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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro III

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.07.15 19:37

Argomento
Fugge, caduto il suo palagio, e in riva
del mare audace Proteo assale e prende,
da cui la vita sua futura intende;
sol cento uccide; a Populonio arriva.

Costante reputando l’apparizione di Sereno un messaggio divino risolve di non partire da Roma (1-11,4)

1Già di Titon la vaga, altera figlia,
col crin di rose e di viole adorno,
e con la faccia candida e vermiglia
fuor de l’indico mar scorto avea il giorno,
allor che alzando il cavalier le ciglia,
sciolto dal sonno, e riguardando intorno
più non vide la dea che dianzi tolto
l’abito avea del buon Sereno e il volto.

2E ripensando a ciò che gli avea detto,
si dispose di farlo; e perché fuore
da gli occhi vaghi e dal leggiadro petto
sì chiaro lume e sì soave odore
sempre mandò mentr’era al suo cospetto,
forte si dolse del suo preso errore
creduto avendo che Sereno fosse,
né ad inchinarla come dea si mosse.

3E dicea tra se stesso: – Or mi conviene
seguir ciò che dio vuol, ciò che m’impone,
ch’esser non può se non perfetto bene
quanto s’ordina in Cielo e si dispone;
parmi che si rinovi in me la spene,
che il timor manchi, e forse la cagione
fia che, mosso a pietà, Giove omai voglia
che si soccorra Augusto e ch’ei si scioglia.

4Ben cieco fui, ch’io non conobbi quella
divinità che assimigliò Sereno!
Potea il volto ingannarmi e la favella,
ma non l’odor ch’uscia dal divin seno,
non lo splendor che a guisa d’una stella
quasi venir fe’ la mia luce meno.
Quel non fu sonno che m’assalse e vinse,
ma forza occulta che a posar mi strinse.

5D’uscir d’Italia avea già fisso in mente,
ma quinci più non vuo’ muovere i passi,
ché il mutar voglia è cosa da prudente
quando però di bene in meglio vassi;
per far che il figlio armato in Oriente
con l’oste a liberar suo padre passi
far voglio quanto il Ciel mi mostra e insegna,
e il mal che venir può tutto ne vegna.

6Deh come, o cavalier, chiaro si vede
in te quel che in altrui si è visto pria,
che spera sempre ogni mortale e crede
che avvenir debba sol quel ch’ei desia;
con mille prove aver già fatto fede
devria il crudel di mente ingrata e ria,
talché trar sen potea certo argomento
che getti e l’opra e le parole al vento.

7Sì come il gran mauritano Atlante,
che su gli omeri il Ciel forte sostiene,
immobili tener veggiam le piante,
di Libia ne le salse aride arene,
contra Zefiro e Borea, e contra tante
onde allor che Nettuno irato viene
ad assalirlo, e con crudel procella
sempre a ferirlo in questa parte e in quella,

8così l’ampio tiranno avrà la mente
immobil sempre, avrà di pietra il core.
Contra quei tanti prieghi, onde sì ardente
l’assali or quinci or quindi a tutte l’ore,
contra i caldi sospir, da cui sovente
trarre indizio potria del tuo dolore,
veggiol d’infernal foco il petto acceso
e solo a i danni tuoi dì e notte inteso.

9Colei che di Seren pur dianzi prese
la forma fu ben dea, ma non già quella
che in Oriente giù dal ciel discese
per liberarti da la gente fella;
questa è Giunon, che già superba accese
l’antica Troia con crudel facella,
e ch’or nemica al seme tuo procura
che sia tua vita breve e fama oscura.

10Ella è venuta sotto umana scorza
perché di trarre a fin brama tua vita;
ma tu non l’obedir, che il Ciel non sforza
contra sua voglia alcun, ma solo invita.
Esci di Roma, usa il valor, la forza
per dare al signor tuo, Costante, aita:
così volevi pria che nuova strada
Giunon t’aprisse, a cui tua morte aggrada -.

11Queste parole al cavalier sovente
tacita voce dentro al cor dicea;
ma quei già di seguir la ferma mente
dovunque il guida il suo destino avea.
Rimase adunque in Roma e fu presenteTeodoto e Paterno screditano Costante usando un pretesto, Galeno ordina che lo uccidano (11,5-23)
a i giochi fatti a la gran matre Idea,
con pompa fuor d’ogni uso e d’ogni stima,
cosa ordinata dal tiranno in prima.

12Con regal manto un istrion quel giorno,
d’aspra catena tra molti altri avvinto,
guidato al maggior cerchio era d’intorno,
come per forza in guerra preso e vinto;
Parea Sipario, al manto ond’era adorno,
com’anco al volto, così ben l’ha finto;
quegli altri Persi ancor tutti sembraro,
quand’ecco molti che tra loro entraro.

13I quai guardando or questo or quello in viso,
come cercando alcun che non si trove,
mosser la plebe e tutti gli altri a riso
con atti strani e con maniere nuove;
Galeno allor, che s’era appresso assiso,
chieder fe’ la cagion che a ciò gli move:
risposer quei che tra le perse squadre
cercando gian Valerian suo padre.

14Non così tosto mai polve s’accese
ch’esperto mastro a simil uso faccia,
come il tiranno allor che sì palese
scorno far da color si vide in faccia:
freme di rabbia, e sì quel dir l’offese
ch’indi si parte e con furor minaccia,
grida, e quanto più alzar puote la voce,
comanda che sian presi e posti in croce.

15Presa l’occasion quei due, cui poco
prima l’Invidia morse e di veneno
sì il cor gli empì che non trovàr mai loco,
e venian di dolor, di rabbia meno,
giungendo sempre aride legne al foco
l’ira maggior facean ch’ardea Galeno,
tutta la mente avendo e il cor rivolto
a far che sia di vita il guerrier tolto.

