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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro II

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.07.15 19:30

Argomento
Non vuol che l’oste più vada in Levante,
da le Furie agitato, il rio Galeno;
ma d’ira e di venen tartareo pieno
di porre a morte ancor cerca Costante.

Giove raduna il consiglio celeste, si rammarica della rovina morale di Roma e ne decreta per questo la caduta, lasciando a uno solo dei suoi abitanti il compito di risollevarla temporaneamente e di ridurla in mano alla Chiesa (1-15)

1Mentre il serpe ch’uscì dal crudo Inferno
spargea mortal venen la notte e il giorno,
de gli alti dèi l’alto rettor superno,
dal sommo Olimpo riguardando intorno
vide la gran città cui diè governo
de l’universo con suo grave scorno
d’ogni scelerità ricetto e nido,
e de i sudditi udì per tutto il grido.

2Onde nel più sublime illustre trono,
di ricche gemme e di purissim’oro,
dentro a cui le stelle risplendenti sono,
stando egli in maestà con gran decoro,
tosto quivi chiamar fece col suono
gli alti dèi tutti del superno coro,
col suon che s’usa allor che chiamar Giove
gli fa per cose e d’importanza e nove.

3Stan giù basso più gradi, e sempre i primi,
tanto a sinistra quanto a destra mano,
più son de gli altri adorni e più sublimi;
e van calando in giù poscia pian piano,
talché più basso quel sedea ne gl’imi
gradi che a Giove più sedea lontano,
più stava in alto e più vicino al lume
del trono eccelso ogni più antico nume.

4L’Eternitate altera e Giano e Celo
stava, e Saturno e Berecinzia e Rea
Vesta in quei gradi, e Polo e Pane e Belo,
Opi e Tellure e Cibele sedea;
i figli poi del gran rettor del Cielo,
che d’ogni sesso quantità n’avea;
quei che immortali onori ebber divini
su gli altri seggi a i primi eran vicini.

5Tra questa schiera sì onorata e bella,
Minerva e Bacco e Venere si asside,
Apollo con la sua nobil sorella,
le Muse con Mercurio e con Alcide;
di gradi poi nuov’ordine da quella
schiera la terza compagnia divide:
tesse ghirlande ognor tra questi Flora,
e d’ostro e d’oro il crin s’orna l’Aurora.

6Tra queste due nel mezzo era Pomona,
stava in quei seggi e Cerere e Vulcano,
Temide, Adrastia, il fier Marte e Bellona;
poi la Fortuna che si fugge in vano,
ma via più sempre a quel propizia e bona
si mostra che di mente appar men sano;
molti son questi e gli altri seggi poi
più bassi le virtuti hanno e gli eroi.

7Tutti gli eroi da man sinistra insieme,
ciascun davante ogni virtù si vede:
Pietà, Prudenza qui dimora e Speme,
Concordia, Verità, Giustizia e Fede;
di minacciar qui Libertà non teme;
Pace, Bontà, Religion qui siede;
tra questa schiera, Onor, tu regni altero,
fama, gloria, salute e piacer vero.

8Gli ultimi gradi poi tengon confusi
i semidei, chiamati nuovamente
dal suon ch’udiron, d’abitar send’usi
la maggior parte in fra l’umana gente;
da l’Austro al Borea questi ognor diffusi
sen vanno, e da l’Esperia a l’Oriente.
Ma qual potrebbe lingua esprimer tanti
geni e lari e cureti e coribanti?

9Ne la reggia sublime ove devea
farsi l’universal divin consiglio,
l’un l’altro ne l’orecchio si vedea
parlarsi, onde per tutto era bisbiglio.
Su l’alto seggio in tanto allor sedea,
tremendo in vista, di Saturno il figlio,
che quando tempo esser gli parve stese
la mano, e cheti ad ascoltar gli rese.

10Poi con voce sonora e con parole
sì gravi ch’ognor sta fermo il suo detto,
e di quel tutto ch’ei comanda e vòle,
convien che segua necessario effetto,
parlò in tal guisa: «O dèi, quanto mi dole,
con ramarico mio, d’esser costretto
di far che Roma, di tutte le genti
regina, in breve ancor serva diventi.

11Chi non conosce i pensier nuovi e strani,
gli enormi vizi e l’impietà di Roma?
Mercé di questi Cesari profani,
del mondo eletti a sostener la soma,
convien che tai pensier riescan vani,
convien che sia tanta superbia doma;
de gli innocenti il sangue ch’ogni un vede
per terra sparso, in Ciel vendetta chiede.

12Già son di fabricar fulmini e strali
stanchi i Ciclopi, e d’aventargli anch’io,
sforzato ognor da tante ingiurie e tali,
contra l’intento e il desiderio mio.
Quando mai fur sì perfidi mortali
qual sì corrotta età, secol sì rio?
Gli Atrei, gli Edipi, i Tantali e i Tiesti
non fur mai d’impietà simili a questi.

13Secondo il gusto mio, solo un Romano
fra tanti sceglierò che giusto sia,
per dar l’Impero a i suoi nepoti in mano;
ma vuo’ quel ne i travagli affinar pria,
poi farò sì che Roma di lontano,
tra i barbari vedrà la monarchia,
e sì tosto avverrà quant’io ragiono,
che molti anco il vedran nati ch’or sono.

14Quante volte ho brusciati intorno i monti,
e fatte sì gonfiar del Tebro l’onde
che al Tirreno i sepolcri e i tempi e i ponti
traea superbo, e gli argini e le sponde;
or piover sangue et or sudarne i fonti;
parlare i buoi, di mostri esser feconde
le greggie; ardere il ciel la notte oscura,
e i lupi urlando gir dentro a le mura?

15Sì tristi auguri pur devean dar segno,
se in quei religion fosse o timore,
de la giust’ira mia, del giusto sdegno,
ch’essi ogni giorno far cercan maggiore.
Dunque omai priva di sì nobil regno
sia Roma, e del barbarico furore
preda, scorrendo incendan colli e piani
Unni, Vandali, Gotti, Eruli, Alani».

Giunone si rallegra delle parole di Giove e chiede che la città venga abbattuta all’istante, Venere al contrario implora che si salvi il trono e lo si dia a Costante: Giove conferma il suo editto (16-30)

16Nel teatro divin l’onnipotente
Padre, rettor del Ciel, parlò in tal guisa.
Cui rispose Giunon, ch’era presente
sopra il medesmo trono in alto assisa:
«Signor, quanto di far t’hai fisso in mente,
e la final sentenza che recisa
non puote esser giamai, mi dan tal gioia
che ugual non ebbi al ruinar di Troia.

