante) e son contento
di chiamarvi di me sempre più forte -.
Pigliò Febo il gran marmo e ’n un momento
come un villan che un picciol fascio porta,
sopra il collo sel pone, e lento lento,
quasi uom che passeggiando si conforte,
il portò lunge assai fuor del cammino,
poi tornò in dietro, e ’l pose ivi vicino.
109E gli soggiugne poscia: – Or puoi vedere
come hai bramato chi tuo padre uccise -.
Vien il gigante, e le due luci fere
dentro alla bassa tomba tenne fise.
Ivi era adorno un uom di veste altere
con la corona e con real divise,
la spada a canto, l’arme appresso avea,
l’elmo d’oro alla fronte ancor tenea.
110Seguitò Febo: – Poi che alquanto aspetta
or c’hai guardato assai chi offeso t’have,
tempo è che ’l coverchio si rimetta,
ché peccato sarebbe troppo grave
ch’io ti lasciassi far brutta vendetta
sopra un ch’è tal che più non spera o pave,
e che re visse in sì onorata foggia
lassar preda del vento e della pioggia -.
111E così detto ratto il ricoperse,
poi si volge al gigante ragionando:
– Tu di parole d’arroganza asperse
mi sei gito la morte minacciando,
ma chi tuo dir bestial allor sofferse
or ti face saper che posta in bando
ogni pietà ch’avea, vuol quello stesso
di te dispor ch’avevi a lui promesso.
112Ei ti convien morir, crudele -, ’n questa
trae di sotto il mantel la forte spada,
mostrala a quel crudel, che così resta
smarrito che non sa s’ei vegna o vada;
pur, come l’uom che per romor si desta,
la guarda intorno e senza fin gli aggrada,
che mai non vide altrove la migliore
disse, e di tòrla a lui si pose in cuore.
113Lodala adunque, e dolce poscia il prega
che gliela lassi alquanto, et ei cortese,
che mai grazia ad alcun, ch’ei possa, nega,
la porge allegro; ei con due man la prese,
tirasi indietro e poi ragioni allega
ch’ei porria far con essa troppe offese,
e che per sé la vuol, e vuol con ella
che dal corpo di lui l’alma si svella.
114S’adirò Febo, e pur con lieto viso
disse: – Or m’avveggio io ben che folle sei,
e d’esser tosto di mia mano ucciso
brami assai più ch’io non mi penserei -.
Poi fe’ leve in un salto all’improviso
più che molti altri non farieno in sei,
s’avventò sopra, e ’l prende per la gola
sì che non può spirar né dir parola.
115Fagli la lingua trarre un palmo fuora,
onde il brando di man per duol gli uscio,
prendelo il cavalier, e dice allora:
– tu sei troppo villan, sei troppo rio,
però non vuo’ che a nessun modo mora
una bestia sì vil del ferro mio -,
ma con la man che disarmata resta
il percuote d’un pugno nella testa,
116di che fece due parti, e le cervella
cadder per tutta la vicina terra,
e così via n’andò l’anima fella
che avea fatto a i miglior già lunga guerra.
L’un l’altro in questo caso non appella
di quei che seco son, ciascun si serra
fuggendo quanto può pel bosco folto,
di timor e di duol pallido il volto.
117Vassene Febo poscia verso Arsano,
e dice: – Andiam, che n’è ben tempo omai;
noi siam qui stati a perder tempo in vano,
più ch’io non mi pensava e pur assai -.
Non gli sa che risponder il pagano
meravigliato più ch’uom fusse mai,
e non sa s’ei si sveglia o s’ei si dorme
vedendo cose fuor d’umane forme.
118Al fin lieto rispose: – Veramente
ben ce ne posiamo ir, vostra mercede,
poi ch’avete le forze quinci spente
del gigante crudel, come si vede,
e fatto un colpo che la mortal gente,
che ancor cosa minor spesso non crede,
non penserà già mai che fusse vero
e ch’il dirà fia detto menzognero.
119E per questo miracol c’ho veduto
e pel vostro valor ch’è senza pare,
vi prego a far che da me sia saputo
il vostro nome, e più on mel celare,
ch’io ’l possa sempre mai, com’è dovuto,
alzar al ciel con l’opre sue preclare,
le quali han fatto ch’io son vivo e fuori
di prigion, di miserie e di dolori -.
120E Febo allora: – Amico, assai mi doglio
ch’io non vi posso dir se non ch’io sia
peregrin cavalier, né per orgoglio
né perch’io stimi assai la virtù mia
vi nego il nome, e d’ogni cosa soglio
fuor che di questo usar la cortesia -.
L’altro, che no ’l vorrebbe infastidire,
si acqueta, e seguel poi senza altro dire.
