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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro XV

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 13.09.15 14:17

Girone incontra Abilano, che gli racconta di esser stato battuto a duello da Danaino (1-14)

1Dall’altra parte avvien che ’l buon Girone,
da poi che fu da Serso dipartito,
che salvo avea da laccio e da prigione,
va pur seguendo il solitario lito,
cercando Danain, ch’era cagione
d’ogni sua doglia e che l’avea tradito,
dicendo a lui menar la donna amata
e per sé ingiustamente l’ha furata.

2Solo avea per compagno uno scudiero
però che conosciuto esser non vuole;
avea preso lo scudo bianco e nero
e lassato da parte quel ch’ei suole.
Or questo cangia or quel novel pensiero,
e trenta volte ascender vide il sole
senza mai ritrovar pedate o nuove
di Danain, che si ascondeva altrove.

3Cavalcando pensoso pur un giorno
riscontra un cavalier ch’era a i sembianti
ripien d’alto valor e d’arme adorno,
il qual era un de i cavalieri erranti,
e ’n corte del re Artus facea soggiorno
et onorato lì da tutti quanti,
Abilan di Estrangorre aveva nome,
e carco anch’ei di dolorose some.

4Accompagnarsi insieme et a lui chiede
Giron, pregando che ’l suo stato dica.
«Sono un» diss’ei «ch’al mondo amore e fede
assai più truovo che fortuna amica.
Di contrada in contrada muovo il piede
e ’l Cielo avverso i miei disegni intrica,
ch’io non posso trovar quel ch’io vorrei
per vendicarmi de gli oltraggi rei,

5che un cavalier non molto fa mi fece».
Ricerca allor Giron chi fu colui,
et esso: «A dirvi il ver di ciò non lece,
ch’io no ’l conosco, ma per detti altrui
è tal che in arme oprar val otto o diece,
et io del suo valor testimon fui
che alla pruova restai troppo vicino,
et è chiamato il Rosso Danaino».

6Seguita allor Girone: «Adunque è stato
poco fa Danaino in questa parte?».
«Sì (disse l’altro), e ben me n’è gravato
ch’io n’ho vergogna avuta e danno in parte,
e s’io non vi pensassi aver noiato
vel conterei brevissimo e senz’arte,
perché quando mi fe’ quaggiù natura
più in farmi far che dir pose sua cura».

7Il Cortese Giron, che ciò desia
quanto si possa più, prega che ’l conte,
e l’altro: «Un mese fa ch’io me ne gia
tutto soletto al piè di questo monte
una giovin trovai, ch’io penso sia
o Ciprigna o Diana a piè d’un fonte,
e spargea, lassa lei, sì largo pianto
ch’avanzò l’onda che stillava a canto.

8Or voi sapete bene in donna bella
quanto muovin pietà lagrime chiare,
aggiunta la dolcissima favella
che farian gir gli scogli e i fiumi stare.
io ratto scendo, e m’avvicino ad ella,
e comincio cortese a domandare:
– Ditemi, o bella donna, anzi alta dea,
in che v’affligge la fortuna rea?

9Ditemelo, di grazia, e vi prometto
che di favor, di aiuto e di consiglio
non mancherò più che fratel diletto
e farò il capo mio per lei vermiglio -.
Ella di doppie lagrime il bel petto
irriga tutto, e poi con dolce ciglio
riguardando vêr me: – Trista e ’nfelice
la poca fede altrui m’ha fatto (dice).

10Insidie e tradimento disleale
son le radici d’ogni mio dolore -.
– Or chi fu al cagion di tanto male? -,
le soggiuns’io, che mi agghiacciava il core.
Et ella mi rispose: – Egli è cotale
et è sì ben fornito di valore
ch’egli è peccato estremo ch’oggi sia
entrato in lui desir di fellonia -.

11Mentre così parliamo ecco apparire
quel cavalier di cui si chiama offesa.
Come ella il vide mi comincia a dire:
– Fuggitevi, signor -, di giel compresa,
– ché s’ei vi vede vi farà morire,
e fia vana vèr lui tutta difesa -.
Io mi rivolgo in dietro e scerno presso
che già m’ha visto quel guerriero istesso.

12Sopra un destrieri grossissimo e possente,
serrato l’elmo e con la lancia in mano,
lo scudo aveva al collo suo pendente
e vienne furiando di lontano.
Io surgo in piede, e monto incontinente
sul mio caval, che mi pareva strano
d’aspettarlo ivi a piè, che tal vantaggio
avesse per mi far onta e dannaggio.

13Allor colui cruccioso chiama e grida:
– Difenditi, guerrier, se tu potrai -,
et orgogliosamente mi disfida
e mi presenta sangue, morte e guai.
io, quanto posso più, nell’arme fida
mi strinsi, e coraggioso incontra andai,
ma tutta a dirne il ver mi valse poco,
ch’ei mi gittò riverso ivi in quel loco.

14Né mi salvò l’usbergo né la maglia,
che mezzo il petto allor non mi passasse,
né fu finita a pena la battaglia
ch’ei se n’andò d’avanti io mi levassi,
né diligenza fe’ che assai mi vaglia
a ritrovar ove la coppia andasse,
né spiar seppi il nome, se non quanto
n’ho sentito parlar da più d’un canto».

Insieme trovano Sagramoro, che ha appena fallito l’avventura di Passo Periglioso (15-28)

15Qui finì il cavaliero, e prega poi
Giron ch’anch’ei di sé l’essere scuopra,
e quel cortese: «Una partita a voi
ne sia narrata, un’altra se ne cuopra;
io sono un cavalier qual sète voi,
e quel che vorrei mettere in opra
l’istesso Danain cercando vado,
né so trovar chi mi addirizzi al vado.

16E ben vi affermo che di peggior sorte
offeso m’ha che non ha voi di questo».
Risponde il cavaliero: «Egli è sì forte
che poco altri o pur voi gli fia molesto ».
E Girone: «Io confesso ch’esso porte
il vanto tra’ miglior di tutto il resto,
ma sia pur qual ei vuol, ch’ancor pens’io
con lui provarmi se un dì piace a Dio».

17Così parlando e cavalcando insieme
giungono ove una torbida palude
la terra intorno assai profonda preme,
e lungo spazio nel suo ventre chiude.
Ivi un buon cavaliero che plora e geme,
ch’accusa il Cielo e le sue stelle crude
trovano a piè, ferito, e d’arme scosso,
sì che a pietà ciascun si saria mosso.

