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Girone il Cortese

di Luigi Alamanni

Libro XXIV

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.09.15 17:26

Dopo aver ricevuto ricchi doni l’ambasciatore parte con i quattro cavalieri (1-10)

1Già l’ora vien di far divota offerta
del cor a Dio dentro alle sacre soglie,
e, l’onorata porta essendo aperta,
grande e famosa turba a lui s’accoglie,
che riverente innanzi e dopo inserta
mostra ne gli atti le sue fide voglie.
Vanne il gran re nel più solenne tempio
di pia religion porgendo essempio.

2Tornato appresso, poi che in chiari detti
più che in cibi è la mensa giunta al fine,
vien lì condotto da quei molti eletti
l’ambasciador del perfido confine,
al qual il grande Artù, senza ch’aspetti
di lasciarsi tentar a che s’inchine,
il suo regio pensier dice ch’ei vuole
far a Nabon come a gran re si suole.

3Questo è mandargli quattro cavalieri
per onorarlo, e ’ntender poi da lui
se rendendo esso i sei prigion guerrieri
solo il tributo cercherà a i sui,
e se saranno liberi i sentieri
poscia per lo più ch’oggi per altrui,
e ch’egli avranno autoritate espressa
come avria propria sua persona istessa.

4E perché sia di ciò più che sicuro,
andran seco mai sempre in compagnia.
Risponde l’altro, con un volto oscuro,
che non cura omai più come si sia.
Sa ben che s’ei vorrà da luogo oscuro
trarre i sei duci di cavalleria
che adorar converrà Nabone il Nero,
ch’oggi sovr’ogni re si truova impero.

5In questo ragione licenza piglia
e l’accompagna fuor tutta la corte.
Furgli fatte carezze a maraviglia,
onori e cortesia di tutta sorte,
ma quel più che mai tien alte le ciglia,
quasi più inesorabil che la morte.
Mandogli Artù cento cavalli ornati
de i più bei di Brettagna e più lodati.

6Altre tante ricchissime armadure,
con ciò che a cavalier bisogna in guerra,
dorate con bellissime figure
venuti a lui dalla famosa terra
del gran Damasco, ma vie men sicure
che ricche sono ove il bisogno serra,
perché ben vuol mostrarsi alto e cortese,
ma non dar al nemico in lui difese.

7Poi di altri palafreni atti a viaggio
fornì quanti compagni e servi avìa,
di ricche robe al modo lor selvaggio
ciascun l’ispide membra ricopria,
presentate dal re, che come saggio
non vuol lassar l’usata cortesia,
che quanto men gli pregia nel suo core
più mostra lor rispetto e dà favore.

8Partiro adunque, e i cavalieri insieme,
ma non senza esser prima ammaestrati
dal sommo re, che dell’avuta speme
di lor virtù non restino ingannati
quei che gli han cari, e ’nfino all’ore estreme
si ricordin de i padri onde son nati,
e pensin ch’il morir è il manco danno
ch’avvenir possa a quei che in guerra vanno.

9Or se i quattro campion ch’a pena Marte
cederien di valor con l’arme in mano,
rispondono altramente a parte a parte
non si porria contar; al re sovrano
poi dicon: «Vincitori o in triste carte
ci rivedrete, e non ci fia lontano
per tempo alcun di tanta lingua il suono,
sol che Dio de i suoi ben ne faccia dono».

10Già prendono il cammino, e son d’accordo
di mostrarsi ciascun d’animo vile,
a chi parli di lor d’arme fare il sordo
e di codardi usar il proprio stile,
dare sempre qualche basso e stran ricordo
da persona abbiettissima e civile,
e spesso dir che ’l ferro che gli cuopre
è più per apparenza che per opre.

Incontrano due cavalieri che li sfidano a duello: fingendosi vili, i quattro rifiutano (11-29)

11Nel primo giorno alcun non rincontraro,
e pacifico su tutto il cammino.
Al dì secondo in una selva entraro
ove a sei leghe al men non è vicino;
lì Amoratto il gallo ritrovaro,
e ’l norgallo con lui Galigantino,
che si stavano all’ombra a piè d’un fonte
per le membra posar, bagnar la fronte.

12Ben gli conobbe tosto Lancilotto
e i suoi compagni alle scoperte insegne
de i lor scudi, che sospesi sotto
stavan d’un ramo dove il sol non vegne,
che ciascuno era di conoscer dotto
l’arme de i cavalieri indegne o degne
che in la porpora ha il gallo tutto d’oro
un leopardo e di crocette un coro.

13L’altro in porpora pure avea d’argento
con unghie verdi e lingua un lion dritto.
L’uno e l’altro di guerra ha gran talento
per amor disperato non che afflitto,
l’uno e l’altro si leva in un momento
e co ’l dolor ch’ei porta in volto scritto;
monta a caval, e ’l scudo e l’asta prende
e ’nverso questi il ratto passo stende.

14Truovan tra i primi a caso Segurano
che co ’l suo Lancilotto innanzi giva
dopo il saluto con parlare umano
come a cavalleria si conveniva
disse Galagantino: «A ciò che in vano
non passe il tempo, in questa verde riva
rompiam due lance in onorata giostra,
e mostrate qual sia la virtù vostra.

15Voi mi parete arditi cavalieri
a gli atti, all’arme, a tutti i bei sembianti,
ben forniti di lance e di destrieri,
quanto appartenga a i più famosi erranti,
benché gli scudi aver di drappi neri
coperti, come quei che stanno in pianti,
ne toglino il conoscer voi per nome,
ma in guerra non si cerca quale o come.

16Basta che della Tavola Ritonda
crediam che sète, e non fareste falli
ch’alla prima richiesta e non seconda
contro a noi spingerete ambe i cavalli».
Or Seguran, che più di voglia abbonda,
che giovin donna d’amorosi balli,
d’oprar arme ad ognor, sente gran duolo
di negar il far quel ch’egli ama solo,

17ricordandosi pur che convenuto
era con gli altri di mostrar viltade
per apportar vie più sicuro aiuto
al buon Giron dalla sua prima etade,
in amor sempre e riverenza avuto
da lui per due cagion possente e rade,
la virtù prima, e giunto il sangue poi,
ch’era il più stretto tra i parenti suoi.

18Però che Seguran d’Ettore il Bruno
il maggior uom che fusse, figlio nacque,
della cui sovra uscito mai nessuno
amò più d’esso, e nel suo albergo giacque
il pio Girone, et altro padre alcuno
mai non conobbe, e di seguir gli piacque
dopo lui sempre il frate Galealto,
sotto il cui guerreggiar si fe’ tanto alto.

19Or quella carità, quel vero amore
temprò il voler di Segurano audace,
e risponde al guerrier ch’aveva in core
per allor tutto bene e tutta pace,
e che gli par frenetico furore
e che sopra ogni vizio gli dispiace
scherzar co i ferri in man con uom che mai
non ti portò, ch’io pensi, danno e guai».

20E che stima costume discortese
disfidar un che va per suo cammino,
cerchi ciò far contro a chi già l’offese,
e s’ei può il faccia misero e meschino.
Non si può dir se gran piacer ne prese
sentendo tal parlar Galagantino.
Ma Tristan già sorgionto e Palamede
non potean per le risa star in piede,

21che san di Seguran l’alta prodezza
e quanto è di natura impaziente,
c’ha nelle guerre la parola avvezza
ad accettar l’invito incontinente,
e veggion l’altro che in suo cor lo sprezza
sì come un rio guerrier che val niente,
e san che se ben l’altro molto vale
a Segurano il Bruno è men che eguale.

