Argomento
Giunse a Roma Costante, e con diversi
partiti rende facilmente il figlio
Galeno pronto a trar fuor di periglio
suo padre Augusto, ch’è prigion de’ Persi.
Proemio (1-3)
1La pietà d’un guerrier vero splendore
di Roma e vera eterna gloria io canto,
di cui via più che d’altro suo maggiore
può gir quella superba e darsi vanto,
poi ch’egli allor che più di speme fuore
giacea percossa abbandonata in pianto,
non pur la sollevò, non pur difese,
ma il già perduto onor tutto le rese.
2E l’adornò d’eterne palme e d’alti
trofei vittorioso, e contra tante
lunghe fatiche e perigliosi assalti
di fortuna ognor fu saldo e costante;
e tinse in Media e in Persia i verdi smalti
del barbarico sangue, onde egli avante
né dopo ebbe mai pari ovunque stende
l’ampie sue braccia Teti o Febo splende.
3Figlie di Giove, Urania, Euterpe e Clio,
che lasciando talor l’aonie rive,
da l’alto seggio del superno Iddio,
scorgete il tutto, e gloriose e dive,
date vi prego al debil canto mio
forza ch’ove il desir s’inalza arrive,
e per la lingua mia scoprite voi
molt’opre ascose de gli antichi eroi.
Costante, rimasto da solo sul campo di battaglia, viene raggiunto da Venere e trasportato a Roma su un carro volante (4-21)
4Poi che il romano Augusto in Oriente
restò prigion del re di Persia, e morta
la maggior parte de la nostra gente
sol per cagion d’una fallace scorta,
Ceionio Albin, che si trovò presente,
restò con faccia lagrimosa e smorta
veduto il suo signor preso, e veduto
ch’arte o forza non giova in dargli aiuto.
5Questo è quel buon roman sì forte e saggio,
sì di virtù, sì di costumi adorno
che pari a lui non ha quanto col raggio
scopre scorrendo il sol la terra intorno;
ma perché troppo grande era il vantaggio
che i Persi in ogni guisa ebber quel giorno,
non valse a riparar che non seguisse
quel che ab eterno il Sommo Padre fisse.
6E sì pietoso ognor mostrossi verso
d’Augusto preso, e sì costante e forte
per liberarlo in ogni caso avverso,
gran tempo avuta in ciò contraria sorte,
mentre quasi per tutto l’universo
vagò più volte a rischio de la morte,
che il nome suo primier posto in oblio
detto poi sempre fu Costante Pio.
7Ben ch’egli allor che scorse il crudo e fero
perso ch’Augusto crudelmente avvinse,
per liberarlo e per salvar l’Impero,
pien d’ira e di furor la spada strinse,
e qual leone orribilmente altero
tutto nel sangue barbaro si tinse,
e ne portò ferito un braccio e il volto,
già morto essendo ogni altro o in fuga volto.
8E benché in sé mancar senta la forza
non riman però mai d’animo privo,
pria che il suo re lasciar la mortal scorza
desia, che senza a lui non può star vivo.
L’alta pietà, l’intenso amor lo sforza
d’aver la vita totalmente a schivo,
e rotte l’armi fora, essangue e solo,
caduto in mezzo del nemico stuolo.
9Ma Venere, ch’ognor pronta si prese
di Roma cura e de i romani eroi,
Costante, che del seme alto discese
d’Enea, d’Ascanio e de i nepoti suoi,
con maggior cura a render salvo intese,
tosto adunque dal cielo a i regni eoi,
dov’era il caro suo nepote giunse,
per tema e per pietà che il cor le punse.
10E quel di sangue ostil visto le mani
e fino a l’elsa aver la spada tinta,
e d’ogni intorno i monti per quei piani
visti di gente orribilmente estinta,
per soverchio dolor de i suoi Romani,
tutta nel viso di pallor dipinta,
giunta dov’era altero ancor Costante
se gli fermò col carro suo davante;
11cui disse: «O cavalier, ripon la spada,
che indarno qui facendo ogni tua prova
conchiuso è in Ciel che a Roma oggi tu vada,
là dove il figlio del tuo re si trova;
e giunto a fin di così lunga strada
per te Galeno tosto abbia la nuova,
quanto più si potrà secretamente,
del caso ch’è successo in Oriente».
12Per questo a l’improvisto allor mostrarsi
la dea, smarrito si restò il guerriero,
ch’ogni pelo sentì tosto arricciarsi
e cade in terra quasi dal destriero.
Pur dopo mille e più sospiri sparsi,
riconosciuto il divin lume vero,
disse, tenendo il guardo in terra volto,
che gli occhi alzar non le potea nel volto:
13«O sacra dea, de la Romana gente
principio e seme, adunque patir puoi
che sia sconfitto e morto in Oriente
Valerian con tanti illustri eroi?
E tu, che a l’empia strage sei presente,
d’aiuto in vece consigliar mi vuoi
che al vincitor, come codardo, io renda
l’armi, e la fuga in verso Esperia prenda?
14Come possibil fia giamai ch’io viva
restando in Persia Augusto o morto o preso?
Ma se tu brami di salvarmi, o diva,
deh, fa’ ch’ei sia per la mia man difeso,
ch’altrimenti convien d’Averno in riva
ch’oggi mi trovi, a morir solo inteso».
Dir non poté altro più, tanto lo punse
doglia e spavento; allor la dea soggiunse:
15«Se per impedir ciò stato bastante
fosse d’alcun mortal l’opra o il valore,
degno te sol fra tanto, o Pio Costante,
fatto avria il Ciel di così largo onore;
fermati, e non passar più dunque inante;
mitiga l’ira omai, spegni l’ardore,
ché quanto oggi è successo ne l’interna
sua mente fisse il Re che il Ciel governa.
16Né voler senza il tuo signor la morte
bramar, né tanto in odio aver la vita,
ma riprendi il primiero animo forte,
e da te resti ogni viltà sbandita,
che il Ciel ti serba a più felice sorte,
e vuol che quinci facci oggi partita,
per gir veloce a Roma, acciò che il figlio
d’Augusto esca per te fuor di periglio.
17Ché se prima di te giungesse certo
romor del caso a Roma, ove può tanto
l’invidia e l’odio, ancor che stia coperto
mentre l’occasion s’attende in tanto,
quei potenti che l’occhio han sempre aperto
potrian l’imperial corona e il manto
vestirsi, e lui cacciar fuor de le porte
o dargli insieme col fratel la morte.
18L’ardir dunque e la forza a tanti e tali
toglier volendo, pria che l’ombra oscura
la notte apporti, a te giungendo l’ali
di Roma ti porrò dentro a le mura.
Quivi a ciascun, fuor che a Galeno, i mali
successi ascondi, e quivi opra e procura
sì ch’egli al seggio imperiale ascenda,
pria che Roma d’Augusto il caso intenda».
