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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro XVII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 14.09.15 18:08

Girone e Febo alloggiano in una sala dov’è appesa la spada di Galealto (1-12)

1Vansene dunque lieti ove a gran festa
nel palazzo real son ricevuti,
uomo o donna o fanciullo ivi non resta
che la coppia a incontrar non fien venuti,
e come a tutto il popol fu molesta
l’impia battaglia de’ baron compiuti
tanto or d’intorno l’onorata pace
a quanti have il castel diletto e piace.

2Tutti gridan là entro: «Eterno viva
il miglior cavalier che mai nascesse,
il Cortese Giron, e la man diva
di palme tutta piena altere e spesse».
Con questi onor la rara coppia arriva
in freschissima sala ove son messe
già le tavole in punto da coloro
ch’alle fatiche dar cercan ristoro.

3Ivi si spoglian l’arme, et hanno cura
chi sia di lor ferito, e si ritruova
una piaga nel petto, ma sicura
di morte, a Febo, che non gli era nuova,
perciò ch’avea sentito oltr’a misura
sangue versar in sen, ma tanto giova
il medico che ivi era che ’l dolore
cessa, e ristagna il sangue ch’uscia fuore.

4Rinfrescati da poi con cibi e vini
e ragionato assai di molte cose,
per la calca fuggir de i cittadini
sen van con pochi in camere più ascose.
Ivi sopra due letti assai vicini
le lasse membra l’uno e l’altro pose,
Giron riguarda tutto il muro intorno
ch’era da cavalier di onor adorno.

5Lì non erano i panni d’ostro e d’oro,
non di persi trapunti o d’indi sete,
am di ferro e di acciaro era il lavoro,
perché tutte lucean le sue parete
di forbite armi e nobili, che foro
già di mille trionfi ricche e liete,
e fra le altre nel mezzo era una spada
che assai può dimostrar che punga e rada.

6Ella era larga e lunga a maraviglia
e per quel che parea dura e pesante,
tal che di esser stata si assimiglia
di qualche forte altissimo gigante.
In essa il buon Giron ferma le ciglia
e pensoso si face nel sembiante,
che ben la riconobbe al primo intoppo
che l’avea vista e praticata troppo.

7Imperò ch’ella fu mentre che visse
del suo più car amico Galealto,
e lagrimando e sospirando disse,
quanto più allor poté pietoso et alto:
«O gloriosa spada, in quante risse
t’ho già veduta, ahi lassa, e quanto smalto
già di sangue hai dipinto in man di quello
che, benché nascesse uom, divin appello?

8Come devresti, ohimè, pianger qui meco,
poi c’hai perduto il tuo tesor e mio!
E che vuoi tu più far nel mondo cieco,
s’ogni ben t’ha furato il tempo rio?
quanto fusti onorata al mondo seco?
quanto già difendesti il popol pio?
quanto abbassasti già l’orgoglio a quelli
che fur d’onore e di ben far rubelli?

9Troppo ebbe danno la cavaleria
del suo morir, che vedova rimase,
valore, ardir, bontade e cortesia
perder le vere lor paterne case.
Non fu simile a lui poscia né pria
e taccia chi il contrario persuase:
chi Galealto il Brun conobbe in terra
conobbe il vero lume e ’l dio di guerra».

10Il giovinetto Febo, che l’ascolta
e con troppo piacer parlar il sente,
gli occhi ingombrati di pioggia folta
pe la memoria del suo gran parente,
e conferma a Giron: «Certo fu molta
perdita e grave dell’umana gente,
ma ditemi, signor, se ciò vi aggrada,
come vi sovien di questa spada?».

11«Come (gli rispose ei)? Ch’a sua cagione
gli vidi fa quel che incredibil pare».
E Febo: «Nobilissimo Girone,
se mai cosa per me bramaste fare,
non vi grave il narrarlo, ch’a ragione
cosa tal da tal uom deggio spiare,
ch’un generoso cor troppo ha diletto
di onorar il suo padre in fatto o in detto».

12E Giron, che l’amò non men di lui,
e di ciò raccontar non meno ha voglia,
risponde: «Volentier, perch’io ne fui
de i miglior testimon che aver si soglia,
ch’era presente, come or son da vui
pregato ch’a narrar la lingua scioglia».
Poi dopo un gran sospir si tacque alquanto,
indi ricominciò dall’altro canto:

Girone narra di come Galealto, innamorato di una bella dama, se l’era fatta sottrarre, e l’aveva recuperata dal re di Scozia compiendo grandi imprese (13-48)

13«Prima che ’l gran guerrier di ch’io ragiono
di compagno menarmi onor mi fesse,
m’era io dato in amor in abbandono
alla più bella donna ch’ivi avesse,
né quella, qual io fussi o tristo o buono,
mostrò ch’in mala parte l’offendesse;
or viene un dì ch’al suo castell’io sento
far si devea un ricco torneamento.

14Muovomi per andarvi e nel camino
raggiungo a sorte Galealto il Bruno;
gimone insieme, ch’era assai vicino
e troviam che assembrato era ciascuno.
Non giunti a pena, il bel volto divino
al cavaliero, allor d’amor digiuno,
piacque in maniera che di lei s’accende,
ma il grosso mio veder mal il comprende,

15ch’ancor era inesperto giovinetto,
e sol davanti a lei prendeva cura
d’esercitarmi in arme, e vi prometto
(ch’e’ fusse allor virtude o pur ventura)
fui per quel giorno il vincitor eletto,
et ella mi scorgea dalle sue mura,
e mi pens’io che volentier vedea
l’altro pregio e la lode ch’io n’avea.

