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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro XXIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.09.15 17:16

Nabone manda la fanciulla per cercare di trarre in inganno Girone, che non ci casca (1-16)

1Già si mostrava al balzo d’Oriente
la rugiadosa donna di Titone,
quando, essendo svegliato, toccar sente
di fuor la porta il provido Girone;
si mette l’elmo, et apre incontinente,
e truova una donzella ch’a ragione
gli parve tanto onesta e vaga tanto
che potea tra infinite avere il vanto.

2Il saluta ella, e chiamalo per nome,
e con mille menzogne in quella forma
ch’al re fe’ d’Estrangorre, e ’l quando e ’l come
per uccider Nabon la rea l’informa.
Ma ’l buon Giron, ch’a gli atti et alle chiome
al dir l’istesso e nell’usata forma
di che fuor fu dal monaco avvertito
la riconosce qual mostrata a dito.

3E senza lei lassar venire al fine
del suo già discoperto tradimento,
comincia: «O donna di beltà divine
da poter far in ciel vago ornamento,
come esser può che ’l voler vostro inchine
al tanto aver di fede mancamento,
che si può dir che quanto chiaro è il volto
tanto è il misero spirto in nubi avvolto?

4Or non vedete voi che grave torto
fate a voi stessa, alla natura insieme?
E quanto meglio all’uom sia l’esser morto
se in degnissimo vizio o macchia il preme?
Molto alle donne più ch’essempio scorto
esser devrian delle virtù supreme,
che come corre il dotto e ’l vulgar grido
son di pietà fra noi natural nido.

5E voi, per quel ch’io intendo e quel ch’io veggio,
sol de i danni d’altrui diletto avete.
Or qual oprar di voi potrebbe peggio
tigre o chi più del nostro sangue ha sete?
Usate spesso e ’n cortesia vel chieggio
di guardarvi allo specchio chi parete,
e voi vedendo ad angioletta eguale
schivati i modi d’anima infernale.

6Voi non sapete forse ch’io so certo
che ’l mio gran Cavalier Senza Paura
per voi restò di libertà diserto,
il miserel nella prigione oscura?
or non pensate voi che giusto merto
ve ne riservi chi de i buoni ha cura?
Non fia già per mia mano, anzi vorrei
sì bel corpo nettar da i falli rei.

7E vi supplico sol ch’un dì vi piaccia
di provar quanto è dolce il bene oprare,
come contento, anzi beato faccia
chi vuol del cibo suo l’alma adescare,
e fa vede che stolto è chi procaccia
dannaggio altrui per sé mai non posare,
e potrà ben veder come l’usanza
più che ’l nativo sprone aggia possanza.

8Or ritornate indietro, o poverella,
e dite al vostro perfido tiranno
che s’il mio fato a forza non mi appella
pensi ch’io ’l fuggirò d’ogni suo danno,
e ch’io ’l consiglio che mi assalti in sella
con tutti quei ch’al suo servigio stanno,
e s’ei m’abbatterà schiavo mi prenda,
s’io vinco lor che quei prigion mi renda.

9Non voglio altro da lui se non quel tanto
che pregar mi devria ch’io domandassi,
ricordandosi ben che d’altrui pianto
poco s’acquista, e sempre in tema stassi,
perché chi la bontà lascia da canto
si fa contrari al mondo infino i sassi,
vive con biasmo eterno, tosto muore
e ’n disgrazia del Ciel finisce l’ore.

10Io so ben ch’egli e voi mortal nemico
mi estimerete perché io parlo il vero,
ma se ben misurate quanto io dico,
per padre, per fratel m’avrete spero,
che come l’uom di sanità mendico
porta odio estremo al fisico severo,
poi, ritornato san, perdon gli chiede,
e gli daria se stesso per mercede,

11tal avverria di voi, ma forte temo
che sia indurata vostra infermitade
sì che il giorno fatal fia prima scemo
ch’in voi si cange l’impia qualitade.
Or sia che vuol, qui son per far l’estremo
d’ogni mia possa e terminar l’etade
in questa valle, o per via d’arme o in pace
in libertà condur chi prigion giace».

12La miserella, cui tema e vergogna
avean fatta venir come di ghiaccio,
non sa che dirsi, e ’n guisa d’uom che sogna
parla confusa e parle aver un laccio
che le riserre il cor, e seco agogna
di trar se stessa e ’l cavalier d’impaccio,
perché egli in vano i suo’ ricordi spende,
et ella indarno a lui l’insidie tende.

13Pur, come dona, al fin riprende ardire,
e gli dice con lagrime che finse:
«Ben poss’io questo giorno benedire
ch’a far inganni a tal signor mi spinse,
del qual la saggia lingua co ’l suo ardire
la verità per modo mi dipinse,
ch’io spero di mostrar tosto con l’opra
che ’l buon precetto a maraviglia adopra.

14Io non posso negar, né voglio a voi
ch’io non venissi con malvagie voglie
di donarvi a Nabon tra gli altri suoi
e farlo altero di sì rare spoglie,
perché l’inganno par virtù tra nei
sì mal nutriti dentro a queste soglie,
e quello è in pregio che più bei modi
ha di condur le tradizioni e frodi,

15ma mi sento or così compunta l’alma
della riprension che voi mi deste,
ch’omai di me riporterete palma
più che de i cento ier che voi vinceste,
e serverò per voi perpetua salma
d’alti e chiari desir d’imprese oneste,
e pria che sia doman passato tutto
della sementa vostra avrete frutto».