22Il guerrieri che si sente la battaglia
rifiutata da quel con tai ragioni
gli dice: «Io penso, ben che in legge vaglia,
più di voi nessun dotto, e sia de i buoni;
ma vorrei ben, se per la piastra e maglia
ch’io vi veggio ora intorno a quai cagioni
vestite il giorno, che non ha periglio
chi prende com’or voi dritto consiglio».

23«Io ’l fo» risponde Segurano allora
«per metter tema a chi di fuor mi mire,
ma s’egli avvien sì come m’avviene ora
che di provarmi alcuno aggia desire,
tosto le leggi e ’l senno mando fuora,
e so tanto parlar ch’ei si ritire,
sì come io credo, al fin che voi farete
poi che mostrato ardito vi sarete.

24E per dir proprio il ver, quando io pur reste
per vostra ingiusta man prigione o morto,
che degna opra aver fatta pensereste?
ch’aver sudato assai per farmi torto?
Quei che rubando van per le foreste
con vie men da biasmar, e ’l veggio scorto,
ch’ei privan l’uom di cose che per poco
se ne può ricovrar in altro loco.

25Ma voi per una vostra gloria vana
e la vita e l’onor cercate torme:
qual cosa è più dal viver ben lontana
e più contraria alle lodate forme?
cercar la ragion vostra e la strana
qual lupo suol dietro alle gregge e torme
sol per vantarse in questo loco e ’n quello
d’esser all’uman seme empio e rubello?

26Or lasciate questa arte signor mio,
e lasciatemi andar, ch’io ve ne prego,
e se in arme m’avrete per uom rio
ditelo sempre pur, ch’io non vel nego».
Vuol passar oltre poscia, e dice a dio,
e l’altro gli replica: «Io non mi piego»,
poi per gioco lo prende al collo e stringe,
ma Seguran maggior temenza finge.

27E mostrando voler da lui staccarse
cotal possanza il cavaliero scuote,
che le forze gli furo in guisa scarse
che la sella e le staffe lasciò vòte,
né seppe nel cader tanto aiutarse
che della testa al fin l’erba percuote.
No ’l guarda Seguran, ma innanzi passa,
e l’altro in terra svergognato lassa.

28Il vecchio ambasciatore con tutti i sui
pensan che quel cader sia stato a caso,
ma il fero Lancilotto e gli altri dui
che già per le sue man più d’un rimaso
n’avean veduto a tal, dicon: «Costui,
oltr’a di ogni virtude essere un vaso,
è tal che gran miracolo anco è stato
che ’l caval non sia seco riversato».

29Spronano innanzi, e i due, fatti più saggi,
restano indietro di vergogna tinti,
fra lor dicendo: «Gran disavvantaggi
han quei che dal voler corrono spinti.
Visti aviam di costui sì duri saggi
che ci possiam chiamar battuti e vinti»,
e chi il fa Lancilotto e chi Tristano,
né mai sovvenne lor di Segurano.

Trovano un cavaliere legato, evitano ancora di duellare (30-46,4)

30Passaro il giorno e null’altre avventura
lor ritardò il cammin, infin che giunti
sono all’albergo ch’era notte oscura,
di fame tutti e di lassezza punti.
Posan la notte, e poi che chiara e pura
surge l’aurora in candidi trapunti,
ritornano al viaggio freschi e carchi
questi, e quei quattro di tristezza carchi.

31Allor che ’l sol divide pari il giorno
a canto un fiumicello in una valle
donano a i lor cavai verde soggiorno,
presepio un prato et arbori per stalle.
Lì Palamede, riguardando intorno,
vede, ove il bosco più ristringe il calle,
un cavalier poggiato con le schiene
ad un troncon legato a più catene.

32Le gambe ha stese, e tutto armato siede,
ma non si può servir di mani o braccia.
Questo scorgendo, il forte Palamede
si raccomanda, e con pietosa faccia
gli dice: «O buon signor, per quella fede
che con la carità tutti n’allaccia,
per la cavalleria che ne costringe
d’alzar gli oppresso et a virtù ne spinge,

33non mi lassate in man di questa fera,
che così chiamerò quello infedele,
il qual, perché a mio padre nemico era,
né poté contro a lui farsi crudele,
così indormito ier, poi che fu sera,
ritrovandomi qui con tristo fele,
pria ch’io ’l sentissi mi legò sì stretto
che m’è stato di poi la mensa e ’l letto.

34E se non vi sentiva, io son ben certo
ch’ei m’avrebbe or miseramente ucciso,
e l’arme ascose poi dentro al diserto
e non se ne saria vantato o riso,
perch’ei sa bene il gran valore aperto
d’un mio fratel, che mai da me diviso
esser non suol, ma il Ciel, che così volse,
tre giorni son di compagnia me ’l tolse.

35E se non mi trovava in cotal modo
non mi avria fatto il torto che vedete.
Ma che sol mi sciogliate il crudel nodo
voi stesso testimon me ne sarete,
e tra quanto aggia mal m’allegro e godo
che al men tai cavalier come voi sète
possin montar in che fortuna oscura
al fero Cavalier Senza Paura.

36Lasciaro il figlio che Brunoro il Nero
e guerrier della cotta mal tagliata
detto è fra gli altri, e non da cavaliero
ha la vita in catene abbandonata;
e chi non pensi pur che ciò sia vero,
guardi l’insegna all’arbore attaccata:
nello scudo d’argento un lion rosso
pien di scacchi oscurati il ventre e ’l dosso».

37ben san ch’ei dice ver quei che ’l miraro,
e n’han quella pietà che si conviene,
ma mentre ei narra tutto il caso amaro
ecco un guerrier che tutto irato viene,
dicendo a Palamede: «S’ei t’è caro
più che ’l tuo come mostri l’altrui bene,
ne potresti portar rotta la vesta
e squarciata in più luoghi anco al testa.

38Piglia lo spazio pur per la battaglia,
e chi vorrà pensar ch’io feci male
proverà tosto come ferro e maglia
sotto la spada mia niente vale.
Or se la tua virtù la vista agguaglia,
tosto il vedremo se mi vieni eguale».
Riguardal Palamede, et al sembiante
ben riconosce il tartaro Ferrante.

39Che così nomato era, e nello scudo
vermiglio con nere unghie porta un orso,
dorato tutto, e molto fero e crudo
avea menato di sua vita il corso.
Or Palamede, che si sente nudo
d’occasion da poter dar soccorso
al miserello, e non vorria lasciarlo,
roder si sente di pietà dal tarlo,

40e risponde al guerrier: «Matto sarei
a prender per altrui dannosa guerra,
ma ben quanto più so vi pregherei
a scior costui dal laccio che ora il serra,
e no ’l lasciar morir come i più rei
di fame o di dolor corcato a terra,
e ciò facendo mi parria di avere
a voi non men ch’a lui fatto piacere.