18Arriva questa coppia e ’l miserello
tanto l’aggrava il duol che non la vede.
Parlan i due tra lor mirando quello
e Giron qual e’ sia tosto s’avvede,
perché l’ha conosciuto nel castello
delle due suore ove di palma erede
nel vespro che si fe’ del torneamento
s’era partito e dell’onor contento.

19E disse ad Abilan sì com’egli era
errante cavaliero e della scuola
d’Artus il re sovrano che vola altera
sopra ogni altra che sia nel mondo sola.
Poi, disiando aver novella vera
di quel che sia ch’ogni piacer gli ’nvola,
s’appressa, e ’l chiama, e «Sagramoro, amico,
qual v’ha caso mandato il Ciel nemico?».

20Allor drizza ei la testa, e gli risponde:
«Ditemi, cavalier, chi sète voi »,
e ’l buon Giron: «Un che per l’acque e l’onde
andria sicuro se pensasse poi
sanarvi dal dolor che in voi s’asconde».
Et esso: «Artus a pena e tutti i suoi
mi porian vendicar l’onta e i gran danni
che ’n via ora ho portommi migliaia d’anni».

21Segue Giron: «Io son certo tale
che secondo il voler ch’avete e ’l mio
medicar posa in tutto il vostro male;
pur né farei l’assaggio o buono o rio,
però vi prego, se ’l pregar vi vale,
che in ciò tutto adempiate il mio desio,
di dirmi ove vi avvenne la sventura
che vi ha messa nel cor sì acerba cura».

22E Sagramoro allor: «Perché mi pare
che siate cavalier d’alta prodezza,
la cagion vi dirò che mi fa stare
in tanta e incomparabile tristezza.
Chi va poco oltre la porta trovare
tra ’l monte e ’l lago qui lunga strettezza:
ivi un forte castello il passo serra,
ch’è certo inespugnabile per guerra,

23ove qualunque errante cavaliero,
o sia pur altri, a forza gli conviene
con altri venti, e in arme ciascun fero,
di far battaglia, e s’al dì su ne viene
co ’l signor d’indi forte, fresco e ’ntero
provar si deve, e s’a caval si tiene
può libero passar, ma s’è battuto
è lungamente per prigione avuto.

24E chi non vuol giostrar e che seco aggia
una donzella gli è subito tolta,
così l’arme e ’l caval, e per la piaggia
onde ei vi venne a piè fa in dietro volta;
quel c’hanno fatto a me, ch’or la selvaggia
strada ricerco più penosa e folta,
perduta avendo, ohimè, donna sì rara
che mai non mi fia più la vita cara.

25Chiamasi questo il Passo Periglioso,
e ben è periglioso a non mentire».
Allora il buon Giron, tutto pietoso
dell’aspro caso che gli sente dire,
risponde: «O Sagramoro, alto e famoso
vie più che non pensate avrei desire
di vendicarvi, e se tornar volete
almeno il buon voler conoscerete».

26«Ahi,» disse Sagramoro «a questa speme
non voglio muover già di quinci il passo,
ch’io so ben che ciascun dell’uman seme
prigion fia fatto, o fia di vita casso».
Giron, tutti i suoi detti accolti insieme,
gli risovvien che questo è il proprio passo
che Galealto il Brun già gli dicea
che ’l più duro varcar allor tenea.

27E comincia a pensar quel che far deggia
come l’uom saggio e che la gloria brama,
et Abilan, che ’l vede, a lui motteggia
e dice: «O cavalier di vera fama,
fate che ’l mondo la prodezza veggia
e quel valor che fra i miglior più s’ama,
che sì caldo eravate, or par che il gelo
v’aggia fatto nell’alma un freddo velo».

28«Maraviglia non sia s’io ne spavento»,
gli rispose Giron, «che assai fiate
un cavalier d’altissimo ardimento
m’ha le medesme cose raccontate.
Or tutto quel che dite vi acconsento,
né son tal come già vi pensate.
Vero è che se voi gir volete il primo
vi seguirò, se ben mie forze stimo».

I due arrivano a Passo Periglioso, Abilano tenta la prova ma fallisce (29-55)

29Gliel accorda Abilan, né più dimora
e seguendol Giron il passo muove;
null’altra compagnia menano allora,
per strettissimo calle vanno dove
può ben perir chi mette il piè di fuora:
lì d’ogni canto tien l’acqua che piove
dal cielo, o che vien giù dalla montagna
larga e profonda, e ’n quella valle stagna.

30Lo spazio vi è per un cavallo a pena,
vanne Abilano innanzi molto ardito,
né curar puote in sé cosa terrena,
e vinto crede aver l’invitto sito.
Il buon Giron non alza gli occhi a pena
pare a chi no ’l conosce sbigottito,
perché quel che si sente forte all’opre
raro in sembiante il suo buon cor discuopre.

31Van così camminando molte miglia,
trovando sempre mai più angusta strada;
scuoprono al fin ornata a maraviglia
una torre, che par ch’al ciel ne vada,
grossa nel basso e ’n altro s’assottiglia
d’architettura in quelle parti rada.
Come Abilan la scorge, a Giron volto
gli cominciò con sollazzavol volto:

32«Or la vedete voi, compagno caro,
ben si può dir che inespugnabil sia;
or si vedrà di noi chi vien più avaro
di cosa far che eterna gloria dia».
Così fra lor parlando s’incontraro
ch’attraversava il mezzo della via
di marmo una piramide intagliata,
di morte e belle lettere stampata.

33L’uno e l’altro s’appressa, e cura pone,
e ’l vede che di quelle una gran parte
eran di novellissima stagione,
altra par tratta dall’antiche carte;
che cavalier (dicevan) né barone
può sicuro passar per questa parte,
se a venti cavalier non resti a pruova
né si farà già mai legge altra nuova.

34Infin che quattro erranti cavalieri
non si saran passati a virtù d’armi,
di poi sicuri fien questi sentieri,
poco di sotto è scritto in chiari carmi:
Il primo che già mai con atti feri
passasse a questa torre, a questi marmi
fu Galealto il Bruno, e sotto appresso
il Rosso Danain fe’ quello istesso.

35Letto c’hanno a Giron parla Abilano:
«Per quanto io veggio due passati sono
qui dentro soli, e d’un che fu sovrano,
tra gli arditi guerrieri ardito e buono.
Maraviglia non ho, ma bene strano
mi par che quel secondo aggia egual dono
con quel di sopra, che di cor più alto
era pur di questo altro Galealto.

36Né veramente avrei pensato mai
che tanto oggi valesse Danaino,
ma poi ché pur così mi duole assai
perché la mia vergogna m’indovino,
che, cercand’io vendetta, nuovi guai
portar potrei se più mi gli avvicino,
che dir mai non saprei d’altrui menzogna
maggior forze con lui certo bisogna».