121Non molto van ch’arrivan proprio al loco
ove il tempio e la festa era solenne,
ivi fra canti, danze, suoni e gioco
ogni maggior della contrada venne.
Ciascun mostrava il dì quel molto o poco,
secondo pur che ’l grado suo sostenne,
ch’ei possedeva, e quanto il pian si stende
era di padiglion carco e di tende.
122Non molto stan che con la vaga figlia
discende il re fra l’infinita gente,
ella era adorna e bella a maraviglia,
ch’arte a natura pur giova sovente.
Là corre il popol tutto, e seggio piglia
onde possa veder quel sol lucente,
ma sopra gli altri Febo la riguarda
com’uom che di desio s’avvampi et arda.
123Entron nel tempio alla divina offerta
a i santi sagrifici, al modo antico,
van poscia ove la tavola è coperta
sotto aurati e bei panni in luogo aprico.
Ivi resta la turba all’aria aperta,
Febo si posa co ’l suo fido amico,
sotto un arbor ascoso, in modo pure
ch’ei potea vagheggiar le luci pure.
124Mentre che son così tutti d’avanti
ecco lontan, di cima all’alto monte,
due feroci fratei, ch’eran giganti,
venire in basso con superba fronte.
Questi eran tai ch’a i cavalieri erranti
fatto avean danno spesso, a i vicini onte,
tanto che per timor in quei confini
avean tributi assai da i lor vicini.
125E nel giorno medesmo ciascuno anno
dal re noromberlando avea presenti
di dieci robe ch’a lor guisa fanno
di seta intere et altri vestimenti
di sciamito vermiglio, ma il gran danno
che i paesan facea troppo dolenti
era che sei garzoni e sei pulzelle
tenuto era a dar lor delle più belle.
126Il qual tributo in vero era fondato
sopra il valor di questi e la prodezza,
perch’essi avean d morte liberato
questo re proprio, ch’or tanto gli prezza.
Quando essi scorge il popolo adunato
ciascun di riguardarli avea vaghezza,
uno scudier ove il re mangia assiso
della venuta lor porta l’avviso.
127Rallegrasi egli, e gioia ne dimostra,
dicendo: – Sì fedei trovati oggi aggio
che sempre chiari alla presenza nostra
verran come fratelli e d’avvantaggio,
e tal de i nostri ben s’indora e inostra,
che portato n’avria morte o dannaggio
s’eran meco quel dì che fummo rotti
da i cristiani spietati e mal condotti -.
128Queste parole subito rapporte
furon tutte ad Arsan, dove Febo era,
il qual ricerca con preghiere accorte
perché il re ragionava in tal maniera.
Fugli risposto che tenea sì forte
ciascun di quelli e di lor tanto spera
ch’ei pensa che i cristiani uccisi avria
s’aveva i due giganti in compagnia.
129- Come (domanda Febo), or son ei tali
che si possa di lor tal fede avere?
Ditemi voi se sono a quello eguali
che con un pugno sol feci cadere -.
Gli risponde il pagan che fra i mortali
cosa maggior non si porria vedere,
e che ’l minor de i due più vale assai
di quel che uccise e di quai vide mai.
130Mentre parlan così già su la strada
l’uno e l’altro è di lor, ricco vestito;
perché son cavalier portan la spada,
tal che ciascun ne resta sbigottito.
Febo più in quelle, ch’a nullo altro bada,
et ha co i circostanti acconsentito
che le più lunghe e larghe mai non vide,
ma le dispregia e nel suo cor ne ride.
131Giunti costor, con somma riverenza
salutano il lor re, l’altro gli accoglie
amicamente, e nella sua presenza
seder gli face, al fin contro a lor voglie.
Muove il parlar appresso, ma non senza
mostrar ira nel cor, disdegni e doglie,
dicendo: – Io credo ben che vi sia noto
com’io sia qui d’ogni dolcezza vòto:
132i due cari fratei perduti ho in tutto,
in tutto il lor paese, e ’l mio bel regno
parte mi è tolto, e parte n’è distrutto,
tal che di sì gran re servo divegno,
ripien di danno, ohimè, d’onta e di lutto,
e di mai rimontar non veggio segno,
ché quando la fortuna un uom percuote
tutto il mondo l’offende quanto puote.
133Fuste voi stati almeno in questa parte
(che nel vostro valore ho tanta fede),
che per le vostre man quel gallo Marte
avea del troppo ardir giusta mercede,
pur il mio cor si riconforta in parte
che voi, signor, in buono stato vede,
perché in voi soli spero, appresso Dio,
che possin vendicar l’oltraggio mio -.
134Con lagrimoso volto al suo parlare
dando il re fine, un di quei due giganti
risponde: – O sacro re, se l’opre rare,
se il gran valor de i cavalieri erranti
forza avessero in vita di tornare
quei che son morti qualche tempo innanti,
noi faremmo venir con queste mani
i due vostri fratei viventi e sani.