41Ch’a dirne il ver mi par che più gran torto
fate a voi stesso ch’a quello innocente:
ei quando fia così del tutto morto
fatto avrà quel che fa tutta la gente,
ma per voi fia perpetuo disconforto
che mille volte il dì vi torni a mente,
uccisi un cavaliero a tradigione
fuor del dritto costume e di ragione.

42E se ben per timor io non combatto,
non resterò per ciò di voi biasmare,
però che a dirvi il vero io son nato atto
vie più ch’a far con l’arme a ragionare».
Or l’altro divenia peggio che matto
sentendo quel che non potea negare,
e tutto irato con furor si getta
vêr Palamede, e far ne vuol vendetta.

43Ma quel, mostra facendo di paura
saltò con incredibile destrezza
dall’un de i lati a terra, e con sicura
mano a conducer maggiori opre avvezza
prende le gran catene, che di dura
tempra di ferro sono, e quelle spezza
con facilità che donna suole
filo alla rocca ove altro fuso vuole.

44Quel ch’è disciolto e che sel crede a pena,
fu tosto in piedi, e ’l suo caval, ch’è presso,
prende, e vi monta in men che non balena,
lo scudo piglia e la sua spada appresso,
e ’ncontro a l’altro sbigottito mena
colpi che l’avrian tosto a morte messo;
ma no ’l consenton gli altri e Palamede,
e gli fan tregua far su la sua fede.

45Partonsi appresso, e i due che son rimasi
e c’han veduta tanta maraviglia,
confessan d’aver visti assai gran casi,
ma questo a gran miracol si assimigila:
guardan quelle catene, e dicon quasi
ch’ove il ferro si batte e s’assottiglia
nel foco che l’incude e che ’l martello
non avrian d’esse fatto un tal flagello.

46E per ciò che non san ch’egli è prigione
s’accordano infra loro che costui sia
il forte e formidabile Girone,
che volentier si cela in ogni via.
Ma già imbrunisce intorno la stagione,Aiutano una donzella sempre senza combattere (46,5-57,4)
già i quattro e la selvaggia compagnia
posan la notte, e nel mostrarse il giorno
al proposto cammin fanno ritorno.

47Là verso il mezzo dì givano insieme
Lancilotto e Tristano innanzi a tutti;
truovano una donzella ch’alto geme,
presso al cammino in angosciosi lutti;
l’uno e l’altro di lor tal pietà preme
ch’a pena hanno servati gli occhi asciutti,
sì come i gran guerrieri innamorati
per fuochi realissimi e lodati.

48Quel della Bionda altissima consorte
del magnanimo Artù lor re sovrano,
Ginevra detta, per cui varia sorte
passò nel proprio e nel paese estrano,
né volse cavaliero in quella corte
esser creato mai per altra mano
che per quella bianchissima di lei,
spregiando non che il re gli antichi dèi,

49Tristan di quella che in Irlanda nata
fu del re Marco in Cornovaglia sposa,
ch’Isotta era la Bella nominata,
non men che vaga onesta e graziosa,
per la qual venne più d’una fiata
in avventura acerba e perigliosa,
e mille palme riportò sovente
e si fece terror dell’altra gente.

50Or di queste due tai la rimembranza
svegliò più in lor la carità nativa,
e le fan di saver cortese instanza
qual sia cagion che di dolcior la priva.
Et ella: «Ogni mio bene, ogni speranza
perduta ho sì ch’io non so ben s’io viva,
ch’un cavalier ch’amai più che ’l mio core
m’è stato tolto, ohimè, non son molte ore,

51che dieci cavalier ch’ivi entro stanno»
e mostra loro una grande ombroso speco
ove per bassa e stretta porta vanno
gli abitator, e poi del resto è cieco,
«il mio baron tradito e ferito hanno,
e mi condusser qui per forza seco.
L’altro, meschin, lontan poco è rimaso,
et io sto, lassa, a pianger il suo caso.

52Ma s’io potessi aver qualcun ch’a bada
tenesse quei crudeli un’ora almeno,
Amor m’insegneria sì ben la strada
ch’io tosto spererei d’essergli in seno».
Or se i guerrier potesser lancia e spada
oprar come soleano in quel terreno
bastava un mezzo a trar colei di duolo,
s’ei fusse anco in tre doppi il tristo stuolo.

53Ma mentre ognun de i due pensoso e tristo
si mostra, e ’ncerto come il deggia fare,
guarda il forte Tristano, e presso ha visto
un grossissimo sasso, che a guardare
lucente appar come di marmo misto,
ma venti o molti più d’indi portare
no ’l porrian certo di quel ch’oggi sono
più possenti fra noi del numer buono.

54Quel scorto a pena, il cavaliero audace
da caval salta, e con le braccia il prende,
come un picciol troncon sovente face
quel che i legni nel bosco taglia e fende,
ch’a far carboni o ch’a scaldar fornace
per nutrir la famiglia il tempo spende,
e cento passi o più lontano il porta
e del speco ove son chiude la porta.

55E la chiude sì ben che del sol raggio
non vi può penetrare e ’l giorno è mezzo.
Al romor grande, il popolo selvaggio
tosto è svegliato, e si ritruova al rezzo.
Cercan d’aprire il chiuso lor viaggio
e torlo d’indi, ma, provati un pezzo,
s’accordan tutti al fin che più di cento
sieno stati condurlo a grave stento.

56Poi ch’ebber riso et ascoltato alquanto
chiamano i cavalier la pia donzella,
la quale in gioia avendo volto il pianto
era tornata oltr’a misura bella.
Fannole compagnia verso quel canto
che mostrò loro, e fu la strada quella
medesma che faceano, e ’n poco d’ora
la rendero a colui che l’ama e plora.

57Seguitato il cammin, giungon la sera
a buon alloggiamento e ben fornito,
ove la notte passa e vien la sfera
del sol a rischiarar l’indico lito.
Ritornano al viaggio, del qual eraLiberano un ponte da un cavaliere malvagio fingendo di averlo battuto per caso (57,5-78,2)
presso che ’l mezzo ad esser ben compito,
né truovan cosa di tre giorni degna
che per inchiostri altrui notizia vegna.

58Però ch’aspri diserti e folti boschi
sono ove raro stampa l’uman piede,
valli profonde, tutti o monti foschi
ove chi passa un giorno mai non riede,
né molto più che gli insensati e loschi
con tutti gli occhi d’Argo ivi si vede.
Così corcato già il decimo sole
truovan miglior paese ch’ei non suole.

59Che dopo una larghissima montagna
veggion aperto e fertile il terreno,
e vaga una amenissima campagna
che mille bei castelli e ville ha in seno.
In mezzo un lago riccamente stagna,
ond’esce un fiume di chiare acque pieno,
che così lieti fanno e bella vista
che pon ben ristorar la strada trista.

60Vengono ove varcar conviene il fiume
per traversar da poi per altro monte;
truovan ch’ivi era un molto rio costume,
che venti cavalier guardano il ponte,
sì che o d’aver convien qual uccel piume,
o ritrovarse ad uno ad uno a fronte,
chi gli vince passar può poi sicuro,
chi no si alberga in carcer sempre oscuro.

61Giva per sorte innanzi Lancilotto,
tutto ne i pensier fiso e tutto solo,
né pon cura a guardar non che a far motto
il capitan di quello armato stuolo,
il quale era d’Orcania e del re Lotto
figliuol, che tanto in alto alzava il volo
di tenersi più d’altri valoroso,
che Gravino era detto l’orgoglioso.