17Ciascun tuo fatto, a chi ben scorge il vero,
convien lodar sì, e tutti ognor lodiamo;
ma questo pur dirò: se il grande Impero
di Roma avessi posto in Argo o in Samo,
non fora sì distratto il tuo pensiero,
né sì turbati noi com’ora siamo;
Birsa destrutta e volta in cener giacque,
tanto Roma essaltar sempre ti piacque.

18Ecco i Latini tuoi che chiamar fanno
barbari gli altri e d’ogni legge privi;
ecco i romani Augusti che si fanno
far tempi, altari e statue, e chiamar divi;
che del mondo e del Ciel timor non hanno,
come de la prudenza lor derivi
la grazia e il ben che tu dal sommo coro
sì largo infondi ognor sopra di loro.

19Gli uccisi padri tanti, e da l’istesso
figlio aperto quel ventre ond’egli è nato;
e gli uomini cangiati in altro sesso,
contrario a quel che tu, signor, gli hai dato;
figli e frati e nepoti aver sì spesso
tratti con fame a l’ultimo lor fato;
or sorelle, or matrigne farsi spose,
vergini sacre, e simili altre cose,

20anzi cose più rie, che d’alto loco
gli emuli tuoi dardi avventando e strali,
misti con tuoni e con lampi di foco,
han tratti a morte i miseri mortali,
rispetto al folle ardir son nulla o poco,
ch’esser non contenti a Giove uguali,
benché sia tanto il tuo gran regno in alto,
quei dato in breve ancor t’avriano assalto.

21Né credo che fra tanti un sol si trovi,
anzi dir posso di saperlo certo,
per cui l’antico onor Roma rinovi,
che in terra alcun non è più di tal merto;
poi che la fellonia sua dunque provi,
e che in lei scorgi il grande orgoglio aperto
svelta sia l’empia omai da la radice,
ché più tal fasto al Ciel patir non lice».

22Colma d’alta pietà Venere allora
dal seggio alzata, mesta e riverente,
disse: «O Rettor del Ciel, cui tanto onora
tutta l’umana e la divina gente,
benché il dolor non basti a far ch’io mora,
per esser dea, però triste e dolente
sempre sarò, con passion sì forte
che assai men doglia mi saria la morte.

23Sapendo ogni un che scorgi e sai più cose,
onde il giudicio tuo solo è verace,
che le istesse a noi tutte essendo ascose
fan sì che il nostro è debole e fallace,
quel che di far tua maestà propose
piacendo a Giove a gli altri ancora piace,
perché molte cagioni a te son note
ch’altri comprender né saper le puote;

24ma parlando però con quel rispetto
che a me, tua figlia e serva, conviensi,
non mi può già capir ne l’intelletto
questo esser ben che far di Roma pensi.
S’ogni vizio Galeno ha chiuso in petto,
se in lui corrotti son l’anima e i sensi,
punisci quel, castiga quel severo,
non per lui sol tutto il romano Impero.

25Per uno, o diciam trenta, cento ingiusti,
perché tante migliaia, anzi infiniti
che si ritrovan senza colpa e giusti
devrian de gli altrui falli esser puniti?
Termini già ti parver troppo angusti
per Roma il Tigre e i gaditani liti,
Siene e Tile, et or per così poco
d’error vuoi che sia posto a ferro, a foco?

26Non ti devria bastar che gli innocenti
popoli ognor sian de i tiranni preda?
Qual è quel dio che i lor gridi e lamenti
non oda, e il sangue lor sparso non veda?
Sian dunque gli empi Augusti, o Giove, spenti;
fa’ che a Galeno un giusto, un buon succeda;
con morte acerba questi mostri affrena,
ma non de i falli lor dia il giusto pena».

27Così detto, Ciprigna si ripose
nel seggio suo, di cui l’opinione
molti seguiro, e fur diverse cose
or dette in favor d’essa or di Giunone;
Giove al fin con la man silenzio impose,
poi disse: «Di chiamar voi la cagione
non fu sopra di ciò per darmi voto,
ma perché il mio voler vi fosse noto.

28Non vi chiamai per chiedervi consiglio,
disposto essendo a far quant’io v’ho detto.
Del suo sangue il terren farà vermiglio
Galeno, e tosto sen vedrà l’effetto;
quel sì giusto e sì pio, d’Eutropio il figlio,
sarà da me fino a principe eletto,
che in lui sol chiuso ogni roman valore
renderà a Roma il già perduto onore.

29Il merto suo, con la mia grazia misto,
di ciò ben degno il rende, il merto tante
volte dal Ciel sì chiaramente visto,
che sempre a gli occhi mi starà davante;
non più Ceionio Albin, non più Callisto,
ma fia per l’avvenir detto Costante,
e per l’alta pietà ch’egli ha del rio
caso d’Augusto, ancor sia detto Pio.

30Dopo Galeno ad un forte, ad un severo
ch’avrà d’ogni bontà la mente piena,
sarà concesso non dirò l’Impero,
ma più tosto dirò, mostrato a pena
col seme suo congiunto il seme altero
del Pio Costante, il mondo uscir di pena
vedrassi, e fiorir lieta in Oriente
più che in Esperia la romana gente».

Giunone chiede a Marte di spargere il desiderio di guerra nei Romani: Marte si appresta ad eseguire il compito, ma Venere lo ferma e viene rassicurata sul destino di Roma (31-58,6)

31Tacque ciò detto e giù da l’alto seggio
disceso, gli altri tosto si levaro.
Ma Giunon che desia di veder peggio,
né questo ultimo dir punto ebbe caro,
dicea tra sé medesma: – Or ben m’avveggio
che al mio dolor non troverò riparo.
Che mi val se di Roma esce lontano
l’Impero, e sia l’imperator romano?

32S’avran del mondo ancor la monarchia
questi nemici miei, che sarà poi?
Se da Costante nominata fia
la città capo, o da i nepoti suoi,
che oprato avrà tanta fatica mia,
se in ciel nuovi dèi sempre e nuovi eroi
salir vedransi, e nuove dive insieme
di questo da me tanto odiato seme? -.

33E come al fianco avesse acuti sproni,
calò veloce e con forma divina
là dove i sette gelidi Trioni
mandan sì spesso e nevi e ghiaccio e brina,
e fra due monti altissimi, che tòni
non senton mai, né mai se gli avvicina
fulmine o lampo per antica usanza,
di Marte suo figliuol trovò la stanza.

34Quivi di terso ferro e rilucente
son porte, archi, colonne e tetti e mura,
teatri e loggie tinti orribilmente
di sangue, onde a Giunon nacque paura;
per tutto anco apparir vista gran gente
di strana e spaventevole figura,
Strida, Pianto, Dolor, Tema e Martiro
contr’a Giunon fuor de le porte usciro.