16Et or con nuova fraude e nuovo inganno,
visto il re pien di nuovo sdegno il petto,
toccando or quinci or quindi a tempo il vanno
per far che di Costante abbia sospetto.
Più tosto re, dicean, ch’egli e tiranno
dir si potea di Roma che prefetto,
dove, mostrando aver desio che aiuto
diasi a Licinio, in fretta era venuto.

17E ch’ei pur dianzi quella trama ordita
in suo dispregio avea sol con dissegno
di concitar la plebe ché la vita
gli toglia, e ch’ei di Roma usurpi il regno.
«Fa’ che torni la colpa ond’ella è uscita»
dice Paterno, «e fa’, com’egli è degno,
che il traditor per l’avvenire apporte
a gli altri essempio con tormenti e morte.

18Quel modo che sovente in parlar tiene
(l’empio dicea) per farsi al popol grato,
da cupidigia e da gran sete viene
d’essere a l’alta monarchia levato;
vuol che gente raguni e d’aver spene
mostra che il padre tuo sia liberato,
ma finge, poi che sol per tal maniera
di potersi levar tal sete spera».

19«Se innanzi a gli occhi tuoi Costante prese
ardir» soggiunse Teodoto avaro
«di farti un scorno in faccia sì palese,
omai di sua perfidia esser dei chiaro;
temo che a l’or vorrai punir l’offese
che fia il rimedio van, tardo il riparo;
temo, e dio faccia che il tuo servo fida
menta, udirne lo scoppio in breve e il grido».

20E tanta forza ebbe quel dir che senza
tenerne altra certezza il rio Galeno,
dando al mentir di quei ferma credenza,
cominciò a vomitar fuore il veneno,
e diede allor allor questa sentenza:
che di fé, di pietà Costante pieno
chiuso et arso la notte entro il suo tetto
fosse, mentre dormia sicuro in letto.

21Di porlo a morte il tempo e la maniera
pensando e rivolgendo con gran cura,
tra l’altre a questa si appigliàr, perch’era
da riuscir più cauta e più sicura.
L’ordine fu che la medesma sera
del suo palagio a circondar le mura
s’andasse al tardi acciò che, acceso il foco,
non trovi onde scampar Costante loco.

22Col tosco fora o con la spada stato
quasi impossibil di condurlo a morte,
perché, sospetto avendo, accompagnato
sempre sen giva, ben provisto e forte;
di far col foco adunque hanno ordinato,
con speme che di ciò resti la sorte
sola incolpata di sì grave danno,
senza porger sospetto alcun d’inganno.

23Perché se il popol, che l’amava quanto
si puote amar signor, sen fosse accorto,
non si fora di ciò mai dato vanto
Galeno, ché l’avrian subito morto.
Dunque il tiranno e gli altri due con tanto
rispetto van, ché il lor periglio han scorto,
facendo ogni opra acciò che resti occulto
l’inganno lor, per non destar tumulto.

I due emissari piazzano una carica di polvere esplosiva sotto casa di Costante, che però viene avvertito in sogno da Mercurio e riesce a fuggire (24-46,4)

24Dunque il rio Teodoto e il rio Paterno,
con molti lor seguaci in una schiera,
per far che il cavalier dorma in eterno
cheti al palazzo suo sen gir la sera;
e d’una polve che dal cieco Inferno
seco portata avea l’empia Megera,
di sotto empiro una ristretta e chiusa
cella, ch’era Falerno a serbar usa.

25Mentre alquanto lontan l’un fa la scorta
con quelle genti e che il compagno aspetta,
per un picciol spiraglio ch’entro porta
la luce, l’altro in giù la polve getta;
il che fatto, e sapendo che la porta
de la stanza era di ferro e chiusa stretta,
posto ivi un fune ch’entra ne la stanza
con l’un de i capi e di fuor l’altro avanza,

26e chiuso lo spiraglio, in tal maniera
ch’entrar né potea uscir l’aria in quel lato,
al sottil fune, che giungea dov’era
la polve e che abbrusciava a poco a poco,
di cui fu l’inventrice ancor Megera,
dal capo ch’uscia fuori accese il foco;
poi si ritrasse dal periglio tosto
dove il compagno l’attendea discosto.

27Ma l’alma dea, che fu del roman seme
principio, acciò che i rei meglio discerna,
perché del suo fedel Costante teme,
mossa da l’alta providenza eterna,
salita era già prima a le supreme
parti d’Olimpo al re ch’ivi governa;
a cui di ciò fe’ la cagion, con mesta
voce, a tempo in tal guisa manifesta:

28«Padre del Ciel, che sol col cenno e solo
col volger d’occhi, non il seme umano
ma il divin reggi, e l’uno e l’altro polo
volgi e governi con potente mano,
dal gran periglio ond’io mi cruccio in duolo,
difendi, o patre, il gran guerrier romano,
per la cui stirpe anni infiniti e lustri
chiara l’Europa fia d’uomini illustri.

29Pregoti, o Padre eterno, che il consiglio
fatto da gli empi contra il Pio si scopra,
verso lui con pietà volgendo il ciglio
c’ha l’alma intenta a sì lodevol opra;
ma contra l’empio e scelerato figlio
d’Augusto l’armi tue, severo, adopra,
acciò che il rio con miserabil scempio
rimanga a gli altri sempiterno essempio».

30Quel dio che, stando nel suo antico regno,
d’oscura mole, pria confusa e densa,
compose il mondo (e fu l’ordine degno
d’alto pensier, di meraviglia immensa),
sempre de l’amor suo, per certo segno,
di colmar noi d’ogni sua grazia pensa,
e con eterna providenza porge
dal Cielo aiuto ovunque il merto scorge;0

31dDubbio adunque non è che di Costante
non sia l’alta virtù quivi gradita.
Ma vistasi giacer la dea davante,
le diè, cortese, nel levar aita;
poi disse: «Oltra i gran prieghi, oltra le tante
tue querele il guerrier, figlia, m’invita
co i propri merti a dargli aiuto, e giuro,
per l’onde stigie, trarlo indi sicuro.