62Bello era e grande e di possenti membra,
nell’arme ardito, bene addritto e forte,
ma di tanto gran merto esser gli sembra
che dispregiava ogni uomo e d’ogni sorte,
e co ’l vantarsi tanta gloria assembra
ch si faceva odiar più che la morte.
Saluta Lancilotto in aspri detti
come far gli volesse onte e dispetti,

63parlando: «Or dove vai stolto guerriero,
che non guardi a colui che tanto vale,
e ch’è degno di aver tutto l’impero
di quanto sia divin non che mortale?
Volgiti a me, che farti certo spero
della possanza mia con tuo gran male,
che ’l passar questo fiume è di più costo
che non quel di Acheronte in basso posto.

64Ma se l’arme e ’l caval dar mi vorrai,
ti farò grazia che tu ’l passi vivo,
e di non darti più dogliosi guai
che tenerti prigion dell’aria privo;
ma se ostinato a me ti mostrerai,
ti tratterò come un tuo par cattivo,
che ti farò saltar la testa in alto
che di Fetonte il carro fe’ men salto».

65Alle altere parole il pensier desta
il franco Lancilotto, e ’l guarda in volto,
ma l’elmo chiuso l’adito non presta,
onde a mirar lo scudo s’è rivolto,
là dove sta con geminata stella
l’uccel di Giove tutto aurato, accolto
in campo porporin con una benda
che verde attraversata in mezzo il prenda.

66Il riconosce subito e sa bene
quante ha in arme valor, che l’ha provato
già mille volte, e sa quanto si tiene
vie più di quel che d’altri era pregiato.
Dicegli umil: «Signore, e’ si conviene
la cortesia vie più che in altro lato
in uom che sia tra i cavalieri il primo,
sì come avete detto et io vi stimo.

67Servate questo orgoglio e crudeltate
verso un che contro a voi superbo sia,
e chi come io vi prega or il lassate
andar sicuro alla sua dritta via,
perché tra le virtù le più lodate
va innanzi caritade e cortesia,
fortezza è poscia, ch’esser deve intesa
al difender i buon, non all’offesa.

68Come potete voi gran lode avere
di torne il passo che il cammin fa breve,
sapendo ancor che nessun vuole avere
con voi quistion, né fia noioso o greve,
e vi lascia la palma in man tenere,
e di chiamarse vinto avrà per leve?
Consigliatevi meglio, e ’n altro tempo
cercate guerra, che sempre è per tempo».

69Tutto ciò Lancilotto in guisa dice
ch’ei fa crescer la collera a Graveno,
e gli risponde: «Per questa pendice
ov’è sotto di me l’onda e ’l terreno,
a codardi guerrier passar non lice,
se non co i piè discalzi e nudo il seno,
o s’ei vorrà tentar dell’arme forza
certo ei si spoglierà l’umana scorza».

70«Ah,» dice Lancilotto «io pur vorrei
gir oltre armato co ’l cavallo e vivo,
come io farò, piacendo a i sommi dèi,
di farvi alquanto di durezza privo,
e ve ne adorerò come farei
un tempio qual più sia sacrato e divo.
Or lassa temi adunque, che all’Atlante
già volge il sol, e ’mbrunir fa levante».

71E così ragionando il passo muove
verso il ponte ove stan venti guerrieri,
ch’aspettan far maravigliose pruove
e non men del signor si mostran feri.
Graven, che ’l vede, s’attraversa dove
va Lancilotto, e lui con atti alteri
spaventa, ch’ei si fermi o torni indietro,
o gli sarà come martello al vetro.

72Non ebbe il cavalier più pazienza,
ma senza lancia aver né trarre spada
punge il caval con tanta violenza
che forza è che Gaven per terra vada,
Passa a lui sopra, e mostra aver temenza
cotal di lui ch’a rimira non bada,
ma correndo urta nella stretta schiera
ch’a guardar stava il ponte e la riviera.

73E con tanto furor tra quei percuote
che nel fiume n’andò la maggior parte,
ove chi viver vuol convien che nuote
che ’l caval al cader fugge in disparte.
Altri hanno al secco le lor selle vòte,
né di più rilevarse han forza et arte,
onde il ponte restò sì scarso e solo
che Lancilotto l’ha trascorso ha volo,

74mostrando che ’l destrier non cure il morso
e che ciò fatto sia contro a sua voglia.
Graven, che sé per terra e ’l suo soccorso
peggio esser vede, si moria di doglia,
e fra sé pensa pur come sia corso
quel cavalier per la guardata soglia,
e con Tristano e gli altri sopragiunti
finge in sua scusa mille falsi punti,

75c’ha debole il caval, che male intento
era al fermarsi contro al fero intoppo,
e che di offender lui nessun talento
aveva, e che ’l guerrier s’avanzò troppo,
e ch’esso per ridursi a salvamento
ben s’è fuggito più che di galoppo,
ma se ’l può ritrovar farà vedere
che non è molto usato di cadere.

76Dicongli allor Tristano e Sicurano
che non è maraviglia se tal volta
cade un guerrier quantunque sia sovrano
e ch’abbia in core ogni prodezza accolta,
ma che ringrazi Dio di restar sano,
che ’l troppo contristarsi è cosa stolta,
e che ’l compagno lor sol per paura
cagion gli fu di tal disaventura.

77Graven, benché conosca ch’è schernito,
di creder mostra e più non ne ragiona,
perch’era del cader tutto smarrito
che far non penseria più cosa buona.
Lancilotto, poi ch’è d’altro sito
segue il viaggio, ma sì lento sprona
ch’ei fu da i suoi compagni tosto giunto,
non essendo ei dal ponte assai disgiunto.

78Ridon del caso e ch’avvenuto fosse
a chi d’orgoglio ogni altro superava.
In questo tutte già lucenti e rosseArrivano al regno di Nabone e vengono presi per vigliacchi: sono invitato a una grande giostra (78,3-99)
le stelle in ciel la notte rimenava,
già fido albergo e commodo trovosse
dentro una villa che vicina stava,
dove passata la stagione oscura
di dar fine al cammin riprendon cura.

79E seguitaro ancor tre giorni appresso
senza più ritrovar ventura alcuna,
il quarto scuopron l’alto monte stesso
che il loco chiude ch’ogni vizio aduna,
per lo stretto sentier che tanti ha messo
in trista et scurissima fortuna
van poi cinque ore, e passano indi il calle
che dà principio alla funesta valle.

80Truovan aperta la ferrata porta,
la qual, poi che passati tutti sono,
co ’l grave contrappeso che la porta
ritorna in basso con orribil suono,
che fatta avrebbe di timore smorta
la faccia a quel che in ciel sprezzano il tuono;
ma i quattro cavalier non si degnaro
volger pur gli occhi, e ’nnanzi camminaro.

81Guardano i cavalier la valle aprica
ch’esser non può più verde né più amena,
con un bel fiumicel che i campi intrica
serpendo in giro e ’l bel cristallo mena,
dei campi Elisi la memoria antica
par che rappresenti, e l’aria è sì serena
e sì dolce il cantar de gli augelletti
che Cipro avanza e i vaghi suoi diletti.