37«Non si porria negar» Giron soggiugne,
«che non sia Danain di gran valore,
e che d’ogni virtude al sommo giugne
ben addritta la mano, ardito il core,
e di spada e di lancia taglia e pugne
sì che n’ha riportato largo onore
per molte pruove, e questa è stata tale
che merta da ciascun lode immortale.

38Ma lassiam questo andar, e voi mi dite
qual sia l’animo vostro in questa pruova».
Et ei, ben c’ha le voglie meno ardite
e ch’assai più che pria freddo si truova,
rispose: «Io devessi mille vite
perder non fia che ’l passo in dietro muova,
et è ben ver che perigliosa troppo
è l’avventura dove diam di intoppo.

39Ben consiglierei voi di far ritorno,
né dalla mia follia prendere esempio,
ch’almen ve ne può nascer grande scorno
e prigion forse, e vie maggiore scempio».
A lui Giron: «Per quel c’ha fatto il giorno
e che si adora nel sacrato tempio,
mi consigliate voi ch’io faccia questo?».
Et Abilan di sì gli afferma presto.

40«Perch’a voi fia di troppo gran periglio»,
gli soggiugne il Cortese, «e perché voi
non seguiate il proprio buon sconsiglio
che con sì caro zelo date a noi?».
Et esso allor, con più turbato ciglio:
«Perché a me ciò saria grande onta poi»;
«Et io per la medesima cagione
non me ne vo’ fuggir», dicea Girone.

41Lo sdegnoso Abilan non può soffrire
ch’a lui voglia Girone assimigliarse,
e segue: «Or voi volete adunque dire
che farci eguali alla natura parse?».
«Sì,» gli afferma il Cortese, «a non mentire»,
e comincia anco appresso a comandarse,
sol per far lui crucciar, che seco stima
di tutti i cavalier tener la cima.

42Or dice l’altro: «Qualunque noi semo,
non vo’ più disputar, ma ben mi pare
ch’essendo dentro un tal periglio estremo
che ’l miglior di noi due deggia tentare,
e per chiarir chi fia combatteremo,
e ’l perditor sen deggia ritornare».
«Questo non consento io, che gran follia»
gli risponde Giron «certo saria.

43Perché se l’un di noi ferito fosse
come poi sostener potrebbe i venti?
Anzi in pruova mettiam le nostre posse
contro a quei che vi son, non altrimenti».
L’un dopo l’altro e ’n tale accordo mosse
la coppia i piedi, alla grand’opra intenti,
vanno poco coltre e trovano un gran legno
posto al traverso a i peregrin ritegno.

44A gran pena ivi son ch’un servo viene,
apre la sbarra e con piacevol volto
disse: «Entrar qua dentro s’appartiene
a colui che di voi sarà più stolto:
di farlo ad ambo insieme non sostiene
la nostra legge, ch’onorata è molto».
Giron sta muto, et Abilano audace
risponde: «Io sarò il primo, s’a voi piace».

45«Dunque sète il più folle, e senza fallo»
dice il varletto, e gli apre allor la porta.
L’altro, animoso, là spinge il cavallo
e quanto può sperando si conforta,
ché ben s’accorge in che dubbioso ballo
il sé troppo pregiar là entro il porta.
Resta di fuor Girone e quasi ha gioia
di veder il compagno in questa noia.

46Sta d’avanti una torre una isoletta
dalla fonda palude inghirlandata,
ritonda tutta, nel principio stretta,
larga poi dentro più che doppia arcata,
ben ferma e secca, e, per battaglia eletta,
con diligente cura era spianata,
là dove intorno adornamente stesi
son quattro naviglio con ricchi arnesi.

47Giunto Abilano in campo vede uscire
i venti cavalier già della torre.
Un viene avanti e gli comincia a dire
s’ei si vorrà con tutti in pruova porre?
«Sì (rispose egli), e se con lor venire
mille ancor veggia, e fia ciascuno Ettorre,
non vi potrei temer». E l’altro allora:
«Non sia più del giostrar fra noi dimora».

48Prende il campo ciascun, ciascuno sprona
l’un invêr l’altro, e ’l suo valor dimostra.
Gran numero di popolo abbandona
la forte torre per mirar la giostra.
Già si ritruovan quei, già tutta suona
la gran palude e le montane chiostra
dell’incontro de i due, che fu cotale
ch’a l’uno e l’altro egual fece onta e male,

49perché di sopra i loro gran destrieri,
quasi tocchi dal ciel, cadder riversi.
Rimaser tramortiti su i sentieri
un grande spazio e lunga piaga fèrsi;
poi, ritornati i sensi vivi e ’nteri,
risurgon ratti di lor sangue aspersi;
metton mano alle spade e colpi dansi
gravi e ’nfiniti, e molte piaghe fansi.

50Ma pur quel della torre è duramente
caricato dal batter d’Abilano,
in tanto che forzato è finalmente
di cader in ginocchie sopra il piano,
e sì stordita e smarrita ha la mente
ch’ei non adopra più braccia né mano.
Abilan, che l’ha visto, non si arresta,
ma gli trae l’elmo a forza dalla testa.

51Riviene al cavalier l’alma fuggita
e si vede in periglio d’aspra morte;
s’arrende al vincitor, chiede la vita,
e quel, mosso a pietà della sua sorte,
gliela consente, e legge ha stabilita
che mai più contro a lui l’arme non porte.
Gliel promette il prigione, e ’n tanto viene
chi ’l suo cavallo ad Abilan rimene.

52E gli dice: «Or pigliate, e’ ben ci fia
davanti che ’l dì parta assai da fare».
Rimontato esso in sella ha chi gli dia
nuova lancia pel secondo affare.
Un nuovo cavaliero ivi apparia
che voleva il compagno vendicare,
ma non puote adempir il suo disegno
perché contro Abilan non ha ritegno.

53Vien dunque il terzo, il qual in veritade
di tutti gli altri venti era il migliore,
e colpisce Abilan tanto che cade
senza scampo trovar di sella fuore.
Resta ferito, e quel senza pietade
a terra scende, e ’n mezzo al uso dolore
gli trae l’almo di testa, e gli percuote
co ’l pomo della spada or tempie or gote.

54Si risente Abilan troppo, e cruccioso,
e dice al vincitor: «Vile e codardo,
che sopì a un quasi morto e doloroso,
crudel ti vuoi mostrar, prode e gagliardo,
ancidimi oggi e ne sarai famoso,
né del mio acerbo fin prendi riguardo,
che più presto la vita perder voglio
che non l’aver lodata com’io soglio.

