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L’Avarchide

di Luigi Alamanni

Libro XI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 25.09.15 18:10

1Come i suoi biondi crin la bianca aurora
sovra il Gange spiegando annunzia il giorno,
il pio rettor dell’Orcadi vien fuora
dell’albergo vicin con l’arme intorno
e, cinto di pensieri, ove dimora
del re Britanno il padiglione adorno
entrò soletto, e già il ritruova in piede,
ch’al bisogno comune ivi provvede.

2Né giunto a pena fu, ch’ogni altro duce
ogn’altro cavalier di grande onore
ch’era del suo splendor la maggior luce
venne con riverenza e sommo amore,
per saper in qual parte si conduce
l’alto voler del sommo imperadore;
i quai posti a seder, gli prega Arturo
che ’l debban consigliar del dì futuro.

3Il re Lago il primier, come degno era,
già levatosi in piè così dicea:
«Ier poteste veder la lunga e fera
guerra, per ambedue tanto aspra e rea
che non si porria dir qual parte altera
render grazie ne possa a quella dea
che con l’ali cangianti in alto giace
e vola or quinci or quindi ove la piace.

4Perch’io la vidi almen mille fiate
or tra i nostri allegrarsi or tra i nemici,
or tutti coronar di palme aurate,
or ripor tra i più miseri e ’nfelici,
tanto che sono al fin sì bene ornate
del sangue di ciascun queste pendici,
che possiam dire egual la nostra gloria
e di duol pareggiata la memoria.

5Perch’io direi che la pietà ch’avere
di chi muor con onor fra noi si deve
ne sforzi a ricercar via di potere
covrir quei che perir di tumol leve;
e ’nsieme ristorar le vive schiere
d’alcun dolce riposo, ancor che breve,
e chi percosso sia, ch’alquanto possa
con più pace curar l’impiagat’ossa.

6Né può biasmo sentir d’anima vile
il cercar da’ nemici alcuna tregua,
ma di spirto pietoso e signorile
il bramar che ’l suo dritto a i morti segua,
lo qual chi sprezza, allo spietato stile
delle fere selvatiche s’adegua,
e chi per tal richiesta sprezzi noi
guarde pur sé medesmo e guarde i suoi.

7Si dirà ben che chi sì ardito il core
in guerra e così pronta aggia la mano
non possa esser compreso da timore
ritrovandosi in pace e di lontano;
ma sia che può, che ’l candido valore
non dèe biasmo curar che venga vano:
bastigli che ’l pensier lodato e pio
egli stesso conosca, e ’l veggia Dio.

8E se per poca gloria e così frale
si lasseranno i nostri a i corvi preda
non avem da temer che la mortale
crudeltà nostra in noi medesmi rieda?
La vendetta del ciel tarpate l’ale
non ha più che si soglia, a quel ch’io creda;
e ’nchinarse a i nemici in sì degn’opra
è via più bello onor che star di sopra».

9Come ha ’l buon re finito, ogni altro insieme
del consiglio real l’istesso afferma.
Ma la cura medesma il petto preme
in Avarco la gente afflitta e ’nferma,
ch’ivi turba infinita intorno geme
di giovinette donne e d’età ferma
che chi ’l padre, chi ’l figlio ave smarrito,
chi ’l fratel cerca indarno e chi ’l marito,

10tal che mosso a pietade il re Clodasso
adunato ogni duce e cavaliero
dicea: «Da poi ch’a sì dubbioso passo
n’ha condotti, signori, il destin fero,
pria che ’l nostro cader vada più basso
e mentre ancora in noi l’arbitrio intero
riman di poter dare all’aspro assedio
con men dannoso fin pace e rimedio,

11parmi che noi deviam volger la mente
a metterne in cammin che sia più piano,
in cui non pèra tal la miglior gente
né sia sempre in periglio Segurano,
del qual se privi semo amaramente
preda vegnam degli inimici in mano;
quantunque somma ho speranza e fede
nel supremo valor di Palamede,

12e d’altri molti poi, che foran degni
per le rare virtù di sommo impero
e di salvar, non ch’un, mille altri regni
con l’alma invitta e col giudizio intero.
Ma quello e ’l mio Clodin sì chiari pegni
son degli anni miei stanchi, ch’io non spero
ch’altri potesse mai servarme in vita
se mi togliesse il ciel la loro aita.

13Or adunque si cerchi, amici e figli,
il sentier più onorato e ’l più sicuro,
che non veggiamo, ohimè, sempre vermigli
dell’Euro i liti e ’l suo cammino impuro,
e ch’io non viva ognor con tai perigli
fra la notte angosciosa e ’l giorno oscuro;
ma senz’altro timor di nuovi affanni
possa al rogo portar questi ultimi anni».

14Posto fine al suo dire, il re Vagorre,
che di grado e d’età quelli altri avanza,
comincia il primo: «Perché in Giove porre
deve il più saggio cor la sua speranza,
per la fede c’ho in lui ciò che m’occorre
dirò con sicurissima baldanza,
senza riguardo aver di chi poi forse
dica che ’l mio parlare il punse e morse.