82Truovan tra i fiori spessa turba e degna,
per quel che mostra di supremo onore,
giacersi all’ombra ove Favonio vegna
a dar ristoro alle più fervide ore;
questi son quei che per prigione indegna
avean quel loco, e carchi di dolore
sospiran notte e dì la sorte acerba
ch’a tanto perduto ozio gli riserba.

83Ivi erano e di Logre e di Norgalle
e di Noromberlanda e d’altri lochi
cavalier molti, che mai dier le spalle
a i lor molti nemici essendo ei pochi.
Or son condotti in quella chiusa valle
a consumare il tempo in cacce e ’n giuochi,
in pescar, in dormir, in tristi canti,
dogliosi e fatti della morte amanti.

84Ma però che non son de i più famosi
come Girone e gli altri han libertade,
prender sollazzo per quei liti erbosi,
pur che non truovin poi d’uscir le strade;
gli altri maggior tenuti ascosi
sì che pregiate più son loro spade,
stanno stretti in prigion, che Nabon teme
sciolta lasciar tanta virtude assieme.

85Or quei, quantunque l’abito mutato
aggiano e ’l volto, e gli atti di tanti anni,
Tristano e gli altri pur raffigurato
n’hanno più d’uno, e piangono i suoi danni,
la presa turba ancor dall’altro lato
quei riguardando, carca il cor di affanni,
riconoscendo ben all’arme e i gesti
che cavalieri erranti fusser questi.

86E dicevan tra lor, certo pensando
ch’ei dovesser prigion lì rimanere:
«Oggi entran, lassi, ma non sanno quando
deggiano uscirne, e i suoi più rivedere».
Ma i quattro cavali, che posto in bando
hanno il sospetto e non saprian temere,
arditi van pensando come e dove
lor tocchi a far le destinate pruove.

87Appressansi al castello ultimamente
ove il fero Nabone il seggio tiene,
ch’è di tutto informato largamente
e della ambasceria ch’ad esso viene
manda a ’ncontrarla assai solennemente
come a chi l’inviata si conviene,
poi dentro alla sua sala in atti alteri
accoglie insieme i quattro cavalieri.

88E sì come è de i più gran re l’usanza,
che per quattro o sei dì allegre cose
si tratta solo, e fassi a sua possanza
carezze e feste amabili e gioiose
d’arme e di cacce, o che si suona e danza
tra giovinetti vaghi et amorose
donne, mostrando aperte sue ricchezze,
che chi le vede poi le tema e prezze,

89e seguendo ei lo stile il dì secondo
ordinar fece un ricco torneamento
di tutti i suoi, ch’ei pensa che nel mondo
non aggian par di forza e d’ardimento,
e gli par minacciar che tosto al fondo
metter potrà, quando n’avrà talento,
Artù co ’l regno suo, se di tributo
non sia seco per pace convenuto.

90E tanto più l’immagina, ch’udito
ha raccontar da i suoi che nel viaggio
nessun de i quattro mai fu tanto ardito
di giostrar sol, se ben n’avea vantaggio,
ma chi l’ha rifiutato e chi fuggito
come un monton faria lupo selvaggio,
sì ben che il folle per beffar disegna
che seco alcun di loro a incontrar vegna.

91Venuto adunque il dì, son giunti armati
ben quattro mila o più de i suoi vassalli,
con ricche sopravesti e bene ornati,
sopra alti e potentissimi cavalli,
perché oltr’a i luoghi ch’ivi tien serrati,
ha sotto il regno suo molte altre valli
ricche e ben populate, e che con fede
per signor l’hanno e drittamente erede.

92Esce egli appresso poi con mille intorno
de i cavalier che son di sua magione,
e stan per guardia sua la notte e ’l giorno
con larga et onorata pensione.
D’arme vaghe et aurate viene adorno
con mille gemme in fronte e tre corone,
e per insegna in argentato scudo
tre sanguinosi fusi porta il crudo.

93Venuti al loco che innanzi al castello
sopra amplissimi prati è destinato,
ch’alla destra d’un chiaro fiumicello
di profondissima acqua terminato,
un altissimo muro forte e bello
tutto il riserra dal sinistro lato,
in fronte a lui risiede un verde bosco
per foltissime piante ricco e fosco.

94Esce co i mille suoi fuor della porta,
gli altri infiniti sotto il bosco stanno,
e di lor mandan fuor picciola scorta
e già principio alla lor festa danno,
contra la quale il re con la più accorta
gente di quei ch’armati con lui vanno
tosto che vista l’have il passo muove
e s’ingegnan di far lodate prove.

95E le fecero in ver, perché Nabone
fu molto forte, e forma ha di gigante;
ma non eran da porre al paragone
di quel che in Logre suol la schiera errante.
Or non molto durò la lor quistione
che gli avversari suoi volser le piante,
più per adduzion che per timore
ch’ei mostravano aver del suo signore.

96Il qual, come ver fusse, in tal fierezza
montato è già che con gran voce chiama
i quattro cavalier che tanto apprezza
come lione una corrente dama,
e gli invita a venir per gentilezza
sì come alti signor che cercan fama
a romper quattro lance e della spada
mostrar come ella punge e come rada.

97Or quei, che di null’altro hanno desio,
e ch’all’occasione erano intenti,
fingon da prima alquanto del restio
poi, ripregati, vanno a passi lenti,
dicendo a lui ciascuno: «Il mestier mio
più saria di consigli e parlamenti,
ma per non contradire a tanto duce
a ciò provar il debito n’induce».

98E perché san come i profeti han detto
che della region di Leonese
uscir devea quel cavalier perfetto
liberator del perfido paese,
fu l’ardito Tristan da gli altri eletti,
et esso volentier la cura prese,
di Nabone assalire, e quello stuolo
con Segurano il suo compagno solo.

99Lancilotto devea dall’altra parte
con Palamede alla infinita schiera
donar l’assalto là dove in disparte
sta presso il bosco e lunge la riviera,
di cui Nabone il fello, che par Marte,
il nipote del grande il lor duce era,
e di ciò insieme risoluti affatto
principio danno all’animoso fatto.

Tristano uccide Nabone e Natan mentre Palamede tiene occupata una grande schiera (100-135)

100Ma chi potrà già mai senza l’aita
tua, sacra Musa, con la voce a pieno
de i quattro cavalier l’impresa ardita
sì ben cantar che non ne conti il meno?
Pur il gran re, ch’a ragiona m’invita,
perdon conceda al mio poter terreno,
e pensi il resto in sé, che con l’ingegno
penetra il Ciel, non che ’l prescritto segno.

101Ora ad un cenno sol l’invitte coppie
spronano audaci, ma in contrari lochi,
l’uno ove son per quattro volte doppie
le genti, e l’altro a quei migliori e pochi.
Non fan verso l’Autunno per le stoppie
tanto danno e romor gli accesi fuochi
che di suon crepitando empiano il cielo
scurando al fumo il bel signor di Delo.

102Del scudo han l’oscurissime coverte
lontan gettate, a ciò che quei prigioni
ch’intorno son le chiare insegne aperte
vedendo, di allegrezza aggian cagioni;
di vermiglio e d’argento bande inserte
mostra il gran Lancilotto, il re de i buoni,
Tristano in verde un leon dritto aurato
con unghia e lingua in rosso colorato.