35Ma poi che giunta fu dentro a le porte,
l’Ira trovò, lo Sdegno e la Vendetta,
l’Odio e l’Insidie aver con faccie smorte
sempre il coltel nascosto e la saetta.
Le Minaccie, il Furor vide, e la Morte,
e quel che occasion mai non aspetta,
l’Impeto, e con l’Inganno e con la Frode
la Cura, che sé stessa e gli altri rode.

36La Licenza sen va scorrendo intorno,
sta la Discordia lieta e il Tradimento;
fan di lor stessi un ricco tempio adorno
molti, ch’ogni color nel viso spento,
di nodi e ceppi involti, e notte e giorno
mandando sempre al ciel flebil lamento,
dan chiaro indizio che fur presi in guerra,
col corpo stesi orribilmente in terra.

37De i miseri per forza in guerra presi
l’arme son rotte alteramente e vòte,
e, quasi trofei, vessilli in alto appesi,
scale, arieti, uncini e corde e ruote,
lancie, spade, saette, archi non tesi,
con ciò che in guerra adoperar si puote,
e di Marte apparian con brevi carmi
tutte scolpite l’alte imprese in marmi.

38Giunon severa a quelle turbe chiese
dov’era il figlio e, spartasi la voce
de la venuta sua, Marte l’intese,
dal Ciel pur dianzi anch’ei giunto veloce;
e incontro a quella uscì grato e cortese,
non come a gli altri turbido e feroce,
d’arme guernito, in capo una corona,
avea di ferro, e indietro era Bellona.

39Quivi, non senza sua gran meraviglia,
scorse Giunon sotto lugubre velo
starsi tra questa marzial famiglia
molti di quei che stan sovente in Cielo:
tristo l’Onor tenea basse le ciglia,
e la Giustizia con l’acuto telo
seguia Marte severa, e la Vittoria
con l’ali aperte, e dopo lei la Gloria.

40Disse a Marte Giunone: «Ecco al fin ch’io
son giunta, o figlio, in questa parte, dove
giamai non ebbi d’arrivar desio;
ma tu sai la cagion ch’ora mi muove,
tu sai quanto sia grande il dolor mio
per quel che in Ciel pur dianzi affermò Giove:
da prima il parlar suo tutta m’accese
di gioia, come allor mostrai palese,

41ma veggio poi, se ben fia Roma preda
d’Unni e di Gotti e d’Eruli e d’Alani,
e che di nuovo un’altra Roma io veda
retta pur da i medesimi romani,
dove con mitra d’or superbo seda
de i prossimi al governo e de i lontani
Costante, overo alcun de i suoi nepoti,
che fian d’effetto i miei disegni vòti.

42Però ti prego, o caro figlio, ascendi
sopra il tuo carro e con l’usata face
d’ogni duce roman l’animo accendi,
talché non regni in alcun loco pace.
Di Giove a le parole omai comprendi
ch’ogni virtute in un ridur gli piace,
per far sì che resti in un sol corpo chiuso
quel valor che fra tanti era diffuso.

43Fa’ dunque, o figlio, in guisa che quel possa
essercitar queste virtù sue tante,
Fa’ che del roman sangue appaia rossa
la terra, ovunque fermerà le piante.
Sia la sua mente sì agitata e scossa,
che ben gli giovi al fin d’esser costante.
Fa’ sì che Augusto trar di prigionia
d’ogni altra impresa la più facil sia».

44E Giunon seguì molt’altre cose, e Marte,
contra il solito umil tutto, rispose
che pronto era per quella in ogni parte
di gir sempre, e di far tutte le cose.
Poscia a l’auriga sua, ch’era in disparte,
che presta il carro conducesse impose,
onde colei, che Pertinacia è detta,
partissi e ritornò col carro in fretta.

45Di ferro è il carro, e quel quattro destrieri
tiran, che ritrovar non puon mai loco,
qual fiamma rossi, a i riguardanti fieri,
e da le nari spiran sempre il foco.
Salse Gradivo e i gioghi orridi alteri
di Rodope curando e d’Emo poco,
scorrea d’intorno, e sangue e strida e morte
convien che ovunque va per tutto apporte.

46Corni, timpani ognor, tamburi e trombe
senza numer intorno al carro sono,
onde convien che in fino al ciel rimbombe
l’aria d’orrendo e formidabil suono.
E mentre or vibra spada, or dardi or frombe
Marte adopra, e nessun trova perdono,
Venere in fretta, poi che ciò comprese,
verso di lui sdegnosa il camin prese.

47E ricontrollo a punto ove Peneo,
che di sua figlia ancor mestizia prende,
l’amena Tempe inonda, e in vèr l’Egeo,
cinto d’allor il crin, placido scende;
Ciprigna in contro al carro i destrier feo,
con quel lume che in terra e in ciel risplende,
ritrarsi alquanto indietro, e di sì oscura
vista non ebbe a risguardar paura.

48Anzi mentre i destrier mordendo il freno
si fermaro inchinati a lei davante,
montò sul carro, e sopra il duro seno
di Marte, afflitta e mesta nel sembiante,
fermò quel viso limpido e sereno
a lui sì caro, e quelle luci sante,
poscia a dir cominciò con fioca voce:
«Dove, o perfido, vai tanto feroce?

49Tu dunque nuovo incendio, e mandar vuoi
nuovi tumulti? e con sì crudo scempio
far sì che Roma e i cittadini suoi
sian nuovo e raro di miseria esempio?
Non sai che questi sono nepoti tuoi?
non sai che essendo Rea chiusa nel tempio
seco giacesti, onde quel seme nacque,
che poi tanto aggrandir sempre ti piacque?

50Ma se di questo pur non ti sovviene,
se in te vien la pietà dal furor vinta,
di ferro almen le reti e le catene,
ond’io per tua cagion rimasi avvinta,
faccian che il furor cieco omai s’affrene
che t’ha di crudeltà l’anima cinta.
Per l’onor mio, c’ho già per te perduto,
ti chieggio a tempo al gran bisogno aiuto.

51Questi ardenti sospiri, onde il dolore
c’ho dentro al petto si dimostra fuora,
quella intensa pietà, quel grande amore
che a compiacerti mi costrinse allora,
devrian pur render molle il duro core,
cagion ch’io mi consumo e rodo ognora;
né perché tu mi debba escluder veggio,
del comun seme la salute io chieggio».

52Marte allor per pietà, per tenerezza,
lasciatasi cader l’asta e la face,
abbracciando basciò con gran dolcezza
colei più volte che a lui sola piace;
poi disse: «O dea del ciel, grazia e bellezza,
ristoro del mio cor, quiete e pace,
raffrenar l’arme e i destrier miei tu sola
co i cenni puoi, con l’unica parola.