135Ma poich’esser non può, n’aggia quel duolo
ch’aver si può maggior; dell’altro danno
vi promettiamo alto ristoro a volo,
e darvi i vincitor ch’offeso vi hanno,
e non pur contro a pochi e contr’a un solo,
ma contro a gli infiniti se verranno
tal vendetta faremo in breve giorno
che sopra lor ricaggia il vostro scorno.
136E se ci fate intender ove pose
chi vi ha condotto a tal c’ha tanto nome,
vel renderemo in queste piagge ombrose
strascinandolo in terra per le chiome,
e le sue genti afflitte e sanguinose
sotto nostre catene avrete dome,
né diremo altri più, ché chi far vuole
non ha troppo mestier d’assai parole -.
137Qui tacque, e riverente si ripone
ove avanti sedea nel proprio loco.
Già finito il mangiar, chi cante e suone,
chi danzi e chi piacer ha in altro gioco
si rappresenta al prato, altre persone
ch’avanzar credon tutti o molto o poco
di destrezza, di forza o d’arco trarre,
di levar pesi e di avventare sbarre
138si fanno innanzi, e mostra ivi ciascuno
alla donna ch’egli ama sua virtude.
Ma la figlia real, c’ha il cor digiuno
d’ogni dolcezza, in un canton si chiude;
ivi si addorme, e non riguarda alcuno,
che per lei quivi s’affatiche e sude.
Febo, che gli occhi suoi non può gioire,
con l’amico ch’avea comincia a dire:
139- Ché non andate voi, compagno caro,
a mostrar là qualc’onorata pruova? -.
– Ah (risposegli Arsan) ove uom sì raro
come voi qui presente si ritruova,
chi non è stolto deve esser avaro
(se co ’l suo poco oprar alcun non giova)
di far sua vergogna altrui diletto,
e resti ascoso chi non sia perfetto.
140Vi dico io ben, che pria ch’io vi vedessi
far quel salto staman, che di destrezza
mi tenea raro, et honne vinti spessi,
e so che questo re non me ne sprezza;
ma voi che fra i lontan popoli e pressi
il suppremo tenete d’ogni altezza,
vi devreste provar e far le ciglia
a mille alzar di nuova maraviglia -.
141Al fin del ragionar vien un pagano
ch’era ivi del re lor stretto parente,
ch’una palla dorata aveva in mano
e ’nvita al corso la vicina gente,
dicendo che gettar la vuol con mano
tre volte, e poi ricorla leggiermente,
e con tutto ciò far spera guadagno
della velocità co ’l suo compagno.
142Fassi uno avanti che leggier si tiene,
ma restò vinto nella prima giunta,
vinto resta il secondo ch’a lui viene,
e ’l terzo nel medesmo si raggiunta.
Un de i giganti allor non si contiene,
ch’a provar corre, e la vittoria spunta,
perch’ei giunse la palla al primo getto
e passollo oltre, e vincitor fu detto.
143Il gigante ritorna insuperbito,
e gli altri ch’ivi sono al corso chiama,
ma nessun di risponder truova ardito,
perch’egli era tra lor di troppa fama.
Febo, che volentier terria l’invito
e di fargli vergogna al tutto brama,
tacito stava pure allor ch’egli ode
il re dare a colui divine lode,
144dicendo: – Or non prendete altra fatica
che non ritrovereste pari al mondo.
Avesse fatto la fortuna amica
che ’l dì della battaglia mal secondo
fusse con voi, che la nemica
schiera so ben che non poneva in fondo! -.
Non si può dir se Febo monte in ira
e l’amico pagan da canto tira.
145E ’l prega quanto può che correr voglia
co ’l vincitor, e se per sorte è vinto
ch’esso gli ritorrà la tolta spoglia.
S’accordò quel, dalle promesse spinto,
chiama il gigante, e parte si dispoglia,
mostrasi tutto alla quistione accinto.
Restò qual gli altri, e tutto ontoso torna
ove era Febo, che ciascun lo scorna.
146E gli dice: – Signor, ben mel credea,
pur con la mia vergogna v’ho contento -.
Il cavalier allegro ne ridea,
dicendo: – A vendicarvi corro intento -,
getta lontan la giubba ch’egli avea
e si presenta innanzi in un momento,
chiama il gigante, e dice: – Tu sei stolto
a pensar in destrezza valer molto.
147Quando vinto m’avria ben potrai dire
d’esser forte e leggiero oltr’a misura -.
Maravigliato que del suo venire,
gli domanda: – Chi sei, che prendi cura
d’una impresa sì strana et hai desire
di gran vergogna, e ben l’avrai sicura? -.