15Parmi, o sacrato re, che si devria,
senza indugio interpor, proprio in quest’ora
mandare al re Britanno, e dir che pria
che si mostri al balcon la nona aurora
gli porrete il paese in sua balìa
di là dal varco dove larga irrora
i lieti campi l’onorata Cera,
in fin dove il suo corso arriva all’Era,

16perch’ei possa di quel, che pure è molto,
largamente rifar Benicco e Gave,
e con suo largo onor trovarse sciolto
di sì dannosa guerra e di sì grave;
perché d’ogni trofeo di palme avvolto
la profittevol pace è più soave,
e tanto più che spesso è ’l più lontano
chi la vittoria aver si pensa in mano.

17E di tutto poi quel che ritenete
che primiero a gli scettri soggiacea
de’ Britanni e de i Franchi, promettete
che sarà sotto a lor qual ei solea,
e ’l suo dritto a ciascun ne renderete
come il re Ban, come Boorte fea;
né ve ’l tenete a vil, che ’l vero saggio
per ragion mantener fugge il vantaggio.

18Né vi do per timor l’util consiglio,
che la soverchia età naviga in porto,
ma per levarn’omai l’aspro periglio
ch’io veggio sopra noi cadere scorto.
Or non pensate voi che ’l sacro ciglio
del gran Giove lassù conosca il torto
ch’a voi stesso et a lui di ciò seguio,
dispogliando del suo quel seme pio?

19Né vi sovviene ancor che lunge poco
d’esto seggio reale e di quest’ora
voi prometteste in sì famoso loco
a quel Padre maggior che più s’adora,
chiamando testimon del sole il foco
e l’ombra eterna che là giù dimora
che s’ei vincea Gaven, queto e sicuro
lassareste il paese in man d’Arturo,

20e che poi fu sturbata la battaglia
e ferito Gaven con vostra fede?
Com’or pensate voi che piastra o maglia
regga contra ragion che in essa fiede,
o di guerrier fallace il brando vaglia
che di tanta perfidia è fatto erede?
E la colpa è di voi s’ei fu ferito,
poi che l’ingiusto oprar non è punito.

21E si chiedesse ancor consiglierei
tregua per qualche dì perché si possa
de i morti in guerra a gli infernali dèi
col foco consacrar le misere ossa,
che d’un secol integro i giorni rei
pria che varcar la sventurata fossa
non trapassin vagando, e noi restati
appellin con ragion crudeli e ’ngrati».

22Qui si tacque Vagorre e ’l fer Clodino,
che d’impedirlo avanti avea talento,
se non che Seguran, ch’era vicino,
di lassarlo finire il feo contento,
risponde: «Or prima avvegna che ’l destino
mi torni in giro come polve al vento
in tra l’Alpi nevose, al tempo crudo,
d’ogni amico e di ben povero e nudo,

23ch’io consenta già mai ch’un re famoso
qual or Clodasso, il vecchio mio parente,
il cui giovine oprar sì glorioso
già dall’indico Gange all’Occidente
empié d’alto romor, da gli anni roso,
si veggia or tributario a quella gente
della qual mille nomi e mille spoglie
cingan de i tempi suoi l’aurate soglie.

24Or se qui Lionel fosse e Boorte
e Lancilotto ancor, l’animo fero,
qual ne porrian bramar più dura sorte
o de i disegni lor termin più altero?
Che non cercan di noi l’acerba morte,
la qual tardi o per tempo usa il suo impero,
ma di condurne all’ultimo disnore,
ch’è ’l verace morir d’un nobil core.

25S’e’ volesse pigliar per grazia e dono,
come avete parlato, alcuna terra
stata de i primi lor, contento sono,
non per tema di quei né d’altra guerra,
ma per non infiammar nell’alto trono
l’ira di chi le nubi apre e riserra,
poi che senza mia colpa un altro impuro
ha fatto il nostro esercito spergiuro».

26Allor ch’ebbe fornito, Gonebaldo,
che de i feri Borgondi il fren reggea,
del miser sangue ancor bagnato e caldo
de i tre propri fratei che morti avea,
con furiosa voce altero e baldo
in favor di Clodin così dicea:
«Scurisi il sol per me prima ch’io taccia
ove a i nostri nemici si soggiaccia.

27Non fia detto già mai che dove io sia
si faccia a Clodoveo sì largo onore
che alcun breve tributo si gli dia
come a vero d’altrui sovran signore;
perché non mi condusse a questa via
timor d’Arturo o d’altro duce amore,
ma l’odio solo, onde non son mai stanco,
che mi divora il cor nel seme Franco.

28Non è questo terren sotto il governo
del britannico re, com’altri crede,
ma del rio Clodoveo, nemico eterno
della nostra real borgonda sede,
che per sommo di lei dannaggio e scherno,
e farsi d’essa violento erede,
sposò Clotilda qual leale amico,
del mio german figliuola Chilperico,

29ch’io già con gli altri due del mondo tolsi,
l’infedele Odesillo e Gundemaro,
che più tosto di lor la morte volsi
che de’ figli e di noi l’essilio amaro;
e doppo lor tutto il veleno accolsi
in costui sol d’ogni mia doglia avaro
e ch’or per espugnar le vostre mura
con quanti ave de’ suoi sempre procura;

30come si vede ben, se tra i nemici
di lui quattro figliuoi cingon la spada,
non per vera pietà ch’ha degli amici,
ma per voi dispogliar cercando strada.
E come alle native sue pendici
ritorni Arturo, allor come gli aggrada
farà dell’altro poi, che frali e lassi
sarete, e d’ogni forza ignudi e cassi.