19Così detto la dea stese la mano
dov’ei ferito aspro dolor sofferse,
e fatto quel già d’ogni piaga sano,
con nube oscura subito il coperse;
per ciò, reso il furor del tutto vano,
e la gran rabbia de le genti perse,
montar lo fe’ sul carro e verso Roma
carchi andaron gli augei di doppia soma.
20Tanto andò in alto, e sì veloce corse
Costante, e sì vicino al febeo lume,
che, per guardar che stesse in giù, non scorse
mai dove fosse mar, terra né fiume;
dal dritto calle unqua la man non torse
l’accorta Citerea, finché le piume
tese gli augei calàr sopra una sponda
là dove il Tebro i sette colli inonda.
21Com’aquila talor ch’audace scende
verso i raggi del sol puro e lucente,
donde scorta la preda altera scende
subito in terra, e sì presta e repente
percuote l’aria, e in guisa l’apre e fende
che il fischio e il rombo di lontan si sente,
così, al grand’uopo le veloci penne
gli augei spiegando, il cavalier sen venne.
Costante informa Galeno della cattura del padre per mano dei Persiani e assicura la sua successione al trono, poi rincuora il popolo (22-36)
22E giunto a Roma andò tosto a Galeno,
ancor che stanco e dal disagio vinto,
cui fe’ saper del miser padre a pieno
dal rio Sipario in duri lacci avvinto,
e che del roman sangue era il terreno
molle e l’Eufrate orribilmente tinto,
tal che d’ogni altro giorno atro e funesto
stato era lor via più infelice questo.
23Poi, con intenso e con paterno affetto,
Costante l’essortò che il caso atroce
si voglia riserbar nascoso in petto
acciò che fuor non se ne sparga voce,
perché d’alcun potente aver sospetto
si de’, cui rode invidia, ira arde e cuoce;
onde in breve cagion di gran tumulto
esser potria se non fia il caso occulto.
24«Facil ti fia nasconderlo almen tanto
che tu nel regno abbia fermato il piede,
di doni essendo al popol largo in tanto,
come a i soldati ancor d’ampia mercede,
e publicar facendo in ogni canto
te successor del padre e vero erede:
non ritrovando a farti offesa loco
né tempo, quei potran nuocerti poco».
25Galeno, il caso da Costante inteso,
restò afflitto e smarrito in volto,
sì colmo di pietà, sì d’ira acceso,
e in un sol punto in sì gran cure involto
ch’un ceppo a i piedi, un giogo al collo, un peso
su gli omeri aver pargli, ch’esser tolto
mai non gli possa, e per soverchia doglia
piangendo si squarciò l’aurata spoglia.
26Pur, visto il grave e subito periglio
dove incorrea se il caso era palese,
di Costante osservò l’util consiglio,
che sì gran piaga a coprir sempre intese;
ma ciò non val che un tacito bisbiglio
serpe d’intorno, ché l’insidie ha tese
contra i Romani l’empio re fallace,
ch’Augusto è preso o ch’egli estinto giace.
27Venir visto Costante, e la ragione
di ciò nessun potendo imaginarsi,
bisbigli or qua or là fra le persone
diversamente in Roma erano sparsi.
Che sia Valerian morto o prigione,
visto in occulto i donativi darsi,
non sol presume ogni un ma tien per certa
la cosa, e se ne parla a la scoperta.
28Ma tai del saggio cavalier son l’opre
nel proveder dove il periglio scorge,
e sì la tema con l’audacia copre
e tal rimedio ad ogni cosa porge
ch’ogni un mira da parte e non si scopre,
che nulla omai di poter far s’accorge:
già ne l’imperio sì Galeno è fermo
ch’alcun bisogno più non ha di schermo.
29E per mostrar ch’essi timor non hanno,
o sia la strage occulta o sia palese,
dinanzi a i rostri ove le turbe stanno
publicar fe’ le mal successe imprese.
Scorto il pianto il guerrier, scorto l’affanno
del popol tutto allor che il caso intese,
parlò in tal guisa, in alto loco salito,
per esser visto e ben da tutti udito:
30«Se per valor de i Persi o per virtute
fosse tal caso, e non per fraude occorso,
d’Augusto disperando la salute
solo al pianto anch’io vosco avrei ricorso;
ma perché l’arti lor son conosciute
e quel che dianzi a nostro danno e scorso,
di cui si attribuiscon tanta lode,
non fu per lor virtù ma per lor frode.
31Deh, non vi date in preda al troppo affanno,
lasciate il pianto, il sospirar, la noia,
cose che alcun ristoro a voi non danno
ma che a i nemici vostri accrescon gioia;
perché alteri non sian di tanto inganno,
perché in lor man l’imperator non muoia,
deposto il duol, di roman spirto indegno,
sfoghiam con l’arme il generoso sdegno.
32Perché restando in ozio a guardar, come
non tocchi a noi punir torto sì espresso,
l’alto Imperio roman con gravi some
saria da più d’un rio tiranno oppresso,
e disprezzata Roma, il cui sol nome
tremar fe’ Medi, Arabi e Sciti spesso;
e da Sipario il Campidoglio vinto
la bella Ausonia e il latin nome estinto.
33Quando il Perso avrà nuova esser già posto
nel seggio imperial d’Augusto il figlio,
e che sia il padre a liberar disposto,
ricco di forza e ricco di consiglio,
la temeraria impresa lasciar tosto
vedrassi, e non voler porre in periglio
l’ampio suo regno, poi che tocca e vede
quanto e di forza e di ragion ne cede.
34Fu preso Augusto, ma però né terra,
né villa pur da noi si è ribellata,
né re confederato a farci guerra
si è mosso, ogni un la fede ha conservata.
Molt’oro ne l’erario oggi si serra,
navi e gran gente abbiam per tutto armata,
e come chiar si vede a più d’un segno
gli dèi contra di noi non han più sdegno.
35Se ne i perigli e ne le sorti estreme
fossero stati i nostri padri lenti,
e che perduta avessero la speme,
sarian d’oscura morte in tutto spenti.
Perché discesi noi dunque dal seme
illustre lor non ci mostriamo ardenti
di seguir l’orme e d’imitar quell’opre,
cui mai tempo non spegne o marmo copre?».
36E così detto il cavalier discese
da l’alto seggio; il cui parlar con tanto
piacer fu accolto, e sì gli animi accese
del popol che, lasciato a dietro il pianto,
con lieto grido il cor fecer palese,
risonandone l’aria in ogni canto.
Poscia tutti (ch’un sol non vi rimase)
l’accompagnaro a le paterne case.
Galeno incarica Costante di organizzare e comandare la spedizione di soccorso a Valeriano, si raccoglie un immenso esercito (37-43)
37Costante in pace con prudenza pose
l’Impero, a che sol pria volse la mente,
e gli successer così ben le cose
ch’ei per tutto acquetar fece ogni gente;
poscia Galeno a vendicar dispose
il padre, e a far l’impresa d’Oriente;
e questo ancor, trovatolo disposto
già prima, ottenne facilmente e tosto.