53S’obliar pur volessi il mio diletto
seme, tuo seme ancor, sì caro a noi,
come entrar mai l’oblio mi potria in petto
di quei sì dolci abbracciamenti tuoi?
Ma convien sempre che stia fermo il detto
del gran padre, e servar gli ordini suoi,
che l’Imperio roman sia posto altrove
fisse ab eterno in se medesmo Giove.

54So che da te, come da gli altri udita
fu la final sentenza, ond’esser Roma
convien, per la superbia sua infinita,
priva d’Impero e travagliata e doma.
Ma ti giuro però, mio cor, mia vita,
per gli occhi vaghi tuoi, per l’aurea chioma
ch’arso e legato m’han più volte il core,
che il roman seme ancor vedrai maggiore.

55Ma sopra ogni altro fia Costante quello
che il carico n’avrà tutto e la cura,
e, qual Scipio contr’Africa o Marcello,
da i barbari farà Roma sicura;
poi giunto il tempo, acciò che il gran flagello
percuota sol teatri e case e mura,
per molte imprese un suo nepote altero
lunge da Roma portarà l’Impero.

56E fiorirà quest’onorato seme
del tuo Costante e de i nepoti suoi,
talché del mondo esser vedrem l’estreme
parti adorne per lui d’illustri eroi;
riprendi adunque, o bella dea, la speme,
e rasserena i dolci lumi tuoi,
pur che sia salva la romana gente
fermi in Esperia il seggio o in Oriente».

57La dea rispose: «A me questo ancor Giove
privatamente già fece palese,
perciò soccorsi allor Costante dove
Sipario a tradimento Augusto prese;
cui, detto che sarian l’alte sue prove
del tutto vane, sul mio carro ascese
e scampò salvo; ma il tuo gran furore
già pien m’avea di nuova tema il core».

58Poi che in tal guisa ebbe Ciprigna detto,
con quell’occhio ch’avea da prima usanza
risguardò Marte, quel timor concetto
cangiato avendo già tutto in speranza;
poi, colma dentro al cor d’alto diletto,
sul carro andò volando a la sua stanza.
Seguia Galeno pien di rabbia in tanto,Galeno prosegue nelle sue scelleratezze, e non si cura dei poteri personali che si affermano in tutto l’Impero (58,7-67)
di tener Roma e tutta Europa in pianto.

59Oltra che notte e dì serpendo l’angue
nel suo palagio, ove il gettò Megera,
sol rapine vedeansi e furti e sangue,
stupri, adulteri, e gli altri vizi a schiera.
Mentre Roma non sol misera langue,
ché di potersi più salvar non spera,
ma che in tal guisa è tutto l’universo,
Galeno sta ne le delizie immerso.

60Stanze di rose e torri alte e castella
di pome ad aver tutto era ognor volto,
e fichi freschi il verno, uva novella
con ciascun frutto allor da l’arbor colto,
la mensa d’oro avea coperta, e in quella
di gran valuta e d’artificio molto
risplendean gemme vaghe e pellegrine,
e si spargea d’oro limato il crine.

61Se non di gemme e d’or posto avria in opra
mai vaso alcuno, e le solenni feste
così di sotto avea come di sopra,
d’ostro a foggiar barbarica la veste;
e perché a gli occhi altrui meglio si scopra
lucean le gioie in quelle parti e in queste,
talché al manto istrion come a la chioma
parea, non già l’imperator di Roma.

62Di gemme e gambe e piedi e mani e braccia
porta ognor cinte, e spesso e collo e chiome,
e mentre ruba, uccide, arde e minaccia,
e da lui son tutte le genti dome,
per far cosa onde a molti ancora piaccia,
quattro monete o sei d’or del suo nome
dona a quelle matrone che la mano
vanno a lasciargli, e se le mostra umano.

63Donna alcuna giamai più d’una volta,
né volse un vin due volte ad una cena,
quando a gli orti suoi giva ognor la molta
copia di donne, in quei capiva a pena;
e di toga viril ciascuna involta,
mentre l’Europa era d’incendio piena,
l’una il consul dicea, l’altra il pretore,
questa il prefetto suo, quella il questore.

64De i magistrati, in somma, e de gli offici
di Roma eran co i nomi allor chiamate
dal saggio imperator le meretrici,
e le curriali sedie a quelle date;
con lor si consigliava, eran gli amici
d’Augusto queste, a lui più ch’altri grate;
parea proprio quel re che per trastulli
e per giuochi talor fanno i fanciulli.

65Questo veduto da i più chiari eroi
ch’avean governo in questa e in quella parte,
spinti dal lezzo de i costumi suoi,
e dentro accesi dal furor di Marte,
fèr sì che in tutto il mondo, prima o poi,
non vide il sol giamai tant’armi sparte:
per tutto uscian tiranni ognor, per tutto
s’udian sospir, s’udian querele e lutto.

66Ma Galeno, a cui sol l’ozio diletta,
né dolor n’ha, né si dimostra ardente
di farne, in parte almen, sì gran vendetta
che resti essempio a tutta l’altra gente,
anzi co i vizi suoi sempre più affretta
gli altri a ciò far, non pur fatto il consente,
la notte e il giorno sol tien l’occhio fiso
come Costante ancor rimanga ucciso.

67Solo in un dì, che da più mesi intese
di Scizia già discesa una gran schiera,
dopo molte provincie in Asia prese,
voler passar d’Europa a i danni altera;
e che l’Illiria e il gallico paese,
con la Pannonia ribellato s’era,
rise, né dimostrò d’ira o di sdegno,
né di timor, né di mestizia segno.

Costante, perso l’appoggio dell’imperatore, convoca i suoi generali e chiede loro consiglio: prima Montio e poi Marzio gli consigliano di uccidere Galeno e poi decidere che fare dell’impero, ma Costante rifiuta la via del tirannicidio (68-89)

68Ma Costante se ben l’animo scorge
del rio Galeno, pur di vana spene
pasciuto, che il desio sempre gli porge,
nasconde il duol che dentro al cor sostiene;
ma che farà, che in breve ancor si accorge
che se non fosse che il timor lo tiene,
vistol munito sì d’amici e forte
posto avria lui già mille volte a morte?

69Dunque il leal, che per soverchia fede
sì gran spazio di terra in breve ha scorso,
senza mai chiuder occhio o fermar piede
ma via più sempre accelerando il corso,
con suo grave cordoglio al fin si avvede
ch’uopo a Cesare fia d’altro soccorso,
perché il rio figlio avrà a diletto e gioia
che il miser padre in prigion viva e muoia.