31E quantunque non sembri, molto apporta
solo il semplice nome di sovrano,
che poi mille cagion si fanno scorta
al tutto trarre alla rapace mano.
D’Arturo in tanto poi scemata o morta
la forza fia, ch’aspetterete in vano;
et ei, sempre crescendo, a poco a poco
sopra voi, sopra me stenderà il foco.

32Ma se pur vi parrà che ’l tempo sforze,
e de i vostri il mancare e del ciel tema,
di sgombrare quindi le nemiche forze
onde ’l popol vicin paventa e trema,
sol del vostro terren l’ultime scorze
si denno offrir della provincia estrema,
come or disse Clodino e pria Vagorre,
ma quel titol sovran per sé riporre.

33Perché negando in ver di fare offerta
a i nemici talor di cosa leve,
parria forse ingiustizia troppo aperta
e ne cadrebbe in noi la colpa greve;
e la gente ch’ognor di vita incerta
ha per esca la polve e ’l sudor beve
avria credenza al fin ch’alcun di voi
si prendesse a diletto i danni suoi.

34E se ciò refutar, sì com’io spero,
dalla superba gente oggi vedrasse,
fia pur noto a ciascun che ’l nostro impero
del dever dritto il termine non passe;
e dal Motor lassù che scerne il vero
perch’innalzi i migliori e i pravi abbasse
potrem con più ragion chiedere aita
per questa afflitta patria sbigottita.

35La tregua ricercar per alcun giorno
non meno util sarà che grata e pia,
e più tosto vergogna e crudo scorno
a chi pur la negasse apporteria».
Or quanti regi e duci erano intorno
di così altera e nobil compagnia
approvàr de i consigli il proprio effetto
che Clodino e ’l borgondo avevan detto.

36Cotal fermo fra loro, il re Clodasso
Ideo fece appellarse et Anfione,
dicendo lor: «Movete ratto il passo
del britannico Arturo al padiglione,
e gli dite in mio nome ch’io son lasso,
come d’esser anch’egli avria cagione,
di veder notte e giorno in cotal sorte
di sì chiari guerrier l’acerba morte;

37e per mostrare al cielo e ’l mondo insieme
che da me non starà d’imporne fine,
gli offro il largo terren che Cera preme
ove la rapid’Era ha per confine,
e d’indi innanzi le sue rive estreme
in fin ch’ad essa il suo viaggio inchine,
che sarà molto più di quel ch’io tegno
di Boorte e di Ban del picciol regno.

38Ma con tal condizion ch’a me si serve
tutto il supremo onor delle contrade,
e le sue innumerabili caterve
delle lor region truovin le strade.
Poi perché l’onor debito s’osserve
di seppellir ogn’uom che morto cade
e perché ’l disegnato ordin ne segua,
per almen nove dì si faccia tregua».

39Già l’uno e l’altro araldo si ricinge
della vesta real per quello eletta,
che in celeste colore alto dipinge
il pino aurato ch’Aquilone alletta;
poscia il gemmato scettro in mano stringe
e pronto al suo devere il passo affretta,
e d’Arturo all’albergo è sopraggiunto
che volea i suoi mandar quasi in quel punto.

40Et esposta al gran re tutta altamente
l’ambasciata d’Avarco, in grand’onore
fur ricevuti, e poi cortesemente,
per attender risposta, messi fuore.
Lì, domandato il primo quel che sente
di questa offerta il suo discreto core
fu il saggio re dell’Orcadi, che fisse
ambe nel ciel le luci, e così disse:

41«Dammi, Signor del Ciel, grazia ch’io prenda
il verace sentier col mio consiglio,
onde poi con onor per noi s’attenda
il desiato fin d’ogni periglio.
Or con fermo sperar che in me s’accenda
quel sacro spirto che creò il tuo Figlio,
dirò senza temer che non mi piace
doppo guerra cotal sì indegna pace,

42e che si possa dir che tanti regi,
tanti gran duci illustri e cavalieri
e ch’ornati fur già di tanti fregi
che sovra ogni altra età vadano alteri,
per sì poca mercé ch’ogn’uom la spregi
aggiano in tal sudor tanti guerrieri
già indarno affaticati sì lunghi anni
che tutta Europa omai ne senta i danni.

43E se ’l ciel ne darà, com’esser puote,
che nessun vede aperto nel futuro,
le speranze ch’aviam d’effetto vòte
e ’l cammino al passar più acerbo e duro,
la colpa fia delle fallaci rote,
della cieca fortuna e non d’Arturo,
com’or saria se di vergogna carco
per sì poco terren lassasse Avarco.

44Il qual, s’è ver che l’intelletto umano
possa a i vati divin credenza dare,
secondo il preveder di Pellicano
debbe alle vostre man tosto tornare.
Poi l’aver nosco il nobile Tristano
non ci fa d’ogni onor sicuri andare
con voler ostinato in ogni sorte
d’esso o di tutti noi veder la morte?»