16Giron, benché no ’l creda, assai l’essalta,
la ringrazia, la loda, et ella torna
sdegnata più ch’una aquila che d’alta
parte si aventa al seggio ove soggiorna
picciola damma ch’al calar suo salta
sotto altro cespo e ’l van disegno scorna,
ch’affamata co ’l pugno a vòto chiuso
e punto da gli spin rivola in suso.

Concerta un nuovo piano: sfidare a duello Girone e poi farlo precipitare a tradimento in una fossa costruita per l’occasione (17-25,4)

17Giunta ove era Nabon, tutta racconta
l’ambasciata, e ’l seguito ond’ei si duole,
et ella, ch’al mal far più d’altra è pronta,
le dice: «Anco per questo non si vuole
perder mai la speranza, ch’a grand’onta
de gli uomin saggi reputar si suole.
Cerchiamo altro cammin, che a nuova strada
chi perduta ha la vecchia è forza vada».

18E come avea discorso per la via,
dice «Signor, un modo aggio pensato,
che in nome vostro il campo se gli dia
e che vi presentiate in sella armato.
Il loco avanti della porta sia
ove il disotto vi è tutto incavato,
e lo smalto di sopra agevolmente
può farsi tal che caggia incontinente.

19Il lavor di una notte basta solo
d’assottigliarlo sì ch’ei regga a pena,
con picciol legni dentro, e fuora il suolo
coprir di terra e di minuta arena,
e quando esso il destrier moverà a volo
con usato furor per darvi pena,
allor ch’ei penserà finir la guerra
co ’l suo caval prigion sarà sotterra.

20Ivi saran de i vostri cento almeno,
chi ferri porterà, chi fune o laccio,
e l’avran prima ben raccolto in seno,
i piè legati e l’uno e l’altro braccio,
ch’ei si sia pure accorto del terreno
che l’ha ingannato e dell’ordito impaccio,
ch’a dirne il vero egli è lion sì forte
che domar cel convien di questa sorte.

21Solo a voi converrà prender gran cura
che passando là sopra sempre andiate
o lungo il fosso o presso a queste mura
sì che ’l mezzo alla strada non calchiate,
ch’a voi non torni il danno e la paura
e che prima i confin bene impariate,
che la piazza è sì larga ch’assai fia
per voi condur quella sicura via.

22Quando al correr la lancia poi si vegna,
compartite il cammino in tal misura
che la parte che ’l peso non ritegna
tocchi a lui solo trapassar intera».
Così dicendo il loco e ’l tutto insegna;
piacque a Nabon, il qual verso la sera
a i suoi l’ordine diede, e ’n quella notte
fur le crudeli insidie a fin condotte.

23Ma il possente Giron, poi che partita
da lui fu la donzella senza fede,
co ’l semplice romito che l’invita
al digiun mattutin ristoro diede.
Poi per la selva ove sia più spedita
a caval co ’l scudiero addrizza il piede
verso il castel, ove con grido altero
appella alla quistion Nabone il Nero.

24Il quale, essendo ancor con la donzella
al consiglio ch’io dissi, un suo gli manda
che per quel dì non può montare in sella
perché aveva da fare in altra banda,
ma l’altro giorno, poi che ’n ciel la stella
perda il suo lume e ’l sol le chiome spanda,
fia sul campo a mostrar quanto Nabone
di più alto valor sia che Girone.

25S’accorda il cavalier a quel ch’ei vuole,
perché breve è il passar d’un picciol giorno,
e poi ch’a riterate le parole
al suo povero albergo fa ritorno.
Compita l’ombra, all’apparir del soleSfida Girone, che accetta, che cade nel buco ed è fatto prigioniero (25,5-38)
si presenta al castello e suona un corno,
chiama il crudel che scenda a mostrar vero
quel che intender gli fe’ dal suo scudiero.

26Non ritarda esso, et un gli manda fuore
che ’l meni ove ordinato era l’inganno.
Ivi Nabon, mostrando invitto core,
se gli fa incontra, e di vergogna e danno
forte il minaccia se già fargli onore
non acconsente come gli altri fanno
che per signor l’adorano e per dio,
promettendosi allor cortese e pio.

27Gli risponde Giron ch’uno Dio solo
adora in Ciel, e ’n terra i buoni onora,
come anco farà lui se il bello stuolo
de i rari cavalier lasserà fuora,
«Se non queste arme invitte e pregio e colo
che vi faran dolente in poco d’ora,
quanto mai traditor nel mondo fosse
che non aggia in mal far le guance rosse».

28Mentre parlan così Nabon si guarda
di stampar orma ove ha l’insidie tese,
né molto appresso l’opra sua ritarda
ch’assai lunge di là lo spazio prese,
e che resti a Giron tutto riguarda
il mal terren ch’a debil legni appese,
ch’a contrasegni fatti il conoscea
soli a lui noti et alla donna rea.

29Volge il cavallo, e quanto può più lento
verso Giron, che già s’è mosso, sprona,
il qual venìa qual tempestoso vento
che dal mar furiando i liti intuona.
Arrivò, lasso, dove il pavimento
subito all’improvviso l’abbandona,
e con l’arme e ’l destrier si truova in loco
dove ferro e valor l’aiuta poco.