70Onde pensò di gir là dove i feri
Persi, di ceppi e di catene avvinto,
tenuto avean già quattro mesi interi
il suo signore, e più di mezzo il quinto;
non già che di prigion mai trarlo speri,
ma brama di cadergli appresso estinto,
acciò che al mondo almen quest’ultim’opra
l’amor suo, la pietà, la fede scopra.

71E sconsolato essendo, e in tal maniera
pien di travaglio e di dolor la mente,
Neron chiamossi in camera una sera
(quel che i soldati scorse d’Oriente):
Pollion seco, e seco Montio, e v’era
Marzio, accorto ciascun, fido e prudente,
illustre ogni un per mille altere imprese
e in tal maniera a quei consiglio chiese:

72«Cari amici e compagni, omai scorgete
qual si debban sortir le nostre imprese,
e quanto aver possiam le menti liete
che Roma e le provincie sian difese;
le reti che solea tender secrete
Galeno, adesso in publico son tese,
e già per farci aperto danno e scorno
si fan consulte ognor la notte e il giorno.

73Come potremo trar fuor di periglio
Licinio e liberarlo di prigione,
sendo privi d’aiuto e di consiglio,
onde salvar possiam noi le persone?
Per fuggir dunque il dispietato artiglio
di sì rio mostro, ogni un l’opinione
sua dica, per veder se gli è compenso
che sanar possa il dolor nostro immenso».

74Tacque Costante così detto e volto,
sol con la mente a sospirar disposta,
a risguardare or l’uno or l’altro in volto,
parea che gli invitasse a la risposta.
Montio, che discorrendo in tra sé molto,
sopra la destra con la guancia posta
stato era in fino allor, levolla, e fisse
tenendo al cavalier le luci, disse:

75«Parmi, o signor, che tanto il nostro male
sia scorso innanzi ch’uopo abbia già poco
d’erbe o d’incanti o di rimedio tale,
ma che il taglio adoprar bisogni e il foco;
per sanar questa piaga omai non vale
usar di latte impiastro e men di croco,
ma sì rimedio violento e forte,
se non vogliam che ci conduca a morte.

76Vuo’ dir ch’altro rimedio al nostro danno
non mi so imaginar dentro al pensiero
che dar la morte al perfido tiranno,
e te monarca far di tanto Impero;
così potrai poi vendicar l’inganno
per cui tanto sen va Sipario altero,
e quando il tuo signor libero fia,
ritornar quel ne l’alta monarchia.

77Benché i soldati ch’eran qui raccolti
pur dianzi per gir teco in Oriente,
si siano altrove in varie parti volti,
vista che di Galeno hanno la mente,
però dentro da Roma ancor n’ha molti,
né può mancarti a questo effetto gente,
send’egli da ciascun tanto odiato
quanto al contrario tu da tutti amato.

78Non vedi che in te sol ferma lo sguardo
ciascun, come a te sol tocchi l’impresa,
e nel cor suo ti accusa d’esser tardo
che tanto indugio al popol tutto pesa?
Sei detto pusillanimo e codardo
nel troppo sopportar sì grave offesa;
sol basta che ti scopri e mostri un cenno,
che poi gli altri sapran quel che far denno.

79Prima in seguirti avran tutti di freno
bisogno, che di stimoli o di sproni,
e Roma tutta ogni contento a pieno
di questo avrà, ma più d’ogni altro i buoni.
Forse che su i riguardi sta Galeno?
forse che mancaranno occasioni
la notte e il giorno, a tuo piacer, di trarlo
a morte, pur che ti disponghi a farlo?».

80Poi ch’ebbe Montio così detto, stette
volgendo ogni un tra sé questo consiglio,
pensoso alquanto e con le labbra strette,
con fronte crespa e con arcato ciglio;
ma perché in dubbio la sua fede mette
Costante, se d’Augusto uccide il figlio,
cui ciò che puote deve, si risolse
di non farlo, e così la lingua sciolse:

81«Montio, non vuo’ già dir che non sia buono
questo consiglio che primier tu dai,
ch’errar forse potrei, ma ch’io non sono
ben ti dirò per accettarlo mai:
poi che dal mio signor conosco in dono
l’aver l’onor, la vita, come sai,
non comporta il dever ch’io mai l’offenda,
ma sì contra d’ogni un ch’io lo difenda.

82Non saria questa, o Montio, grave offesa
dando morte al maggior suo caro figlio,
mentre il terren devrei per lor difesa
del proprio sangue mio render vermiglio?
Tu dunque indarno facil questa impresa
dimostri, che al parer tuo non m’appiglio;
vuo’ poter sempre gir dove mi piaccia,
senz’aver di rossor tinta la faccia».

83Marzio, che stava a la sinistra mano
di Costante, soggiunse: «O mio signore,
se pur t’offende il farti del romano
Impero in tal maniera possessore,
non rimaner però questo sì strano
mostro di cacciar dal mondo fuore,
e sia Valerian giovane tosto
poi nel suo seggio, o Salonino posto.

84Nel seggio imperial d’esso il fratello
poi visto o il figlio, o l’uno e l’altro insieme,
sospetto non darai di pensier fello,
cosa che tanto e con ragion ti preme.
Quando l’animo abbiam candido e bello,
mal fa quel che del vulgo il grido teme;
che nuoce a me s’alcun lunge dal vero
mi biasma, avendo il cor puro e sincero?

85L’animo avendo ognor tutto rivolto
al grande Augusto a liberarlo intento,
s’ogni ostacol t’avrai dinanzi tolto,
che in ciò recar ti possa impedimento,
perché non puoi senza rossor nel volto
per tutto andar, se ben di tradimento
fosti a torto incolpato da la gente,
restando retto il cor, pura la mente?».

86«O Marzio, parmi assai palese errore
questo,» rispose allor Costante tosto,
«ché invisibil la mente essendo, e il core
standoci dentro al petto ognor nascosto,
né scoprendosi a gli occhi altrui mai fuore,
non basta il dir “l’ho buon, l’ho ben disposto”,
ma tal bontà convien che nel cospetto
del mondo appaia ancor con buon effetto.

87Ben so che d’ambedue l’opinione
con somma e vera lealtà vien detta,
e so che ancor la vostra intenzione
più desiar non si potria perfetta,
ma conviensi anco al dir de le persone
rispetto aver: veggiam che si diletta
d’aprir la bocca il vulgo e l’uom più tosto
di creder mal che ben sempre disposto.

88La mia difficultà non sta nel tòrre
per me l’Impero, perché darlo altrui
sempre si puote; e quel poter deporre,
liberando Licinio, e darlo a lui;
potrei nel seggio imperial riporre
suo figlio o suo nepote o tutti dui,
mostrando al mondo tutto chiaramente
quanto in me retta e pia fosse la mente;

89ma la difficultà consiste solo
se a Galeno pur dar debbo la morte,
mio signor per sé prima, e poi figliuolo
del mio signor non pur, ma suo consorte,
di quel per cui mi struggo in pianto e in duolo,
che sia condutto a sì malvagia sorte.
Tra me medesmo quanto più rivolvo
questo, più di fuggirlo io mi risolvo».