45Non avea fatto fin quando Gaveno
al furor cieco usato che ’l trasporta,
interrompendo il vecchio, allarga il freno
et all’ira soverchia apre la porta,
dicendo: «E’ perché placido e sereno
si mostra il volto a chi ambasciata porta
simile a ciò ch’io sento, Arturo invitto
che macchia il vostro onor, la gloria e ’l dritto?

46Dall’empio Seguran nasce il disegno,
che voi con tutti noi sempre ebbe a vile,
né di più largo don vi stima degno
che di breve terreno in nido umile.
Ma contro a gli oratori il giusto sdegno
vorrei versare in sì spietato stile
ch’ei restassero essempio in ogni loco
a chi tal degnità prendesse in gioco».

47Ma il famoso Tristan, ch’udir non vuole
nel consiglio real sì lorde voci,
in dolce ragionar l’aspre parole
chiudea dicendo: «I cavalier feroci
esser devrien sotto l’aperto sole,
con l’arme intorno e contro a i falli atroci,
non all’ombra, in consiglio, e ’nverso quelli
disarmati, innocenti e poverelli.

48Che colpa è di costor se ’l re comanda
ch’ei vi vengano a far la vile offerta?
E che orgoglio è del re, s’offerta manda
ch’a voi men che ’l dever si mostri aperta?
Che vergogna è d’Arturo che si spanda
d’ambasciata cotal la fama certa?
Ben superbia saria, fallo e disnore
il non far oggi lor richiesto onore.

49Direi ben, sacro re, che in alcun modo,
sì come in fino a qui da gli altri è detto,
non si debba accettar, ma sciorre il nodo,
che ’l tessuto lacciuol non abbia effetto;
e che si segua ognor confermo e lodo
tanto, che giunta sia nel fin perfetto
questa pia guerra, in cui di certo spero
veder tutto ridurre al vostro impero.

50Ma la tregua accordar, necessitade
e giustissima legge ne costringe,
ché chi de’ morti suoi non ha pietade
a selvaggio leon simil si finge;
e convienne onorar l’antiche strade
là dove ogni mortal Natura spinge,
e di quei più che solo in vostro onore
s’hanno al mezzo del dì troncate l’ore».

51Doppo Tristan l’accorto Maligante,
Lionello e Baveno e ’l pio Boorte,
ogni altro duce e cavaliero errante
segue del suo parlar l’istessa sorte.
Arturo allor dal fido Gossemante
fa del suo padiglion l’aurate porte
a gli araldi d’Avarco ratte aprire,
e rende la risposta in dolce dire:

52«Questi onorati frati e fidi amici
che più che ’l proprio cor mi tengo cari,
ch’a i perigliosi tempi e gl’infelici
non mi fur mai di lor medesmi avari
e lontan le native sue pendici
i figliuoi, le consorti in pianti amari
han per me abbandonato e per l’impresa
che con tanta ragion da noi fu presa;

53m’han tutti consigliato insieme uniti
ch’io non debba affermar pace sì bassa
né per parte sì vil d’angusti liti
un regno abbandonar ch’ogni altro passa,
tal che ne converrà l’antiche liti
con la spada inalzata e l’asta bassa
giudicar in fra noi, sì come fia
il voler di lassù ch’a ciò ne ’nvia.

54Ma per render a i morti sepoltura
ben la tregua farem del nono giorno,
perché non sol di noi, ma dritta cura
è di chi tutti i cieli avvolge intorno.
Or secur d’essa nelle patrie mura,
com’è ’l vostro piacer, fate ritorno,
riportando a Clodasso e Segurano
come il prometter mio non fu mai vano».

55Così detto, comanda ch’ambe duoi
aggiano un don di ricca vesta aurata.
Giunti con tale onore a i signor suoi,
poi che finita fu l’alta ambasciata
diceano: «Schiera di famosi eroi
vedemmo che dal ciel parea mandata
per riformar quaggiù la dritta legge,
simile al gran Motor che lassù regge.

56Lì coronata di stellanti luci
Cinzia opposta al fratel pareva Arturo,
ove ’l chiaro splendor di tanti duci
quasi appresso di quel si mostra oscuro.
Gravi, dolci, ridenti avea le luci,
il parlar riposato, accorto e puro,
d’un’alterezza umìl sì ben commisto
che d’ogni duro cor farebbe acquisto».

57Benché il sommo lodar del saggio Ideo
e del compagno suo mostrasse il vero,
pur d’invidiosa doglia riempieo
di Clodasso, ch’udia, l’animo fero;
ma con caro sembiante l’ascondeo,
dicendo: «Esser non dèe ch’un tanto impero
così antico e sì nobil non insegni
di sì gran Maiestà costumi degni».

58Or già fatta gridar per ogni parte
in solenne romor la nuova tregua,
il timore e ’l furor dell’impio Marte
d’ogni cor posto in bando si dilegua;
ma si ripon nel loco onde si parte
scuro dolor che l’uno e l’altro adegua,
alto lamento, pianto e disconforto
del popol che giacea tra ’l sangue morto.