32E da gli empi a mal grado condurrollo,
benché al principio avrà travaglio e pena,
dove potrà, come desia, dal collo
scuoter del suo signor l’aspra catena;
e farò sì dovunque lascia Apollo
l’oscura notte e il chiaro giorno mena,
nel sommo Cielo e nel profondo Inferno,
che il nome fia del pio Costante eterno.

33Punita fia l’alta perfidia ancora
di Galeno crudel come si deve,
di che ab eterno abbiam prescritta l’ora,
ch’or già s’appressa, e l’intervallo è breve;
ma, quando pur tardasse alquanto, fora
maggior tormento in lui, pena più greve,
che l’ordine fatal romper non puote
fortuna con l’instabili sue rote».

34Così detto chiamò di Maia il figlio
l’eterno Padre, a cui severo impose
che, traendo il guerrier fuor di periglio,
lo serbi ad alte imprese e gloriose.
Quegli, oprando al bisogno arte e consiglio
per ubidir, l’imagin propria ascose,
e d’un morto fanciul, con finte larve
presa la forma, al pio Costante apparve.

35Di Galeno il fanciullo era fratello,
il qual di gioventù giunto a i primi anni,
qual nuovo Scipion, nuovo Marcello
chiaro spiegava d’ogni intorno i vanni;
ma tanto del tiranno iniquo e fello
valse l’invidia e valsero gli inganni,
che il giovenetto crudelmente a torto
stato quel giorno era in Etolia morto.

36Ne l’ora fu che a i suoi destrieri Apollo,
poi che son giunti a la prescritta meta,
l’ardente giogo fa levar dal collo,
stando egli in parte in fino al dì secreta,
e che di cibo ogni animal satollo
prende riposo, e in terra ogni un s’acqueta;
quando verso il guerrier volgendo l’orme,
Mercurio andò sotto mentite forme.

37E lo trovò che doloroso e mesto
dal sonno stato era assalito e vinto;
a cui mostrossi in abito funesto,
pallido in faccia e d’atro sangue tinto;
quindi Costante scorse manifesto
ch’ei fu di morte violenta estinto,
onde volse gridar, ma in guisa atroce
la doglia fu che gli mancò la voce.

38Pur con fatica da l’estrema parte
del tristo cor tratto un sospiro ardente,
cominciò a dir (benché infinite sparte
lagrime l’interroppero sovente):
«Misero me, qual forza, ohimè, qual arte
giamai fia che acquetar possa mia mente?
Certo so ben che incontro a tanta offesa
fia del mio spirto indarno ogni difesa».

39Seguir volea, per chieder forse dove
cadd’egli e quando e chi gli fece insulto,
ma la voce, che in van fe’ mille prove,
vinta restò dal pianto e dal singulto.
Questo veduto il messaggier di Giove,
a cui chiuso pensier non resta occulto,
di lagrime spargendo le gote
risponde a quel, ch’ei dir vorria né puote,

40dicendogli: «Tu sai che tra Valente
e Pison gran discordia, o guerrier, nacque,
talché gran parte de la miglior gente
del nostro Impero estinta in breve giacque;
al che per riparar verso Oriente
n’andai, come al fratel malvagio piacque,
dove nel sen termaico altero infonde
del sangue lor Peneo tinte ancor l’onde.

41E ritrovai che di Pison la morte
poste avea l’armi a tutta Grecia in mano,
e che non pur Valente audace e forte
ma ne divenne temerario e vano,
che, non contento ancor di tanta sorte,
fe’ salutarsi imperator romano;
ma giunto essendo io quivi a l’improviso
l’empio restò da i suoi medesmi ucciso.

42Talch’io potea ben dir, con quel veloce
folgor romano: io venni e vidi e vinsi,
ché da l’ambracio mar fino a la foce
del bel Peneo l’acceso foco estinsi;
ma perché rimbombando troppo alta voce
forse di me, col proprio sangue tinsi,
al tornar, d’Acheloo la riva, e tosto
morto fra sterpi fui quivi nascosto.

43O che il fratel da prima a questo effetto
posto m’avesse in così gran periglio,
o poi colmo d’invidia e di sospetto
del valor mio, prendesse altro consiglio,
comunque sia, traffitto i fianchi e il petto,
resto dal mondo in sempiterno essiglio,
e di ciò fede a gli occhi tuoi ne faccia
lo sparto sangue e la smarrita faccia.

44E subito ch’io fui dal mortal peso
scarco, volando a te men venni in fretta,
per dirti come ancora il laccio ha teso
contra di te quella malvagia setta.
Ecco di rabbia il rio Paterno acceso,
che per darti la morte oggi si affretta,
con Teodoto a lui distante poco;
e vien con l’esca l’un, l’altro col foco.

45Deh fuggi, ohimè, le scelerate mura,
fuggi la crudel patria e il rio paese,
ch’avrà di te Giove benigno cura,
e fia tua scorta in mille e mille imprese;
svegliati adunque, e con mente sicura,
poi che fuggite avrai l’insidie tese,
prendi la strada ove il destin ti chiama,
ch’onor dormendo non si acquista o fama».

46E così detto il pronto messaggiero,
tosto Costante in densa nube involse;
poi quindi a guisa d’un vapor leggiero
disparve, e verso il Ciel ratto si volse.
Restò dal sonno sciolto il cavaliero,Galeno manda una squadra ad uccidere Costante sulla strada per l’Etruria (46,5-54)
che di tal caso in fino al cor si dolse;
e stando mesto in grave doglia e in lutto,
gli parve udir genti e romper per tutto.

47Onde, smarrito, si gettò dal letto,
sopra cui s’era con l’usbergo posto,
e fuggì fuor del periglioso tetto,
tra i suoi nemici entro la nube ascosto;
né molto andò che innanzi al suo cospetto,
come il tutto già gli empi avean disposto,
svelto il palazzo suo da l’alta cima
ruinò a terra in fino a la part’ima.