– Son un uom (disse Febo), come vedi,
ma sarò ben miglior che tu non credi -.
148Parla il gigante, che ’l dispregia troppo:
– Vientene adunque -, e la sua palla getta;
corregli appresso più che di galoppo
né che ’l nemico si raccoglia aspetta.
Febo, che ’l vede e vuole al primo intoppo
del suo compagno far larga vendetta,
ferma il piè destro sopra il duro smalto
e dietro a lui s’avventa con un salto,
149e con quello i raggiunge, e nelle spalle
gli diede in colpo tanto che ’l trabocca,
come agnel lupo in solitario calle,
sì che gli fa del fronte e della bocca
stampar la rena alla riposta valle;
poi segue, come stral ch’esca di cocca,
prende la palla, indietro torna, a lui
dicendo: – Chi leggier fu più di nui? -.
150Il gigante, ch’è dritto, gli confessa
ch’essi sia più fornito di destrezza,
ma che deggia attenergli la promessa
d’esser al paragon della fortezza,
e Febo a lui: – Di pari onta istessa,
che di questa dell’altra hai pur vaghezza,
contento sono, or prendimi ove vuoi,
e sol muovimi alquanto se tu puoi -.
151Quando sente il gigante tale offerta,
– Troppo (diss’ei) ti vanti a questa volta,
che s’io no ’l posso terrò cosa certa
che la forza da incanto mi sia tolta -.
L’abbraccia in mezzo i fianchi, e pensa all’erta
alzarlo tutto, e senza pena molta,
ma tanto il muove quanto Borea un masso,
onde si rende vinto poi ch’è lasso.
152Febo allor, che aspettato aveva alquanto,
si tornò indietro, e per le braccia il prende,
e ’l gittò steso a terra tutto quanto,
poscia il ritorna dritto, e non l’offende.
Sol gli ragiona: – Or vedi ben che ’l vanto
di forza, di destrezza il ver mi rende -.
Il confessa il gigante, e pien di duolo
si ripone a seder afflitto e solo.
153Il fratel, che ciò vede, né soffrire
può del sangue comun l’alta vergogna,
mette mano alla spada e dipartire
la testa in due del cavaliero agogna.
Febo, che ’l vede contra sé venire,
l’aspetta, e si apparecchia alla bisogna,
senza il suo brando aver, ma il tempo apposta
quando l’altro alza il braccio e se gli accosta.
154E d’un pugno il percuote nella tempia
sì che sel fece a i piè morto cadere;
ove il naso e la bocca di sangue empia
toglie la spada, e con parole altere
dice: – O gran re, non so come si adempia
la vostra opinion del suo valere,
vedetel morto là non altrimenti
ch’un picciol garzoncel che metta i denti -.
155Ben era tutto il popol di sé fuora,
né sa che dir, per maraviglia nuova.
L’altro fratel, che si dispera e plora,
per vendicarlo la battaglia innuova,
gettò Febo la spada, e non dimora
anzi veloce va dove ei si truova,
e co ’l colpo medesmo al proprio stato
l’ha co ’l primo gigante accompagnato.
156Il re, dell’avventura doloroso,
quasi creder non puote a gli occhi suoi,
poi fra sé dice: – Certo il valoroso
Febo è costui, venuto oggi fra noi -.
Di quel che deggia far resta dubbioso,
volentier l’ucciderebbe, ma da poi
ch’ei pensa ciò impossibil si risolve
d’accarezzarlo, e ’nverso lui si volve,
157dicendo a lui: – Famoso cavaliero,
venite a riposarvi, se vi piace,
che ben devete averne buon mistiero
poi che per vostra man tal coppia giace.
In questo popol non sia più sì fiero
ch’amicizia con voi non voglia e pace,
deh venite, vi prego, che ben degno
di palma più ch’altr’uomo oggi vi tegno -.
158L’accetta il cavaliero, e lì s’asside
ove il gran re l’accoglie e l’accarezza.
In questo arrivan le due luci fide
che ’l buon campion più che se stesso apprezza,
drizzasi Febo in piè quando le vide,
e le disse: – O mirabile bellezza,
or potete veder se ’l vostro amore
ogni giorno in virtù mi fa maggiore.
159E se a voi piacerà, questo è niente
a quel ch’io spero far un dì per lei,
pur che vi piaccia solo avermi in mente
tra i suoi servi minor com’io vorrei -,
e, così detto, umile e riverente
saluta il re, la man bacia a costei,
dicendo: – Forza mi è d’andare altrove,
e vi accomando a Dio -, poi il passo muove.
La donzella lo manda in una spelonca dove egli uccide facilmente quattro giganti, ma poi muore di consunzione amorosa a causa di un inganno dell’amata (160-191)
160Restato solo, il re dice alla figlia
che d’amar il suo Febo la conforta,
– Però che sendo forte a maraviglia
esser potrà di noi sicura scorta -.