59Escon tosto d’Avarco in lunghe schiere
le femminelle afflitte e i vecchi lassi,
e dove spenti pensan rivedere
gli smarriti figliuoi volgono i passi;
e con più leve andar le pie mogliere
cercan gli sposi lor di vita cassi;
ma la parte maggior nel sangue avvolta
ha l’imagin primiera in altra volta.

60Lì con tremante man le miserelle
i corpi ad un ad un van rivolgendo,
ove nemiche fronti a lor rubelle
truovan sovente, e con timore orrendo
rivolgon gli occhi alle più crude stelle
contr’a gli spirti suoi preghi porgendo:
poi le piaghe ch’avean rendon più fresche
perché vengano a i can più gradite esche.

61Ma di quei che de i lor per certi segni
posson ben affermar, le gelid’onde
della polve e del sangue a i volti pregni
con mesto essaminar ciascuna infonde,
né ritrovandol poi, gli accesi sdegni
crescon contra il destin che gli nasconde,
e spesso avvien che in dolorose angosce
mentre ricerca il suo l’altrui conosce,

62e con note d’amor quell’altra chiama,
e per trarlo di là le porge aita.
Indi torna a cercar quel ch’ella brama
con la dolce compagna insieme unita,
in fin ch’anch’essa, miserella e grama,
della sua inchiesta pia resti compita;
e ’n sì fatto cercar quanto sia il giorno
triste voci e sospir s’odono intorno.

63Né dell’oste d’Arturo i cavalieri,
i duci tutti e i re con men pietade
cercan di riconoscer quei guerrieri
c’han di sangue o valor più degnitade
che sian morti rimasi su ’l sentieri
cinti d’onor tra l’avversarie spade,
ma senza lagrimar, con quel dolore
che pon virtù nel generoso amore.

64Quei di prezzo maggior fanno in disparte
con l’insegne portare e con gli arnesi,
e co i trofei ch’avean del fero Marte
acquistati lontano o ’n quei paesi;
poi da’ servi o cugini a parte a parte
erano in un condotti e in alto appesi
là dove in sacro loco e ’n somma cura
surgea per loro altera sepoltura;

65pur di semplice sasso, che durasse
contr’al tempo vorace qualche giorno
in fin che doppo alquanto ritrovasse
dentro al patrio terren loco più adorno,
perché l’alta memoria non restasse
in altrui nido al peregrino scorno,
ma tra i suoi dimorando, un dolce sprone
fosse lor di virtù lunga stagione.

66Fecesi poi vicin profonda fossa
che larghissimo spazio in giro avea,
ove condotte fur l’infinite ossa
che di vita spogliò la sorte rea
de i privati guerrier, ch’ardire e possa
più che senno o splendor chiari facea,
che ricoperti al fin di sacra terra
fur memoria immortal dell’aspra guerra;

67perché d’un monticel levata in guisa
fu di pietre durissime ricinta,
che non potea dal tempo esser conquisa
né senza alta fatica in basso spinta.
Del maggior colle su la cima assisa
ch’ove cade del sol la luce estinta
guarda all’occaso, e d’Oriente al varco
scorge non lunge a lei sedere Avarco,

68ivi il divo German con l’altro coro
de’ suoi chiari ministri e sacerdoti
per gli onorati spirti di costoro
porgon cotali a Dio preghi devoti:
«Non rivolgere il guardo a i falli loro,
che de i santi precetti andaron vòti;
non giustizia opre in te, ma la pietade
che col tuo gran Figliuol n’aprio le strade».

69Al qual canto divin presenti furo,
in sembiante lugubre e ’n vesti nere,
pien di celeste spirto il sommo Arturo
e de’ suoi cavalier l’ornate schiere,
che ’n silenzio umilissimo e ’n cor puro
aiutavan di quei l’alte preghiere.
Poi dato tutto al fin, largo s’infonde
il famoso terren di sacrate onde.

70Ma in diversa maniera d’altro lato
fan quei d’Avarco il lor funebre onore,
ché poi che i cavalier d’altero stato
della turba più bassa han tratto fuore,
dentro alle chiuse mura era portato
ciascun da’ suoi con lagrimoso onore,
e co i più cari pegni in alto loco
nel sen riposti a prezioso foco;

71le cui ceneri appresso in ricchi vasi
di fino or fabbricati o terso argento,
descritti intorno gli animosi casi
onde lo spirto lor giaceva spento.
Molti d’essi in Avarco eran rimasi,
ch’ebber di lui vicino il reggimento,
che sopra alte piramidi locaro,
consumate da poi dal tempo avaro.

72Gli altri, ch’ebber lontan la patria sede,
con lunga compagnia di faci accese,
con l’insegne acquistate e con le prede
mandati furo al dolce suo paese
nelle pie man di chi chiamato erede
de’ suggetti ch’avea lo scettro prese,
con chiaro ambasciador che ben mostrasse
quanto il loro duro caso al re gravasse.