16Ma il guerrier valoroso erasi fiso
a riguardar colei che altro non vide,
aveva il cor e l’alma in Paradiso,
né mai l’occhio e ’l pensier da lei divide.
Il popol ch’era intorno a scherno e riso
il prende, e guarda, poi che se avvide,
et ei nulla sentiva, divenuto
immobile in quel giorno, cieco e muto.

17Né me ne accorsi anch’io, che troppo inteso
era alla guerra e ’n guadagnar onore.
Or poi che fu gran tempo vilipeso
com’uom che fusse d’intelletto fuore,
un vil varletto, ch’a beffarlo ha impreso,
a lui s’accosta, e senza alcun romore
gli toe di man la lancia destramente,
sì che via ne la porta che no ’l sente.

18All’essempio del primo un altro viene
e gli fura dal collo il forte scudo;
del brando appresso quel medesmo avviene
che gliel discinse un più di tutti crudo.
Così, mentre che ’l sguardo in alto tiene,
si ritruova il guerrier di ogni arme nudo,
né mai se ne risente, infin ch’arrivo
e che ’l ritruovo ancor che non par vivo,

19e gli dico: – Signor, gimone omai,
che finita è pur già questa giornata -.
tanto mi rispose ei quanto se mai
non mi avesse veduto altra fiata.
Io ’l prendo alfin nel braccio, e lo crollai
tal che parve destarsi, e poi mi guata
di maraviglia e di stupore involto,
e ’ncomincia a parlar, cruccioso molto:

20«Perché m’avete voi, signor, levato
da sì dolce pensier che mi nutria?
Il vostro qui venir cagione è stato
di tòrmi al tutto ogni dolcezza mia -.
Et io soggiungo a lui: – Tutto è passato,
e tempo è ch’a tornar prendiam la via».
– Come (diss’ei), dunque è finito il tutto? -.
– Sì (gli rispondo), et io ne ho colto il frutto -.

21Resta forte smarrito, et io gli dico:
– Ov’è lo scudo che voi qui portaste? -.
Ei guarda intorno, e mentre ch’io ’l replico,
vede ch’anco ha perduto il brando e l’aste,
e ben doglioso dice: – O dolce amico,
come così furarmi ci lasciaste? -.
io gli dimostro ch’occupato altrove
era in quel tempo in perigliose pruove.

22- Io ho perduto mi giura egli allora)
la cosa che mi fu più cara al mondo:
il mio brando fedel troppo m’accora
a cui qualunque sia sarà secondo.
Ma chi furato l’ha no ’l mostri fuora,
che saria lui miglior nel basso fondo
ritrovarsi d’abisso nell’Inferno
ch’avermi fatto un sì dannoso scherno -.

23S’io me ne dolsi assai non potrei dire,
ch’io pensai ben che se ’l trovasse in mano
d’un che fusse tra mille, acconsentire
non vorria che ’l portasse più lontano,
e di quindi menarlo avea desire;
gli dico: – Signor mio, tutto ora è vano
il darsene dolor, ma spero in breve
ch’a voi tornar il nobil brando deve -.

24Ragionando così partimmo insieme,
e quivi assai vicin l’albergo fue.
Più giorni appresso co ’l dolor che ’l preme
senza rincontrar uom fummo ambedue,
e sì come colui che nulla teme
non volse mai sopra l’altre arme sue
spada altra aver, ma bene scudo e lancia
che tutto il mondo reputava ciancia.

25E quando io l’ammuniva alcuna volta
che portar ne devrebbe, rispondea:
– Quella che porti tu m’è guardia molta
in ogni alta ventura, e sia pur rea,
c’hai cotanta virtù nell’alma accolta
ch’ambe difenderai (poi sorridea),
e se far no ’l potrai già non rifiuto
con la tua se vorrai donarne aiuto.

26E s’io d’ogni periglio non ne scampo,
non mi tener mai più buon cavaliero -.
Io, che sentiva di vergogna un vampo,
più non ne gli parlai; così il sentiero
tenendo noi per lo scozzese campo,
ne fu detto che ’l re c’ha lì l’impero
tenea gran corte, dove un suo fratello
facea quel giorno cavalier novello.

27Là rivolgiam privatamente il passo,
da due soli scudieri accompagnati.
Io, giovinetto allora, oscuro e basso,
non era noto a i cavalier nomati,
l’ordine avea novello, e passo passo
cercava di seguir quei più lodati.
Or arriviam in somma a questa corte
ove il re nella chiesa andava a sorte.

28Una corona d’oro aveva in testa,
perché in quel giorno già successe al regno,
e per solennità di una tal festa
gli gia d’avanti uno scudier più degno
la sua spada portando, et era questa
ch’a Galealto fu troppo gran pegno.
Poi davanti e di dietro ornati e feri
eran due mila o più buon cavalieri,

29armati e ’n punto ad onorar il giorno
sopra eletti corsier con l’aste in mano.
Come il gran Galealto mira intorno
riconosce il suo brando di lontano,
m’appella, e dice: – Il nostro re si è adorno
di arnese onde il disegno suo fia vano,
che vedrà ben prima ch’una ora sia
che così degna spada è stata mia -.

30E perché eram senza arme ivi ambe duoi,
ch’all’albergo vicin lassate avemo,
sotto il braccio mi prende, e mena poi
per la gran calca con furore estremo.
Ritroviam gli scudier ch’eran con noi
dentro alle soglie dove già scendemo;
fa sellare i cavai, l’arme si veste
con la fretta maggior che mai vedeste.