Ella gliel nega, e con bagnate ciglia
dice ch’esser porria più tosto morta
ch’amar costui, né dice altra ragione
se non la feminile opinione.
161- Ben farò (soggiugn’ella) ne i sembianti
mostra d’amarlo assai più che me stessa,
e mette rollo in tai perigli e tanti
che la sua fin dal Ciel mi fia concessa -.
E così come s’usa a i veri amanti,
or accetta i suoi doni or ne manda essa,
e l’intrattiene in guisa per più modi,
ch’ogni dì gli accrescea catene e chiodi.
162Or ripensando seco le sovviene
che quattro gran giganti de i maggiori
che mai calcasser le mortali arene,
di forza e di destrezza al tutto fuori
d’ogni credenza, e nati sol per pene
de gli uomini onorati e de i migliori,
stavano in questa cava ove noi semo,
da lor murata con sudore estremo.
163Manda vêr Febo adunque un suo varletto
ch’a lui la raccomandi senza fine,
e che gli dica qual danno o dispetto
l’han questi fatto et ultime ruine.
Minaccian al suo regno, e c’hanno detto,
giurando quante son forze divine,
che violar la vogliono, e far tanto
ch’erede sia di sempiterno pianto.
164- E s’io non ho da lui qualche soccorso
ben sarà breve e misera mia vita,
ma tal è il suo valor, ch’al primo occorso
sarà da lui questa opera finita;
ma che si voglia sol metter al corso
molto impresa maggior ha già fornita -,
e che molto pregar sa non bisogna
colui, ch’amando di servire agogna.
165Vanne il buon messaggiero, e l’ambasciata
rapporta a Febo, et ei ne fu gioioso
più che se nuova a lui fusse portata
che del mondo saria vittorioso.
Poi disse: – Dite alla mia donna amata,
in cui giace il mio bene e ’l mio riposo,
ch’io la ringrazio che si degni farme
per sua difesa e ben oprar queste arme,
166e che in breve n’avrà risposta tale
che ben conoscerà quanto io l’adoro -.
monta in questo a cavallo, e vorrebbe ale
aver per accompir tosto il lavoro.
Sol mena un cavalier che poco vale
et un solo scudier che serva loro.
Venne qui proprio, e mentre egli cercava
all’entrar gli rincontra della cava.
167Trovagli tutti armati e tutti insieme
che sopra un cavalier givano il giorno.
di qui vicin, ch’en altro di lor seme
aveva ucciso e fatto a loro scorno.
Com’essi il veggion che la soglia preme
con poca compagnia, ma d’arme adorno,
l’un si fa innanzi, e – Chi sei tu – dimanda
– che vien senza rispetto in questa banda? -.
168- Io sono un cavalier (Febo risponde)
che vengo a darvi a tutti quattro morte -.
Ridon essi tra lor dicendo: – D’onde
arriva questo matto e ’n questa sorte? -.
Poi gli dicon: – Se l’opra corrisponde
al tuo buon senno, tu sei poco forte -.
E Febo a loro: – O saggio o vano o stolto,
voi non starete certo a morir molto -.
169E senza più parlar discese a terra
(perch’ancora i giganti erano a piede).
Il compagno ch’avea, quando la guerra
s’ perigliosa pel suo duce vede,
nel braccio il piglia, e ginocchion s’atterra,
pregando: – Aggiate, ohimè, di voi mercede,
non vi mettete a perdita sì chiara
che vi porria costar la morte amara -.
170Febo il riguarda tutto irato in viso,
di poi domanda s’egli avea paura
come ei mostrava, e quel dice: – M’è avviso
che troppo fate oltraggio alla natura
ad esser tale, e star tanto diviso
dalla ragion di che i più saggi han cura
che voi pensiate vincer sendo solo
di sì fatti giganti un tale stuolo -.
171- Or dunque (disse Febo), se temete
mai più per cavalier io non vi tegno,
e gitene pur via dove volete,
che di mia compagnia vi stimo indegno -.
poi ritorna a’ giganti con gran sete
di mostrar lor della sua forza il segno,
pone al brando la mano, e l’un gli dice
– E perché fai tu ciò tristo e ’nfelice,
172che vedi pur ch’ancor nessun di noi
s’apparecchia d’aver la guerra teco? -.
– Io ’l fo (diss’ei) per dimostrare a voi
come devete far battaglia meco -,
e così detto a lor s’avventa poi,
fra tutti quattro nell’ombroso speco,
e mena un colpo a quel ch’el truova prima,
e ’nfino a i piedi il fende dalla cima,
173Va furiando poi sopra il secondo,
che sbigottito di quell’altro resta,
gettalo come l’altro moribondo,
che dalle spalle gli ha tolta la testa.