73Indi lo stuol maggior di quei guerrieri
che senza nome aver cuopre il terreno
tutto lontan da’ pubblici sentieri
ove più de’ due colli allarga il seno,
sopra possenti carri, alti destrieri
traggon ratti rotando, in fin che pieno
il veggian d’essi, e ’ntorno la campagna
di tanti che n’avea vòta rimagna.

74Poi fatto ivi di lor sì altero monte,
che troppo a chi ’l vedea pietà commuove,
tutto il popol miglior con voglie pronte
nella vicina selva il passo muove;
e con ferro mortal l’annosa fronte,
senza temere alcun l’ira di Giove,
dell’antica sua quercia a terra getta,
che non solea curar pioggia o saetta.

75Chi dell’eccelso frassino alte incide,
ond’ombra si facea, l’aperte braccia,
chi ’l ghiandifero cerro al piè divide
dalle attorte radici, e ’n basso caccia;
quel l’orno abbatte, che co i rami asside
sopra il vicin, che di cader minaccia.
Rimbomba il bosco e le sue piagge oscure
per l’alto suon delle taglianti scure.

76Chi co i medesmi carri indietro apporta
ove mostra il cammin più aperto calle;
chi per più angusta strada assai più corta
il depredato bosco ha su le spalle;
chi traendol per terra a gli altri scorta
facendo va per l’intricata valle,
tanto che ’n breve andar fornito il loco
fu nel bisogno pio del sacro foco.

77Ove poi con dotto ordine locate
fur le frondi e i gran tronchi in doppi giri,
d’assai tristi lamenti accompagnate
in tra pianti durissimi e sospiri
d’anime miserelle sconsolate,
che ricordando indarno i suoi martiri
e bramando di quei l’afflitta sorte
con voci di dolor chiamavan morte.

78Ma già i raggi ascondea nell’Occidente
allora il sol, che la campagna imbruna;
così dentro alle mura amaramente
nel suo nido natal torna ciascuna.
Lì sol riman della più ardita gente
chi al freddo corso dell’algente luna
sia fida guardia alle infelici schiere
da’ morsi ingordi di rapaci fere.

79Gli altri all’albergo vanno, ove riposo
a gli affannati corpi insieme danno,
poi che fra l’esca e ’l vin rimase ascoso
di tutti altri e di lor l’avuto danno.
Il medesmo facea col re famoso
ogni gallico duce, ogni britanno,
ch’ove manca il rimedio, un nobil core
il lungo lamentar tiene a disnore.

80Poi che di nuovo Apollo all’Oriente
saettava i bei raggi all’aria intorno,
tosto d’Avarco la dogliosa gente
all’intermesso oprar facea ritorno.
Ma innanzi a tutti in vista riverente,
in oscuro e lugúbre abito adorno,
tutto coperto il capo, a lento piede
giva il gran sacerdote Clitomede.

81Nella forma medesma poi seguia
tra mille cavalieri il re Clodasso
che ’l bel fregio real deposto avia
e ripreso color doglioso e basso;
né lunge ivi da lui dietro venìa,
pallida il volto e di dolcezza casso,
pur con vesti neglette e ’nculto crine,
la coppia illustre delle pie regine.

82L’altro popol più vil mischiato insieme
senz’ordine servar correva appresso,
e ’l gran danno de’ suoi sospira e geme
con ramuscello in man d’aspro cipresso.
Chi ’l frutto acerbo piange del suo seme,
chi ’l suo caro german, chi ’l padre istesso,
rimanendo privato in teneri anni
di chi lasso il nutria tra mille affanni.

83Le femminelle al fin d’oscura sorte
tra gli estremi seguian con più pietade,
biasmando spesso il ciel, non pur la morte,
e ’l crudo oprar di peregrine spade.
Chi del figlio si duol, che troppo forte
il cor portava in non matura etade,
chi lo sposo piangea, ch’a gran perigli
non si doveva oppor pensando a’ figli.

84L’acerbe verginelle che rimase
son senza madre e del parente prive,
piangon ch’al sostener l’afflitte case
nulla verde speranza in esse vive;
quella accusa il vicin che persuase
al fratel che godea l’ombre native
di cercar giovinetto in guerra fama,
e crudo e disleal piangendo il chiama.

85Tosto ch’è giunta al destinato luogo
la gran pompa reale e gli altri poi,
si distesero in cerchio all’alto rogo,
osservando i gran re gli ordini suoi,
e quei ch’antichi di milizia al giogo
fur per somma virtù co i primi eroi
agguagliati in onor; poi l’umil plebe
più lunge assiede in fra l’erbose glebe.

86Le due donne reali in altra parte
dalle matrone nobili ricinte
de i cavalier sedevano in disparte,
di cortina sottil da quei distinte;
le minor di fortuna in basso sparte
sedean vicine di dolore avvinte.
Come fu il tutto queto, in alta sede
salio ’l gran sacerdote Clitomede,

87e con grave mirar, l’occhio rivolto
ove il rogo surgea, fiso riguarda;
indi a gli ascoltator tornato il volto
ruppe il silenzio al fin con voce tarda:
«Se quel c’ha il sommo bene in seno accolto
e con l’ordine suo spinge e ritarda
d’ogni cosa il cammin da lui segnato,
il cui certo voler s’appella Fato,

88avesse a noi concessa questa vita,
come a gli angeli suoi, d’eterno corso
e talor consentisse che rapita
fosse di morte a alcun dal crudo morso,
quel che men di tutti altri stabilita
la grazia avesse del divin soccorso,
ben che ciò ch’al ciel piace sia ragione,
pur di alquanto dolerse avria cagione.