48Con tal fragor, con strepito sì fiero
che paventoso e privo di conforto
Costante s’inviò per un sentiero,
ch’or alto or basso, or giva dritto or torto.
Galeno e gli altri due ch’ivi il guerriero
sepolto esser credean prima che morto,
quel giorno istesso ebber da molti spia
che verso Etruria e tristo e sol sen gìa.

49Onde avendo il cor pien di tosco amaro,
di cento cavalier fatta una schiera,
guerniti d’armi in fretta gli mandaro
dietro a Costante la medesma sera;
ma perché non si sappia gli ordinaro
che, lasciando a sinistra la riviera,
debban sopra i destrier correr sì presti
ch’ei sendo a piedi e stanco indietro resti.

50Col duce Orfito due d’alto valore
tra gli altri andaro, e di virtute ornati,
Caro e Carin, che in ogni impresa onore
sempre acquistaro, ambi ad un parto nati;
questi, ch’avean sincero e puro il core,
sotto pretesto tal furon mandati:
che al suo signore inganno avesse ordito
Costante, e senza effetto esser fuggito.

51Creder gli fe’ Paterno che tiranno
farsi volendo del romano Impero,
e che visto scoperto esser l’inganno
e riuscito van sì rio pensiero,
di rabbia colmo per soverchio affanno
con molti avea del mar preso il sentiero,
e che salvi arrivando in qualche loco
lo scoppio s’udiria, vedriasi il foco.

52Spinti adunque ambedue da manifesta
colera, e colmi già d’aperto sdegno,
poi che a Galeno innanzi fur, con questa
credenza alquanto trappassaro il segno,
e gli promiser di portar la testa
del pio Costante, di lor fede pegno;
e ciò giurato avendo ambi si uniro
con l’altra schiera, e fuor di Roma usciro.

53Sapendo adunque Orfito a punto il dritto
dove Costante esser potea, che solo
se ne venìa rammaricando, afflitto
del caso occorso e pien di duolo,
giunse con fretta al loco a lor prescritto,
e fe’ quivi fermar tutto lo stuolo
fra due colli che un monte alto di sopra
par che ad arte ambedue con l’ombra copra.

54Sol per insidie il loco da natura
fatto parea con giri e cave e sponde;
quivi si stero in fino a notte oscura,
tra rami ascosi e tra virgulti e fronde,
gir lasciando i destrier scarchi in pastura,
d’alto intesi a le parti più profonde,
dove, per un sentier tra dumi e piante,
devea per forza capitar Costante.

Costante in solitudine sta per suicidarsi, viene fermato da un intervento divino e condotto alla grotta di Proteo (55-72)

55Il qual venìa sì pien di doglia in tanto,
e sì di speme e di conforto privo,
che tutto volto in lagrimoso pianto
sul petto gli cadea da gli occhi un rivo,
dicendo: «Ahimè, perché non caddi a canto
al mio signor? perché rimasi io vivo
nel gran conflitto a Cabora, quel giorno
che tanti Persi armati ebbi d’intorno?

56Perché dal terzo ciel scendesti allora
tu, dea, sol per salvarmi da una morte,
se mille morti provar debbo ognora,
senza aver chi mi aiuti o mi conforte?
Lasso, a qual fin da nascente aurora,
in un momento a le romane porte
sul carro fui da i cigni tuoi condutto,
se partir men devea senz’alcun frutto?

57Anzi, con grave infamia e con palese
danno fuggirne, e con mio scorno aperto!
Ecco le insidie che il tiranno ha tese
contra di me, che men d’ogni altro il merto.
O diva, ahimè, quante onte e quante offese,
e quanto aggio per te dolor sofferto,
ch’ognor mi fu, da che mi desti aita,
il viver morte e fora il morir vita?

58In quanto io sia per dare aiuto buono
al mio signor, come n’ho il petto acceso,
bramo la vita, ché altrimenti sono
sopra la terra un grave inutil peso:
voglio di questo a lui far dunque un dono».
Così dicendo il ferro avea già preso
per darsi morte, ma il lamento e il grido
porto Favonio a la gran dea di Gnido.

59La qual tosto che afflitto e sconsolato
sentì Costante in tanto error caduto,
rivolta a Pasitea c’ha sempre a lato
«Qui» disse «proveder convien d’aiuto,
poi che da l’esser suo tutto cangiato,
e in disperazion quasi venuto
del Tebro il buon roman giace a la foce».
E così detto al Ciel salì veloce.

60E per dar nuova forza e nuova speme
al misero, con dolce e con leggiadre
parole, disse a due virtù, che insieme
stan sempre appresso al sommo eterno Padre:
«O dive, onde le menti a l’uman seme
vòte di cure nubilose et adre
s’empion di speme in guisa e di fortezza
ch’ogni altra cosa per l’onor disprezza,

61date aiuto a Costante, onde non pèra
quei da cui Roma alto soccorso aspetta».
Questo udito le dèe, ch’una Cratera
e l’altra Elpidia da i mortali è detta,
ambe del Tebro in su la ripa, ov’era
dolente il cavalier, scesero in fretta.
A cui disse Cratera: «Ahi, qual ria sorte
ti sforza a darti, o vil guerrier, la morte?

62Quel Giove che ti diè, nascendo, o figlio,
somma costanza, onde n’acquisti il nome,
e che ti ornò di forza e di consiglio
più ch’altro illustre antico oggi si nome,
acciò che esca per te fuor di periglio
Roma, e le genti barbare sian dome,
sol per tentar come il tuo cor sia verso
di lui, scorrer lasciò tal caso avverso.

63E te cader sì strabocchevolmente
visto nel grave error di darti morte,
pensato avea tra la perduta gente
chiuderti dentro a le tartaree porte;
pur di Venere i prieghi al fin la mente
di quel fermaro, ma cangiato hai sorte:
dov’eri al fin d’ogni travaglio giunto
nel principio di quei ti trovi a punto».