55Il cavaliero stran, pietoso fatto,
dice: «Non piaccia a Dio che ci m’avvegna»;
mille sergenti là sono in un tratto,
che dentro una prigione oscura e ’ndegna
con parole oltraggiose l’hanno tratto,
e ’l popol tutto che là dentro regna
grida: «Il nostro campion riporta palma,
e l’altro di vergogna eterna salma».

Girone comincia la prova: sconfigge i primi venti cavalieri (56-76)

56In tanto un corno dalla torre suona,
che segno dà che sia la sbarra aperta.
Viene uno usciero, e con Giron ragiona
se di venir là dentro ha voglia certa,
e poi che sente il sì, «Perché persona
mi parete» diss’ei «non molto esperta
in questa nostra legge, vi replìco
che poco sète al viver vostro amico.

57Or non avete voi di costì visto
quel che dell’altro vostro è divenuto,
che svergognato, incatenato e tristo
ha per premio prigione e pene avuto,
e troppo periglioso è questo acquisto
che qui senza ragion vi è in cor venuto?
Gran cosa è pur di creder che in un giorno
possiate a venti far dannoso scorno.

58E se ben tutto il dì con gran fatica
n’aveste pur i diciannove vinti,
e per fortuna a voi non troppo amica
avesse il sole allor i raggi estinti,
la schiera tutta l’altro dì nemica
ritorna intera, e sono i venti accinti
a rifar nuova guerra insieme vosco
infin che ’l nuovo sol si arrenda al fosco».

59Quel che deggia avvenir Giron rafferma,
che la pruova di ciò brama vedere.
Apre l’usciero, et esso non si ferma,
ma sprona ardito alle nemiche schiere,
né mostra in vista aver la mano inferma,
ma d’invitto valore e gran potere,
e nel primo arrivar è disfidato
da colui ch’Abilano ha mal trattato.

60No ’l rifiuta Giron, ma spazio preso
com’un folgore al maggio ivi si getta,
percuotel sì che del soverchio peso
l’ha posto in terra, e dalla spalla destra
ruppe il grand’osso, e ’l lascia ivi disteso
dicendo: «Fatta ho già giusta vendetta
del mio compagno, e con la lancia intera
chiama or quegli altri alla battaglia fera.

61Quando hanno ciò veduto i circunstanti,
che ’l miglior giostrator ch’ivi entro fosse
rovinato è cotal, a tutti quanti
di maraviglia e tema il cor si mosse.
Ivi un nuovo guerrier par che si vanti
di far l’arme a Giron di sangue rosse,
ma il contrario n’avvien di quel c’ha detto,
perch’un palmo di lancia in mezzo il petto

62gli ficca il fero gallo, e ’n terra il pone,
poi con la lancia salda oltre trapassa.
Già s’appresenta il terzo alla quistione,
ma come gli altri anch’ei cader si lassa.
Va sopra il quarto il nobile Girone,
e lo scudo e l’usbergo gli fracassa,
e per le rene fuor riuscì l’asta
sì che a farlo morir quel colpo basta.

63Ruppe la lancia allor, né ciò l’affrena,
ma tutto furioso ha in man la spada.
Vorria la piazza aver di armati piena,
e tutto sol con lei far empia strada.
Il cavalier, che la sua sorte mena
alla quinta battaglia, e ch’a ciò bada,
gli dice: «O cavaliero, adunque voi
non volete giostrar anco con noi?».

64Gli risponde Giron: «Da lancia o brando,
signor, non faccio differenza alcuna,
tutti di vita o di buon nome in bando
se non vi è più ch’amica la fortuna,
metter vi deggio veramente quando
sì cruda iniquitate in voi s’aduna».
Come disse, il guerriero: «Or vi sentite
da far l’opre sì grandi che voi dite?».

65«Io non mi vuo’ chiamar cavalier buono»
disse il gran gallo, né possente e prode,
ma spero ben in Dio qualunque io sono
di riportar di qui pregiata lode,
e di mettermi solo in abbandono
contro a voi insieme alto desio mi rode.
Ditemi in cortesia se ciò può farsi,
se non bisogna tosto dispacciarsi».

66«Ben si può far,» il cavalier risponde,
«ma di sì gran follia non vi consiglio,
ché la man spesso al cor non corrisponde
quando fuor di ragion tenta il periglio».
Giron, che ’l suo valor lì non asconde,
a lui si volge con turbato ciglio:
«Or vi guardate voi che sète il primo,
e vedrem se soverchio poi mi stimo».

67E sopra il scudo gli dà incontro tale
che tutto come carta l’ha divisa,
e sopra il capo va il colpo mortale
sì che di veder fiamme gli era avviso.
Cadde stordito, che non sente il male,
e di sangue ha rigato intorno il viso,
poi dov’è l’altra schiera l’occhio stende
e che deggia temer tosto comprende.

68E ben comprese il ver, ch’essi eran fuora
quasi di se medesmi a veder ivi
in cinque colpi cinque in sì breve ora
feriti in terra e della vita privi,
sì che ciascun avrebbe detto allora
ch’eran di marmo e non uomini vivi.
Ei che l’occasion mostrar si vede
di pigliarla pel crin tosto provede.

69Sprona addosso il cavallo a tutti insieme
con alte, orrende e minacciose grida.
Il primo che ei ritruova in modo preme
che gli fece gittar l’ultime strida.
Tutto il restante, che soverchio teme,
e del valor disgiunto si disfida,
si stringe, e mette in un la lancia in resta,
e chi al petto gli addrizza e chi alla testa.

70Ben han speranza che l’arena stampi
con le robuste spalle e con la fronte,
Al ciel ne van mille faville e vampi
da i ferri aguti, et ei qual scoglio o monte
tra i venti combattuto quando avvampi
Eolo di rabbia e più le voglie ha pronte
ch’a pena scuote pur le frondi e l’erbe,
tal fu Girone alle percosse acerbe.

71Ma immobil su la sella si ritiene,
vanno via tutti quegli oltre passando,
et egli appresso furiando viene
e gira in tondo lo spietato brando.
Taglia le membra a questo, a quel le vene
apre del petto, e l’anima va in bando,
e la ferza che Marte gli amministra
ora a destra si sfoga ora a sinistra.

72Ma i nemici che stanno e vanno uniti
ben gli donan percosse aspre e mortali,
che quantunque ne sien morti e feriti
e ch’a lui di valor sien diseguali,
son tanti ancor che spesso a mal partiti
l’avean condotto, e i membri spiritali
a pena ritirar posson la lena
tanto è in lui l’alma di stanchezza piena.