30Sì come avvien da poi che l’Austro ha scosso
non lunge al mar qualche cavato monte,
che allor che con tremor più volte ha mosso
or le radici ora la sassosa fronte,
s’inchina al fine, e largo speco o fosso
n’appar onde poi vien palude o fonte,
che le ville e i castei che ’n cima stanno
nel baratro infelice se ne vanno,

31così il miser Giron in basso cade,
ove ha d’intorno, e non gli vede a pena,
mille lance nel petto e mille spade,
con più d’un laccio e più d’una catena.
D’esser pensò fra le infernali strade
per sostener del suo fallir la pena;
muorgli sotto il cavallo, et esso resta
tutto percosso, spalle, piedi e testa.

32E in carcere condotto a viva forza,
ove trovò quell’impia e disleale
la qual più ch’ancor mai di pietà priva
gli dice: «Fa quanto si possa male».
Ma quella anima altera e sempre schiva
di cosa oprar o dir men che reale,
risponde: «O donna ria, morto o prigione
non cangerei mia sorte al tuo Nabone,

33che quel ch’io pregi men son queste membra,
e questa bassa, incerta e mortal vita,
la qual men che ombra, polve e fumo sembra
a chi l’altra riguarda alta e gradita.
Quello è beato sol che si rimembra
di seguitar del Ciel al via spedita,
e se ’l corpo è legato il mio pensiero
resta ancor più che mai libero e ’ntero.

34Sia di me quel che vuol, che pur mi basta
di restar quel Giron che sempre fu,
ch’al vizio e ’l torto volentier contrasta,
né per speme o timor s’arrende a lui,
né per difetto ancor di spada o d’asta
vinto o prigion rimase mai di altrui,
se non per gran disgrazia o tradimento,
simil a questo onde cotal mi sento».

35In questa ecco Nabon che fra lor giunge,
con quella pompa che se vinto avesse
tutto quel che d’un mar all’altro aggiunge
e per vera virtude il possedesse,
ride e ’l saluta, e dolcemente punge
confortandol che ’n pace sostenesse,
e dice: «Queste son gravi avventure
ch’a chi più saggio sia vengon men dure».

36Rispose a lui Giron con fermo volto,
dimostrandogli ben che nulla teme:
«In qual fortuna io sia legato o sciolto
il medesmo desir l’alma mi preme,
questo è l’onor, il qual essermi tolto
da quel può sol in cui tutta ho mia speme,
a cui mercé di quanto io porto rendo
e tutte in grado le sue voglie prendo.

37Aggia pur di mal far chi vuol la gloria,
ch’io l’avrò di onorar virtude e Dio,
tu d’aver contr’a i buon torta vittoria,
io d’abbassare il reo, d’alzare il pio.
or sia finita qui la nostra istoria,
di me sarà che vuol il destin mio,
ordinato là su da chi ’l governa
e che certa ha di noi la cura eterna».

38Così detto si tacque, e quel crudele
pur alquanto arrossito si diparte,
con la donna spietata et infedele
che di uomini ingannar sapeva ogni arte,
lieto fra sé che alle fallaci tele
sì nobil filo aggiunse, ch’altra parte
non ne producea tal: quello è Girone,
chiaro ornamento all’aspra sua prigione.

Nabone manda ambasciatori ad Artù chiedendogli di sottomettersi a lui come vassallo (39-62)

39Non si porria narrar qual sia la gioia
che tutta n’ha quella spietata corte,
e già pensan fra lor che nulla noia
possin temer mal d’alcuna sorte.
Par che co ’l buon Giron già tutta muoia
l’alta cavalleria, di cui le scorte
più nobili e più chiare ha in suo potere
tal che Artù possa omai di lui temere.

40E ’nsuperbisce sì Nabone il crudo
ch’ei pensa a tutto ’l mondo comandare,
e come avviene a chi di senno è nudo
che quel che il Ciel gli dia non sa guardare,
anzi con la sua lancia e co ’l suo scudo
a se stesso procaccia piaghe amare,
cotal fu di Nabon, che stando bene
tutto intese a trovarsi danni e pene.

41E si dispon mandare ambasciatore
al magnanimo Artus, il qual gli dica
che poi che ’l suo sapere e ’l suo valore
gli avevan fatta sì fortuna amica,
che in sua balia tenea tutto l’onore
della parte ch’a lui troppo è nemica,
ciò è de i cavalier del suo gran regno,
ch’ei comandasse a lui parea ben degno.

42Ben degno anco parea ch’ei gli mandasse
come a maggior signor ubbidienza,
e giuramento far che non mancasse
di aver del giogo giusta pazienza,
e se conchiuso ciò gli domandasse
quei cavalier che non andrebbe senza,
l’arme tolte servando e i lor cavalli
perpetui segni d’esser suoi vassalli.

43Fur quattro ambasciatori, e ’l capo d’essi
un vecchio fu ch’avea Nabon nutrito,
che mille spietati atti avea commessi,
nemico del cammino al Ciel gradito,
lo insegnator di tutti i vizi stessi
a quel signor in cui si fe’ compito,
superbo poi che non temeva cura
di chi comanda solo a la natura.

44Partito adunque, in pochi giorni arriva
il real messaggiero a Camelotto,
ove molti signor dell’anglia riva
gli andaro incontro fuori, e l’han condotto
alla presenza veramente diva
di quel d’ogni virtù più bella dotto,
del magnanimo re ch’al morto padre
ceder non volse in opre alte e leggiadre.