31Io pensai ben, ma creder non potea,
ch’ei volesse tentar sì gran periglio;
pur, con la confidenza ch’io n’avea,
di cercar quel ch’ei fa partito piglio,
et ei tosto – Il vedrai – mi rispondea,
– quando farò questo terren vermiglio
e correr sangue tutta questa strada
se tornata non m’è l’ottima spada -.

32Resto smarrito a l’alte sue parole,
e dall’impresa molto il disconforto:
– Aspettiam miglior tempo come suole
far sempre il saggio, valoroso, accorto -.
Et ei cruccioso: – Per chi muove il sole
ti giuro ch’assai più bramo esser morto
che, poi che l’ho veduta, esser contento
d’aver lunge quell’arme un sol momento.

33Ma da codardo e rio mi consigliate,
ond’io mi meraviglio in che maniera
vi fur la palma e le gran lodi date
del ricco torneamento in quella sera.
Ma mi pens’io che l’aste eran forate,
frali i cavalli e debile la schiera,
però ch’a quel che avete riferito
di cor vil sète e d’animo fallito.

34E per questo io vi vieto il venir meco,
perché mel recherei troppo a vergogna -.
Così detto, et armato, come cieco
prende il cammino ove battaglia agogna.
Io taccio, e m’armo tosto, e ne vo seco
temendo alquanto (io non vuo’ dir menzogna),
e penitenza aveva di aver detto
cotai parole a tal guerrier perfetto.

35Quando ei mi sente appresso – Or dunque – dice
– malvagio cavaliero, prendeste core
di me seguir, o misero e ’nfelice,
che potreste morir sol di timore -.
Io, che sapea ch’a giovine non lice
risponder s’ei riprende al suo maggiore,
tacito il seguo, e il re troviam tornato
già dal bel tempio e nel palazzo entrato.

36Smontati da caval la sala grande
tosto troviam di cavalier ripiena,
ch’a ricca mensa e carca di vivande
prendea vigor per la futura pena.
In altissimo seggio ove si spande
tra gemme e perle una dorata scena
sedea superbo il re, dove innanzi era
il baron che tenea la spada altera.

37Vien Galealto, e senza riverenza,
tacito allo scudier toe la cintura,
quella si adatta nella sua presenza,
poi toglie il brando senza aver paura.
I primi ch’a tal caso hanno avvertenza
l’stiman folle, ché l’onor non cura,
e poi c’ha il tutto in mano, al re rivolto
tal gli parlava in minaccioso volto:

38- Se voi vorrete, o sire, spada avere,
di un’altra ricercarne vi conviene,
perché questa voglio io, né possedere
tale a chi val sì poco si conviene.
Se ben sète gran re, le lodi vere,
non la ricchezza, ma virtù ritiene -.
E come ebbe ciò detto per la folta
plebe cammina, e a lui spalle volta.

39Il re, che vede alfin ch’ei fa da senno
a quei ch’intorno stanno chiama e grida,
a gli altri più lontan con man fa cenno
che ritoglino al matto l’arme fida.
Tutto il comandamento tosto fenno
ma più d’altri un guerrier ch’assai si fida
nel favor del padrone, e già nel braccio
ha preso Galealto e dagli impaccio.

40Ma il possente guerrier tosto s’arresta
e ’l riguarda cruccioso da traverso,
dicendo: – Non pensar ch’io voglia in questa
vil pelle c’hai macchiar ferro sì terso -,
e con un pugno il batte nella testa
sì che il misero morto andò riverso.
Poi prende il corpo, e con due mani il getta
sopra la ornata real mensa eletta,

41dicendo: – O folle re, dunque tu pensi
di ritenermi a forza alla tua corte?
Lassami andar sì ch’io non ricompensi
della mia spada in te le ingiurie torte,
che se dai la ragione in preda a i sensi
non te ne può venir men mal che morte -.
Così dicendo già scendiam le scale
e di noi l’uno e l’altro a caval sale.

42Il romor, il gridar in modo cresce
de i circunstanti quivi – All’arme, all’arme -,
che ’l popol tutto fuor delle case esce,
onde mi parse tempo di accostarme
a Galealto, ch’ira e furor mesce
sì che si degna a pena di ascoltarme;
pur gli dico: – Signor, tempo è spronare
che ’l popol non ci possa qui serrare -.

43Egli, irato, a me volto allor risponde:
– Ch’io fugga solo se di loro ho tema,
che s’ei più fusse che in Ircinia fronde,
non dubita ch’alcun l’onor gli prema -,
e co ’l passo a i suoi detti corrisponde,
ch’ei van pian piano, e fa ch’ogni uom ne trema,
e del castello alla porta arrivati
dieci mila troviam guerrieri armati,

44che ci minaccian tutti morte o guerra.
Allor il cavalier s’allegra in viso,
e dice: – O popol che vaneggia et erra,
come sei tu dalla ragion diviso?
che in breve tempo i corpi avrai sotterra
per questa spada e l’alme in Paradiso,
in Paradiso dico se perdono
a te darai di tristo, a me di buono – .

45Poscia ridendo a me dice: – O compagno,
volete voi veder l’ignobil gente
tosto distrutta come piombo o stagno
dentro un vaso di ferro al foco ardente?
Guardate or me che per onor mi lagno
ch’al mio disio fia poca veramente -,
e così detto con la franca spada
spinge il destrier fra loro e fassi strada.

46Tigre o leone o fulgure celeste
son poco a comparare al suo furore,
non abbatton sì tosto le tempeste
biade mature nel più gran calore.
Io vidi cento braccia e cento testo
e cento uomini uscir di sella fuore
per ogni colpo suo, crediatel certo
ch’io ’l vidi, che veder me ’l parve aperto.