38Anzi l’autorità tutta a lui diede
di fare, e d’ordinar ciò che volea,
scorgendo oltra il valore, oltra la fede,
che sol per sua cagion l’impero avea;
e volendol pagar d’ampia mercede,
poi che securo allora non gli parea
ch’ambi Roma lasciassero, in sua vece
di tutta l’oste imperator lo fece.
39Fatto duce il guerrier di tanta impresa,
patrizi e cavalieri e senatori
tutti corrono a lui con l’alma accesa,
di fuor mostrando i loro interni ardori;
ciascun la mente ha con gran speme intesa
che acquisti Roma i già perduti onori
e che de i danni suoi prenda ristoro,
tornando il cavalier cinto d’alloro.
40Onde Costante diece legioni
raccolse tosto, e seco erano misti
trent’altri mila fanti esperti e buoni
quanto d’Italia uscir mai fosser visti;
nessun di lor bisogno avea di sproni
perché l’onor perduto si racquisti.
Tredici mila cavalier poi scelti
da lui furo Aquitani e Belgi e Celti.
41Oltra sì bello essercito e sì grande,
corre a Costante ognor gente infinita,
mentre veloce l’ali altera spande
la chiara fama sua per tutto udita.
Se ben devesser quei d’erba e di ghiande
con gran fatica sostentar la vita,
pronti a seguirlo sempre in ogni loco
son tutti, ancor ch’entrar voglia nel foco.
42Se per gran nobiltà, per gran ricchezza,
in Roma o fuor ne le provincie esterne
alcun risplende, ogni altra cosa sprezza,
né il commodo né l’agio suo discerne
pur che segua il guerrier, cui tal prontezza
diletta e gran piacer mostra d’averne;
né giorno passa mai che da costoro
non riceva in gran copia argento et oro.
43Talché, senza che il publico s’aggravi,
in Ostia e in Pisa, e in molti lochi altrove,
si fan condur con sommo studio travi,
pur che appresso o lontan se ne ritrove,
non sol per racconciar le vecchie navi
ma per farne anco a varie foggie nove;
d’Europa e d’Asia e d’Africa già tutti
i più eccellenti mastri eran condutti.
Costante riceve la visita dell’amico Sereno, che gli narra come è scampato al massacro dei Persiani (44-63)
44Mentre ciò fassi, e che le turbe intente
d’armi e di veste provedeansi tutte,
la notte e il giorno il cavalier dolente
tener potea le luci a pena asciutte,
tanto più che sforzato era sovente
da le persone in casa sua ridutte
a raccontar di parte in parte il caso,
come Augusto prigion fosse rimaso.
45Diece volte alcun giorno e più convenne
tutto il fatto narrar con sua gran pena,
come il rio tradimento avea Perenne
ordito e con Fraorte e con Surena,
fin che in man di Sipario Augusto venne,
ch’avvinto lo tenea d’aspra catena,
e com’ei salvo per voler divino
stanco a Roma drizzò tosto il camino.
46O quante volte un pian da monti cinto
descrisse, e dimostrò là dove Augusto
fu preso, e dove Pompeiano estinto,
dove cadde Giustin col fratel Giusto;
qui Cabora correa gonfiato e tinto
di sangue, e il letto suo divenne angusto,
dicea mostrando ognor che l’empia guerra
ben mille volte avea segnata in terra.
47Quest’esser tutto il dì contra sua voglia
sempre il medesmo a replicar costretto,
era cagion che l’aspra intensa doglia
si rinnovasse ognor dentro al suo petto:
perché il concorso adunque da sé toglia,
talor si stava in camera soletto,
da i suoi liberti essendo in prima sparte
le voci ch’era uscito in altra parte.
48Stando egli adunque solo in casa un giorno,
Sereno ivi arrivò, nobil romano,
che in quel punto facea di là ritorno
dove restò prigion Valeriano;
di palme e di trofei Sereno adorno;
prudente, accorto, valoroso, umano,
di Costante fratel fu de la madre,
ma l’onorava e lo tenea qual padre.
49Subito i servi e tutta la famiglia
corsero a darne nuova al lor signore,
che insieme e piacer n’ebbe e meraviglia,
sendo stato per lui sempre in timore;
gli venne incontro, e con serene ciglia,
raffrenando in gran parte il fier dolore,
scontrati al collo, strette ambe le braccia
si gettàr tosto, e si basciaro in faccia.
50Posti quivi a seder poi ragionaro
tra lor del caso occorso lungamente,
e le fatiche avute si narraro
l’un l’altro nel partirsi d’Oriente.
Costante pria com’egli a paro a paro
sen venne de la dea verso Occidente,
e ciò che fatto avea poi che fu giunto
in Roma, gli narrò fino a quel punto.
51Soggiunse allor Seren: «Tu dei sapere
che trar visto prigion Valeriano,
e, rotte e morte le romane schiere,
già tutto rosseggiar di sangue il piano,
da parte mi tirai perché vedere
mi parea tutto il nostro sforzo vano;
molti altri insieme ancor s’erano uniti
meco sul monte a destra man saliti.
52E proponendo quei vari e diversi
partiti, e stando in gran confusione,
molti eran di parer che in man de i Persi
rese l’armi si desse ogni un prigione;
ma, questo inteso avendo, io non soffersi
che vil tanto e codarda opinione
mai prevalesse, onde tal modo qualsi
già conchiuso a lasciar gli prevalsi,
53dicendo: – Adunque o miseri, o meschini,
presi e venduti schiavi esser volete?
e che il barbaro crudo se Latini
cheggia e compagni, o se Romani sète?
non fia meglio cader quai cittadini
di Roma, come tanti oggi vedete,
ch’onorati morir, pria s’hanno eletto
che vivi dar mai di viltà sospetto?
54Mentre il giorno ancor luce, e mentre intenti
son gli inimici d’ogn’intorno sparti,
rubando a dispogliar le morte genti,
e che perciò fan risse Ircani e Parti,
per mezzo il campo a gir non siam noi lenti,
le forze usando sol, deposte l’arti,
ch’aver la speme già total perduta
ne i casi estremi ancor sovente aiuta.
55Con forza e con audacia ogni un la spada
stringendo, poi ch’ogni altro aiuto è vano,
facciasi dar da i barbari la strada,
ch’esser vuol degno cittadin romano -.
Piaciuto il detto mio, non stero a bada
ma tutti, preso il ferro acuto in mano,
e me lor duce avendo eletto, verso
l’Eufrate a mira andai sempre a traverso.