45Artù fu questo che successe al regno
d’Utero invitto detto Pandragone,
che passò il mar più volte e tenne a segno
l’ispana e la germana regione,
che fu d’onore e di vittoria degno
di più d’una romana legione,
che liberò la Gallia a Faramonte,
e confermo gli la corona in fronte.

46Fu questo il terzo che lo scettro tenne
del britanno terren, che Vortigero
essendo il primo, poco ben gli avvenne
del suo consiglio, che del scoto impero
temendo, in man de i Sassoni divenne,
Angli appellati, né il buon Vortimero
suo figlio, d’assai pregio e re secondo,
poté ben gli inimici porre al fondo.

47Ma il gran re Pandragon, nuovo Camillo,
liberò il suo bel regno in un momento,
scacciò fuor quasi l’anglico vessillo
e fe’ più largo e forte il reggimento,
ond’a sì fatta gloria il Ciel sortillo
ch’ei fu dell’Occidente alto spaventi,
albergo di costumi chiari e santi
padre e mentor de i cavalieri erranti.

48Sotto le cui bandiere erano in fiore
Febo, Ettor, Galealto, i Bruni arditi,
da i quai nacque il rarissimo valore
del Cortese Giron ne i franchi liti,
i re Boorte e Ban d’età maggiore,
ma più giovini poi né men graditi,
re Faramonte, e ’l re Meliadusse,
co ’l buon re Laco che la Grecia addusse,

49il Rosso Danaino, il Cavaliere
Senza Paura, gran re di Estrangorre;
poi, d’età pari, Amoratto il fero
che poté a Listense il giogo porre,
indi altri molti che tali opre foro
che ’l tempo destruttor on le può tòrre.
Questi di Pandragon vissero in corte,
dei quai parte restàr dopo sua morte.

50E ’n quella etade ove si aggiunge in uno
il valor e l’ardir, la forza e ’l senno,
come di lor ancor sapea ciascuno
cotal saggio di sé tra i giovin denno,
ma il chiaro tempo in lor cangiato in bruno
gli indusse allor che ’l mal viaggio fenno
della Valle al Servaggio, ove sepolti
stero un tempo i miglior tra i lacci avvolti.

51Or dopo Pandragon, come si è detto,
restò del nome e del suo regno erede
il magno Artù, che un nuovo drappelletto
ha di guerrier che nulla all’altro cede,
ma perché ancor ciascuno è giovinetto
non lunge andato dalla patria sede,
fuor non son conosciuti, ond’a ragione
pensò d’averlo in man preso Nabone.

52Perch’ogni uomo ha prigion ch’era nomato
e c’ha fatto più pruove in mille guerre.
fuor che Meliadusse, che malato
era di qua dal mar nelle sue terre,
e così avendo in sé tutto pensato,
come fanciul che ancor vanegge et erre,
mandò gli ambasciador, che giunti sono
ove Artù siede sopra aurato trono.

53I quai con quelle debite parole,
con quella cortesia che si convegna
gli accoglie e gli accarezza qual ei suole
stuol che da gran signor mandato vegna.
Ma il capo, usato nelle triste scuole,
a pena in volto di mirarlo degna,
e fuor d’ogni costume in mezzo assiso
così parla al gran re con aspro viso:

54«Se Nabone mio re creduto avesse,
come era il suo migliore, al mio consiglio,
qui sarebbe egli, e queste soglie istesse,
questo vostro terren saria vermiglio,
ché ’n due dì le sue schiere insieme messe
avrebbe, e senza aver danno o periglio
te riportava, dopo il preso omaggio,
prigion nella sua Valle del Servaggio.

55Pur s’a lui così piacque, anco a me piace
d’esser venuto a dirti per suo nome
che se vorrai da lui quiete e pace
ti convien di tributo fargli some,
e mandar là dove il suo regno giace
ambasciador che per te giurin come
sei suo vassallo e riconosci tutto
da lui, qual toro sotto il giogo indutto.

56E per non ti fallir ti fa sapere
che tutti i cavalier di gran virtude
del regno tuo ritiene in suo potere
e sotto le sue chiavi oggi gli chiude,
i quai, se non t’inchini al suo volere,
alle genti ch’egli ha di pietà nude
darà per preda, e quei per lidi strani
gli saranno esca a i corvi, a i lupi, a i cani.

57E se tu no ’l sapessi, questi sono
il Cortese Giron e ’l Cavaliero
Senza Paura, il franco vostro buono
re Faramonte, co ’l re Laco il fero,
con Danain, e molti di cui dono
ve ne offerisce il gran Nabone il Nero,
poi che con voi giurata fedeltade
gli avran per questa e per tutta altra etade.

58Né tu, per dir il ver, già mai devresti
rifiutar tanto bella e giusta offerta,
perché non hai più qui simili a questi
per tuo soccorso alla gran guerra aperta.
Altri convien che giovinetti onesti,
servi d’Amore e gente solo esperta
a ragionar con donne, quali io scorgo
a te d’intorno ove la vista porgo,

59ove trovar tra i nostri si porria
mille alti cavalier di scettro degni,
di quella età che più compita sia,
da guadagnar del mondo tutti i regni.
Non umiltade, amore o cortesia
non atti femminil, di guerra indegni,
tra lor vedresti, ma sol sangue e morte,
e poi del quinto ciel l’altere scorte.