47Alcun vi fu più ardito e di più forza
che volle contrastar, ma il peggio feo,
che poca acqua gran fiamma non ammorza
e ’l rende contro a lor più crudo e reo,
ma non molto durò la poggia e l’orza,
ch’ogni uom fuggendo vinto si rendeo,
e chi dietro venìa sopra le spalle
de i primi andava, e ristringeva il calle.

48Or già più non nocea la gente morta
al voler noi passar e l’abbattuta,
che quando tutta ardita a fare scorta
al suo re vilipeso era venuta.
Al fin per la più larga e la più corta
strada n’andammo, che nessun rifiuta,
e vi so dir che ’l torneamento il giorno
fu per lor mal felice e poco adorno».

Nonostante le insistenze di Febo, riparte (49-59)

49Qui si tacque Girone, e poi seguio:
«Cotal vid’io questo onorato brando
oprar in man di chi fu in terra dio
d’arme, ch’ogni virtude ebbe a comando».
In questa i cavalier, c’hanno disio
di far che ’l lor signor si posi, quando
già la notte s’inchina all’Occidente
entran là dentro, e dicon dolcemente:

50«Tempo a ciascun che vi ama par omai
che devreste trovar le piume e ’l letto,
e dar quiete a i ricevuti guai
così di Febo allo stampato petto».
Se n’accorda la coppia, benché assai,
di così ragionar han più diletto.
Pur lì resta Giron, l’altro si parte,
e vanne alla sua stanza in altra parte.

51E co i suoi ragionando lieto dice:
«Troppo lodar mi deo di tal ventura,
che ben posso chiamarmi oggi felice,
e dir che ’l Ciel di me tenuto ha cura,
poi che contro al maggior ch’altra pendice
già mai vedesse o fesse mai natura
potuto ho sostener più d’uno assalto,
ond’io me ne terrò famoso et alto.

52Poi non potea guadagno far maggiore
che veder l’uom ch’io ho bramato tanto,
compagno antico e c’ha portato amore
più che frate e figliuol in ogni canto
al mio buon padre, e che con tal onore
celebra il suo gran nome invitto e santo,
sì che nel cor mi fo lieto sì forte
ch’io l’avrei ben comprato con la morte».

53Così dicendo a i suon lieto si spoglia
e quei con maraviglia stanno intenti.
Già corcato ciascun lassa la soglia,
fuor che due stretti e fidi suoi serventi.
Tornato il giorno, con la istessa voglia
parlansi insieme i cavalier possenti,
sol ragionando di valor e d’armi,
d’imprese degne di celesti carmi.

54E sempre il buon Giron qualch’alto essempio
de gli antichi o de’ suoi gli pone innanti,
loda il cortese oprare e biasma l’empio,
esalta il Ciel gli onesti e fidi amanti.
Narra qualche vergogna, qualche scempio
di quei più tristi cavalier erranti,
figura in mille forme, in mille modi
quanto sien dolci a i buon le vere lodi.

55E ’l giovinetto, ch’è di buona prole,
non si può dir se volentier l’accosta:
non vorria mai dall’un all’altro sole
ch’ei si tacesse pur una sol volta.
or fra queste dottissime parole
già il quindecimo giorno il ciel rivolta,
ma il buon Giron, che d’altro avea desire,
prende da lui congedo e sen vuol gire,

56affermando ch’avrà come suo figlio
lui sempre caro, e di servirlo brama,
e che voglia nell’arme e nel consiglio
del padre suo seguir la chiara fama.
Ma l’altro a lui, con lagrimoso ciglio,
vedendo dipartir chi cole et ama,
diceva: «O signor mio, deh non mi sia
tolta da voi sì chiara compagnia,

57che, s’andar ne volete, io venga almeno
come a voi sembrerà servo o figliuolo,
e mi parrà felice esser non meno
di chi possegga quanto vede il polo».
Giron risponde: «Un’altra volta a pieno
v’esaudirò, ma nel presente solo
esser conviemmi, e basta ch’ov’io vada
sempre per voi farò quanto vi aggrada».

58Così dicendo e lagrimoso insieme,
sol con uno scudier truova il cammino,
rivolge ratto il passo ove aggia speme
di ritrovar il Rosso Danaino.
Già venìa la stagion che ’l freddo preme
il verde, e pruinoso era il mattino
e che dello Scorpion il sol vestito
crudo minaccia di Nettuno il lito.

59Ma innanzi ch’ei partisse avea richiesto,
e promesso gli fu con giuramento,
ch’il nome suo da lor non fusse intesto
del gran pilone l sacro pavimento,
perché non giudicò che fusse onesto
di posseder sì indebito ornamento,
perché non ha il signor vinto all’assalto
qual già fece il famoso Galealto.

Trova Danaino e viene con lui a duello (60-81,4)

60Or seguendo egli adunque il suo sentiero,
a piè d’una montagna, in uno speco
vide lontan giacere un cavaliero
di tutto armato, ch’una donna ha seco
ad un arbor legato era il destriero,
tosto il geloso Amor, ch’è per sé cieco,
ma fa più che cervier veder altrui,
al buon Giron mostrò chi fu costui.

61Mostrò ch’è Danaino, e la donzella
che del suo ricercar era cagione,
ma poco appresso il buon guerrier et ella
conobbero altresì certo Girone.
Alla vista terribile e novella
si cangiò Danaino, e dallo sprone
di conscienza l’animo compunto
venne tremante e frigido in un punto.