56Nessun, di tanti ch’eran meco, stanco
mostrossi, ma ciascun tutto infiammato
feroce apparve e valoroso e franco,
più che non era in tutto il giorno stato;
tosto gli scudi ogni un dal lato manco
levossi, e si coperse il destro lato,
ch’aperta e molto esposta quella parte
stava a gli strali de le genti parte.
57Uccidendo e ferendo, e dimostrando
tutti gran cor, da me condutti furo
contra i barbari, d’ira fulminando,
fuor di periglio in loco alto e sicuro;
un grande armato innanzi a gli altri andando
scorsi, col manto sopra l’armi oscuro,
che d’intorno girando una gran spada
sempre a noi fece spaziosa strada.
58E giunto essendo a quello angusto calle
che i Persi chiuso avean l’istesso giorno,
acciò che Augusto uscir fuor de la valle,
né far potesse indietro mai ritorno,
l’aperse a forza e, sempre a noi le spalle
volgendo, né pur mai guardando intorno,
da lontano e per vie non anco usate
ci fe’ la scorta ognor fino a l’Eufrate.
59Dove giunto, adoprar navi né ponte
non volse, ma con l’armi e col destriero,
l’acque trovate a sostenerlo pronte,
su l’altra sponda se n’andò leggiero;
quindi verso di noi volta la fronte,
fe’ cenno ove più destro era il sentiero.
Poi, fatto ciò, dentro una nube parve
ch’entrasse, e quindi subito disparve.
60Da noi passato adunque essendo il fiume,
che si varcò senza trovar contesa,
e quella strada che il celeste nume
già mostrata n’avea subito presa,
l’altra mattina, sorto il nuovo lume,
tutta avendo la mente a Roma intesa,
cura diedi a Neron di quei soldati
ch’eran de i Persi del furor scampati.
61Et io la notte e il giorno ognor veloce
venuto son con diligenza grande,
temendo che di me prima la voce
non giungesse del caso in queste bande;
ma d’Aratto venuto a l’ampia foce
fin dove, senza ch’altri ne dimande,
s’ode il tuo nome, inteso ch’eri giunto,
restai d’ogni timor privo in quel punto.
62Quivi seppi non men che da te posto
nel seggio imperial d’Augusto il figlio
l’avevi il padre a liberar disposto,
che di morte prigion stava in periglio;
e che palesemente o di nascosto
nessun più, con la forza o col consiglio,
turbar potea quell’ordine che stato
da te con tal prudenza era ordinato.
63Con gran letizia intesi finalmente
che, imperator già tu de l’oste eletto,
sì gran concorso avevi ognor di gente
che in Roma quelle a pena avean ricetto;
ma con gli occhi miei propri ora presente,
del grido assai maggior vedo l’effetto,
talché già spero che fra pochi giorni
libero Augusto al seggio suo ritorni».
Costante temendo qualche frode a proprio danno decide di allontanarsi temporaneamente verso Ostia: passeggiando un giorno trova un giovane che lo conduce a un palazzo pieno di piaceri, Costante rifiuta di fermarvisi (64-86)
64Soggiunse allor Costante: «Ciò che inteso
fu in Epiro da voi, tutto fu vero;
però sappiate ancor che m’è conteso,
né so perché, d’aver queto il pensiero.
Fin che in Siria non sono, e fin che preso
non ho di Persia il più dritto sentiero,
starò sempre in timor che non si ordisca
fraude che il mio viaggio anco impedisca.
65Ma perché di molestia ognor son pieno
quinci desio d’allontanarmi un poco,
e voi lasciando in vece mia, Sereno,
desio mutar per qualche giorno loco;
fate ch’ogni giornata un duce almeno,
per trastullo servendovi e per gioco,
veder tutti vi faccia i suoi soldati
in campo Marzio in ordinanza armati».
66Ciò detto la medesima giornata
andò verso Ostia, ove fermossi tanto
che in ordine fe’ por tutta l’armata,
cosa ch’ivi indugiar lo fece alquanto;
e mentre da i ministri apparecchiata
quell’era, afflitto e con lugubre manto,
talor solo, Costante se ne giva
passeggiando del mar lungo la riva.
67Onde, senza avvedersi, dal pensiero
tanto fu trasportato innanzi un giorno
che a mal suo grado, uscito dal sentiero,
girando andò per molto spazio intorno,
e quasi consumò quel giorno intero,
ché far non seppe indietro mai ritorno.
ma per gran nebbia essendo l’aer fosco
si trovò dentro un intricato bosco.
68Di su, di giù, di qua, di là Costante
sen giva errando, e tutto pien di doglie,
ch’altro mai non trovò che dumi e piante,
e sterpi e balzi e sassi e rami e foglie.
Un giovenetto al fin di bel sembiante
scontrò, vestito d’onorate spoglie,
che benigno e cortese salutollo,
e lui preso per man seco guidollo.
69Tosto che l’ebbe quel preso per mano,
de l’intricato bosco il trasse fuori,
e giunse dentro un dilettoso piano
tutto coperto d’odorati fiori.
Vedeasi, a risguardar quindi lontano,
d’oro e d’argento e d’altri bei colori
sì vagamente un gran palagio adorno
che molte miglia risplendea d’intorno.
70Quivi guidollo ognor fermando il piede
sopra i bei fiori, e sopra l’erba molle:
dal palazzo a guardar tutto si vede
quel vago piano, essendo sopra un colle
che però poco la pianura eccede,
e poco in alto il giogo ameno estolle;
sì dolcemente sopra quel si ascende,
che la salita pur non si comprende.
71Costante, entrato nel palagio, vide
per tutto sol delicie e sol piaceri:
quivi ogni un balla e suona e canta e ride,
sempre scacciando i più gravi pensieri;
si veggon compagnie d’amanti fide
per ogni stanza, e donne e cavalieri;
letti e mense e pitture, e in ogni parte
son tavolieri e scacchi e dadi e carte.
72Disse quel giovenetto: «Se tu vuoi
gir per le vie ch’io mostrerotti piane,
tutti avrai quei piacer ch’abbiam qui noi,
stando le cure ognor da te lontane;
de la mestizia e de gli effetti suoi
saran contra di te le forze vane,
vivendo in gran piacer molti e molti anni,
privo di doglie ognor, privo d’affanni».
73«Dimmi (rispose allor Costante), s’io
seguirò questa tua piacevol strada,
potrò vendetta far del mio signore?
potrò per liberarlo oprar la spada?
Perché sol regna in me tanto desio,
questo sol bramo e questo sol m’aggrada;
e nel far questo sempre ogni fatica
mi fia riposo et ogni cura amica».
74«Non ti risolver, cavalier, sì tosto»
soggiunse il giovenetto, e immantinente
per man presol di nuovo, in un riposto
loco guidollo, ov’era molta gente.
Quel nudo in bagno e questo in letto posto
scherzar vedeasi a gara dolcemente,
e per tutto era un uom sempre e una donna
che a nessun manto si vedea né gonna.