73Era il miser piagato in più d’un loco,
il che scorgendo e rimirando il sangue
tutto crudel divenne, tutto foco,
come al più caldo sol pestifero angue,
e vede ben che se durasse il gioco
forse alla fin ne resterebbe essangue,
e lo sdegno e ’l gran dubbio in modo accoppia
che la forza e ’l furor se ne raddoppia.

74Lascia il scudo da canto e con due mani
prende la greve e micidiale spada,
tal che chi ben da lui non si allontani
può sicuro tener ch’a morte vada.
Un leon par tra cacciatori e cani
che si fan percotendo aprir la strada.
Or quinci torna or quindi, or sotto or sopra,
e quanto aggia poter li mette in opra.

75Non gli fu tratto il dì di sangue gotta
che non costasse lor mille per una.
Ha la schiera inimica a tal condotta
che non la scamperebbe la fortuna,
pur resistono ancor, e vanno in frotta,
ma la sorte per lor contraria e bruna
n’ha già di venti i dieci posti a terra,
e quattro fatti inutili alla guerra.

76I sei, per tema e per necessitade,
dopo alquanto resister si voltaro
nella torre fugendo, e fur serrate
le porte dentro, e con gran duolo amaro
quando egli ebbe le genti conquistate
e che liberi i campi gli restaro,
parla ad un cavalier che vicin vede
ch’a guardar era, disarmato, a piede,

Viene a duello con l’ultimo, visto che cala la sera chiede di poter riprendere il giorno seguente e ospitalità al signore del luogo (77-124,5)

77e gli domanda s’altro resta a fare.
«Sì (risponde il buono uomo), e questo fia
che co ’l signor di qui convien provare
chi di voi due miglior ne l’arme sia».
Il ricerca Giron d’ogni suo affare,
e che piena di lui notizia dia.
«Egli è signor» diss’ei «di valor pieno
et ha ventitre anni e forse meno».

78Quando l’ode Giron, dice: «Io vorrei
poi ch’esser così dèe, venire al fatto,
che volentier più lunge me n’andrei
poi ch’al costume avessi sodisfatto».
«Ah,» disse il cavalier «io vi direi
volentier cosa che non fia da matto».
Giron il prega a dirlo, et esso allora:
«Pria che voi non vorreste uscirà fuora.

79E vi darà da far più che quei venti
e ch’altri tanto poi congiunti ad essi».
Maraviglia ha Giron non altrimenti
ch’un ch’a cosa incredibile s’appressi,
e pregal pur che i suoi desir contenti
di far che ’l nome di costui sapessi.
Gli dice il cavalier: «Ciò non faraggio,
basta che sopra ogni uom sempre ha vantaggio».

80Or gli dice Giron: «Non fu l’altr’ieri
ch’un cavalier passò per forza d’armi?».
«Sì (rispos’ei), ma in questi suoi sentieri
non era allor costui che Marte parmi.
Combatté solo i venti, e fur sì fieri
che bisogno gli fu d’erbe e di carmi
a sanar le ferite ch’ebbe tante,
ch’a gran pena poteo più gire avante.

81Ma v’assicuro ben che s’alla pruova
qui co ’l nostro signor veniva a sorte,
perché contra al suo brando nulla giova,
solo in due colpi se n’andava a morte».
Mentre parlan così veggion chi muova
della gran torre le ferrate porte:
escene un cavalier senz’arme in dosso,
ma sopra un bel destrier possente e grosso.

82E senza altro parlar guarda Girone,
e l’esamina poi tutto d’intorno tutto.
L’altro, ch’al suo guardar ben cura pone,
pensa ch’ei cerchi se sia bello o brutto,
et a colui domanda la cagione.
Rispose il cavalier: «Per vostro frutto
ch’io vegno per veder se sète sano,
o s’avete impiagato braccio o mano.

83E veggio ben che assai ferito sète,
e vollo a riferir al mio signore,
per dirgli sol che tante piaghe avete
che ’l trovarse con voi saria disnore».
Giron, che di combatter solo ha sète,
soggiugne: «Or dite pur che vegna fuore,
e ch’io son più che mai sano e gagliardo,
e si guardi pur ei d’esser codardo,

84ch’io mi stimo cotal che poco male
non mi fa rifiutar già mai battaglia.
Non truovi scusa, e pruovi quanto vale
questo brando ch’io porto e come taglia,
e forse il troverà sì grave e tale
ch’io spero che mai più non gli caglia
di contender la strada a i peregrini,
tiranneggiando qui questi confini».

85«Voi non sète, signor, certo sì saggio»
rispose il cavalier «come devreste,
ché s’intendeste ben quanto ha vantaggio
voi medesmo la pace chiedereste».
«Io ho» disse Giron «questo passaggio
ricerco dopo tante e tai foreste
per menar oggi a fin questa avventura,
e sol di lei tentar, non d’altro ho cura.

86E gli narrate pur ch’io non l’apprezzo
ben che sul fior si truovi de i begli anni,
ma gli farò veder ch’io sono avvezzo
a star sempre fra l’arme in molti affanni,
ch’altro mi par che star tra piume al rezzo
procacciando a chi vien disagi e danni,
e s’io non sono assai peggio ch’io soglio
gli porrò in basso il giovinetto orgoglio».

87Partesi il cavaliero, e poco appresso
ritorna, e ’l buon Giron di nuovo prega
per patre del signor che sia concesso
tempo alla lor quistion, e ch’a ciò ’l piega
l’onor suo proprio, e ’l buon devere istessi
e ch’egli ha torto in tutto se ciò nega
tanto che sia guarito e vegna poi
a contentar nell’arme i desir suoi.

88Quasi irato Giron gli fa risposta
che ad altro tempo attender più non vuole,
ma che s’avanzi perché omai s’accosta
all’Occidente l’inchinato sole,
né si dèe perder tempo, ch’a sua posta
non si può ricovrar con le parole.
Quando il buon cavalier sì duro il sente
al suo signor ritorna incontinente.

89Né molto stan che dalla torre un corno
con orribil romor nell’aria suona.
Ecco apparir sopra un cavallo adorno
che ’l ferrato suo ponte andando intuona
un cavalier con lucide arme intorno,
tutto ben fatto e grande di persona,
forte e snello al veder, vago e decoro,
e senz’altro color lo scudo ha d’oro.