60Han mille cicatrici in mezzo i volti,
che comprar co ’l suo fine i lor nemici,
tra la ruggin del ferro e polve involti,
della fame e del freddo antichi amici.
Caccian orsi e cinghiar da tema sciolti
per aspre e spinosissime pendici
quando guerra non hanno dentro o fuore
della qual son nutriti a tutte l’ore

61Già pensi ogni uom che fia quando saranno
con questi vostri giovini alle mani,
senza quei che prigion in tanto affanno
tegniam dal vostro aiuto assai lontani.
Or non giungete danno al vostro danno,
né vi affidate in argomenti vani,
mandisi ambasciador, dona tributo
al gran Nabon per più ragion dovuto».

62Qui tacque il fero vecchio, e ’l re prudente,
che non teme Nabon, ma vive in forse
del buon Giron e della nobil gente,
che volle per onore a morte porse,
non vuol sì com’ei suol alteramente
risposta far, ma in animo gli corse
di dar dolci parole, e tempo tòrre
per consigliarse e ’l suo volere esporre,

I baroni del regno fanno vedere all’ambasciatore di Nabone gli scudi dei cavalieri (63-86,4)

63e dice a lui: «Signor, io non saprei
sì tosto a tal messaggio dar risposta,
ma in questa notte a questi baron miei
avrò tutta la cosa innanzi posta,
che nel poco o nel troppo errar potrei
com’uom che d i consigli si discosta.
Doman tutto udirete, e ’n questo tanto
tra i miei vi andrete diportando alquanto.

64Poi gli diè quattro re che compagnia
gli fessero alla mensa e ’n ogni loco,
né mancato gli fu di cortesia,
ch’ivi far si potesse in festa e ’n gioco.
Fangli veder di che grandezza sia
il regno lor, da lui pregiato poco,
poi gli mostran mangiando come abbonda
di cavalier la Tavola Ritonda.

65Mostrangli appresso la cappella dove
gli scudi son de i suoi guerrieri erranti,
ch’è numero infinito e di alte pruove
famosissimi al mondo tutti quanti.
L’ambasciador, che non gli ha visti altrove,
di aver in cor desio mostra sembianti
di conoscerne alcuno, e ’l re Rione,
che l’un de i quattro fu, così gli espone:

66«Quel che in lo scudo ner dorati porta
tre velenosi rospi è Faramondo,
che del gallo terren reale scorta
tiene, a null’altro di virtù secondo.
Voi ’l conoscete, che ’n ferrata porta
chiuso il tenete d’una torre al fondo,
ma speranza ho in Nabon che fia cortese
per rimandarlo tosto al suo paese.

67L’altro che ’n campo azzurro porta d’oro
le tredici corone è il signor nostro,
il magno Artù, che trionfante alloro
merta di quanto fia tra l’orsa e l’ostro.
L’altro, d’aurato e semplice lavoro
senza altro più color è Giron vostro,
che benché sia prigione ha fatto tanto
che d’ogni cavaliero ha il primo vanto.

68Quei c’han tre bande di color vermiglio
poste in loco argentato è il buon re Bano;
porta il medesmo il suo famoso figlio,
Lancilotto, infra i giovani sovrano.
L’altro, che a primavera io rassomiglio
verde e d’altri color tutti lontano,
del re Meliadusse è chiara insegna,
ch’oltra il gran mare in Leonese regna.

69Ma Tristan degno erede a tanto padre
d’oro un leone al natio verde giunge,
con unghie e lingua rosse e le leggiadre
opre paterne co ’l colore aggiunge,
né meno il spron della famosa madre
tanto onorato a gire in alto il punge,
che nacque dal magnanimo Felice,
di Cornovaglia re grande e felice.

70Quel che tutto è là su di puro argento
senza divisa il cavalier il tiene
quel ch’è senza paura, e ’l reggimento
e ’l regno di Estrangorre gli perviene
sol per virtù di core et ardimento,
che di vittoria gli han le man sì piene
che, riputando lui d’impero degno,
Artù l’incoronò di tutto il regno.

71Colui che in nero scudo aurato pinge
con unghie azzurre uno istrice pungente,
è Danaino il Rosso, di cui cinge
spada nessun miglior fra l’altra gente,
che in l’animose imprese non s’infinge,
ch’altro tanto cortese è che possente,
signor di Maloalto amato tanto
che d’esser lui prigion molto s’è pianto.

72Lo scudo aurato co ’l dragone oscuro
è del gran Siguran, che fu figliuolo
d’Ettore il Brun, di cui le forze furo
maggior che in altri sotto al nostro polo.
Quel c’ha in argento il cinghiale aspro e duro
è Balan, gigante ch’oggi solo
due spade porta come Palamede,
però che aver per due forze si crede.

73Quel c’ha tre teste in rosso colorate
di drago in oro, a quei due sopra press
è il buon re Laco, che di verde etate
qui venne, uscito del Peloponesso,
il quale anco in argento gotte aurate
ardì portar, come si vide spesso
quando a più gravi imprese mosse il piede
per diventar di gloria eterno erede.

74E quantunque il costume nostro voglia
che nel compor l’armigere divise
che metal con metallo non si accoglia,
né color con color già mai si mise,
pur ei, per satisfare alla sua voglia,
argento con puro oro in un commise,
dicendo: – Dica pur chi vuol ch’io falli,
ch’io porrò insieme gli ottimi metalli -.

75Quel c’ha in argento tre vermiglie bande
con molte stelle oscure d’ogn’intorno
re Boorte è di Gavve, onde si spande
il nome altero d’ogni lode adorno.
Quel c’ha d’argento una corona grande
messa in color che mostra l’aria il giorno
è il gran re Caradosso, unico specchio
d’ogni eletto guerrier giovine o vecchio.