75Poi lo condusse in una stanza piena
di gente, pur de l’uno e l’altro sesso,
che sedean parte ad una lauta cena
stand’un uom sempre ad una donna appresso,
parte con suoni e canti ogni aspra pena
del petto avrian levata al duolo istesso,
parte a quegli servìa che in gioia immensa
stavan ridendo e motteggiando a mensa.
76Poscia un altro non men piacevol loco
quindi partiti ancor gli fe’ vedere,
dove uomini e pur donne intorno al foco
con largo giro stavano a sedere,
e facendo or a questo ora quel gioco
dispensavano il tempo in gran piacere,
qual dando in pegno il manto ond’era involto,
di carbon tinto qual mostrando il volto
77Sentiasi di costor da lunge il riso,
vedendo ignudo alcun quasi spogliarsi,
e tinte di carbon le donne il viso
quivi non men che gli uomini mostrarsi.
Da questo un altro loco poi diviso
mostrogli, ove per tutto erano sparsi
danari e gemme in copia, e si potea
torne quanto ciascun voglia n’avea.
78Quindi poi lo guidò dentr’un giardino
pien di fiori e di maturi frutti,
ch’un barco da man destra avea vicino
dove assai capri e cervi eran ridutti,
lepri e conigli, e un fonte cristallino
chiudea nel mezzo, i cui spessi acquedutti
quattro peschiere empian con chiare vene,
tutte di pesci d i più sorti piene.
79Tendean per tutto quivi e lacci e reti
giovani e donne, e poi con cani e strali
givan cercando, indi cacciando lieti
verso di quelle i timidi animali,
su l’erbe che a veder parean tapeti
pe i fiori a l’oro, al minio, a l’ostro eguali,
con gli ami e l’esca intorno a le peschiere
sedean molti, e fuggir vedean le fiere.
80Stava di man sinistra un altro barco
di mura cinto altissime d’intorno,
di coturnici e d’altri augelli carco,
che di continuo vi facean soggiorno,
tal che le reti e il visco e i lacci e l’arco
quivi adoprar quanto era lungo il giorno
potean uomini e donne, e con gran gioia
da sé in tal guisa allontanar la noia.
81Ma quivi dir non si potrian mai quanti
s’avea piaceri: il vago loco, adorno
di seta e d’or, chiudea sol risi e canti
e suoni e giochi e balli, e notte e giorno,
sì buoni e i vini e i cibi erano, e tanti
che fora meglio il far quivi soggiorno
che il far soggiorno in quelle parti dove
siede Marte, Mercurio, Apollo e Giove.
82Però Costante ogni piacere, ogni agio
sprezzando a lui dal giovenetto offerto,
con fretta si partì fuor del palagio,
tornando là dov’era in quel deserto.
Ritornar prima al loco aspro e malvagio
volse il guerrier, del camin vero incerto,
che uscir di quella speme in tutto fuora
ch’avea di liberar Licinio ancora.
83Né giova che gli dica il giovenetto:
«Ch’animo è il tuo di far, stolto guerriero?
perché l’agio e il piacer perdi, e il diletto,
che sempre avrai seguendo il mio sentiero?
perché d’espor non cessi in guerra il petto
contra del Parto impetuoso e fero?
Stando avrai meco ognor posa e quiete,
né giamai fame patirai né sete.
84Del Cancro nuocer, qui stando, l’ardore
non ti potrà, né de la bruma il gielo;
di morte non starai sempre in timore,
né dormirai sotto l’aperto cielo,
ma gli anni avrai tranquilli e i giorni e l’ore,
per lunga età facendo bianco il pelo.
A chi mi segue in somma unqua non ponno
romper né trombe né tamburi il sonno.
85Oh quante belle cose ha fatte Iddio
sol per nostro piacer, sol per nostr’uso,
che dopo morte avendone desio
l’uom chiama indarno e ne rimane escluso.
Prendi, o Costante, il buon consiglio mio,
se in tutto al fin restar non vuoi deluso,
ch’alcun, poi che dal fato gli vien tolta
la vita, non rinasce un’altra volta».
86Pregato in guisa tal dal giovenetto,
Costante ad ascoltar punto non bada,
ma via più sempre quel piacevol tetto
fugge, né vuol passar per la sua strada;
d’ogni offerto piacer, d’ogni diletto
si annoia, e solo il travagliar gli aggrada,
pur che in servigio del signor suo spenda
gli anni e la vita, e libertà gli renda.
Nel bosco incontra un vecchio che lo conduce per un erto monte ad un palazzo, dove si esercitano molti guerrieri, e lo incoraggia a proseguire l’impresa (87-104,4)
87Tornato adunque dentro al folto bosco,
dov’era in prima or qua or là smarrito,
l’aer di nuovo ancor tornato fosco,
del Tirreno arrivar non potea al lito.
Scontrato un vecchio al fin ch’era, qual tosco
sacerdote, di brun tutto vestito,
pregollo che volesse in cortesia
del mar mostrargli la più dritta via.
88Rispose il vecchio allor: «Caro mio figlio,
di mostrarti la via contento sono,
né vuo’ d’aiuto mai né di consiglio
mancarti, pur ch’io sia nel darlo buono.
S’al non vero camin trovo in periglio
d’appigliarsi alcun mai non l’abbandono,
ma di continuo vien quel da me scorto
fin ch’egli arriva di salute al porto».
89E così detto il saggio vecchio prese
per man Costante, e verso un alto monte
guidollo, e l’aiutò fin che l’ascese,
cadendogli il sudor giù da la fronte.
Trovaro rupi e balzi, onde il cortese
vecchio, perché il guerrier sopra vi monte
con più facilità, sempre gli porse
la man per tutto, ove il bisogno scorse.
90Al fin con gran sudor, con gran fatica,
per sassi e spine andato ognor, Costante
trovossi aver sopra una piaggia aprica
un gran palazzo a l’improviso inante.
L’architettura, ancor che fosse antica,
però d’arte agguagliar poteasi a quante
trovar si ponno in qual si voglia clima,
né punto a quel cedea dov’ei fu prima.
91Trovò dentro al palazzo in una stanza
molti e tutti, a veder d’aspetto, gravi,
né stavan come i primi in gioco e in danza,
né fra cibi a seder, lauti e soavi,
ma di discorrer sempre aveano usanza,
come trovar d’altre maniere navi,
come salvar, come espugnare terre,
gli esserciti ordinar, vincer le guerre.
92Sempre dinanzi avean quei libri e carte,
a mostrar di continuo il sito pronti
de la terra abitata, e in ogni parte
dove sian mari e fiumi e valli e monti;
tutti eran d’insegnar disposti l’arte
del far steccati, fossi, argini e ponti,
e come un duce in guerra accorto e saggio
vegghiar deve aspirando al suo vantaggio.