90Giron, che ’l cavalier vede venire
maravigliosamente il loda e pregia,
e comincia a pensar che voglia dire
lo scudo d’or ch’altro color non fregia,
e ben s’avvisa come deggia uscire
di antico sangue e di progenie egregia,
perché poi che ’l portava Ettore il Bruno
sol Giron l’ebbe, e dopo lui nessuno.

91E ’l cavalier, che ’l buon Giron rimira,
come ornato a caval e bel si mostra,
sì le fattezze e ’l suo sembiante ammira
ch’ei pensa: – Questo è il fior de l’età nostra:
in ogni membro Morte e Marte spira,
né gran fatto mi par se solo in giostra
aggia i venti abbattuti, ch’io direi
che gli avria vintiquattro volte e sei -.

92Quando son più vicini a Giron dice:
«Quel della torre, o franco cavaliero,
essendo voi ferito a me disdice
combatter vosco, e vi confesso il vero».
Gli risponde Giron: «Nessun felice
fu tanto mai, signor, a tal mestiero,
che non gli avvegna tal, ma come io sono
da far più ch’io non fei mi sento buono».

93«Voi avete ben mostro» l’altro aggiunge,
«ch’anco già fuste in guerra in altro loco».
E Giron, cui desir di quistion punge,
del suo lodar ch’ei fa tien poco conto,
e dice: «Or sète quello o pur è lunge
colui che dar dèe fine al nostro gioco».
«Io son quel,» rispos’ei «vegniamo al punto
pria che sia il sole all’Occidente giunto.

94Così prendono il campo e ’ncontra vansi
come animosi tori in mezzo un prato,
e sì gran colpo l’un e l’altro dansi
che ’l caval di ciascun si è riversato
sopra il lor ventre, e vuole il Ciel che fansi
poco di danno all’uno o all’altro lato,
ma non si porria dir qual dolor s’abbia
Giron, che d’ira si consuma e rabbia,

95ché gran tempo era che non più gli avvenne
così nel primo colpo un caso tale.
Ma in piè risurse, e come avesse penne
ne va verso il campion ch’ancor non vale
d’uscir sotto al destrieri ch’addosso il tenne
tutto, e stordito, ad una pietra eguale,
pur si leva alla fin, ma frale quanto,
e Giron il riguarda e sta da canto.

96E vede ben che leggiermente avria
dato al nemico suo sicura morte,
ma più tosto se stesso ancideria
che sì buon cavaliero in quella sorte.
L’altro, ch’a poco a poco rivenia,
vede il franco Giron ch’ardito e forte
gli è sopra in modo che porria piagarlo
e per gran cortesia non degna farlo.

97E pien di buon voler, della cagione
di ciò domanda, e quel che più si attenda.
Risponde il cortesissimo Girone:
«Volete voi ch’uno indormito offenda?
Or che vi sento fuor di stordigione
ragion mi par che la mia spada stenda».
Il cavaliero assai si maraviglia
e bene a gran guerriero il rassimiglia,

98e dice: «O cavalier, ben or conosco
che non è più di voi signor cortese».
Giron risponde: «Il mondo si fa fosco,
omai tempo è finir nostre contese».
Replicò l’altro: «Et io m’accordo vosco»,
e la mano alla spada ardito stese,
e Giron, che già in ordine si truova,
muove il piè ratto alla seconda pruova.

99E fu il primo a ferirlo nello scudo,
di che la maggior parte cadde a terra.
Quel, che dal colpo suo sì grave e crudo
già smarito rimane, in sé si serra,
dicendo: – Ei non è già di forza nudo,
bench’aggia avuta pria sì lunga guerra -.
Così detto, a Giron su l’elmo fère,
ch’ei d’averlo sì buon gli fu mestiere.

100Resta aggravato e ’l passi indietro gira
e quel, pensando che ne senta doglia,
si avventa innanzi, e nuovo colpo tira,
ma Giron non men destro che si soglia
porge lo scudo ove il suo brando mira,
perché in luogo scoperto esso no coglia,
e quel là dentro più che mezzo passa
in guisa tal che riaver no ’l lassa.

101Né per tirar ch’ei faccia ebbe mai forza
di trar d’indi, e ’l gran Giron, che ’l vede,
tira il suo scudo, e di lassare sforza
la spada al cavalier che mal provede,
e bench’assai si scherma a poggia et orza
d’esserne al tutto privo al fin gli cede.
Giron, che disarmata gli ha la mano,
getta il suo scudo e quella assai lontano.

102Quinci a lui parla: «O cavalier gradito
or privo voi sète di vostra spada».
«Sì,» disse l’altro «e voi poco fornito
di scudo sète, ch’è in mezzo la strada».
«Ah,» replica Giron «poi che partito
v’avrò lo scudo ch’alla terra vada,
non avendo arme voi che mi moleste
vi taglierei non ch’una, mille teste».

103«Tutte vostre minacce» il guerrier dice,
«non mi faran, signor, già mai paura.
Menate pur le man poi ch’a voi lice,
che di quanto avverrà non tengo cura.
Tanto a dar su lo scudo si disdice
quanto sopra un vil legno alla verdura,
e quanti colpi sopra me darete
tante vergognose onte a voi farete».

104Giron, che dell’onor troppo è geloso,
gli dice: «A questa volta confess’io
ch’assai vi deggio, o cavalier famoso,
poi che mi rimostrate il dever mio».
S’abbassa a terra, e tutto vergognoso
di quel ch’allor passò il termine pio,
trae del scudo la spada, e ponla in mano
all’avversario con sembiante umano.

105Poi riprende il suo scudo, e s’apparecchia
a ritentar di nuovo la battaglia.
Menagli un colpo su la destra orecchia
sì che del ferro una gran parte taglia.
L’altro, c’ha giovin forza e mente vecchia,
al brando cede, ché sa quanto vaglia,
e rende il guiderdon d’un man diritto
che quasi mezzo l’elmo gli ha trafitto.

106Ma di Giron la forza e la virtude
non per sì poca cosa altrui s’arrende.
Si maraviglia quel che dall’avute
percosse tai nessun dannaggio scende,
e quante esser porrian parti compiute
nella cavalleria tutte comprende
esser in esso, l’assalir feroce
e ’l nobil ritirarsi da chi nuoce.

107E sopra tutto ha maraviglia poi
che di forza che sia cura niente,
e che avendo di marmo i membri suoi
non sarebbe e più duro o più possente.
D’altra parte Giron par che s’annoi
che non aggia abbattuto incontinente
un giovinetto tale, e seco stima
ch’ei porti de i suoi par la palma prima.