62Chi mai vide mastin co ’l lupo al bosco
scontrarsi a caso in solitario loco,
a lor gli assembreria, che ’l guardo ha fosco,
crudele il volto e gli occhi un vivo foco.
«Or già s’appressa l’ultimo tuo tosco,
or di vita mortal ti resta poco,
traditor, disleal «grida da lunge
il possente Girone, e ’l caval punge.

63Qui benché Danain temesse alquanto,
pur, come cavalier di somma altezza,
già montato a caval, che gli era a canto,
mostra di fuor ch’ogni suo detto sprezza
rispondendo: «Giron, te stimo io tanto
quanto pardo o leon cervetta prezza;
or non sai tu che Danaino io sono,
che nessun mai di me trovai più buono?

64Non sai ch’io non temei, né temo unquanco,
cosa che sia, né pur l’istessa morte,
che quando il corpo sia del tutto manco
ancor viverà il cor invitto e forte?
ma ben troppo sarai piagato e stanco
pria che mi conduca a simil sorte;
di te stesso difender prendi cura
più che di far a me danno o paura».

65«Ah,» risponde Giron «ben tempo fue
che cavalier ti vidi senza pare,
or che son disleal l’opere tue
come può alcun valor teco albergare?
Assai più contro all’aquila può il grue
che tu contro di me potrai durare.
Ove entra tradigion virtù si fugge,
come al venir del sol neve si strugge.

66A combatter omai qui ti apparecchia
e vedrai che le mani avrai legate.
Punizion nuova della colpa vecchia,
meschin, farai fra l’anime mal nate».
Qui mostra Danain sorda l’orecchia
ontoso in sé di tanta falsitade,
sol dice: «Se pur vuoi battaglia avere
troppa n’avrai», poi volge il suo destriere.

67Or qui mi aiuti l’onorata Clio,
le sue sorelle e ’l lucido fratello,
che poi che Marte fu mai non s’udio
più grave e memorabile duello
tra’ miglior cavalieri, onde il più rio
superò tutti quei che nel flagello
fur vinti o vincitor intorno a Troia,
o quei che a Tebe fèr paura e noia.

68Fu Giron così forte e tanto ardito
che menzogner parrebbe chi ’l narrasse,
fu Danain dal mondo riverito
per più fero campion ch’arme portasse,
l’uno all’altro amicissimo e gradito
fu più ch’un altro par che mai s’amasse:
giusta cagion che l’odio era poi tale
che fu tra lor allor più che mortale.

69Come tra l’Aquilone et Austro suole
quando al più freddo verno hanno quistione
nascer romor che fa scurare il sole
e tremar la propinqua regione,
e co ’l furore stesso par che vole
di qua il buon Danain, di là Girone,
che in mezzo il corso ritrovati insieme
d’incredibil poter l’un l’altro preme.

70Non sentì alcun di lor colpo più grave
di quel, né ’l sentì poi credo già mai.
Ciascun caval dell’urto che riceve
cadde per terra in disusati guai;
ambe seco i signor, ma in tempo breve,
ambe si rilevàr più presti assai
che leggier veltro c’ha vicin la lepre
e l’ha fatto inciampar cespuglio o vepre.

71Trovasi ognun di lor ferito e ’nfranto
nella spalla, nel fianco e nella testa,
ma nel ver Danain, drizzato alquanto,
più mal trattato e ’nvillupato resta;
ma non avvenne allor che del suo pianto
ne potesse Giron far molta festa,
ché sì stordito anch’ei se ne risente
che non fu forse mai così dolente.

72Ei ben pensa fra sé che pari al mondo
l’alto avversario suo molti non ebbe,
e se ’l primo sé fa, lui fa secondo,
e d’averlo assaggiato anco gli increbbe.
Danain d’altra parte al crudo pondo
non soggiace co ’l cor, ma in tutto crebbe
e senza ivi pensar quel è il suo stato
mette alla spada man tutto infiammato.

73Vanne verso Girone, e gli domanda:
«Che ti pare ora mai di questa giostra?
Pur, quel che raro accade, oggi alla banda
sei gito, e l’elmo polveroso il mostra.
Or questa spada vien che vo’ che spanda
tanto tuo sangue che la gloria nostra
ne vada infino al cielo, e dica ogni uomo
che ’l più franco guerrier del mondo ho domo.

74Tu hai trovato al fin quel Danaino
ch’a molti cavalier frenò l’orgoglio
come anco a te farà, se ’l mio destino
non mi fa qui peggior di quel ch’io soglio».
Tace Giron pensoso, a capo chino,
dicendo nel suo cor: – Parlar non voglio
perché ha ragione, et io me stesso incolpo
poi che ho ucciso non l’ho co ’l primo colpo -.

75E con questo pensier ratto l’assale,
e vuol ferirlo quanto puote in fronte.
Ma l’altro, che ben sa quel che esso vale
ebbe lo scudo e le sue forze pronte,
sì che ben lo intronò, ben gli fe’ male
il colpo che abbattuto avrebbe un monte;
pur in piè si ritenne con gran pena
e ’l ciel veder gli par quando balena.

76Ma non per questo sta, ma si apparecchia
a farne assai lodevole vendetta,
e gli ferì sopra alla manca orecchia
il famoso elmo che faville getta.
Sentì Giron quel suon che fa la pecchia
spesso all’april per la fiorita erbetta,
il qual il mette in tanto sdegno et ira
che le forze addoppiando un colpo tira.