103Gli scacchi Palamede bianchi e neri,
Segurano il dragon del bruno scoglio.
Quattro folgor di guerra i cavalieri
sembran per atterrar di noi l’orgoglio,
pur sempre in ogni impresa invitti e feri,
ma in questa arditamente creder voglio
che soprumana Dio diè lor virtute
per procacciar al suo Giron salute.

104Tristan verso Nabon gridando sprona:
«Or punirò le tue malvage colpe,
poi che ’l Cielo in campagna mi ti dona,
ove è vano il mestiero usar di volpe.
L’alma che ’l ben oprar cruda abandona
tosto spogliata fia d’ossa e di polpe,
e resteran di lupi e di can preda
perch’al giusto voler là su si creda».

105E ’n questa con al lancia a punto il prende
tra i sanguinosi fusi nello scudo;
entrato è il ferro, e nella spalla scende
la passa al tutto com’ei fusse nudo,
e ’l gran corsiero e lui per terra stende
sì che non ebbe mai colpo sì crudo.
Il buon guerrier, ritratta c’ha la lancia,
ove son gli altri con furor si lancia.

106E sette abbatte l’uno a l’altro appresso,
tre percossi aspramente e quattro morti.
Poi, preso il brando, va dove più spesso
il popol vede e i più feroci ha scorti;
sì gravi mena i colpi e così spessi
che cento o più che mal son poi risorti,
in men ch’io non lo scrivo abbatte come
villan d’ottobre le mature pome.

107Ma mentre ivi travaglia, il Nero in tanto
rimontato era con l’aiuto altrui,
e benché si truovi rotto e ’nfranto,
intende vendicarse contro a lui.
Tosto il ritruova, e dice: «Del mio pianto
molto non riderai se quel ch’io fui
Nabon son ora, e se la spada mia
quello istesso che suole anco oggi fia».

108E gli dà tal fendente su la fronte
di dietro ove Tristano veder non puote
che ben gli parve sopra avere un monte,
e fe’ tutte tremargli ambe le gote.
Chinò giù il capo, e prima che ’l rimonte
il collo al suo caval quasi percuote,
ma benché intenebrato aggia il cervello,
pur si rivolge a lui feroce e snello,

109dicendo: «E ben sapea che in questa valle,
la qual di tradimenti è il proprio nido,
più ch’alla fronte aver cura alla spalle
conviensi, e tale al mondo corre il grido,
ma pria che varche di Marocco il calle
Febo e che imbrunisca il nostro lido
ti farò certo, e così spero in Dio,
de i tanti falli tuoi pagare il fio».

110E così detto sopra l’elmo il fère
con tal ira e furor che se non fosse
che quattro insieme delle avverse schiere
tutti in un tratto con estreme posse
battongli il braccio sì che nel cadere
il brando con meno forza lui percosse,
in un momento sol fatto gli avria
quanto in un mezzo dì gli promettia.

111Ma non sepper sì far che morto quasi
non restasse il gigante per l’angoscia.
Tristan, per evitar più tristi casi,
ricolto a gli altri a chi braccia, a chi coscia,
a chi la fronte toe, fin che rimasi
son pochi intorno, et ei libero poscia
pur ritorna a Nabon, che risentito
il ritorna a ’ncontrar co ’l core ardito.

112Fu il primo esso a donar al buon Tristano
sopra la destra spalla presso al braccio,
e ’l ferì sì che alla possente mano
non fu poca cagion di grande impaccio.
Or s’all’invitto cor ciò pare strano
dir non potrei che come al foco ghiaccio
si strugge di dolore e di vergogna,
e vincere o morir del tutto agogna.

113E ’n guisa che talor salvatico orso
c’ha molti cani intorno e a quello e a questo
poi che più volte irato sopra è corso
né con tutti esser può possente e presto
ch’al fin s’addrizza a quel che l’ha più morso
e lui prende pel collo e sprezza il resto,
e per condur quel solo a morte oscura
di quanti altri ivi son niente cura,

114tal il guerrier, che gli altri disprezzando
sopra il fero gigante è volto solo,
dagli sì forte co ’l pesante brando
che gli facea sentir mortale il duolo;
pur ei ferendo si difende quando
intorno ivi de i suoi vede lo stuolo,
che da tanta fatica al pio Tristano
che de i colpi ch’ei dà son molti in vano.

115Sembran quei che a lui sopra in cerchio stanno
percotendo chi dietro e chi davante,
quando i ciclopi con più fretta vanno
le divine saette al gran tonante,
che gravissimi colpi a pruova danno
del gran martello orribile e pesante
nell’affocato ferro e nella incude,
con le membra e le braccia aperte e nude.

116Ma il cavalier, che teme pur sovente
che la gran quantità non sia dannosa,
gli dona un colpo e fu così possente
che gli fa l’aria oscura e nebulosa.
Poi ne dona quattro altri incontinente
l’un dopo l’altro, per non dargli posa,
tanto ch’ei pensa, anzi n’è certo omai
che per farlo morir sien stati assai.

117Perché in due parti la squarciata testa
su l’una e l’altra spalla aperta vede.
Cade il gran busto fra al gente mesta,
di scoglio in guisa che pendente assiede
sopra alpestre torrente che ’l molesta
fin che gli ha roso ove s’appoggia il piede,
ond’ei con alto orribile fracasso
spaventando i pastor rovina al basso.

118E ’n ver se Segurano, il guerrier forte,
non fusse corso a dar dovuta aita
al suo compagno, non sì tosto a morte
quell’anima crudel sarebbe gita,
che la spietata gente di tal sorte
a i danni di Tristano ivi era unita,
ch’egli avria ben durata altra fatica
se ben fortuna e la virtù gli è amica.

119Ma il fido amico, al gran bisogno accorto,
tanti ha d’intorno uccisi et abbattuti
ch’ei danno impaccio insieme e disconforto
a quei ch’ad impedirlo son venuti.
Facean qual marinar che giunto a porto
truova i venti contrari esser cresciuti,
sì che non puote entrar dove egli intende
ma gira intorno e miglior tempo attende,

120in guisa che la gente che dietro have
non prende d’appressarse alcuno ardire,
quella c’ha innanzi preme di sì grave
forza che parte fa ella di sella uscire,
l’altra, ch’è più lontana, tanto pave
di Tristano e di lui che mal coprire
può il disegno fatto infin che mira
il re giunto alla fine e ne sospira.

121E tra i grevi sospir sì leve fugge
che quel campo restava a i due guerrieri,
ma il suo figlio Natan qual leon rugge
e chiama questi e quei buon cavalieri,
dicendo: «Or come fia ch’oggi s’adugge
quella chiara virtù che già sì alteri
vi fea nel mondo, se voi mille insieme
sol fuggite una coppia che vi preme?

122Non han questi mill’alme e mille mani
che non possin morire come mortali,
né forza han più che gli altri corpi umani,
anzi a noi son di tutte cose eguali,
ma i vostri nobil cor fatti villani
vorrieno aver dell’aquile mille ali
per la vita scampar, qual popol rio
c’ha se stesso e l’onor posto il oblio.

123E chi vuol venir testimon sia
del mio valor al men di lontan loco,
per saper dire alla progenie mia,
s’alcun ne resterà, s’io valsi poco,
e s’io mi son votato por la mia
vita e le membra nel medesmo loco
co ’l mio padre onorato o la vendetta
far di lui, lasso, ch’a figliuol s’aspetta».