Così fa al terzo e ’l quarto, e tutto il mondo
avrebbe spento non pur quella gesta,
e ’ncontinente alla sua donna scrive
che nessun de i giganti oggi più vive.
174Et ancor gli comandi, se le aggrada,
ma cosa meno agevole e maggiore,
non quel che in quattro sol colpi di spada
si conduca alla fine e ’n sì poche ore.
Ella il ringrazia, e che tosto la strada
per ristorarlo e fargli largo onore
prenderia, poi il riprega che l’attenda
ivi, né in altra parte il passo stenda.
175L’obbedisce egli, e con maggior desio
ch’aspetti un’alma il ciel più dì l’attese,
ma poi che di lei nuove non udio
di lungo tempo tal dolor ne prese
che cadde in mal così penoso e rio
che la sua morte già vider palese
i suoi compagni venuti a trovarlo,
e non fur tardi a lei significarlo,
176dicendole: – Madonna, il fido servo
che vi ama più che i cor, infermo giace,
e senza voi via più che tigre o cervo
sarà la vita sua leve e fugace.
Non gli resta altro omai che l’osso e ’l nervo,
e sol in chiamar voi ritrova pace -.
Ella no ’l crede, e manda un messaggiero
che tornò tosto e l’accertò del vero.
177Quella donna crudel tardi pentita
pur di tal cavalier pietade assale,
e con gran compagnia ratta partita
vien, se puote, a soccorrer il suo male.
Giunta ella addolorata e sbigottita
il truova tal che nulla aita vale,
et ei quando arrivò la mira fiso,
né sa gli occhi levar dal suo bel viso.
178Quinci con debolissima favella
dice: – Ben sia venuto il mio bel sole,
venga or la morte, ch’io non curo d’ella,
né di lassar il mondo più mi duole -.
Poi che stretta l’abbrace prega quella,
et essa lagrimando il tutto vuole,
e se gli getta al collo e ’n tale stato
parve a Febo il morir più che beato.
179E così la più grande e famosa alma
che scendesse dal Cielo in questo chiostro,
che tenne sopra ogni altra lauro e palma
della passata età, del tempo nostro,
lassò la più possente e forte salma
che la cavalleria n’aggia dimostro,
e restò il mondo di tal gloria privo
che non pregiò mai più null’altro vivo.
180Quanti furo ivi re, quanti guerrieri,
quanti gran duci et onorata gente!
Vennero ad onorarlo in panni neri
con lagrimoso volto e cor dolente,
lui richiamando il fior de i cavalieri,
più cortese, più ardito e più possente,
e ciascun gli donava nel suo grado
più bel presente che gli fusse a grado.
181Quando l’ebber riposto in questo loco
sopra il letto reale ove il vedete,
il re noromberlando afflitto e fioco
avea per la pietà del morir sete,
né gli parea d’aver perduto poco
avendo già le sue provincie quete
con l’aiuto di lui, poi n’avea speme
qual di genero, figlio e duce insieme.
182Pur fatti i pianti e del dovuto onore
già satisfatto al debito e la voglia,
dice alla figlia, carca di dolore
che tempo è ritrovar la patria soglia,
et ella allor con l’ostinato core
risponde: – Mentre avrò l’umana spoglia
non mi trarrà di qui persona alcuna,
non pianeta che sia, tempo o fortuna,
183ché, poi che ’l maggior uom del mondo è morto,
come certo si sa, per l’amor mio,
et io gli ho fatto in vita oltraggio e torto
quanto più si mostrò fedele e pio,
non vo’ mai più nel mondo altro conforto,
ma sol purgar il gran peccato rio
co ’l non partir già mai d’intorno a lui,
contraria essendo a quel che prima fui.
184Et ho certa speranza esser accetta
a lui sì come in vita, in questo stato,
che certa son ch’a quella anima eletta
il vedermi cotal sia più che grato;
e s’io potessi far maggior vendetta
sopra me stessa del volere ingrato,
e far più bene a lui certo il farei,
e di ciò testimon mi sien gli dèi.
185E poi ch’a me verrà quella ultima ora
per levarmi di qui, che tosto fia,
non lunge al letticciuol dove dimora
vo’ che l’albergo e ’l mio sepolcro sia.
E la legge miglior che Cristo adora
per lui confesso, e lasso questa ria
acciò che ’l tardo mio divoto zelo,
se no ’l conobbe in terra, il goda in Cielo -.
186Il vecchio re, che le parole ascolta,
le dice: – Or che di’ tu, cara figliuola?
Venir convienti, e ben mi pari stolta,
nel regno nostro ch’a te resta sola -.