64Pien di vergogna il cavalier romano
non ardia di mirar Cratera in viso,
ma giunta insieme e l’una e l’altra mano,
e quelle alzate e in Ciel guardando fiso,
con parlar le rispose umile e piano,
da quel primier pensier tutto diviso:
«Meraviglia non è ch’uom pecchi, ond’io
spero trovar pietà del fallir mio».

65Così diss’egli perché Elpidia in tanto
dal suo lume divin gli infuse un raggio,
talché, riposta ogni viltà da canto,
ritorno forte più che prima e saggio.
Poi costei disse: «Guarda, o figlio, quanto
Giove benigno sia, che il grande oltraggio
fattogli ti rimette, e nel primiero
stato ripone a liberar l’Impero.

66Ma perché a Proteo sei di gir costretto,
sol per purgarti del commesso errore,
oggi è ben di mestier che dentro al petto
serbi un invitto, un animoso core
pigliar colui devendo, e tener stretto,
che di forma si cangia e di colore,
ch’or divien orso or tigre or cervo or drago,
prendendo or questa et or quell’altra imago.

67Non men che del presente e del passato
Proteo presago, e del futuro ancora,
così Nettuno vuol, cui tanto è grato
ch’ogni un soggetto al regno suo l’onora,
e gli ha in governo il marin gregge dato,
ch’ei sotto l’onde va pascendo ognora
con somma cura; ma talor pur scende
in terra e, stanco, alcun riposo prende.

68In Carpato dimora egli sovente,
e ne la bella sua patria Pallene;
quinci molto non è lunge al presente,
ch’ei viene a riveder l’onde tirrene:
prima che il sol si attuffi in Occidente
questo con lacci prender ti conviene.
E benché a tale e tanta impresa molta
fatica avrai, ti fia ogni colpa tolta.

69Un altro utile ancor trarrai da questo,
ch’oltra il restar d’ogni tua macchia puro,
ti farà Proteo chiaro e manifesto
tutto ciò ch’avvenir t’ha nel futuro;
ma la man pronta aver convienti e presto
il piede, e l’occhio aperto e il cor securo;
quivi ambe noi teco saremo ognora,
senza cui forza indarno e saper fora.

70Tosto che Febo a mezzogiorno asceso,
l’ombra è grata a gli armenti e l’erbe han sete,
si ripara in un antro, ove disteso
prende al suo faticar posa e quiete;
quivi, prima ch’ei sia dal sonno preso,
salvo ti condurrem per vie secrete,
così potrai quello assalir con molto
più tuo vantaggio in grave sonno involto.

71Ma da te prima non fia tocco, o figlio,
ch’ei muterà sua forma immantinente,
sembrando or orso con acuto artiglio,
fulvo leon, squammoso atro serpente,
talor gigante con superbo ciglio,
griffo, tigre, pantera e fiamma ardente,
ché di prender sovente ha per costume
da ferir l’unghie e da volar le piume.

72Ma quanto più quello in diverse e strane
forme cangiar vedrai, tanto più audace
stringi le reti e i lacci tuoi, che vane
l’arti saran del marin dio fallace;
né seco, in fin ch’ei non riprenda umane
sembianze, aver giamai tregua né pace,
né gli levar dal collo o da le braccia
nodo se pria non ha l’usata faccia».

Imprigiona il dio e ne ottiene una profezia: riuscirà a salvare l’imperatore e darà vita ad un florido ramo famigliare con una regina (73-90)

73E così detto ambe le dive insieme,
dentro ad un speco il cavalier guidaro,
fatto del monte ne le rupi estreme;
poi dolce odor d’ambrosia in lui spiraro,
talché l’una fortezza e l’altra speme
infusogli nel cor quivi il lasciaro.
Né molto indugio fe’ che Proteo venne,
ma stanco, onde giacer tosto convenne.

74Era allor che più forza e più vigore
del gran leon Nemeo Febo riceve,
e che paion sì tarde al passar l’ore,
e che da i monti vien l’ombra più breve,
l’ombra sì da la greggia e dal pastore
cercata, cui la sete e il caldo è greve,
mentre Apollo con fronte alta e superba
rende fervida l’acqua, arida l’erba.

75Quando il pastor del marin gregge uscito
de l’onde, e molti mostri avendo intorno,
ne l’antro ov’era il cavalier, che ardito
e tacito attendea, fece ritorno.
Ecco i seguaci suoi molli sul lito
giacere a l’ombra o d’elce o d’alno o d’orno;
Proteo prima a contar l’armento attese,
poi sopra un letto umil d’alga si stese.

76Costante allor con forti lacci in mano,
visto il vecchio giacer, corse e l’assalse;
ma quel tosto cangiò sembiante umano
prendendo varie e strane forme false:
foco, acqua, leon, serpe; ma al fin vano
fu il tutto, e nulla fuggir gli valse;
ond’ei, ripreso già il primier suo volto,
parlò in tal guisa al cavalier rivolto:

77- O stolto e temerario, qual consiglio
fu quel che di venir ti persuase,
con tal fatica e con sì gran periglio,
ad assalirmi ne le proprie case? –
E ciò gli disse con sì orribil ciglio,
che smarrito il guerrier tra sé rimase;
ma non però gli sciolse mai dal collo
il nodo, sì che dar potesse un crollo.

78E gli rispose: – O saggio alto pastore
de i salsi armenti, a te pur noto è ch’io
né per temerità né per errore
men venni a te, ma per voler di Dio;
cessa omai di tentarmi, e se trar fuore
debbo di man de’ Persi il signor mio
dimmi, e la via più breve e più sicura
mostrami, poi che sol di questo ho cura -.