77Il più grande cred’io che fusse mai,
e s’a pieno il prendea bene il sentia
il Rosso Danain, ch’ultimi guai
provava in terra e l’anima fuggiva.
Ma come quel ch’al gioco vale assai
e ch’al bisogno suo ben gli occhi apriva,
si tirò indietro, e ’l braccio innanzi porse,
né però tutto il colpo indarno corse,

78ché del scudo ch’avea la maggior parte
con rovina inaudita cadde in terra.
Or Danain, che più spera nell’arte
che nella sua possanza in questa guerra,
quando sconcio de i piedi il vede in parte
con l’urto e con la spada a lui si serra,
e spera nel suo cor gettarlo in basso
ma più duro il trovò ch’alpestre sasso.

79Ben si contorse alla percossa alquanto,
ma tosto più che mai fermo si truova.
Il fero Danaino in questo tanto
due colpi alla visiera gli rinnuova;
allora il buon Giron, posto d acanto
lo schermire e ’l coprirse, estrema pruova
vuol far, e diffidi l’alta bisogna
che di tanto durar prende vergogna.

80E mille colpi dona in un momento
su le spalle, su l’elmo e su le braccia,
sopra il petto talor gli pone il mento,
or maglia fine, or piastra fende e traccia.
Nell’autunno par rabbioso vento
che frondi, frutti e rami a terra caccia,
ma sta senza crollarsi il fermo piede:
tal Danaino a quel ferir si vede.

81Lascia l’ira sfogar, i colpi schiva,
sta ben ristretto e fère anch’ei talvolta,
e gli fa confessar che non sia priva
di virtù la sua man e che pur n’ha molta.
Poi che Giron non così tosto arrivaNel riprendere fiato, discorrono del tradimento di Danaino (81,5-96)
al fine, e questa selva e vie più folta
che pria non si pensò, dietro si tira,
e così ragionando alto sospira:

82«O Dio del Ciel, che greve danno è questo?
E qui si tacque; l’altro, che l’intende,
«Dimmi,» disse «Giron, che ti è molesto,
or più che prima e chi così ti offende?».
Et egli a lui, con un sembiante mesto:
«troppo estremo dolor l’alma m’incende
che ’l miglior cavalier ch’al mondo sia
alberghi tradimento e villania.

83io mi pensai ben che già ch’alto valore
e forza fusse in te con molto ardire,
or la truovo alla pruova assai maggiore
di quel che l’uom non pensa, e ch’io non saprei dire,
e quando io mi ricordo dell’errore
mortualissimo tuo, del tuo fallire,
pe la cavalleria che in terra colo
sappi ch’in vece tua moro di duolo».

84«Ah,» disse Danaino «io non potrei
dir mai che contro a te non ho fallito,
ma credo che perdono io troverei
e scusa da ciascun d’Amor perito,
ma tu, che legno, piombo e marmo sei,
né mai sentisti il cor da lui ferito,
se non di ottuso strale e ’n picciol foco,
non sai che in corte sua ragion val poco.

85Non sai quanto può in uom somma beltate
di donna leggiadrissima e cortese,
e come tra le stoppe riscaldate
facil la fiamma sempre mai s’apprese.
Cavalier non fu in altra o in questa etate
che non ti fesse le medesme offese
che t’ho fatte io, se in vuardia avesse quella
faccia che or vedi là lucente e bella.

86Qual saggio fia che folle non tornasse?
qual avria loco in ciò più ferma fede?
qual così puro cor che no ’l macchiasse
desio di altrui furar sì ricche prede?
Più volte il rigettai prima ch’entrasse
in me lordo pensier ch’or punge e fiede,
e se tu saggio sei d’ogni mia colpa
non me, signor, ma te medesmo incolpa.

87Or non vedesti bene in che periglio
mettesti, ahi lasso, il tuo più caro amico?
Or non sapevi allor ch’al buon consiglio
Amor è crudelissimo nemico?
Io n’ho doglioso il core, umido il ciglio,
né per tema ch’io n’aggia anco tel dico,
che se sapessi il duol che me n’accade
in vece d’odio ti verria pietade».

88Risponde a i detti suoi tutto cruccioso
più che mai fusse ancora il buon Girone:
«Taci, che più ti fai tristi e noioso
quanto più di’ la falsa tua ragione.
Un cavalier leale e valoroso
non puote al mal oprar aver cagione,
non amor, non ricchezza, gloria o regno
il deve o può condurre ad atto indegno.

89Al guerrier lealtade e cortesia,
al villan si convien l’opra villana,
e se dell’altrui fé ti sovvenia
usata in verso te più che sovrana,
digiun saresti di tale esca ria,
la qual a distornar tua forza è vana,
e puoi conoscer ben che l’altra è tale
che nel tutto di questa assai più vale».

90«Or non rimproverar,» risponde allora
alle vere parole Danaino,
«quel che facesti in lei, perché eri fuora
de i legami d’amor a cui m’inchino.
Prigion mi rendo, e sento che divora
l’anima dentro il suo poter divino,
e senza dubbio ancor questo vantaggio
hai ch’io son folle e tu più d’altro saggio.

91E poi con tutto questo non mi posso
pentir di tale error, benché io ’l confessi:
ben n’ho quando ne parlo il volto rosso,
ma dentro porto quei desiri stessi,
però ch’al tutto m’ha spronato e mosso
la più bella cagion ch’io mai vedessi,
che mai fusse qui bassa e forse in cielo
figlia e sorella del signor di Delo.

92E mi terrò d’aver buona avventura
quando io mi truovi per amarla a morte,
né di te, né del mondo non ho cura,
né con voi cangerei sì dolce sorte,
né tu devresti aver sì rozza e dura
l’anima, e traviata alle vie torte,
che a così grave biasimo mi rechi
fallo che i migliori occhi fe’ già ciechi.