76Di Securado è quel che pone in oro
un nero scoglio che minaccia in alto.
L’altro ch’è sopra il scudo è di Brunoro,
il nero cavalier che par di smalto,
e ’n tutto il mondo ove guerrier mai foro
non trovò chi reggesse al primo assalto,
cha in argento un lion dritto levato
di neri scacchi e rossi covertato.

77Di Lionel di Gravves è quel bianco
c’ha tre bande di rosso e nove stelle
di color nero; e quel del lato manco
c’ha sei liste argentate accolte in elle
et un lion c’ha in alto il petto e ’l fianco,
con unghie verdi e con vermiglia pelle,
di Amoralto è d’Irlanda,in cui natura
per farlo alto guerrier pose ogni cura.

78Di Presevalle il gallo è quel che in rosso
molte aurate crocette ha intorno sparse,
con un monte d’argento sul cui dosso
una stella oscurata può mirarse.
Del cavalier norgallo, di cui posso
dir ch’a tutti i miglior possa agguagliarse,
è l’altro scudo, che vermiglio vedi
con tre di fera tigre aurati piedi.

79Nel campo d’oro ove una oscura mano
tiene una sanguinosa e fer spada
l’insegna è di Costante, il gran romano,
a cui l’onor più che la vita aggrada.
Il forte Palamede, il gran pagano
che della vera fé trovò la strada,
porta quel scudo che degno è d’impero
poi che tutto è scaccato a bianco e nero.

80Breusso il gran guerrier senza pietate
in nero quel dragon d’argento porta,
per mostrar che veleno e crudeltate
gli sia contro ogni donna eterna scorta.
Ma s’io volessi aver tutte contate
l’insegne che vi son, la notte corta
con tutto un dì saria, ché ben vedete
come carche ne sien queste parete.

81Però che tra le prime e le più nuove
trecento son, di che ne resta in vita
il mezzo almen, che in infinite pruove
mostràr virtude e fé tutta compita,
perché il re Pandragone onde si muove
l’alta cavalleria tanto gradita,
non ammetteva al numero onorato
chi molte palme non gli avea portato.

82Come or segue anco Artù, suo figlio degno,
che non dà luogo a stato né ricchezza,
vuol le forze alte e nobile l’ingegno,
il cor che per onor la vita sprezze,
chi i fieri abbassi, a gli umil sia sostegno,
che el voglie aggia all’altrui bene avvezze,
e che sia sommo albergo e somma sede
di vera cortesia, di pura fede.

83Or perch’io penso ben ch’assai desire
vi stringa di saper di quel scudo alto,
cui mostran tutti gli altri riverire,
ei fu dell’onorato Galealto,
il Brun dico io, che invitto si può dire
s’ei fu vittorioso in ogni assalto,
e ben si può chiamar grande a ragione
poi ch’ei fu precettor del buon Girone.

84E portò seminato in puro argento
stelle infinite del color celeste,
in mezzo un lion rosso in alto intento
con l’unghie verdi a vendicarsi preste.
D’Ettore fu figliuol, che fu spavento
di tutte genti al bene oprar moleste,
da Febo sceso, che la Gallia onora,
sì che ogni chiara lode in lei dimora».

85Mentre parlan così già l’ora viene
che ne chiama all’albergo presso a sera,
menan con quello onor ch’a ciò conviene
l’apportator dell’ambasciata altera
al gran palazzo, ove superbe cene
portate fur dall’infinita schiera
di scudier degni altrove a comandare,
e lì non si degnavan di ciò fare.

86Dopo assai feste lor, dopo assai giuochi
menato in una camera reale
il lassàr sol tra i suoi più fidi e pochi
ove il sonno il preme con le oscure ale.
Venuto il giorno, a i più secreti lochiArtù convoca il consiglio, propone di mandare uno ristretto contingente di cui lui stesso farà parte per recuperare i cavalieri, e intanto di fingere di sottostare alle condizioni imposte da Nabone (86,5-100)
Artù chiamando a sé qualunque vale,
in arme, in senno, in pratica e ’n consiglio
così comincia con doglioso ciglio:

87«Voi potete veder, chiari signori,
a che conduce un re talor fortuna
se in mezzo a mille altezze, a mille onori
in un momento e men la faccia imbruna.
Ieri a quanti mai fur regni e tesori
non degnava io di aver invidia alcuna,
oggi sentendo un tal pubblico danno
mi cangerei con quei che al centro stanno.

88E chi no ’l cangeria, sapendo quanto
vaglin quei sei che peggio son che morti?
Ca’a mio padre et a me giovaron tanto,
che n’hanno a buon cammin fino a qui scorti.
Non so com’io resista a mortal pianto,
né che cosa più sia che mi conforti,
se non quell’una sola invitta speme
che mai non manca infin all’ore estreme.

89Che quando io penso pur che dir si possa:
– Vivendo Artù, Girone e Faramondo
con gli altri quattro in una oscura fossa
han senza gloria abbandonato il mondo -,
non sangue in vena, non midolla in ossa
mi restan certo, e con tutto mi confondo
di dolor, lasso, e con verace dritto
cagione avrò di viver sempre afflitto.

90E chi non sa quanto il buon capo deve
doglia sentir dell’impiagate membra,
né d’esse il mal del suo tener men greve
se del reale ufficio si rimembra?
Che il poter nostro come al sol la neve
si strugge, e rotto e disperato sembra
legno senza nocchier, quel re di cui
son morti i duci o stanno in forza altrui.