Pollione consiglia di imprigionare Galeno ripristinare la democrazia, Nerone si oppone sostenendo l’impraticabilità di una tale forma di governo e consiglia a Costante di allontanarsi da Roma per organizzare un esercito senza incappare nelle insidie dell’imperatore (90-108)

90Pollion poi, ch’era grave e severo
talché agguagliava in gravità ciascuno,
disse: «Questo è pur certo, o cavaliero,
né mai sarà che me lo neghi alcuno:
fin che sta di Galeno in man l’Impero
non fia rimedio al mal nostro opportuno.
Sia da te preso adunque e in prigion vivo
serbato quel, ma non di vita privo.

91Dubbio non è che farlo agevolmente
potrai tu sempre, se pur far lo vuoi,
ché in Roma e in Campidoglio avrai la gente
tutta in favor, fino a i liberti suoi,
che a dargli morte invitano sovente
con cenni aperti non sol te ma noi.
Stia d’ogni cosa in prigion poi fornito
da gran signor, come solea, servito.

92Mai, fuor che del partir la libertade,
nulla gli manchi fin che stia prigione;
quinci vedrà ciascun la tua pietade
verso il padre del tutto esser cagione.
Fatto questo al Senato, a la cittade
acciò che la tua retta intenzione
meglio si scopra e l’animo sincero,
reso libero sia l’antico Impero.

93Non sai ch’ogni gran fatto, ogni alta impresa
fe’ Roma sotto il publico governo,
che tutto essendo a vera gloria intesa
sempre allor prese ogni vil cosa a scherno?
Né s’avrà da temer che l’aspra offesa
del tuo signor con raro essempio eterno
non resti vendicata, se deposta
la servitù fia in libertà riposta.

94Tutto il Senato e il popolo romano,
per la grandezza tua, per la virtute,
dubbio non è che allor fora in tua mano
come verace autor di sua salute.
Dunque al mal nostro ogni rimedio è vano,
restando Roma inferma e in servitute,
ma da la sua ciascun chiaro comprende
che ancor la nostra sanità depende».

95Benché Costante udito ciò tacesse,
volgendo cose assai dentro a la mente,
però chinando il capo ch’ei facesse
cenno, parve a ciascun ch’era presente,
onde che tal sentenza gli piacesse
compreser da quest’atto chiaramente;
Neron perciò, cui non piacean le cose
dette da Pollion, così rispose.

96«Poi che saper d’ogni uom l’opinione
brami, come da te, mio signor, odo,
sappi che quanto ha detto Pollione
pur dianzi non mi piace in alcun modo.
Che preso e che serbato poi prigione
Galeno sia non biasmo e meno lodo,
che meglio fosse il dargli morte credo;
ma poi che far nol vuoi ciò pur concedo.

97Con gran difficultà questo, o signore,
pur ti concedo; ma che al popol reso
l’Impero sia mi par sì grande errore,
che sarai sempre con ragion ripreso.
Di gir là dove il nostro imperatore
vive prigion ti fora allora conteso,
ché più nessuno in sì corrotta etade
si trova ch’usi ben la libertade.

98Quando avrai morto o fatto prigioniero
mostro sì rio sotto sembiante umano,
nel porre in podestà tutto l’Impero
del Senato e del popolo romano,
o che la cosa tu farai da vero,
o che il governo a te serbando in mano,
Roma di nome sol libera sia,
restando in tuo poter la monarchia.

99Se non fia di maniera al mondo aperta
tal libertà, ché appaia chiaramente,
ma che rimanga sotto nube incerta
benché in te sia perfetta e sana mente,
ciascun dirà che sotto tal coperta
voluto abbi ingannar tutta la gente,
e che, libera sol di nome Roma,
sopporti ancor di servitù la soma.

100Ma se libera ancor da te fia resa
la libertade al popolo, al Senato,
non sperar mai per vendicar l’offesa
che in Persia pur si mandi un solo armato,
non che si faccia, qual si de’, l’impresa,
non che Valerian sia liberato;
e ciò ch’io dico credo, anzi son certo,
che da gli effetti più vedrassi aperto.

101La città nostra è come una gran nave
di merci carca, e di più genti piena,
che mentre spira Zefiro soave
sicura in porto si conduce a pena,
ma s’Austro soffia impetuoso e grave,
e che faccia oscurar l’aria serena
gonfiando il mar, bisogno allor d’accorto
nocchier le fa che la conduca in porto.

102Ma se da tal nocchier, negletta, viene
lasciata in preda a l’Austro, a la tempesta,
or verso il cielo et or verso le arene
sen va percossa in quella parte e in questa,
talché al fin stanca al mar ceder conviene,
e nel profondo al fin sommersa resta.
Poni adunque, o guerrier, che sottospora
Roma non vada ogni tuo studio, ogni opra.

103Mentre Tito reggea, Nerva e Traiano,
d’aver bonaccia a Roma era concesso,
però di ruinar l’alto romano
Imperio allor stette in periglio spesso;
più volte dal cader non fu lontano,
da la sua propria e grave mole oppresso,
fatte contra gli fur, da varie genti,
guerre, assalti e congiure e tradimenti.

104Se allor mentr’era in tal bonaccia Roma
d’affondarsi fu spesso in gran periglio,
stand’ora oppressa da sì grave soma
d’aiuto ha più bisogno e di consiglio:
perché non sia del tutto, o guerrier, doma
del tuo signor dà morte a l’empio figlio.
Tu sol nocchier salvar puoi questa barca
di varie genti e di più merci carca.

105Ma poi che di non farlo risoluto
ti veggio al fermo, esci di Roma almeno,
acciò, se a darti non è pronto aiuto,
che impedimento non ti dia Galeno.
Quando a Roma di Siria io son venuto
con quelle genti che mi diè Sereno,
io so ben quel che da ciascun prefetto
fummi al passar per le provincie detto.

106Non dubito, o signor, che se vorrai
a fatti grandi aver la mente intesa,
via più che non dissegni ancor farai,
e facil ti sarà sempre ogni impresa;
per contrario, al sicuro incapperai
in qualche rete di nascosto tesa
qui stando, ove tua forza ognor riesce
minore, e quella di Galeno cresce.

107Quel credito ch’avevi e quel favore
dentro da Roma e fuor ne gli altrui regni,
di giorno in giorno diventar minore
già ciascun vede a manifesti segni.
Ma non prima sarai di Roma fuore
che, da gran duci e da soldati degni
seguito, adunerai da varie bande
del primo un altro essercito più grande.