89Ma s’ei qui ne ripon con egual sorte
che doppo un breve andar si torni a lui,
quanto è infelice error pianger la morte
di sé medesmo misero o d’altrui
e l’ore misurar, se lunghe o corte
sian di se stesso o de i nemici sui,
se quai di paglie ardenti le faville
come si fugge un dì ne fuggon mille?

90Perché adunque deviam con larghi pianti
di costor richiamar gli andati passi
ch’or fra i giusti Minossi e i Radamanti
tosto tutti saran del mondo lassi,
a cui lieti narrando i pregi e i vanti
de’ nemici c’han qui di vita cassi
e ch’al fin per la patria furo uccisi,
gli faran cittadin de’ Campi Elisi?

91Non ne debbe doler d’alcuno il fine,
ma il modo e ’l suo sentiero onde si parte,
rendendo grazie alle virtù divine
che gli han locati in sì onorata parte,
e pregar poi che noi medesmi inchine
a lor con loda egual l’invitto Marte,
e nel nostro passar, com’io confido,
lieto e ’n pace rimanga il natio nido.

92Il qual, come ch’a noi nel tempo avvegna,
ch’io non so ben ridir qual io vorrei,
veggio ch’a farlo ampissimo disegna
il concilio immortal de’ nostri dèi,
e che patria sarà lodata e degna
di molti antichi e nobil semidei
che di rami verran dell’arbor franco,
poi che quel che veggiam sia secco e manco.

93Il qual certo illustrissimo poi fia,
in fin che gli ombrerà la tolta sede
nuovo troncon che per l’istessa via
sarà degli aurei fior famoso erede;
alla cui gran semenza e larga e pia,
fia ciascuna virtù che in alto siede,
di cui molti bei germini radici
in questa terra avranno alme e felici.

94Ma via più di tutte altre, poi che ’l sole
dieci secol rivolti e dieci lustri,
di Francesco primier l’eletta prole
vedrà qui superar gli antichi illustri,
più di virtù, che di color non suole
all’apparir del sol rosa i ligustri:
il cui nome real fia detto Enrico,
d’ogni raro valor perfetto amico,

95ch’alla sua realissima sorella,
ch’avrà più di virtù che fiori aprile,
di questa alma città gradita e bella
ne farà dono a tale altezza umile;
perché tanta bontà fia posta in quella
alma più ch’altra mai chiara e gentile,
ch’a pena quanto il ciel vede e ricuopre
degno premio saria di sì bell’opre.

96Fia ’l chiarissimo nome Margherita,
ch’a lei si converrà più d’altra mai
candida e pura, e ’n questa bassa vita
spiegherà più che ’l sol lucidi i rai;
del mondo schiva, e ’n sì bel nodo unita
con l’eterno Motor, che gli uman guai
non potran penetrar la divin’alma,
né di lor sentirà terrena salma.

97Fia mandata quaggiù per vivo essempio
de’ suoi santi tesor dal sommo Giove:
sarà il pudico petto altero tempio
delle tre caste Grazie e delle nove
sue dotte figlie, al cui parlare ogni empio
cor perderà le scelerate pruove;
ch’ogni desir villan che i pravi ingombra
si vedrà dileguar di quella all’ombra.

98Spiegherà le medesme amiche insegne
della sua famosissima Minerva,
come sola di lei, non d’altra, degne
nella mortale età dura e proterva,
sì che l’aspra Medusa non si sdegne
che la fronte fatale ad essa serva,
e ’l serpe e ’l fosco augel ch’Atene onora
con voler della dea fien seco ognora.

99E non senza cagion, però che ad essa
la divina scienza, ond’ella è madre,
come a dolce sua figlia avrà concessa
col cortese approvar del sommo Padre:
da cui verran, come da Palla istessa,
pensier celesti et opere leggiadre,
senno, grazia, modestia e caritade
e quante altre virtù sian belle e rade.

100Dentro all’altero petto umile il core
e ripien di dolcezza avrà la sede,
che tutte abbraccerà con puro amore
l’anime afflitte che fortuna fiede,
solo al vero valor porgendo onore,
non al carco furor d’ingiuste prede;
e fia dritta de i buon nella sua vita
stella, timon, nocchiero e calamita.

101Or qual dunque di noi fortuna avvegna,
non può danno apportar che a questa spoglia,
perché piuma verrà non forse indegna
più d’ogn’altra talor che scriver soglia;
ma quando fosse pur, la farà degna
questa terrena dea che ’n carte scioglia
il nostro affaticar di lodi carco,
tal che mai non morrà l’antico Avarco.

102E però, cinti il cor di questa speme,
non contrastiamo al ciel co i nostri pianti,
i quai mal si convengono al gran seme,
quale il nostr’è, de i cavalieri erranti;
e chi troppo il morir del mondo teme
di generoso spirto non si vanti,
ma lassando dell’arme il nobil uso
spenda gli anni miglior tra l’ago e ’l fuso.