79Così detto Costante, in lui contorse
gli ardenti occhi il pastor, che sì nel volto
feroce apparve, e con tal rabbia morse
la fune, onde avea stretto il collo involto,
che di tenerlo o di lasciarlo in forse
quei di nuovo restò pauroso molto;
pur lo ritenne, e Proteo al fin depose
l’orgoglio, e fatto umil così rispose:

80- Come in Italia e come a Troia Enea
contra le schiere greche e contra Turno
fatica ebbe e travaglio, che di Rea
così piacque a la figlia e di Saturno;
e come il diede ancor l’istessa dea
in preda a Borea, a Zefiro, a Volturno,
talché in disagio e colmo ognior d’affanni
passò la vita in fino a gli ultimi anni

81(né di ciò tanto fu l’ira la cagione,
che da la sua beltà negletta nacque,
quanto che il seme suo, che di ragione
signoreggiar devea la terra e l’acque,
cui li scettri e le mitre e le corone
tutte ubidir devea, come al Ciel piacque,
mandasse uscendo di terre sì culto
arbore immensa e non picciol virgulto),

82così farai tu ancor, del cui felice
seme nascer non de’ men nobil frutto,
e da la tua non men stabil radice
fiori da empirne Europa e il mondo tutto.
Né stando in ozio con piacer ti lice
tanto acquistar, ma con fatica in lutto,
né di Giunon questo avverrà per sdegno,
ma sol di tanto onor per farti degno.

83Non vuo’ già dir che in odio ella non t’abbia,
col seme tuo, per nuovo e sdegno antico,
ma se mancasse in lei l’ira e la rabbia
per forza avresti un altro dio nemico;
or quel che saper vuoi, con queste labbia
che non mentiron mai, chiaro ti dico:
dopo molta fatica e dopo molto
travaglio, il tuo signor fia da te sciolto.

84Ancor che sol per te non sarai degno
di tanto onor, ch’una et un’altra donna,
di senno illustri, di valor, d’ingegno,
e del romano Impero ambe colonna,
t’inalzeran di pari a questo segno,
che non di gemme ornate in treccia o in gonna
ma d’armi cinte in sul destrier, disperse
faran più volte andar le schiere perse.

85L’una il governo ha in man de l’Oriente;
e l’altra il boreal paese affrena:
questa nel cor ti manderà sì ardente
fiamma, e sì dolce e sì soave pena
che in tutto quasi ti uscirà di mente
l’alta pietà che in Persia ora ti mena;
ma di nodo legitimo al fin seco
congiunto, questa avrai più giorni teco.

86E ti sarà per mille casi avversi,
per mille passi perigliosi e strani
fida compagna, e de i fallaci Persi
nel sangue tinger assi ambe le mani.
Del tuo seme e di lei veggio diversi
nepoti uscir, che i prossimi e i ontani
lochi possederai, non pur la terra
nobil ch’Adria e il Tirreno e l’Alpe serra.

87Ma poi ch’avrai, lor mercé, dando aita
a Licinio acquistato eterna palma,
quei tosto in morte cangierà la vita,
deposta de i pensier la grave salma;
né dopo molto ancor, tu, d’infinita
doglia empiendo la terra, a Giove l’alma
sovra il Ciel manderai, dove in eterno
felice avrai glia anni, e la morte a scherno -.

88E così detto Proteo in mezzo l’onde
saltò veloce; allora ciascuna diva
Costante coronò con doppia fronde
di verde lauro, e di pallente oliva;
poi disse Elpidia: – Dietro a queste sponde
ecco il sentier che a Populonio arriva;
a quel t’appiglia, – e gli accennò col dito,
– né mai ti allontanar, figlio, dal lito.

89E ti sarà da molti a mezza strada
fatto improviso e periglioso assalto;
ma tutti caderan per la tua spada,
del sangue lor tingendo il verde smalto;
quando a fermar poi t’abbi e in qual contrada,
l’alma Ciprigna tua dea, scesa da l’alto
seggio, ti farà noto a punto allora
che uscir vorrai di Populonio fuora.

90Ma perch’io so c’hai di saper desio
quai siano state le tue scorte fide,
io sono Elpidia, e Giove è il padre mio,
questa Cratera, et è figlia d’Alcide;
ambe stiam nel cospetto ognior di Dio
ma, perché lunge da ragion ti vide
già scorso, ne mandò per darti aiuto:
or di tornare a lui tempo è venuto -.

Costante è aggredito dalla squadra di Galeno, li uccide tutti meno uno, Caro, a cui affida un messaggio per l’imperatore (91-121,4)

91E così detto al Cielo ambedue insieme
saliro; e quivi solo il cavaliero
restò, pien di costanza e pien di speme,
seguendo lungo il mar sempre il sentiero;
e d’un gran bosco ne le parti estreme
già solo entrato, e scorto dal pensiero,
veder gli parve lancie, usberghi e scudi
per dove i rami eran di fronde ignudi.

92E ricordassi quel che da la diva
gli fu detto al partirsi onde, la mano
su l’elsa posta de la spada, giva
guardandosi d’intorno accorto e piano,
quando incontra gli uscì sopra una riva
un che in vista gli parve esser romano;
molti altri seco avea, che tutti a paro
con torto sguardo il cavalier guardaro.

93Color Costante salutò cortese,
essendogli al passar giunto al cospetto;
ma visto che il saluto non gli rese
alcun di lor, pigliò maggior sospetto.
Tosto in tanto il lor duce Orfito prese
l’asta e lanciolla al cavalier nel petto;
ma, non sendo il fatal suo dì, la sorte
sola in quel puntolo scampò da morte.

94Ma però, con gran forza l’armatura
l’asta passata, sdrucciolò nel fianco;
il sangue allor, per subita paura
correndo al cor, lasciollo in viso bianco.
Pur visto quivi un loco per natura
forte e levato, ancor che afflitto e stanco,
sopra vi ascese, onde poi meglio d’alto
schivar potea l’impetuoso assalto.