91Ma quando voi rimiro e penso quali
e quanti cavalier d’alto valore
sète, che per virtù farsi immorali
cercate, e por le vite per l’onore,
così ben dell’ardir mi crescon l’ali
e la speranza acqueta sì il dolore
ch’io crederei ritor le prede a morte
non che trar sei guerrier di acerba sorte.

92Or accingiamci adunque, e preghiam Dio
ch’al nostro buon voler sua grazia spire.
Tra i cavalier ch’andran voglio esser io
di tutti il primo in arme a comparire,
ma temo che Nabon, quel crudo e rio,
s’oste sì grande si vedrà venire
a i danni del suo popol e del regno
non ancida i prigion per torto sdegno

93Però direi, s’a voi così piacesse,
che senza apparecchiar grandi armi insieme
per quattro o sei di noi s’intraprendesse
ch’assai saranno contro al tristo seme.
Il qual non potrei creder che in sé avesse
valor né cuor, ché le malizie estreme
conducono a viltà chi l’ama e cole,
né virtudi han per suore o per figliuole.

94E mi penso io che in così poca estima
a quel c’ha detto il folle messaggiero
tutti ci hanno oggi al par di quei di prima
che sprezzino ogni giovin cavaliero,
e ciascun ch’ei tenevan su la cima
hanno in lor man legato e prigioniero,
sì ch’ei si piglieranno in giuoco e ’n ciancia
di provarse con noi di spada e lancia,

95et io mi credo pur che ogni uom di noi
saria ben vergognoso e mal contento
di valer men che i padri e’ maggior suoi
di virtù, di prodezza e d’ardimento,
sì come giudicar potran da poi
ch’ei n’avran forse giusto pentimento.
Or a costui risponder loderei
ch’a tutto quel che’ei vuol m’accorderei.

96Ma per intender più la sua richiesta
vo’ mandar quattro miei dove si posa,
i quai gli offeriran pratica onesta
che potrà cara aver e graziosa.
E per salvar i nostri mi par questa
strada sicura e poco faticosa,
né penso io di commetter tradimento
s’io dirò quel che in animo non sento-

97Né mi scuso io, come molti altri fanno,
che non si dèe cercar contro al nemico
più la virtù che l’insidioso inganno,
anzi il contrario apertamente dico,
ch’io vo’ più tosto aver oltraggio e danno
che non servar come obligato amico
all’avversario fede e cortesia,
in qualunque fortuna o buona o ria.

98Ma dico ben che s’io dicessi aperto
ad uom tanto malvagio il mio consiglio,
che de i sei gran signor faria di certo
lo scelerato albergo suo vermiglio,
e mi par non che biasmo acquistar merto
di trar tanto valor di tal periglio,
non con menzogna dir ma con celare
parte al nemico di sì grande affare.

99E quando là saremo, e che condotto
l’avremo in loco ove bisognin l’arme,
se in quel mestier di noi sarà più dotto
a quanto esso vorrà voglio obligarmi,
ma se nella battaglia fia di sotto
giusto sarà ch’ei voglia consegnarmi
quei che sempre terrò padri e fratelli,
e spenderei sei regni per avelli.

100Or voi, chiari signor, vostra sentenza
direte sopra ciò, se vi è in piacere,
manifestando fuor quella eccellenza
che servan dentro a sé l’anime altere.
Poi dimostriam che siam della semenza
di quei che vinser tante armate schiere,
e che la vostra Tavola Ritonda
non men che l’altra di virtude abbonda».

Caradosso approva il consiglio, ma fa presente come un re non debba rischiare la propria vita in prima linea, propone che sia lui a scegliere i quattro guerrieri per non scontentare nessuno (101-115)

101Come tacque il gran re, l’uno e l’altro in volto
muto si guarda, di desir ripieno
di dir che volentier sopra sé tolto
avria d’andare al perfido terreno,
ma poi ch’ei fur così stati non molto,
fece al fin cenno il detto Urieno
al buon re Caradosso che devesse
risposta far di quanto n’entendesse.

102Il qual per ubbidir, levato in piede
con somma riverenza alto risponde:
«O magnanimo re, famoso erede
dell’isola miglior che bagnin l’onde,
poi che a me per vecchiezza ogni altro cede,
ma non già per virtù che ’l Cielo infonde,
scovrirò il mio consiglio a tutti primo
che più fido che saggio meco estimo.

103Ma innanzi a tutto io rendo grazie a quello
dal cui sommo voler tutti ci viene,
ch’io spero il tempo trionfale e bello
più che mai riveder colmo di bene,
da poi ch’io veggio il gran reale ostello
ben fornito di quel che più conviene,
dico del re sovran, nel qual si scerne
degno suggetto di memorie eterne.

104Ch’io non ho senza lagrime ascoltato
il saggio ragionar, l’intenso amore
che portar a chi ’l merta dimostrato
oggi n’avete in sì pietoso core,
e dove lungo tempo sono stato
oppresso d’acerbissimo dolore
morendo il vostro padre Pandragone,
il qual pianger mai sempre è ben ragione,

105sì confortato son del parlar vostro
che mi par poco o nulla aver perduto
vedendo uno altrui lui fatto il re nostro
delle parti ch’egli ebbe a pien compiuto,
che non stato terreno o gemme od ostro
fu in pregio alcun già mai da lui tenuto,
ma virtù, lealtade e cortesia
che in famoso guerrier locata sia.