103Voi, miserelle donne, se piangete
de’ sostegni miglior trovarvi prive,
gli occhi all’alte regine rivolgete
in cui somma pietà per tutte vive;
se del lor breve corso vi dolete,
ripensate all’onor dell’opre dive
che in lor riluce, e s’al comprar sia caro
per sì poca stagion nome sì chiaro.

104Gl’innocenti figliuoi che in teneri anni
i dolcissimi padri hanno perduti
truovan largo il guadagno tra’ lor danni,
sendone al partir d’un mille venuti,
ch’Avarco intero e i pubblici suoi scanni
abbondar si vedran ne i dolci aiuti,
né più largo tesoro al figliuol ch’ama
può il buon padre lassar che illustre fama».

105Dato fine al suo dire, in terra scese
il sacro Clitomede e ’n basse note,
mormorando tra sé, tre faci prese
dal più vecchio degli altri sacerdote,
e ’n tre parti del rogo il foco accese
delle quai la primiera era a Boote.
In vista poi di riverenza piena
pur tre volte baciò l’arida arena.

106Già il tenebroso fumo intorno ingombra
e per torto cammin nell’aria sale,
mentre ancor di piropo i legni adombra
vulcano in basso, ch’avvampar non vale.
Già con fiamma crescente il nero sgombra
e s’addrizza nel ciel con lucide ale,
e di faville ardenti ha larga preda
tra le frondi sonanti ch’ei depreda.

107Quel tre volte accerchiò con larghi giri
l’inerme popular con ratto piede,
il cui suon di lamenti e di sospiri
empiea tutta del ciel la prima sede,
ricordando ciascun gli aspri martiri
onde al partir de’ suoi rimane erede.
Fanno armati il medesimo i guerrieri
e i duci e i cavalier sopra i corsieri.

108Chi getta sovra lor l’elmo o lo scudo
ch’era d’alcun di lor lodata spoglia,
chi la spada o lo stral ch’aguto e crudo
d’aspra morte al vicin portò la doglia,
chi ’l suo più caro arnese, perché nudo
miser non scenda alla tartarea soglia.
In questo mezzo l’infinite trombe
fan che l’aria, la terra e ’l ciel rimbombe.

109I mesti sacerdoti d’ogn’intorno
d’aspri porci setosi, tauri et agne,
tutte d’atro colore il manto adorno,
vittime fanno all’infere campagne,
alla pallida dea ch’al tristo giorno
dal suo terrestre vel l’alma scompagne,
all’ingordo Pluton che d’ora in ora
tutto quel ch’è mortal laggiù divora.

110Poi che già sono stanchi, e l’alto foco
consumato il gran rogo in basso cade,
ciascun sedendo del medesmo loco
ingombra tutte a cerchio le contrade,
raffrenata del cor la doglia un poco,
portate intorno fur, per varie strade
per l’impero del re, vino e vivande,
il cui bramato odor dolcezza spande.

111Ivi chi mensa avea l’ignuda terra,
poi che d’ogni altro arnese era privato,
chi ’l forte scudo suo dall’empia guerra
rivolgea tosto in più gradito stato;
chi le vicine pietre aggiunte serra
e più alto il suo seggio ha fabbricato;
altri larghe stendean co i propri velli
di tori e di monton le nuove pelli.

112Ma il famoso Clodasso, pur vicino
sott’aureo padiglione al loco istesso,
ivi spandendo prezioso vino
chiama il gran Giove e gli altri dèi con esso.
Al gran rettor dell’infero confino
fece il medesmo riverente appresso;
poi de’ gran cavalier la mensa piena
realissima feo funebre cena.

113Né l’onorata Albina e Claudiana
le più nobil matrone hanno in dispregio,
ma con voce dolcissima et umana
lor concessero al suo sembiante pregio;
e ciascuna ebbe par, nulla sovrana,
delle pie donne il bel drappello egregio,
che ’n tal guisa mischiata era ogni sede
ch’ivi non apparia la fronte o ’l piede.

114Or mentre si pascea di dolci note,
più che d’esca o di vin, l’eletta schiera,
già nascondendo il sol l’aurate rote
con l’ali umide sue venìa la sera.
L’ultime voci allor triste e devote
disciogliendo ciascun che ’ntorno iv’era
disse: – O turba onorata, al basso inferno
viva del tuo valore il grido eterno -.

115Così d’essi ciascun ritruova Avarco,
e ’l passato dolor nel sonno avvolge.
Il medesmo facea, quantunque carco
d’alto stuol di pensier che ’l core involge,
il grande Arturo, e come truove il varco
del disegnato fin seco rivolge.
Così tutto interrotto si conduce
di sonno in sonno all’apparita luce;

116la quale essendo ancor con l’altre impresa
nelle tregue funèbri, intorno spende
a ricercar se intera ogni difesa
sia del suo campo ancora: e l’un riprende,
lo scusa appresso, poi che meglio ha intesa
la sua ragione, e l’altro al cielo stende
con alte lodi e pregi; e ’n tai soggiorni
trapassar della tregua i dati giorni.