108Non sarai tanto fuor di Roma esposto
a gli aguati, a le insidie del tiranno:
da Roma ti convien gir sì discosto,
ché non ti arrivi di costui l’inganno.
Tutti siam pronti a seguitarti tosto,
e questo anco infiniti altri faranno;
ma tempo fia, se non ti parti adesso,
che il partir poi non ti sarà concesso».

Costante opta per recarsi in Grecia e in Egitto, dove ricostruire l’esercito (109-114)

109Molt’altre cose quei dissero ancora,
mossi da puro e da sincero affetto;
non si risolse a cosa alcuna allora,
ma se le chiuse il guerrier tutte in petto.
Poi già la notte essendo e tarda l’ora
licenziò ciascun che andasse a letto;
spogliossi anch’ei, ma loco in lui non ponno
mai dar le cure né gli affanni al sonno.

110Volgendosi tra sé più volte in mente
quei consigli il guerrier, di doglia pieno,
sol d’appigliarsi a quel pensò sovente
che l’essortava a dar morte a Galeno:
vedea non sol tal cosa il mal presente
poterne sanar, ma tutti gli altri a pieno.
Questo rimedio sol, questa sol cura
sanava ancor l’infirmità futura.

111Ma poi scacciava questa opinione,
ché d’offender Licinio avea timore,
e d’esser disleal da le persone
chiamato, e detto infame e traditore.
Così adunque or dal freno or da lo sprone
fermato e spinto, ognor colmo d’orrore,
sospirando si strugge a poco a poco
la notte e il dì, né ritrovar può loco.

112Così candida egli ha l’anima e pura
ch’ogni lieve timor gli ingombra il petto,
né di pensar mai cosa si assicura
che possi addur d’infideltà sospetto,
come vergine saggia che procura
fuggire il nome rio con ogni effetto,
perché non giova aver casto il pensiero
se il grido popolar nasconde il vero.

113Ma poi che tra se stesso assai rivolse,
pensoso, or queste et or quell’altre cose,
di prender quel partito si risolse,
che in ultimo Neron fedel propose;
dar morte al figlio del suo re non volse
per modo alcun, ma tosto si dispose
d’uscir da Roma, e con prestezza al dritto
gir de l’Acaia, e poi quindi in Egitto.

114D’Egitto Emilian, Varro l’impero
d’Acaia avea, ciascun d’esso parente:
l’uno e l’altro animoso e buon guerriero
e l’uno e l’altro imperator prudente.
Così conchiuso ogni altro suo pensiero,
levossi tosto il cavalier di mente,
come il dì nasca verso Acaia a volo
già d’uscir fermo e sconosciuto e solo.

Giunone compare in sogno a Costante con le spoglie di Sereno e lo esorta a tentare di persuadere Galeno prima di partire, poi chiede all’Invidia di infettare i cuori dei consiglieri di Galeno (115-128)

115Ma Giunon, ch’ognor pensa e cerca ogniora
che dal tiranno sia Costante ucciso,
vede che uscendo quel di Roma fuora
non le potria poi riuscir l’avviso,
dunque per far che l’innocente mora
l’abito si cangiò, la voce e il viso,
e di Sereno presa ogni sembianza
tosto andollo a trovar ne la sua stanza.

116Questi più ch’altri grato era a Costante,
di somma autorità, d’alto consiglio,
che a Roma giunto essendo di Levante
dove di morte anch’ei stette in periglio,
lieto il guerrier trovò ch’avea già tante
schiere raccolte, e che benigno il figlio
d’Augusto, per condurle in Oriente,
fatto capo l’avea sopra ogni gente.

117Ma vistol poi da quel voler primiero
cangiato, e le cagioni avendo ignote,
stava la notte e il giorno in gran pensiero,
per timor di se stesso e del nipote;
visto ancor chiara del romano Impero
la gran ruina, e che aiutar nol puote,
talor conforto al pio guerrier porgea,
se ben bisogno al par di lui n’avea.

118Dunque Giunon la costui forma tolta,
come usava di far Sereno spesso
andò al guerrier che in gran travaglio involta
la mente avea, da grave doglia oppresso,
e con severo ciglio a lui rivolta
disse: «O Costante, indarno omai te stesso
misero affliggi ognor, visto per prova
che al tuo signor nulla il dolersi giova.

119Fa’ che indietro per te prova non resti
per disponer Galeno a questa impresa,
acciò che al mondo almen si manifesti
quanto la sorte del tuo re ti pesa;
tenta ogni strada usando or quelli or questi
modi, e s’avvien che pur ti sia contesa
sì nobil opra, allor pria che vilmente
morir, meglio è che vada in Oriente.

120Meglio è che sol contra Sipario vada
dando al tuo re, fin ch’avrai forza, aita,
ché per fede osservar s’avvien ch’uom cada
morir non è, ma cangiar morte in vita.
Con la tua voglio anch’io por la mia spada,
ma prima che facciam quinci partita,
usar si de’ col figlio ogni maniera
per far che aiuti il padre, onde non pèra.

121Ben so che per pietà, so che per doglia
ch’abbia di lui, non muterà natura,
né perché il giusto o il debito lo voglia,
né perché de l’onor si prenda cura;
ma forse il tempo l’ostinata voglia
cangiando, romperà sua mente dura.
Tentare anch’io (dicea) vuo’ se i miei prieghi
potran far sì che in parte almen si pieghi».

122Sparve ciò detto indi Giunon, ma prima
fe’ sì che fu dal sonno il guerrier vinto;
poi d’un gran monte alpestre a la part’ima
volò, deposto quel sembiante finto,
dove l’Invidia ognor si rode e lima,
che sempre in fronte il duol portò dipinto
dal dì che giù ne le tartaree grotte
nacque, d’Erebo figlia e de la Notte.

123L’infelice ha per stanza un antro oscuro,
dov’aura mai non spira o sol risplende;
nitro e muffa per tutto occupa il muro;
le reti sue per tutto Aracne tende;
foco non v’entra mai, che chiaro e puro
l’aer faccia, ma il freddo ognor l’offende;
fumo e nebbia e caligine lo speco,
ch’è per natura, ancor più rendon cieco.

124La dea di Samo entro l’orribil porta
non volse entrar che a nessun mai si chiude.
Colei già vista con la faccia smorta,
di fele sparsa l’atre membra ignude,
che ne la destra avea una serpe morta
e si pascea di quelle carni crude,
tosto indietro Giunon la faccia torse
che il rio mostro infernal sì brutto scorse.