124Così dicendo, dove Tristano era
senza aspettar alcun il caval punge,
ma tanto può nella fuggente schiera
l’animoso suo dir che si raggiunge
la maggior parte, e si vergogna e spera
e di gran penitenza si compunge
d’aver fallito, e ’n un momento solo
seguon, perduto il padre, il pio figliuolo.

125Quando vede Tristan nuovo drappello
rifarse insieme e contro a lui venire,
vêr lui si muove qual rapace uccello
che tra i colombi cala per ferire,
e quanto può s’addrizza contro a quello
che ’l maggior par nell’arme e nel vestire,
e sì bene il ritruova all’elmo dritto
che ’l cimier nell’arena un palmo ha fitto.

126Pur fuor de i sensi, ma non morto cade,
e ’n quel tempo medesmo il buon Tristano
ha mille lance intorno e mille spade
né men n’ha il valoroso Segurano;
ma gli altri senton ben quanto più rade
di questi il brando e la possente mano
pesi più di quei due che tutte insieme
d’infiniti che son le forze estreme.

127Si mette Seguran nel destro corno
ove più stretta vede l’impa gente;
fassi di morti una gran massa intorno
solo al primo arrivar, come sovente
si vede il buon villano al lungo giorno
segando i prati all’alto sole ardente
dell’abbattuto fien ghirlanda avere
ch’a pena ha dove il piè possa tenere.

128Nel sinistro Tristan, poi c’ha gettato
a terra il giovincel, muove il destriero,
né molto è lungamente innanzi andato
che si sente chiamar con grido altero.
Si rivolge, e Natan si truova a lato,
rimontato a caval più che mai fero,
tal maraviglia n’ha come chi vede
un uom sepolto che si drizze in piede,

129e dicea: «Adunque in questa valle s’usa
morir più d’una volta a quel ch’io veggio.
Ma se tu avessi ancor l’anima chiusa
in adamante o in più indurato seggio,
quel che ’l saggio guerrier fece a Medusa
ti farò co ’l mio brando, e forse peggio».
E ’n questa truova quel che gli è già sopra
e l’ha percosso innanzi ch’ei si cuopra.

130L’ha percosso alla fronte e di tal possa
che molto se ne dolse il leonese,
perché la spada in alto tornò rossa
e la pelle impiagò quanto ne prese.
Ma la tempra dell’elmo salvò l’ossa
e la vita in quel punto gli difese.
Di ciò sente Tristan tal onta e doglia
ch’ei divien più crudel di quel che soglia.

131E dona un colpo che l’avria finito
s’alla testa venìa come alla spalla,
la qual disarma in parte e ben ferito
resta Natan del brando dove avvalla;
ma non per ciò riman tanto impedito,
né la virtù vital tanto gli falla
che no ’l percuota in testa un’altra volta
e gli desse anco pena più che molta.

132E ’n tanto al suo soccorso molti sono,
tanto che ’l buon Tristan mal puote atarse,
ma qual invitta palma cui per dono
natura diè che quanto più gravarse
talor si sente, manco in abbandono
si rende, e tanto più suole innalzarse,
tal di Tristan a i gran perigli è l’alma
che di fortuna sprezza ogni aspra salma,

133che benché mille colpi in un momento
si senta e ’n mille parti sopra il dorso,
contra Natan per vendicarse intento
e per finir la guerra è ratto corso,
con grida tai ch’empieva di spavento
quei che indarno oramai danno soccorso
al giovin signor, il qual si truova
in man di tal che nullo aiuto giova.

134Però che il buon Tristan con tanta rabbia
e con tanto furo al collo mena
riverso tal che poco val ch’egli abbia
doppia armadura e sia d’ottima vena,
ch’egli avventò lontan sopra la sabbia
l’altera fronte di superbia piena,
al cui cader quei che in aiuto avea
temono in lor l’istessa sorte rea.

135E fuggon tutti quei lassati in vita
dal fero Seguran, che tanti n’have
uccisi il dì che non fu mai sentita
in altro tempo ancor rotta sì grave,
e ben creder si può che la gradita
sua lancia e spada tutto il mondo pave,
et è di tanto onor che ’l nome solo
maggior già vinse e vie migliore stuolo.

Lancillotto e Segurano mettono in fuga un enorme drappello (136-146,6)

136Ma in questo mezzo il chiaro Lancillotto
e ’l nobil Palamede in altro lato
quello infinito popolo han condotto
tra sangue e morte rosso e riversato,
e ben in men di tempo vinto e rotto
l’avrieno e tutto il campo guadagnato
ma per ischerzo e per più fanno in parte
che ’l giuoco sia più lungo usano ogni arte.

137Perché san ben che a due guerrier cotali
come il gran leonese e Segurano
senza miracol grande o sena l’ali
non può scampar Nabone e ’l suo Natano.
Or dunque pruove dan più che mortali
nell’impio popolo infelice e strano,
e mostra chiaro il dì che la natura
pose in lor ogni sforzo et ogni cura.

138Egli entràr da principio nella schiera
ch’oltr’a modo è serrata, lunga e grossa;
congiunta insieme quella coppia fera
fin che a più dentro penetrarsi possa,
restò d’ambe la lancia tutta intera
tanto ch’egli han forate l’arme e l’ossa
a cento o più, sì che con giunti al messo
quando l’hanno troncando ucciso il sezzo.

139Volsero in guisa far dello architetto
che devendo partir arbore o trave
mette al principio un ferro aguto e stretto
spinto da gran martel ferrato e grave,
il qual, venuto al cammin mezzo eletto
con altre scure et instrumenti c’have
la squarcia e squadra, e poscia agevolmente
quella forma gli dà ch’aveva in mente,

140così costor, che prima tutti in uno
con lance assembrate forza fèro,
poi giunti al messo lor volse ciascuno
a contrario cammino il suo destriero,
perch’alla destra man s’addrizza l’uno,
l’altro a sinistra, poi che ’l brando altero
han tratto fuori, e fan tai meraviglie
che miracol non è che gli simiglie.

141In men di picciola ora ha Palamede
come aquila affamata attraversato
il corno dritto e tutto pien si vede
l’aspro sentier di sangue riversato,
a lui non men la trista gente cede
che suol la nebbia di Aquilone il fiato,
ond’esso giunto al fin s’arresta un poco
a pensar dove accenda un nuovo foco.

142Ma l’alto Lancilotto, che nel canto
sinistro ha volto il spaventoso passo,
tal furor mena ch’ei ne toglie il vanto
al fulgore maggior che avventò in basso
Giove in quel dì che disdegnoso tanto
fe’ con dritta ragion di vita casso
il tessalico Pelio e l’Ossa audace
di perturbargli in ciel l’eterna pace.

143Tanti n’abbatte il dì, tanti n’ancide
tanti priva di man, tanti di braccia
che non si pon contar; lì d’alte stride
e di ratto fuggir sol si procaccia
chi può salute, e chi mai intese o vide
tigre animosa che si mise in caccia
dietro armenti di cervi alla campagna
ove Oxo et Oco nell’Ircania stagna,

144pensi cotal veder quel gran campione
fra quelle genti afflitte e spaventate,
le quai non han bisogno d’altro sprone
per lassargli le strade districate.
Or, giunto al fine, a contemplar si pone
e vede lunge al quanto riserrate
le lance insieme a quei che in altra parte
ebber correndo più ventura che arte.