Et ella: – O padre mio, se mi fia tolta
da voi per forza ch’io non l’ami e cola,
stando vicina ad esso avrò più corte
l’ore, ché di mia man mi darò morte -.
187L’altro piangendo pur replica e prega
pel suo paterno amor, per la vecchiezza,
et ella più che mai di farlo nega
ond’esso alla nativa tenerezza,
dopo un lungo provar, l’animo piega,
e qui lasciolla in squallida bassezza,
ove molti anni visse, e morì poi
di vera sanitade essempio a’ suoi.
188Io, che in quei tempi il diciottesimo anno
compiva a pena, quattro frati avea,
de’ quai ciascuno il marzial affanno
con grandissime lodi sostenea.
Inteso in Francia il gran paterno danno
e ’l colpo crudo di fortuna rea,
passato il mar con lor, qui venni insieme
per dare al morto le parole estreme.
189Già morta era la donna, e ’n questa guisa
giacea come si vede nel presente.
Restaron qui, né già mai poi divisa
fu la vista di lor dal buon parente.
Io, giovinetto, come chi si avvisa
di provar pur il mondo e l’altra gente
mi partî d’essi, e vissi quattro lustri
tra duci e cavalier chiari et illustri.
190Di poi che intesi fuor d’essi la fine,
qui ritornato non partî già mai,
tutto volto con l’alma alle divine
virtù celesti, et a i suoi santi rai.
il mio caro figliuol venne alla fine
del cui venir io me ne dolsi assai,
né potei tanto far che mai tornasse
al mondo e travagliar che meco stasse.
191Venner molti altri ancor del sangue nostro
che si moriron qui, tanto che soli
siamo oramai vivuti in questo chiostro
né di tutti ci sono altri figliuoli
ce ’l mio franco nipote, Giron vostro,
ch’io prego il Ciel che tardi ne lo involi.
Or v’ho contro, signor, tutta l’istoria,
del sangue nostro, e la passata gloria».
Finito il racconto, giungono alla spelonca in padre e lo zio di Girone, Breusse parte e giura di raccontare a Girone dei suoi avi, poi manifesta propositi misogini (192-211)
192Avea finito il sacro vecchio a pena
ch’arrivano ivi sue d’alta presenza,
ma dal digiun disfatti e dalla pena
mostran che di cader abbian temenza.
Breusse, in voce di stupor ripiena,
chi sian dimanda e della lor semenza.
Rispose ei: «Di Girone è padre l’uno,
l’altro è germano, e questo e quello è Bruno.
193Fu l’un re di Gallia, come io v’ho detto,
l’altro di Gavve, e d’esso è il re Boorte
venuto al mondo, e di questo perfetto
Ban di Benicco, il re famoso e forte».
Breusse allor con bel cortese aspetto
lor dice: «Dio vi dia bramata sorte»,
e ringraziando in lui ferman le ciglia
che di vederlo quivi han maraviglia.
194Poi domandan chi sia, come discese,
et esso alle domande sodisface,
e quei su del brittannico paese
ricercan come stia, s’ha guerra o pace.
Poi di Artus, il buon re saggio e cortese,
de gli altri cavalieri et ei non tace
cosa che di saver aggian desire,
quando il gran vecchio all’un comincia a dire:
195«Ei ti porta, o mio figlio, alte novelle
del tuo figliuol, che non vedesti unquanco,
et ei, che troppo brama d’udir quelle,
dice a Breusse: «Or mi narrate al manco
quel ch’or ne sia». Risponde: «Altere e belle
opre fa tutto il giorno, e già mai stanco
non è nell’arme, e vi assicuro al vero
ch’egli avanza ogni duce e cavaliero».
196Se ne rallegra il buon padre, e dice appresso:
«S’ei non fusse cotal, gran torto avrebbe:
di tal sangue è venuto e sente spesso
de gli antichi il valor che ’n fin qui crebbe,
e beato colui cui vien concesso
uscir di stirpe buona, e ch’avanti ebbe
essempi de i maggior che a tutti i buoni
sono i più dolci e più pungenti sproni».
197Or mentre stan così la notte oscura
già del negro sentier è giunta al mezzo,
senza bere o mangiar ciascun procura
di por le membra com’egli era avvezzo
sopra vil paglia, et una pietra dura
era il lor origlier di più gran prezzo.
Si corcan lieti e ’l feri Breusse
a penitenza far l’animo indusse.
198L’altro giorno, che fu verso l’aurora,
ecco un vecchio onorato sacerdote
che co i suoi sacri detti il Cielo adora,
e mena verso Dio l’alme divote,
poscia acqua e pan, che ’l secol primo onora,
fu il lor convito, e con gioiose note
cacciar la fame così dolcemente
come con mille cibi la vil gente.