93Dal saggio vecchio innanzi ancor guidato,
trovaro una onorata compagnia
di cavalieri, ch’ogni un d’essi armato
a piè si essercitavan tutta via.
Di quella stanza entrò poscia in un prato,
dove con gran destrezza e leggiadria
molti altri armati ancor sopra i destrieri
si essercitavan coraggiosi e feri.
94Fuor di quel prato in due piccioli fiumi
molti si vanno essercitando a nuoto;
altri con fochi e con notturni lumi
fanno il bisogno lor da lunge noto;
per rive e per spelonche altri, e per dumi,
perché l’ostil pensier d’effetto vòto
rimanga, di celar gente fan prova
da gli occhi altrui, con qualche astuzia nova.
95Qui si essercita, in somma, e qui s’impara
ciò che fa di saper bisogno in guerra;
ne le battaglie ogni persona rara
di forza e di saper quel loco serra;
come a gli aguati ostili si ripara,
come in mar si combatte e come in terra,
qui chiar si mostra, e come si difende
se stesso, mentre il suo rival s’offende.
96Porser molto al guerrier maggior diletto
le fatiche, il vegghiar, l’aver disagio
che di sua volontà, non già costretto
del vecchio, prende ogni un dentro al palagio,
che non fece a veder del giovenetto
l’ozio e i piaceri e le delicie e l’agio.
Già prima il vecchio con suo gran conforto
dove inchina il guerrier ben s’era accorto;
97cui disse: «Quanto, o nobil cavaliero,
d’alto animo ti mostri oggi e prudente,
poi che sì piano e facile sentiero
seguir non vuoi tra sì corrotta gente!
Sappi che solo il mio sì trova il vero,
se in preda a i sensi alcun non da la mente;
sol chi mi segue arriva a vera gloria
lasciando eterna al fin di sé memoria.
98Per questa via ch’io ti mostro caminaro
Teseo, Giasonne, Achille e gli altri eroi,
che le fatiche e vigilie amàro,
sprezzando l’ozio e i vani effetti suoi;
per questa Bacco tanto al padre caro,
che l’India scorso in fino a i liti eoi,
coronato di pampini la fronte
sul carro a trarlo fur le tigri pronte.
99Per questa Alcide, che il corporeo velo
dato in preda a le fiamme in cima d’Eta,
colmo di gloria andò con l’alma al cielo,
posta in Esperia a i naviganti meta;
per questa ebbero in terra e caldo e gielo
quei due gemelli, ond’oggi ancor s’acqueta
la gran procella ch’Austro adduce e Coro,
tosto che appar la chiara luce loro.
100Ma che direm del gran padre Quirino,
che Amulio, Acrone e tanti armati estinse?
che del gran Scipion, seme divino,
che del sangue african la terra tinse?
che, in somma, di quel fulmine latino,
Cesar, che altero e venne e vide e vinse?
che d’altri ancor, de i cui gran nomi è piena
la terra sì, che può capirgli a pena?
101Che di te finalmente, o mio Costante,
che per quel ch’io ti mostro aspro sentiero,
volgendo ognor con gran sudor le piante,
solleverai questo caduto Impero,
e contra i Persi armato anco in Levante,
dove hai sol volto e sol fermo il pensiero,
farai sì con la forza e col valore
che acquisterai sovra ogni antico onore?».
102«Padre,» rispose il gran guerrier romano,
«sempre a seguirvi avrò le voglie pronte,
e sprezzando il sentier facile e piano
vuo’ salir vosco il faticoso monte,
tanto più s’io potrò con questa mano
gli oltraggi vendicar, gli scherni e l’onte
ch’ognor son fatte da Sipario ingiusto
contra Valeria Cesare August«».
103«Convien» soggiunse il vecchio «ch’io ti dica
qual sia del giovenetto il nome e il mio:
sappi ch’io sono il dio de la fatica,
sì come quel de le delicie è il dio.
Chi segue noi lascia memoria antica
di sé; chi quel, va subito in oblio».
Gettosse in terra allor quivi Costante
con riverenza, e gli basciò le piante.
104Questo fatto il guerrier, quel vecchio saggio
con tenerezza stretto ivi abbracciollo;
poi del Tirreno in ripa al suo viaggio
ch’egli smarrito avea, tosto guidollo.
Giunto in Ostia il guerrier ch’a punto il raggioCostante ritorna ad Ostia e provvede a compiti di logistica (104,5-108)
d’Esperia nascondea ne l’onde Apollo,
del suo tanto indugiar trovò la gente
tutta per gran timor trista e dolente.
105Ma la tristizia in gioia si converse,
visto salvo tornar Costante e sano.
Tosto poi l’altro dì che si scoperse
la vaga aurora dal balcon sovrano,
quei che per mezzo de le schiere perse
scampò Seren di Cabora sul piano
e che in governo poi diede a Nerone
giunser, ch’eran tre mila e più persone.
106Costante al duce lor fe’ grande onore,
e lo volse alloggiar ne la sua stanza;
e salutò dal minimo al maggiore
mentre gli altri passaro in ordinanza.
L’armata poi, ch’avea sempre nel core,
d’ogni bisogno già sendo abastanza
provista, in porto a Roma l’altro giorno,
tolto seco Neron, fece ritorno.
107Non si potria narrar quanto piacere
del suo ritorno il popol tutto avesse:
Roma piena di faci e di lumiere
parea che tutta d’ogn’intorno ardesse;
le genti al suo palagio, a schiere a schiere,
pronte correan per visitarlo spesse;
e quando fuori uscia tal volta un poco
non potea darsi per le strade loco.
108Ma benché le migliaia d’ogn’intorno
d’uomini avesse ognor, però gentile
tanto mostrossi e di modestia adorno,
ché più verso d’ogni uom fu sempre umile.
Del suo partir poi fatto noto il giorno,
che a mezzo fu del già vicino aprile,
piccioli e grandi in guisa si allegraro
che per letizia i gridi al ciel mandaro.
Giunone per odio verso i Romani chiede a Megera di infettare il cuore di Galeno con i peggiori vizi (109-132)
109Giunse il grido a Giunon, che dentro al petto
l’antico sdegno ancor tenea nascosto,
onde già fuor del sacro e natio tetto
con Remo fu dal zio Romulo esposto,
poi con sì crudo e scelerato effetto
di dar la morte a l’un l’altro disposto,
ad Allia, a Trebbia, a Canne e altrove molli
fe’ del sangue roman campagne e colli.
110L’ardente ira gran tempo e il fero sdegno
contra i romani eroi la dea nascose,
sì come a Veio ne mostrò già segno,
che a Roma andar sì volentier rispose;
di ciò il popol cagion fu, ch’ogni ingegno
sempre in placarla et ogni cura pose,
ne i tempi tra gli altari i sacerdoti
sempre chiamando il nome suo devoti.