145Là tosto accorre, ma gli lassa in prima
bene adattar dello squadron la forma,
perché l’onor più che la palma stima
da cui l’un scompagnato l’altra dorme.
Poi, quando vide gli avversari in cima
d’ogni lor sicurtà per l’istesse orme
a lor ritorna, e nel medesmo modo
poi che l’han ben serrato scioglie il nodo.

146E ben tre volte per la prima via
disfece e ruppe il rassembrato groppo,
tanto che pur al fin la gente ria
s’accorda ch’esso a lor poter sia troppo,
e dentro alla foresta ella s’inviaDopo aver vinto, liberano i sei cavalieri prigionieri e vengono festeggiati da tutti (146,7-164)
fuor d’ogni speme e più che di galoppo.
Or senza più tentar fatica nuova,
cerca il suo Palamede e tosto il truova.

147Il truova come era ei di sangue lordo,
c’ha seguiti i nemici alla foresta.
Or fatto il caso lor vengon d’accordo
di andar a visitar quel che ne resta.
Così son mossi co ’l destriere ingordo
di compir l’altra guerra come questa,
ma incontran l’alta coppia a mezza via
che con egual disegno a lor venìa.

148Fansi la festa insieme ch’è devere
tra i compagni che han vinta un’alta impresa.
Mentre stanno così, par lor vedere
nuova gente nemica esser discesa,
ma non le scorgono arme né bandiere
anzi a piè vien negletta e vilipesa,
quando più pressa viene in grandi strida
senton che «Libertade e pace» grida,

149i nomi di quei quattro in chiaro suono
alto chiamando e ringraziando Dio.
Quando arrivati al fin tra questi sono,
truovan che ’l popolo è lodato e pio
che così lungamente in abbandono
furo al servizio del gigante rio,
che più di quattro mila cavalieri
cotanti furo, e di diversi imperi.

150Di Logre, di Norgalle e d’altri molti
paesi Galli, e di Noromberlanda,
i quai senza arme pur poteano sciolti
andar della sua valle in ogni banda,
che Nabon non tenea tra lacci avvolti
se non quelli onde il nome altero spanda
la fama intorno, come il gran Cortese
con gli altri cinque ch’ad inganno prese.

151Chi Lancilotto abbraccia, chi Tristano,
ch’il forte Seguran, chi Palamede,
ciascun essalta la onorata mano
che di tanta vittoria è stata erede,
e i quattro cavalier, con atto umano,
gli accolgon tutti, e già discesi a piede
son fra lor messi, e molti conosciuti
han di lor, ch’altra volta avean veduti.

152Di Gallia l’Amoral viene il primiero
loro in notizia, e Segurado appresso,
Dinadan d’Estrangorre il forte e fero,
Mandrino il saggio che ’l mostrò sì spesso,
della argentata fonte poi Brumero,
il Brun qual senza gioia, et è con esso
il Ner Perduto, e ’l pelegrin Normeno,
Margonde il rozzo e ’l semplice Bralleno.

153Tanti altri ve ne son ch’io non potrei
narrargli tutti, e d’alta nobiltade,
i quai, lieti contando i giorni rei
e le miserie lor triste passate,
ricordan proveder tosto ch’a i sei
chiari prigion non restin più serrate
le crudei porte, e non si lasse gire
il tempo i ndarno che porria fallire.

154Perché chi in guardia e sotto cura gli have
temendo oggi di lor liberi poi
poria tosto condurgli a morte grave
come usava Nabone e tutti i suoi.
In questa ecco un che ha in man più d’una chiave
e, giunto, s’inginocchia e dice: «Voi
signor fo del castello e d’ogni cosa
che sia palese e che restasse ascosa.

155E queste son le chiavi c’hanno chiusi
quei sacri cavalier che voi vorreste.
S’io nei fui guardia il mio dever mi scusi
che mi fece al servir le voglie preste,
e vi supplico umil che ’n vêr me s’usi
quella vendetta che giudichereste
degna di chi fedele al suo re sia,
usando anco a i nemici cortesia.

156Come per quel ch’io speri, faran fede
gli onorati guerrier quand’usciranno».
Promettongli costor di aver mercede
delle sue colpe, e trarlo d’ogni danno.
Or che già morto il fero re si vede
tutti quei che famiglie e che case hanno
nel terren di Nabone e gli eran grati
si sono in un sol punto rivoltati.

157E seguendo il voler della fortuna
l’appellano il crudele, alzando quelli
che con l’ampia virtù che in lor s’aduna
han castigati i micidiali e felli.
Non vi resta uom, non resa donna alcuna
che non voglia adorar, non pur vedelli,
e sì gran moltitudine conviene
che ricoprian le sanguinose arene.

158Qual corrente onda c’ha serrato il passo
dove sfogar con argini o con mura
che s’egli avvien che sol ne lievi un sasso
pioggia o vecchiezza o d’altrui poca cura,
e breve stilla pur discenda in basso
in poco tempo poi senza misura
fa sì grande il cammin che soprabbonda
quanta acqua ivi era e tutto il piano inonda.

159Or vanno i quattro gran liberatori
alla prigion che lor mostrate avieno,
co ’l popol dietro che di stran romori
fa l’aria risonar tutta e ’l terreno,
e i sei gran cavalier menan di fuori
ch’a pena pon guardar al ciel sereno,
tanto offuscata e grave hanno la vista
della lunga dimora oscura e trista.

160E perché eran le carceri diverse,
né sapea l’un dell’altro alcuna nuova,
i liberati l’accoglienze fèrse
che chi ’l pianto figliuol vivo ritruova.
Poi vêr ciascun de i quattro che gli aperse
d’assicurarlo ben fanno ogni pruova,
c’hanno obligo immortal alla virtute
la qual loro apportò vita e salute.

161Consigliando da poi chi del paese
deggia resta signor, tutti i pareri
senza contrasto al buon Giron Cortese
sono addrizzati, et ei, che mille imperi
in mille region già vinse e prese,
e ne fe’ dono a gli altri cavalieri,
gli ringrazia oltr’a modo e si fa indegno
di posseder il non dovuto regno.

162dicendo ch’assai più si convenia
a i quattro che speso han sangue e sudore,
a Tristan più, poi che la voce viva
di Merlin gli predisse un tale onore.
Ma poi ch’ei sente che ’l rifiuta e schiva,
soggiunge: «La ragion mi detta e ’l core
ch’ad Artù il nostro re l’impero reste,
a voi la gloria che grandi opre feste.

163E perché del Servaggio è domandata
la trista vale, io pregherei che fosse
di Tristan la franchigia nominata,
poi ch’esso il padre co ’l figliuol percosse».
Fu la sentenza sua tosto approvata,
Tristan l’accetta, ma con guance rosse.
Poi del re in vece Segurado è detto
che resti al governar duce e prefetto.

164Così conchiuso, d’arme e di destriero
ben provveduto ogni uom, che ne son molti,
che d’essi e d’ogni cosa avean mestiero,
in verso Camelotto son rivolti,
lieti assai più che se del mondo intero
portassero i tesori in grembo accolti,
poi c’han salvato e tratto di prigione
il Cortese invittissimo Girone.