199Venuto il fin, Breusse sorridendo
all’avol di Giron rivolto disse:
«Che le promesse mi serviate intendo,
che da ier infin qui nel capo ho fisse.
Voi contaste il valor alto e stupendo
ch’ebbe il vostro figliuol mentre che visse
al mondo cavalier lodato e degno,
e che qui ancor me ne darebbe segno,
200ora io ’l veggio sì magro e sì distrutto
che di lui cosa tal non crederei».
Rise l’antico vecchio, e dice «Al tutto
farò vedervi ch’io non mentirei»,
e vicino una tomba l’ha condutto
ch’una massa di bronzo ha sopra lei
di peso inestimabile, e ’l d’intorno
era di ricco argento e d’oro adorno.
201La mostra egli a Breusso, e dice poi:
«La credereste voi portar con mano
là sopra in alto e ricondurla a noi?
Provate alquanto, e gite ben lontano».
Guarda esso bene, e gli risponde: «Voi
mi fareste adoprar mie forze in vano,
ma pur per soddisfarvi son contento»,
e ne va verso ov’era a passo lento.
202Prendela con due man, mette ogni possa,
allarga i piedi e ben gli ferma a terra,
né con tutto il suo cor far l’ha punto mossa
della sua sede, che circonda e serra.
Tornasi in dietro, e con la guancia rossa
afferma e giura che vaneggia et erra
chi la pensa indi sveller, – Né credo oggi
che cavalier che ’l fesse il mondo alloggi -.
203Chiama allora il filiuolo il padre antico
dicendo: «Or il fa tu, che mi sovviene
che Menabino, il fero tuo nemico,
te ne fu già per dare eterne pene;
ma l’uccidesti, e ti fu il Cielo amico».
Fassi avanti il figliuol, che ’ntende bene
qual sia la forza sua; l’un braccio stende
e leggiermente con la man la prende.
204Alzala indi, e contr’una muraglia
l’appoggia agevolissima, sì come
faria d’un picciol peso chi travaglia
e pasce la sua vita in portar some,
o qual picciol fanciullo a cui non caglia
di palleggiar un mal maturo pome.
Non si potrebbe dir come Breusse
di vista tal meravigliato fusse.
205Né sa che deggia dir, quando il buon vecchio
già domanda di ciò quel che gli pare,
et egli: «Dico che mi ha fatto specchio
la forza sua dell’antiche opre e chiare,
et ei creder del tutto mi apparecchio
che simil oggi non si pon trovare,
e penso che Giron, che tutti passa,
a gran pena alzeria sì greve massa».
206«Dunque,» disse il prod’uomo «non ha tanto
di forza quanto il padre, ch’altra volta
avrebbe più di ciò fatto altro tanto
prima che da i digiun le fusse tolta»;
e poi ch’egli ebbe ragionato alquanto
e di più raccontar la voglia ha sciolta,
soggiugne ivi a Breusse che vorria
che gli fesse una grazia che desia,
207«La qual è di non dar di noi novelle
là sopra a quei ch’ancor al mondo stanno,
ché la memoria non si rinovelle
in quei che tra i passati conti ci hanno,
che poi non venghin qui gente di quelle
parti a vederci che ci porti affanno.
A Giron sol vorrei che si dicesse,
e del padre e dell’avo il ver sapesse».
208Gliel promise Breusse, e poi gli dice
che d’ogni cortesia grazia gli rende,
che partir vuol, e che resti felice.
Allora il santo vecchio il cammin prende.
molto erto e stretto verso la radice
d’un monte ombroso che di sopra pende,
e perch’egli era stretto gli fa scorta
fin che truova una ascosa e bassa porta.
209Quell’apre di sua man, poi l’accomanda
al vero Salvator di noi cristiani;
l’altro rende il saluto, e ’n quella banda
ove gli è mostro va con piedi e mani.
Uscito fuor per una verde landa
il passo addrizza ove più il colle spiani,
e ricerca con gli occhi se la trista
femmina traditrice gli vien vista.
210Ma perché non sapea dove esser possa
va spiando a trovar l’alta finestra
per onde entrando quasi ruppe l’ossa
e si volge or a manca ora a sinestra.
Ma la fortuna, ch’a pietà s’è mossa,
se gli mostrò ne’ suoi bisogni destra,
fagliela al fin trovare, e ritruova anco
l’arme e ’l caval da poi ch’assai fu stanco.
211Armasi lieto, e sul destrier suo monta
e va per un cammin ma non sa dove,
poi pensa a vendicarse e ’n ira monta
contra le donne, e giura il sommo Giove
ch’a tutto il sesso far dannaggio et onta
metterà il suo potere in mille pruove,
e sia pur quanto vuole ornata o diva,
ch’una non gli uscirà dall’unghie viva.