108Eran ancor sì pari infino allora
che mal si scerneria chi il miglior have:
picciola parte al collo già dimora
all’uno e l’altro del buon scudo grave;
mille percosse a gli elmi mostran fuora
come ciascun di loro ha il brando grave;
son gli usberghi smagliati in mille parti,
van cadendo l’altr’armi a quarti a quarti.

109Pur alla fin il buon Giron ne viene
alta avvantaggio, e tosto se ne accorge,
e sente ben ch’aperte gli ha le vene
ch’al suo brandi arrossito se ne scorge;
il qual riguarda, e delle date pene
al suo nemico gran pietà gli sorge.
Il cavalier, ch’a questa cosa bada,
domanda a qual cagion miri la spada.

110«Perché forse il mio sangue vi trovate?
Anch’io certo del vostro ho nella mia,
ma d’aver avvantaggio non pensate,
che Dio sol può saper qual fin ne sia.
E questo dico sol per veritate,
non per dirvi dispregio o villania».
E ’l Cortese Giron: «Io vi confesso
che noi siam tutti pari infino adesso.

111Ben mantenuto avete il vostro onore
non sia già che pensar dell’avvenire».
E ’l cavaliero a lui: «Non fien lunghe ore
quelle che cel sapran del tutto dire.
Ben mi ragiona la speranza in core
ch’io ne deggia il disegno omai compire»,
e dopo questo dir con maggior forza
l’un sopra l’altro di acquistar si sforza.

112Ambe due son leggieri, ambe son forti,
ambe due son nell’arme ammaestrati,
ambe non temerebber mille morti,
non mille Marti nei lor danni armati,
ma in assalir più saggiamente accorti
ambe son fatti, poi ch’ei s’han provati.
Ei pregia assai Girone e Giron lui,
ch’a lor spese hanno appreso e non d’altrui.

113Van misurando i colpi loro in guisa
che senza danno grande il tardo sole
già vuol colcarsi, e tosto avrà divisa
la lor quistion, che a Giron pesa e duole
di non aver la lite ancor decisa.
Tirasi indietro, e muove tai parole:
«Ditemi, o cavalier, se in questa sera
non ho finito la battaglia intera,

114e che ci passe questa notte in mezzo,
s’ei mi convien doman con altri venti
rifar, o sol con voi che sète il mezzo,
senza fatica prendermi altrimenti».
Il cavalier, ch’è nobilmente avvezzo
e c’ha desiri all’onor solo intenti,
ritenendo il ferir, «Signor,» risponde
«gran danno vi sarà se ’l sol s’asconde

115e che non sia finita vostra impresa,
perché doman di nuovo è stabilito
che da venti altri ancor vi venga offesa,
e da me poscia a questo tal partito,
et io con patto tal la torre ho presa,
e servar deggio quanto avete udito,
e solo un ci è passato in dritta forma,
l’altro sol combatté la prima torma.

116Il qual, perch’io non ci era, non molto ebbe
fatica, e fu l’altri’ier ch’avvenne questo.
Il primo, qual leon cervo farenne,
vinse il signor qua entro e tutto il resto.
Or dunque a voi doman bisognerebbe
il giorno aver com’oggi aspro e molesto».
Quando l’ode Giron pensa in se stesso
tacito alquanto, e gli domanda appresso:

117«Ditemi, cavaliero, in caso pure
ch’io lassassi la guerra e bisognasse
passar qua dentro le stagioni oscure,
se qui fia chi sicuro m’alloggiasse».
E quel, come chi il ben d’altrui procure,
c’ha tutte le voglie altissime e non basse
dice: «Perché lassar volete noi
la guerra a mezzo per rifarla poi?

118Oggi sì lungamente travagliaste
con quei venti di prima e poscia meco,
che poco omai credo che baste
a dar la fin pria che ’l dì resti cieco.
Doman che ritentiate altri venti aste
e la mia poscia a grand’onta mi reco,
ch?, essendo freddo allor, sì vinto e stanco
sareste ch’ogni forza verria manco».

119«Ah,» disse Giron «questo non fia
ch’accostumato sono e giorno e notte
di sempre esercitar cavaleria,
e ricever e dar ferite e botte,
e spesso avviemmi che ’l medesmo sia
né le membra aggia affaticate e rotte,
e sol che di riposo senta un’ora
vie più fresco che mai ritorno fuora.

120Doman sarò il medesmo, anzi più forte,
non mi trovando aver gran piaghe intorno,
e se non mi è contraria assai la sorte
avrò tutto spedito al mezzo giorno.
Ma voi, nutrito dentro a queste porte,
tra feste e giuochi e piacevol soggiorno,
membro allor non avrete che non doglia,
et io ne porterò di voi la spoglia:

121però vorrei lassar questa battaglia»,
e qui facendo fin si ride e tace.
Risponde il cavalier: «Fuoco di paglia
sarà il vostro disegno, e non tenace:
il corpo mio di poco non travaglia
benché voi lo stimate avvezzo in pace,
et ora ho di combatter più desire
ch’io non aveva al primo mio venire».

122«Or mi chiarite pur» dice Girone,
«s’io mi posso partir, per convenenza
di rinnovar doman questa quistione
e vinti quelli e voi far dipartenza».
Il cavalier: «La vostra intenzione
sia fatta» disse «e che non resti senza
cortesia ritrovar intra queste acque
la quale a’ miei maggior più che altra piacque.

123Et ancor sendo affaticato tanto
nella battaglia che con gli altri feste,
mi porria poca aver vittoria e vanto
da poi che a me prigion vi rendereste,
e bench’io sia ferito in più d’un canto,
e qui si veggian molte braccia e teste
de gli uccisi da voi, sicur non meno
sarete nosco che de i vostri in seno.

124E farò tanto, se impetrare io ’l posso,
che non deggiate far la prima pruova,
per non avervi poi di forze scosso
allor che contro a voi la lancia muova».
«Se voi feste così saria rimosso
il costume ch’or tal ci si ritruova»,
dicea Girone, e ’l cavalier soggiunge:
«Più l’onor mio che ’l vostro ben mi punge,

125ch’io non vi vo’ lassare scusa alcuna
di lassezza, di sangue o d’altro danno,
però vi giuro per chi fe’ la luna
che sol meco domani avrete affanno».
Così d’accordo ove già l’aria imbrunaGirone cena con il proprio avversario, che gli cela la propria identità: Girone chiede al cavaliere che lo accompagna di raccontargli nottetempo la storia del luogo e del suo signore (124,6-144)
le sanguinose spade riposte hanno,
e tratti gli elmi fuori e son montati
di sopra i lor destrieri ivi menati.