93Come, ciechi diss’io, che dir devrei
che di ciechi fur fatti lincei et Arghi?
Amor fa divenir ottimi i rei,
gli avari e i vili generosi e larghi,
e s’io negassi certo mentirei
che di vere virtudi non mi sparghi
mille semi nel cor, che fan ch’io sono
vie più che non solea cortese e buono.

94E chi il fallo medesimo commetta,
com’io già contro a te, contro a me stesso,
già mai non cercherò da lui vendetta,
ma come fido amico il vorrò presso.
In te, cred’io, che tal disdegno metta
invidia sola, che fa danno spesso
all’anime gentili in simili opre,
che i difetti appalesa e ’l ben ricuopre».

95Alle parole dette in ira monta
Giron più che mai fusse, e gli replica:
«Non farai co ’l tuo dir ch’una tal onta
prenda per cosa di ben far amica,
ma chi sol ne i piaceri ha l’alma pronta
in difender i torti s’affatica,
com’or tu, disleal; ma tosto fia
sotterra teco la tua colpa ria».

96Dice allor Danain: «Quale è maggiore
colpa oggi della tua, duro e spiettato,
procacciar morte a cavalier d’onore,
ch’amico congiuntissimo sia stato,
che più che gli occhi suoi, più che ’l suo core
t’ha riverito sempre, anzi adorato?
e per cagion di donna che non era
tua sorella, tua figlia o tua mogliera?».

Il duello riprende, Girone abbatte il nemico e lo risparmia (97-124)

97Non risponde Giron, se non: «Omai
troppo è durato il folle parlamento;
già del sol vanno in Occidente i rai,
né noi diamo all’impresa compimento».
Così detto, fero più che mai,
s’addrizza verso l’altro, che sta intento,
e s’apparecchia a sostener la guerra
con lo scudo alto e ’l piè ben saldo a terra.

98Ma Giron di tal forza i colpi mena
che di molte arme l’avversario spoglia,
il qual, mirando già la terra piena
di chi pria ’l difendea, troppo s’addoglia;
pur si ripara ancor, ma doppia ha pena,
doppio sbigottimento e doppia doglia,
allor ch’ei vide di pietà dipinto
del suo sangue a Girone il brando tinto.

99Pur come generoso il cor non perde,
anzi con più vigor si studia e sforza,
se medesmo conforta e più rinverde
l’alma ove manda la terrena scorza,
ch’ei sente ben che troppo sen disperde,
e via ne porta la nativa forza.
non si ricuopre più, ma il tempo spende
solo in ferir, né cura chi l’offende.

100Non di sua vita più, ma d’altrui morte
troppo animosamente è fatto avaro;
or punge, or taglia sì pesante e forte
che spesso al buon Giron tornava amaro,
il qual co ’l piede e con le luci accorte
si va schermendo tal che ’l truova raro
che del suo disperar saggio s’accorge,
e gli spirti mancar co ’l sangue scorge.

101E immagina fra sé che poi che alquanto
si fusse affaticato oltre a misura,
resteria fuor di lena e debil tanto
che verria innanzi serra a notte oscura.
Pur talor il percuote tanto o quanto
ove più di vital formò natura,
ma mentre ch’egli il mena, a tal partito
si sente in più d’un luogo anco ei ferito.

102E gli par men che pria vigore avere,
e vede l’altro ancor c’ha forza molta,
talché non vuol tai colpi sostenere
ma all’assalirlo più che mai si volta.
Or chi potesse questi due vedere
aspramente combatter, diria folta
pioggia venir di grandine all’estate
sopra i frutti e le biade già dorate.

103Vedeansi in alto l’onorate spade
di lucente rossor dare splendore,
quai solar raggi quando Febo cade
in mar dopo la pioggia alle tarde ore,
velato il volto di sottili e rade
nubi, che gli fan pallido il colore,
e nessuna di due non torna in alto
senza di sangue o ferro empir lo smalto.

104Ogni scherno han lassato, ogni ragione,
qui sol la forza è da lor messa in opra.
Talor per Danain, talor Girone,
della fera battaglia star di sopra,
or poi che va sì lunga quistione
e che quasi egualmente ognuno adopra,
Giron, che a pruova il suo nemico estima
per un ben mille ch’ei facesse prima,

105si tira in dietro, e grida ad alta voce:
«O sacro santo Dio, che danno grave?».
Resta anco Danain né più gli nuoce
anzi il prega che dica quel ch’egli have.
E ’l Cortese Giron: «Troppo mi cuoce
come ancor forse te, credo, che aggrave
che qui non sia gran popol a mirare
uno assalto sì bel ch’è senza pare,

106e che sian testimon della virtute
che potrebbe veder in ambe noi,
sì che sien le nostre opre conosciute
per la lor bocca a i secoli da poi,
ch’io penso che mai non fur vedute
ovunque abbracci il mar i liti suoi
due tali spade, né due man sì ardite,
né mai s’ perigliosa e fera lite».

107A ciò disse ridendo Danaino:
«Che più gran testimon bramar devemo,
se ’l maggior uom del mondo è qui vicino,
e tu sei quel, che tutti il concedemo?
Vero è che ’l tuo mal fato e ’l tuo destino
t’ha condotto oggi quinci al giorno estremo
per le mie mani, e senza fallo fia
se la sorte non mi è vie più che ria».

108Non si turbò Giron, ma gli replica
che si spera veder tutto il riverso:
«E se tu fresco e fuor d’ogni fatica
et io fussi nel sudor sommerso,
scampar non ti porria stella più amica
ch’io non ti veggia in cenere converso,
che dopo Galealto, il fero Bruno,
mai più forte di me trovai nessuno.