106E ben m’è sovvenuto, udendo voi,
quando essendo egli ancor pur giovinetto
scritto gli fu che Ettore il Bruno e i suoi
con Galealto il figlio era sì stretto
in Irlanda prigion, né innanzi poi
fu in peggior vita un cavalier perfetto,
ch’ei pianse amaramente e pur volea
trargli esso stesso di tal sorte rea.

107E ’l facea veramente, ma ciascuno
gli de’ veder ch’a re non conveniva,
se fusse stato mille volte il Bruno
andar ei proprio a sì nemica riva,
ma che alla corte sua nutria più d’uno
pien di appresa virtude e di nativa
sì ch’ei potea senza commun periglio
di mandarvi de i suoi prender consiglio.

108S’accordò il sommo re mal volentieri,
pur dando fede al buon ricordo altrui,
vi mandò quattro illustri cavalieri,
io tra lor quinti indegnamente fui,
i re Boorte e Bano aspri guerrieri,
l’Amoral listiense, e chi di lui
non fu men prode l’Abdalone il bello,
e demmo a i peccator giusto flagello.

109E ’n men d’un mese liberati avendo
i franchi cavalier femmo ritorno,
ora la sembianza interamente prendo
da quel dì noi, da questo dì quel giorno,
e tutto espresso in voi riveggio e ’ntendo
gli atti, i pensieri, il dolce dir adorno,
il generoso cor, l’alta pietade
il dritto andar per l’onorate strade.

110Il veder poi che con la vita al paro
i vostri alti baroni avete in pregio,
divin costume veramente e raro
di gran re degno e ’mperatore egregio,
per questi modi all’ornamento chiaro
dell’alta nobiltà s’aggiunge fregio,
tal che divorator tempo rapace
no ’l può mai consumar, ché invitto giace.

111E qual gloria è maggior ch’amar coloro
che inalzan co ’l lor sangue il vostro nome?
Questi de i re son l’unico tesoro,
non le vil gemme o le dorate some,
per questi rai di trionfale alloro
potreste coronar tosto le chiome,
di mezzo il mondo per virtù di guerra,
poi, per timor, del resto della terra.

112Conchiudo adunque, tutto riverente,
che devete mandar tosto soccorso,
come diceste, della nobil gente
che guadagna la preda al primo corso,
ma d’andar voi vi affermo veramente
che questa è poca salma a tanto dorso,
e chi per infinite schiere vale
a contarsi per un si spende male.

113Voi vi trovare, sire, intorno tanti
che volterieno il mondo sotto sopra,
giovini e vecchi cavalieri erranti
c’hanno fido il consiglio e forte l’opra,
e faran, credo, a pruova tutti quanti
d’andare i primi ove il valor s’adopra,
e certo son ch’avrete in ciò cagione
di maneggiar il fren più che lo sprone.

114Ma per levar quistion tra tai guerrieri,
comandate voi sol chi deggia gire,
e ciascun vada o resti volentieri,
secondo che del re vede il desire.
Son tutti sì prudenti cavalieri
che non vorranno a voi contra venire,
né per invidia oppressi all’altrui bene,
né mancare al dever che si conviene.

115Qui finì il saggio re, seguiro appresso
Urieno e Rion, regi onorati,
re Coto, Pelinor, ch’eran lì presso,
poi mille duci e cavalier pregiati,
e confermaro il suo consiglio istesso
che quattro o sei miglior là fien mandati,
ma che ’l gran re si servi a più gran fatti,
et elegga esso quelli a ciò far atti.

Artù accetta, sceglie Palamede, Segurano, Lancillotto e Tristano (116-120)

116Dopo alquanto star tacito rispose
il magno Artù, che dal suo padre udio
ch’un saggio re sopra tutte altre cose
non deve alle ragion farsi restio,
e che ben sempre va chi si propose
credere a i buoni e por la speme in Dio,
e che benché il restar troppo gli doglia
vuol la sua conformar con la lor voglia.

117Oltre seguì: «Da poi che senza sdegno
e senza cruccio averne vi accordate,
chiamerò il numero io non già il più degno,
che tutti grado egual meco portate,
ma quei che mi parrà ch’a questo segno
indrizzi più la forza con l’etate:
Lancilotto sia l’un, l’altro Tristano,
gli altri Palamedesse e Segurano.

118Dirò come io vi mando ambasciadori
a spira di Nabon tutta la voglia,
con poter di concedergli gli onori
ch’a me conviensi e ch’a suo par si soglia.
Voi là più che i retorici colori
cercherete di trar lui della soglia,
condurlo in campo e punir le sue colpe,
in guisa di lion, non già di volpe.

119E come io dissi pria, poi che in mano have
tutti quei che hanno al mondo maggior gloria,
non gli parrà co i suoi soverchio grave
sopra nuovi guerrier aver vittoria,
e se trarrete fuor dell’aspra chiave
sei cotai cavalier, vostra memoria
sarà in oro e in porfiro scolpita
dal gran Giove e da gli uomini gradita».

120Qui fu finito il saggio parlamento,
confermato e lodato senza fine,
né rimase nessun se non contento,
ché ben tutti sapean l’alte e divine
virtù de i quattro, e ’l nobile ardimento
a cui convien che ’l suo minore inchine.
Or fermato il consiglio ogni uom ritorna
dietro al buon re nella gran sala adorna.