125Pien di rugine ha i denti, ha torto il guardo,
sparsa la lingua di mortal veneno,
sospira e piange, e, come al petto un dardo
le sia, vien quasi allor per doglia meno
che saggio scorge alcun, ricco o gagliardo,
e ch’ogni suo desir succeda a pieno.
Ride allor, per contrario, che ria sorte
turba altrui, preme doglia, uccide morte.

126Vigila sempre e sempre ordisce frode,
colma di rabbia e d’infernal furore;
né men che a Tizio ognor le punge e rode
col duro rostro un avoltorio il core;
qual medico più degno e di gran lode
non potria mitigar l’aspro dolore,
non che sanarlo, onde il tormento interno
convien che sia, sì come immenso, eterno.

127Non poté far che non versasse amaro
pianto da gli occhi d’Erebo la figlia,
visto il leggiadro portamento raro,
vista la faccia candida e vermiglia
de la gran dea, che al brutto mostro avaro
con alta voce e con turbate ciglia
disse, tenendo al ciel lo sguardo fiso,
sì l’odia, che mirar nol puote in viso:

128«Tutti color che son d’Augusto al figlio
via più d’ogni altro cari e più diletti,
di cui più prezza e più segue il consiglio,
subito sian del tuo venen infetti».
Tacque ciò detto, e in tacito bisbiglio
lasciando il mostro, a i più sublimi tetti
salse del Ciel, cui Giove lieto accolse;
onde indarno colei pianse e si dolse.

L’Invidia colpisce al cuore due consiglieri di Galeno, Teodoto e Paterno, i quali, incontratisi, decidono di screditare Costante agli occhi dell’imperatore (129-142)

129E preso un suo baston torto e d’intorno
cinto di spine, con lo sguardo bieco,
d’atra nube coperta a mezzo il giorno,
invisibile uscì fuor de lo speco.
Fraude, Insidie e Mestizia, che soggiorno
fan quasi sempre, ove dimora, seco,
la seguìr tosto con più d’altri cento
Sospir, Miseria, Doglia, Odio e Tormento.

130Per tutto ovunque il piè l’empia e superba
volge le fronde e i fiori e i semi addugge,
né sol col fiato rende arida l’erba,
ma le più dure piante arde e distrugge;
tra se stessa ella pria con pena acerba
si cruccia, e qual leon rabbioso rugge,
poi manda a gli altri il duol, né le riesce
che il suo però si scemi, anzi ognor cresce.

131Giunse a Roma e trovò ch’appo Galeno
due tenean d’amistà grado primiero,
che a voglia lor sempre il volgean, non meno
che si volga col fren facil destriero,
Teodoto e Paterno, il cui sereno
ciglio nasconde ognor fosco pensiero;
ambo in disagio e in povertà nudriti,
ambo pur dianzi del teatro usciti.

132Sola cagion era Urbanilla moglie,
che in grazia del signor fosse Paterno
a cui non pur de gli occhi il lume toglie,
ma de la mente ogni discorso interno:
qual prive s’ogni umor l’erbe e le foglie
restan per lo spirar di Borea il verno,
tal con lo sguardo di dolcezza pieno
privò costei d’ogni ragion Galeno.

133Di Paterno per tutto era già noto,
che de la moglie al re fosse cortese;
per diferente strada Teodoto
da libertino a quell’altezza ascese,
ch’essendo omai l’erario in tutto vòto
per sì soverchie e sì continue spese,
questi in gravar popoli e terre nuova
maniera, sempre a ciò pensando, trova.

134La Furia e questo e quel con fredda mano
strinse, e mentre dormian securi in letto
nel cor gli infuse atro venen pian piano,
d’ami e di spine gli traffisse il petto.
Sparto il tosco per l’ossa indi lontano,
lieto omai che al pensier segua l’effetto
volò d’Erebo il mostro in ripa a l’acque,
dove abita sovente e dove nacque.

135Quei, che pur dianzi avean creduto un breve
sonno in pace dormir, furon costretti
destarsi dal tormento acerbo e greve
che il rio mostro serrò dentro a i lor petti;
come al sol ghiaccio e come a l’Austro neve
giù stillarsi veggiam da gli alti tetti,
così di Teodoto e di Paterno
si struggean l’ossa al chiuso foco interno.

136Come avesser di ferro o di diamante
mill’aspre punte al cor sempre d’intorno,
del letto si levàr gran pezzo inante
che vicin fosse a scacciar l’ombra il giorno.
Con finte larve il mostro allor Costante
fatto apparir, di lucid’armi adorno,
dinanzi a gli occhi a quei lo pose ond’abbia
cibo, acciò che il martir cresca e la rabbia.

137Volgendosi tra lor quei dunque in mente
le virtuti e il valor del cavaliero,
del cavalier ch’esser parea presente,
vestito di regale abito altero,
e quanto saggio in toga era e prudente
e quanto in arme valoroso e fero,
questo via più che fiamme e strali e nodi
par che il cor gli arda e gli trafigga e annodi.

138Vedeanlo, il crin di più corone ornato,
Roma a sostegno tener, l’Imperio a freno,
e che da tutti reverito, amato
era, e temuto assai più che Galeno;
per contrario vedean quanto sprezzato
ciascun fosse di lor; quinci il veneno
gonfiar sentono in guisa e con tal forza
che a sospirar, che a lagrimar gli sforza.

139E sendo ambi conformi di natura,
d’amistà grande eran congiunti ancora;
l’un dunque e l’altro per la notte oscura,
senza attender che pur nasca l’aurora,
di casa usciro acciò che l’aspra e dura
pena, che sì gli afligge e sì gli accora,
sfogar possan tra lor parlando insieme
che l’un di trovar l’altro in letto ha speme.

140Credea ciascun di trovar l’altro in letto,
con tal credenza adunque se n’andaro,
spinti dal chiuso ardor ch’avean nel petto,
ma per la strada insieme si scontraro,
e giunti l’un de l’altro ambi al cospetto,
colmi di rabbia e di veneno amaro,
molto insieme si dolsero di tante
doti e virtù dal Ciel date a Costante

141dicendo: «Ancor che Augusto mostri aperto
verso noi del continuo il suo favore,
pur di Costante in guisa è noto il merto,
del nostro (e vaglia a dire il ver) maggiore
che il grado ov’ora siam può dirsi incerto,
e di caderne stiam sempre in timore,
poi che di donna e di signor la voglia
facil si volge come al vento foglia».

142Né quindi in somma si partìr che diero
fermo ordine di far con ogni inganno
che il misero innocente cavaliero
fosse o cacciato o morto dal tiranno,
con speme di poter, Roma e l’Impero
reggendo, fare oltraggio a molti e danno.
Così conchiuso a casa fèr ritorno,
pria che spuntasse in Oriente il giorno.