109Or sia tosto principio all’atto terzo
della nostra tragedia cominciata,
che sarà tal che gli altri furo scherzo
come il fin mostrerà della giornata.
Già ti difendi, che me stesso sferzo
assai più che non fei l’altra fiata».
Poi sopra il fronte il maggior colpo dona
che desse o ricevesse unque persona.

110E ben il dimostrò, che ’n terra steso
tutto stordito il cavalier si truova,
né potendo ei portar sì duro peso,
a i detti che schernì crede alla pruova.
Li s’avventa Girone, et hallo preso,
a fin che disarmato indi si muova,
ad ambe man per l’elmo, e gliel dislaccia,
poi la cuffia d’acciaro in basso caccia.

111Non sente il cavalier, ma poco appresso
ritornato il vigor, sopra si scorge
minacciante Giron, che ’l brando messo
gli ha nella vista, e quanto può gli porge
della morte timor, dicendo ad esso:
«Se ora hai speranza alcuna ti risorge
di potere scampar fallir ti debbe,
perché pietade in me follia sarebbe».

112Risponde Danain con sommo ardire:
«Né tu né ’l mondo mai mi farà tema,
e s’io morraggio, al men si potrà dire
c’ho per ottima man la vita scema,
né diran ch’io sia giunto al mio morire
come donzella vil che piange e trema.
Sommi sempre difeso ardito e franco,
poi come alto guerrier venuto manco.

113Or perché m’hai, non è già molto, detto
che per tua man morir mi convenia?».
Dicea Girone, et ei: «Perché il perfetto
guerrier deve sperar quel ch’ei desia,
ben talor del contrario ebbi sospetto,
ma la fortuna e ’l Ciel mai non faria
che io prendessi o paura o disconforto,
e non fussi il medesmo ancor che morto.

114Ma se tu sei colui ch’esser solevi,
da poi che ’l Ciel e tua virtude il face
ch’io sia caduto e più non mi rilevi,
e ch’in tua man mia vita e morte giace,
fa’ che omai tosto un de i tuoi colpi grevi
ponga il corpo sotterra e l’alma in pace
di quell’uom che t’amò più del suo core,
e di quanto peccò n’accusa Amore».

115Il Cortese Giron quando l’ascolta
piange dentro il buon elmo ascosamente,
tutta in pietà la crudeltà rivolta,
tutta in dolcior la velenosa mente,
e che prima che offenderlo una volta
morir mille vorria veracemente
per non privar d’un cavaliero il mondo
ch’a null’altro che a lui giva secondo.

116Pur, per provar il suo valor in tutto,
di farlo ivi morir facea sembiante,
e quel, con volto intrepido et asciutto,
«Dunque non sei tu più chi fusti avante?
dunque in una ora di mill’anni il frutto
perdi, e vorrai di cavaliero errante
venir brutto omicida et assassino
del tuo famoso e nobil Danaino?

117Dio sa che del morir m’incresce poco,
che farlo io non potrei di miglior mano,
dogliomi ben che tu sarai da poco
tenuto, e di cor pessimo e villano».
Giron, che ’l vero intende, non per gioco
il prende, e dice a lui con atto umano:
«Non piaccia a Dio che questa giusta spada
in sì famoso corpo a torto vada.

118Non a me, Danain, grazie ne renda,
ma alla cavaleria, ch’a ciò mi mena,
che di due pria in un sol dì s’intenda
cui pari al mondo si ritruova a pena,
che se or fa l’ira che vendetta prenda
sì che al tuo fallo egual venga la pena,
tu sarai morto, io nella vita resto
disonorato sempre, afflitto e mesto.

119Né mi vorrei più cinger arme intorno
né lassarmi veder se non da fere».
E detto questo, senza danno o scorno
far al misero più, ponsi a sedere.
Ripon la spada, e maladice il giorno
ch’a sì buon cavalier fece piacere
sì fuor d’ogni ragion colei ch’egli have
del core e de i pensier tolta la chiave.

120Or se qui Danain di morte sciolto
fusse lieto intra sé dir non porrei.
Loda il franco Giron, ringrazial molto,
e che ogni ben gli dien prega gli dèi;
poscia il domanda con allegro volto
come si senta, et egli: «Io non potrei
di me teco parlar, anzi ti giuro
di mai più non ti amar, siane sicuro».

121Poi si volge alla donna, che si stava
tra timore e speranza ivi in disparte,
ma non con quel buon occhio la mirava
come fe’ per l’addietro in altra parte,
ch’esser stata d’altrui si ricordava
e ch’ell’era cagion che si diparte
da colui che gli fu più caro amico
ch’altro del nostro tempo o dell’antico.

122Pur di lei dolcemente cerca nuova
et essa lagrimando glie ne dice,
ch’assai vie più che morta è stata altrove
e più ch’alma infernal trista e ’nfelice,
e che assai rende grazie al sommo Giove
ch’in questo caso almen fe’ lei felice
in averla servata intera e casta
ne la scorza, né l’anima esser guasta.

123mostral creder Giron, ma poco bada
che del gran Danain pur ha pietade,
e manda il suo scudier, che sa la strada
ove genti devote stan serrate
dentro una chiesa, e tosto torni e vada
portando bara o cose accomodate
per là condur l’amico, che giacea
né di pur rilevarse forza avea.

124Ritornò tosto, e i monaci pietosi
a tale ufficio far l’accompagnaro.
Disarman Danain, fan che si posi
sopra frasche e troncon che gli additaro.
Seguel Giron, con occhi lagrimosi,
e tutti in men d’un’ora si trovaro
in quel sacro convento, e dentro un letto
fu posto Danain con dolce affetto.