95Non men sicuro fu, preso quel passo,
che ne le spalle alcun ferir nol puote.
Quindi adunque avventando un duro sasso,
con quel rompe a Torranio ambe le gote;
con quel medesmo, nel cader più a basso,
Fausto sul capo in guisa tal percuote
che, fuor da gli occhi e da l’orecchie il sangue
versando, e questo e quel rimane essangue.

96Già de lo scoglio essendo a mezzo sceso
d’essi un drappello ardito, e con gran lena,
Costante in fretta un sì gran sasso preso,
che potea con due man levarlo a pena,
con quel cader, l’un presso a l’altro steso,
quattro fe’ di color sopra l’arena;
questo a gli altri spavento in guisa diede,
ch’indi ritrasser lor mal grado il piede.

97Sì come da pastori orso assalito,
che tra due quercie fermo arditamente,
nessun si mostra d’appressarsi ardito
quel sì ben visto adoprar l’unghia e il dente,
così ciascun di quei, tristo e smarrito,
d’esser qui giunto al fin tardi si pente;
ciascun, ch’ogni sua forza meglio pesa,
vorrebbe esser digiun di questa impresa.

98Già tutta da lui sol fuggia la schiera,
ma Firmian, figliuol di Teodoto,
che al guerrier di sua man dar morte spera,
d’appender l’armi fe’ nel tempio voto,
e ritornò sotto la rupe altera;
ma riuscì d’effetto il pensier vuoto,
d’un sasso in guisa colto da Costante
che andò col capo ove tenea le piante.

99Ciò visto il duce de la turba Orfito,
ch’amava Firmian qual proprio figlio,
salse la pietra minacciando ardito,
ma Costante il ferì nel destro ciglio;
non fu il colpo mortal, ma ben stordito,
del proprio sangue il volto e il sen vermiglio,
diede in terra al cader sì gran percossa
che si stracciaro i nervi e rupper l’ossa.

100Talché gli altri o per doglia e per paura,
morto il duce, lasciar volean l’impresa:
già senza fren ciascun, senza misura,
solo a salvarsi avea la mente intesa.
Ma di voltargli indietro Apronio cura
si tolse, tanto di veder gli pesa
da un sol parte cacciata e in parte uccisa
tutta la schiera, onde parlò in tal guisa:

101- Deh, soldati e fratei, per qual cagione
non volgete ad un sol guerrier la faccia?
Ne i vostri piè l’imperator non pone
la speme sua, ma ne le vostre braccia:
questo, e l’onor, sia in voi bastante sprone
per dare altrui, non per ricever caccia.
Voi sète pur nati e nutriti in Roma,
c’ha l’Africa e l’Europa e l’Asia doma.

102Ma se sprezzate il debito e l’onore
per giunger solo al viver vostro un giorno,
di questa fragil vita almen l’amore
freno al fuggir vi sia sprone al ritorno,
ch’Augusto pien di sdegno e di furore,
di voi lasciando al mondo infamia e scorno,
darà con strazio al timido la morte;
n’avrà a premio a l’incontro e gloria il forte.

103Per questo dir d’Apronio si fermaro
dal fuggir gli altri, e volto indietro il passo
correndo in fretta uniti ritornaro
dove Costante in cima era del sasso.
Quei, non sendo al suo scampo altro riparo,
pietre sempre gettando in copia a basso,
dicea: – Dunque sì grosso e fresco stuolo
d’armati vien contra me stanco e solo?

104Venga pur, gente vil, ch’io solo aspetto
s’alcun tra voi si vuol mostrar gagliardo -.
Ma da Pallante a pena così detto,
gli fu lanciato con gran forza un dardo,
che piastra rotto e maglia, e il ventre e il petto
scopertogli; non fu Costante tardo,
ma sceso in terra e colto audace un scudo,
con quel coprissi e petto e ventre ignudo.

105E fuor tratta la spada arditamente,
or contra questo or contra quel veloce
ridusse in picciol numero la gente,
che in tal guisa pur dianzi era feroce,
di sangue tinto il campo orribilmente
lasciando, in fino al ciel giungea la voce
de i miseri condotti a sì rea sorte,
che aiuto in van chiedean, feriti a morte.

106Fuggian di nuovo quei, di nuovo Apronio
cercava pur di ritenergli a freno
gridando: – Queste, son Tito e Scribonio,
le imprimesse da voi fatte a Galeno?
Che fia quel tu Pallante e tu Feronio,
che creder possa mai tal fatto a pieno?
Io, che presente e con questi occhi il veggio,
di sognar temo e con fatica il creggio.

107Mentr’era Apronio a fermar gli altri intento,
Costante un stral fuor del suo scudo tolto,
che dentro impressi ve n’avea ben cento,
lanciatolo a ferir l’andò nel volto;
e l’infelice tra la bocca e il mento,
per più sciagura a punto avendol colto,
cadde, parlando in tutto d’alma voto,
e la lingua gli andò nel sangue a nuoto.

108Trasse fuor de lo scudo un altro strale,
e nel ventre il cacciò tutto a Pallante;
ferì Turio col brando in guisa tale
che morto allor allor gli cadde inante;
fuggian gli altri ma indarno, ancor che l’ale
avute in loco avessero di piante,
fatto in modo pur dianzi da Cratera
forte il guerrier, ch’ogni un convien che pèra.

109Già tutta estinta era la turba eccetto
quattro, che sen fuggian per quella valle:
m Costante ferì Carin nel petto
d’uno strale, e Soran dietro a le spalle;
Numerio fu, mal grado suo, costretto
fuggendo per un torto angusto calle,
sì come cervo colto al varco in faccia,
di ritrovarsi di Costante a faccia,

110e da la forza l’infelice spinto,
che il fuggir né l’ascondersi gli valse,
trasse il coltel con furia ch’avea cinto,
e primo il cavalier feroce assalse;
quel già ferito avendo in faccia, e tinto
di sangue visto in tal superbia salse,
che tosto il colpo raddoppiò ma il forte
scudo d’acciaio lo scampò da morte.