111Ma poi che la republica romana
fu d’un principe sol posta al governo,
successer molti appresso cui fu vana
l’antica legge, e l’ebber sempre a scherno;
altri con empio cor, con mente insana
sprezzaro il Ciel col sommo padre eterno:
tra questi fur Tiberio e Gaio e l’empio
Neron, di crudeltà sì raro esempio.
112Di cerimonie al fin rimaser vòte
le chiese, e senza il divin culto pio,
poi che Vario Antonin, che sacerdote
fu ne l’imperio di un straniero iddio,
da i tempi lor furo le più devote
statue, mosso da strano empio desio,
per farne un dio non conosciuto adorno,
fece a quei de la patria oltraggio e scorno.
113Di Campidoglio e d’Aventino questa
celeste dea con gran dispregio mosse,
talché al nome roman cruda e funesta
la rese più che per l’adietro fosse;
ma pria contra lui proprio manifesta
l’ira, e l’odio mostrò che la commosse,
che quello insieme con l’augusta madre
uccider fe’ da le pretorie squadre.
114Né qui fermossi ancor l’ira e lo sdegno,
che Alessandro e Mammea la matre uccise:
giusto era questi, e d’ogni laude degno,
né mai peccato in contra il Ciel commise;
Gordian, padre e figlio ambi sostegno
di Roma, e seme del figliuol d’Anchise,
con Massimin d’alta perfidia pieno,
morti furo, e Balbino e Pueno.
115Non l’innocenza al terzo Giordano,
non la fraude a scampar gli Arabi giova,
né per virtute al fin Decio Traiano
col figlio appo Giunon pietà ritrova;
Vibio, col padre rio Treboniano,
mal grado suo, l’ira celeste prova,
com’anco avvenne al valoroso Mauro,
che dato avria a l’Impero ampio restauro.
116Ma che direm del pio Licinio e giusto,
che di virtù fu specchio al mondo e norma,
e giunto al seggio imperial d’Augusto
seguia di Marco e d’Antonio l’orma?
Nondimen di Giunon lo sdegno ingiusto
lo fe’ prigion de la nemica torma,
e spesso aver su gli omeri la soma
del re, per far sì grave scorno a Roma.
117Dunque la dea, ch’aver già dato effetto
al suo pensier credea, visto Costante
con sì fiorito essercito ch’eletto
s’avea, disposto a gir presto in Levante,
colma di doglia, anzi di rabbia il petto,
sospira e geme e nel divin sembiante
si muta in guisa che potria, a guardarla,
porger spavento, e in tal maniera parla:
118«Dunque d’Anfitrion, dunque d’Almena
forz’ebbe il figlio la potizia gente
d’estinguer tutta, e con severa pena
d’Appio render le luci oscure e spente?
E la diva infernal di furor piena,
per gli avuti tesori arditamente
contra Pirro e Pleminio fe’ palese
l’ira che a vendicar il cor gli accese?
119Ma taccio lor, che di celeste lume
nacquero, e l’una affrena il grande inferno,
siede l’altro con noi ne le supreme
parti d’Olimpo, e sederà in eterno;
ma quel che più mi cruccia e più mi preme,
e fa che il poter mio debil discerno,
l’Austro mio servo un regno tutto pote
per cagion spegner che non son pur note.
120Et io che de gli dèi men vo regina,
e del sommo rettor moglie e sorella,
gran tempo indarno cerco la ruina
di questa gente a me tanto rubella.
Quai fian più che Giunon chiamin divina,
o ch’entrin più nel tempio mio con quella
pietà primiera, o più m’ergan devoti
statue, o mi faccian sacrifici o voti?
121Già fu contra d’Enea mia forza in vano,
or ecco di quel seme un saggio, un forte
che di far prove tenta, onde il romano
valor s’estenda oltra le caspie porte;
che valmi a tanti l’aver posto in mano
lo scettro, e tosto poi datogli morte,
con speme in breve il fin veder di questo
Impero, a me sì grave e sì molesto?
122Che da Sipario fosse Augusto preso
per mia cagion che val s’or da Costante
vinta rimango, e che sol tutto il peso
voglia portar questo novello Atlante?
Ma poi ch’io veggio che dal Ciel conteso
m’è il vendicarmi de le ingiurie tante,
spero di ritrovar l’Erinni pronte,
e di mover Cocito e Flegetonte».
123Colma di sdegno, così disse, e tosto
scese Giunon da l’alte luci eterne,
dove a l’incontro di Cirene è posto
Tenaro ombroso, onde a le parti inferne
del cieco abisso a nessun lume esposto
si va per antri oscuri e per caverne.
Quindi scender chi vuol notte e dì puote,
sendo aperte a ciascun le strade e note.
124Ma non veng’a mortal che v’entri poi
nuovo desir di ritornar di sopra,
ché indarno al fin tanti dissegni suoi
e saria indarno e la fatica e l’opra.
Concesse il Ciel già questo a molti eroi,
perché il suo lume ancor là giù si scopra:
prima si passa per un folto bosco
pien d’orror sempre, e tenebroso e fosco.
125Fuor di quel bosco, pria che a la palude
stigia s’arrive che l’inferno serra,
vide gran turba gir con membra ignude,
parte scorrendo, e giacer parte in terra;
quel tutto che qua su con aspre e crude
pene l’uom cruccia, e sempre in lite e ʼn guerra
gli tien l’animo e il corpo, o vegghia o dorma,
trovò là giù con varia orribil forma.
126Cure, affanni, dolor, febri, e la schiera
chiudea quell’empia che interrompe il lutto;
chi d’Arpia forma avea, chi di Chimera,
chi d’altro mostro, ogni un pallido e brutto.
Tra quei godea con l’altre due Megera,
de le miserie altrui, de l’altrui lutto,
cui tosto che la dea da lunge scorse,
con fretta il piè verso la Furia torse.
127E con mano accennando ad alta voce
chiamolla sì che ne tremò l’inferno.
Col capo chino allor quella feroce
gli angui leccar facea l’acque d’Averno;
lascia l’onde pestifere e veloce
corre a Giunon la Furia, e il foco interno
spira per gli occhi, e il viperino crine
stridendo vibra, e par che il Ciel ruine.
128Giunse a la dea l’orribil mostro tinto
di fumo e di caligine la faccia,
di colubri la testa e il collo avvinto,
d’aspi e d’idre e di vipere le braccia;
chi s’erge e chi s’asconde, e un labirinto
fanno intricati, e chi soffia e chi minaccia;
quel s’annoda e quel serpe, e ciascun pieno
dentro era d’atro e di mortal veneno.
129Disse a quella Giunon: «Tu, cui l’oscure
ombre lasciando, o figlia d’Acheronte,
l’Invidia e l’Odio e l’altre infernai cure
sempre sono a seguir per tutto pronte;
e ch’empi di sospetti e di paure
l’umane menti, e d’ogni mal sei fonte,
la fama e l’onor mio, ch’oggi è caduto,
chieder mi sforza a queste parti aiuto.