126E van dentro alla torre, la qual era
cinta d’intorno di magioni ornate,
et ella superbissima et altera
guarda sull’onde chiare ivi stagnate,
ch’escon d’una bellissima riviera
ricca di neve per quei monti nate,
et ha prati e foreste intorno molte
piene di fere e cacce verdi e folte.

127I cittadin di dentro obbedienti
eran quanto più puosse al lor signore.
Vengon incontro già lieti e ridenti,
dipingendo nel volto il lor buon cuore,
e riguardan Giron, che tra i valenti
sembra a ciascun ch’ei porti il sommo onore,
e benché molti avesse d’essi morti
non vi è però chi in grado no ’l comporti.

128Entrati adunque dentro ritrovaro
una sala di seta e d’or coverta,
ove al lume di torce era sì chiaro
che vi parea la quarta sfera aperta.
Allegramente i due si disarmaro
restando in pura cotta discoverta,
e riguardando ben trovano al vero
più di Giron ferito il cavaliero.

129Ma in ver le piaghe c’han non eran tali
che devesser dar loro impedimento;
poco profonde son, non che mortali,
di che ciascun si mostra assai contento.
Poi, versando acque lor vasi reali,
si lavaron le man, la fronte e ’l mento,
che di sudore e d’arme segno avieno
e di sangue d’altrui forse non meno.

130E d’un caldo mantel di ricca pelle
per non si raffreddar cuopre le membra.
S’asseggon poi sopra dorate selle
u’ di guerrier gran numero s’assembra,
che di Giron l’alte fattezze e snelle
van riguardando et a ciascun risembra
non aver visto pur già mai nessuno
sì bel com’esso e Galealto il Bruno.

131Ben lodan molto il lor signore ancora,
ma come assai più frale e giovinetto,
e fan seco giudicio che lunga ora
non gli potrebbe stare in guerra a petto.
Si maraviglian ben mirando allora
come infino a quel punto avesse retto,
né per miracol han se i venti vinse,
ché più bel mai di lui spada non cinse.

132E troppo avrien desio, s’esser potesse,
che non tornasse più seco alla guerra,
ch’impossibil lor par ch’ei non potesse
a i colpi più che morto in terra.
Ben han ferma speranza, s’ei potesse
venire a ferma età, che ’l miglior serra,
ch’ei devrebbe far cose leggiadre
massimamente uscito di tal padre.

133Così parlan tra loro, e ’l buon Girone
non sa gli occhi levar dalla sua vista.
Pargli veder sovr’ogni paragone
e valor e fortezza mai non vista,
e sopra tutto poi n’era cagione
il veder tutta in lui distinta e mista
la maniera e ’l parlar soave et alto
del suo maestro e parente Galealto.

134Il giovin, che di ciò cura si prende,
domanda la cagion del suo mirare,
e se ciò da troppo odio in lui depende
e gran desio di dargli pene amare.
Ride Girone, e poi risposta rende:
«Nulla cosa di queste mel fa fare,
ma sol perché mi par che somigliate
il miglior cavalier di nostra etate.

135Né pensar posso, a rimirarvi bene,
che non aggiate grado alcun con lui,
e se ’l di fuore al dentro si conviene
non so ben dir quel che saria di nui,
anzi assai mi prometto affanni e pene
prima ch’io resti vencitor di vui».
S’allegra il cavalier, e poi domanda:
«Chi è quel ch’io simiglio? di qual banda?».

136«Fu Galealto il Brun,» Giron risponde,
«il più forte guerrier dell’età nostra».
L’altro, che di dolcezza si confonde,
e ben in arrossir di fuori il mostra,
confessa parte e parte gli nasconde
dicendo: «Vera è la credenza vostra,
che ’l miglior cavalier di lui non nacque
a quel ch’io n’ho sentito», e qui si tacque.

137«Deh ditemi, signor,» Giron il prega,
«se di sangue con voi fosse congiunto».
L’altro di dirlo allor aperto nega,
ma ben gli dice innanzi che sia giunto
il termine al partirse, che si lega
con promessa leal che ’l tutto a punto
manifesto gli fia, se ’l Ciel gli dona
l’armi vincenti e sana la persona.

138Qui finisce il parlar, e ’n questo tanto
son le tavole preste e le vivande.
Lì si lavan le mani, e d’ogni canto
vede di cavalier numero grande.
Assisi appresso l’uno all’altro a canto
tra loro il ragionar tutto si spande,
del valor troppo che Girone avea
e di lor morti e di lor sorte rea.

139E maladicon tutti la fortuna,
che l’aveva indiritto a quella parte,
che ben intendon ch’a maniera alcuna
no ’l porrieno avanzar di forza e d’arte,
che mai non fu cotal sotto la luna,
e più tosto c’un uom lo stiman Marte,
e quasi piangon tutti l’altro giorno
dubitando a battaglia far ritorno.

140Or finito il mangiare, il pio signore
prende al franco Giron la destra mano,
e menalo ove giace in gran dolore
il compagno prigion, dico Abilano,
il qual Giron con fraternale amore
va confortando, e dice che fia sano
fra breve tempo e libero et allegro,
come al presente sta smarrito et egro.

141Indi sen va parlando a quella stanza
pur co ’l signor ove posar si deve,
il qual null’altra li fa dimoranza,
salutal dolcemente e vassen leve.
Ma molti cavalier, com’è l’usanza,
restàr con lui, ma tutti quanti in breve
gli licenziò cortese, e solo un volse,
e ’l più vecchio e parlante scelse e tòrse.

142E questo fe’ perch’egli avea desio
d’intender di là entro istoria vera.
Fallo adunque seder, e dicegli: «Io
una grazia da voi bramo stasera».
E quel: «Quanto si stenda il poter mio
prontissima sarà la voglia e ’ntera».
Il ringrazia Giron, e chiede poi
di quel castello e de gli antichi suoi.

143E come stabilito fu il passaggio,
e perche sia chiamato Periglioso.
Il cavalier, cortese in tutto e saggio,
gli risponde: «O signor, troppo noioso
vi fia, che mezza notte e da vantaggio
sarà passata pria che a buon riposo
vi possiate colcar, se voi voleste
tutte saper le cose manifeste.

144E poi che vi convien nuova quistione,
sì com’io penso, all’apparir del sole,
dico tanto vegliar non par ragione
ascoltando da me lunghe parole».
«Chiaro signor,» soggiugne allor Girone,
«non vi caglia di ciò, ch’a me non duole».
Et esso: «Poi ch’a voi pur così piace
vi dirò tutto il conto, e fia verace».