130Ma più che a gli altri a te, che sei di Marte
ministra, e del riposo e de la pace
nemica, e puoi la terra a parte a parte
tutta infiammar con questa ardente face,
tra padri e figli e tra fratelli ad arte
poni odio e guerra, e ovunque vai ti piace
sol di veder sospir, lagrime e morte,
dunqu’esci fuor de le tartaree porte,
131dunqu’entra in Roma, e sia per te Galeno
contra Costante colmo d’odio, e tanto
instilla nel suo cor del tuo veneno
che a lui si dia d’ira e di rabbia il vanto;
fa’ che di sangue uman tinto il terreno
veggia, e dal cielo oda i sospiri e il pianto;
l’un muoia e l’altro, e posto in doglia e in lutto
Roma e l’Impero sia guasto e distrutto.
132Fa’ che in tanto Galeno abbia più cura
d’ogni vil fronda ch’Austro aggira e scuote
che del suo padre che in gravosa e dura
prigion si sta, con lagrimose gote.
Infondi in lui perversa e ria natura,
fallo avaro e crudel più ch’esser puote,
perfido e falso, e che gli affligga il petto
la notte e il giorno invidia, odio e sospetto».
Megera infetta Galeno, che si trasforma in crudele tiranno: la città cade nel caos (133-147)
133Non pose indugio a quel parlar Megera,
ma fu sul Tebro in un momento, in Roma,
e quivi ascesa il Campidoglio altera,
trattosi un serpe da l’orribil chioma,
quello in man tolse, e notte essendo, ov’era
Galeno andò, che de i pensier la soma
deposta, allor dormia soletto e nudo,
sopra cui pose il fero serpe e crudo-
134E d’un liquor che dal tartareo regno
portò, tutto lo sparse indritto al core:
ira, sospetto, rabbia, odio e disdegno
questo in lui generò, tema e furore.
Con spessi gridi poi la Furia segno
diede a Giunon de l’angue e del liquore,
onde a Galeno avea subito infetto
di tartareo venen la lingua e il petto.
135Nulla il misero vede e nulla sente,
da grave sogno sopragiunto allora,
che gli infuse nel cor l’aspro serpente
mentre col morso rio l’ange e l’accora:
parea che sopra un gran destrier corrente
per la porta Capena uscisse fuora
di Roma, indosso avendo il manto d’oro,
lo scettro in mano e il crin cinto d’alloro,
136e che uscito il destrier di Roma a pena
ruppe co’ denti vaneggiando il morso,
tal ch’ei trovossi a piè sopra l’arena
chiamando in van da chi seguia soccorso;
parve al fin che Costante con gran lena,
poi che dietro al destrier molto ebbe corso,
su vi salisse col medesmo manto
ch’egli avea prima. E risvegliosse in tanto.
137Subito desto si gettò dal letto,
come lo sforza l’infernal Megera,
che pien gli avea d’amaro tosco il petto,
onde convien che a mal suo grado pèra.
Ma pria, colmo d’invidia e di sospetto,
tra se stesso volgea con qual maniera
levar potesse il cavalier di vita;
né vuol che al padre suo più doni aita.
138Tanto il popol amar pargli Costante,
e sì ciascun ne l’alma averlo impresso,
che da l’imperial seggio bastante
lo giudica a levarlo ove l’ha messo;
non vuol che duce più vada in Levante,
dicendo: «Io fo’ perché mi resti appresso».
Ma tanto era il venen da l’aspe infuso
dentro al suo cor, che non potea star chiuso.
139Convien che scopra il perfido tiranno
l’ira infernal ch’ognor l’arde e l’incende:
s’officio o grado amici o parenti hanno
del pio Costante, o s’altri da lui pende,
non resta mai con fraude e con inganno
di far sì che a la rete al fin gli prende,
ponendo a morte sol per fargli scorno,
quindeci e venti e cento ancor tal giorno.
140Né sol Costante ha in odio o sol lui teme,
e s’altri scorge o ricco o saggio o forte,
ma ch’un sol capo il mondo unito insieme
non abbia par ch’aspro dolor gli apporte,
perché vorrebbe a tutto l’uman seme
poter con un sol colpo dar la morte;
e gli uomini e gli dèi già tolti a scherno,
sprezza di par la terra, il Ciel, l’Inferno.
141Non pur come devria cura non prende
di far che il padre in servitù non mora,
ma se ne parla alcun tanto l’offende
che lo persegue in fino a morte ognora.
Solo a sangue, a rapine, a stupri attende,
e mentre ogni più vil prezzando onora,
a prefetture inalza e a più sublimi
gradi istrioni e parassiti e mimi.
142S’avien che saggio o ricco alcun si trove,
in qual si voglia loco in Roma o fuori,
tutti morir gli fa con false prove,
per non commessi e non pensati errori;
né per altra cagion l’empio si muove,
se non perché gli par che sian censori
d’ogni suo fatto gli uomini prudenti,
sol per la robba sono i ricchi spenti.
143E de l’Imperio il capo essendo tale,
ciascun seguia de le sue piante l’orma,
ché l’uom di sua natura ognor col male,
ma col bene rare volte si conforma;
Roma per questo in breve giunse a tale
che di città più non avendo forma,
la bella Astrea da lei fuggir convenne,
e in vece sua l’empia Megera venne.
144Se bel giardin, palazzo, o gemma o moglie
qualcun possede, o cosa tal per sorte,
soverchio peso da portar si toglie
se non gli cede a i satrapi di corte,
e dopo mille affronti e mille doglie,
per strada occulta al fin giunge a la morte.
E con tal fraude or questo or quello estinto,
sempre si scopre il testamento finto.
145È in guisa tal cresciuta la licenza
che in tutto si procede a la scoperta:
da mezzogiorno andar la violenza
senza la benda ognor si vede aperta,
senza temer più magistratti o senza
rossor, la porta avendo Augusto aperta,
d’entrar per quella ogni un pronto si sforza,
che in tutto la ragion cede a la forza.
146Città contra il suo re fatta rubella
mai, sia per forza o per assedio presa,
da i nemici non fu con tal facella
con qual da i figli suoi fu Roma accesa;
l’altero aspetto suo, la forma bella,
per la già tanto rinovata offesa,
contraria è tanto a quel ch’apparea inante
che più non serba di città sembiante.
147Stupri, rapine, sacrilegi e tutti
gli altri vizi più gravi in tal maniera
facean Roma deforme, e furo i frutti
questi del seme sparso di Megera,
talché sospiri, omei, querele e lutti,
mentre il popol si cruccia e si dispera,
e di donne e di vecchi e d’innocenti
fanciulli al ciel sen van strida e lamenti.