111Sentitosi bagnar di sangue il viso
Costante, e così fier Numerio scorto,
sopra l’elmo il ferì talché diviso
col capo, a piè cader sel fece morto;
Caro sopra il fratel Carino ucciso,
traffitto dal dolor, languido e smorto,
fendea di strida in tanto e di querele
l’aria, chiamando il suo destin crudele.

112Costante andò là dove a piè del monte
ritrovò Caro, misero e meschino,
di lagrime versar per gli occhi un fonte,
sopra il già morto suo fratel Carino,
né da quei lumi estinti alzar la fronte
potea, ma giunto il cavalier vicino
subito a quel s’ingenocchiò davante,
non men che il fratel suo, morto al sembiante.

113- Signor, – dicendo – ancor che questa mia
temerità merti ogni fiero insulto,
per quella eterna fama onde non fia
del mondo in loco alcun quest’atto occulto,
deh, non mi uccider fin ch’arso non sia
il mio fratello, e il cener suo sepulto.
Carilla ad un sol parto, oggi ancor viva,
produsse ambe duo noi d’Aufido in riva.

114Del venusin poeta unico seme
Carilla, e d’essa eravam noi, che in sette
lustri siam stati e notte e giorno insieme,
né mai l’un senza l’altro un punto stette;
de la vedova matre e vecchia speme,
che in mente sua gran cose ha già concette
del viver nostro, e grave il caso inteso
le sarà sì ch’opprimeralla il peso.

115Ma poi ch’avrò sepolto il fratel mio,
debito ufficio al nostro immenso amore,
ti prego ben per quello eterno Iddio
che ti concede sopr’uman valore,
a voler trar di questo carcer rio
la miser’alma e travagliata fuore,
perch’io sarò, sì gran dolor sopporto,
vivo morendo, e son vivendo morto.

116Costante in dubbio fu sendo successo,
com’era il suo desir, tal fatto a pieno,
di tornar dentro a Roma il giorno istesso
carco di spoglie, e d’assalir Galeno;
ma da Minerva, ch’avea sempre appresso,
a sì folle pensier fu posto il freno,
onde rispose a Caro: – Io so ch’onesto
è ciò ch’or m’hai con tanti prieghi chiesto.

117Ma per contrario so che al vostro Augusto
prometteste e giuraste anco ambedui,
morto ch’io fossi, di troncar dal busto
questa mia testa e di portarla a lui;
s’onesto adunque è ciò ch’or chiedi e giusto,
se di ragion non si negasse altrui
potriasi a te negarlo, ma non voglio:
basta d’entrambi aver spento l’orgoglio -.

118- Non vuo’ negarti – allor soggiunse Caro -,
che al mio signor non promettessi questo;
ma gli empi suoi liberti m’ingannaro
sotto spezie di ben, d’util, d’onesto,
quando me col fratel Carin mandaro
per farti oltraggio aperto e manifesto,
talch’esser di pensier tutto e di mente
giudicato da te debbo innocente.

119Per l’innocenza mia, per la bontade
che in te regna, ti prego a perdonarmi,
col morto mio fratel, cui sol pietade
verso il nostro signor fe’ prender l’armi;
la miser’ombra sua per queste strade
veder, dovunque io mi rivolgo, parmi -.
Rispose allor Costante: – Io vi perdono
non pur, ma d’ambi satisfatto sono.

120Tu sol fra tanti adunque indietro porta
questo a Galeno: che d’un sol per mano
rimasa essendo tanta turba morta,
l’avviso loro è riuscito vano;
e che Dio, che mi fa per tutto scorta,
salvo mi guida a Populonio e sano;
e che il medesmo a lui torrà quel regno
di ch’ei si mostra a mille prove indegno -.

121E detto ciò salì sopra un destriero
di quei che gian pascendo a selle vuote,
scelto d’Etruria il più dritto sentiero,
ché tutte gli eran quelle strade note.
Caro, il duol che chiudea dentro al pensiero,Caro seppellisce il fratello e poi si reca da Galeno, nel riferirgli il messaggio di Costante lo ingiuria e poi si uccide, di seguito anche sua madre si suicida (121,5-136)
col rigarsi di lagrime le gote
scoprendo in tanto, di sua man compose
la pira, e sopra il suo fratel vi pose.

122Poi con tremante mano acceso il foco,
e in cenere il cadavero ridutto,
sotterra il pose indi lontano poco,
tra dure scorze, e infuso il cener tutto;
e perché quanti andassero in quel loco
sapesser la cagion del suo gran lutto,
d’un orno appresso a l’urna il coltel fisse
dentro la scorza, e in tal maniera scrisse:

123«Carin qui giace, che ad un parto istesso
meco già nacque, e sette lustri a punto
sempre siam stati l’uno a l’altro appresso,
né l’un da l’altro mai divisi un punto,
perché di star n’avea Giove concesso
io sempre seco e meco esso congiunto,
tenendo in vita una sol’alma dui
corpi, che in me quel vivo io stava in lui.

124Rimaso adunque lui pur dianzi ucciso
per man d’un cavalier costante e forte,
io, che da l’alma mia resto diviso,
non posso far ch’oggi non giunga a morte.
Deh, non tener di pianto asciutto il viso
tu che leggi il mio caso e la mia sorte;
io Caro, esso Carino, e fu la madre
nostra Carilla, e Caride mio padre».

125Poi ch’ebbe Caro in tal maniera scritto
sopra il sepolcro in viva scorza d’orno,
verso Roma il sentier prese più dritto,
di strida empiendo l’aria d’ogn’intorno.
Come pastor veggiam per doglia afflitto
far da la mandra al signor suo ritorno,
allor che il gregge a sé commesso veda
di lupo o di leon rimaso in preda,

126così nel volto di pallor dipinto
Caro venia di doglia e d’ira pieno,
non già contra il guerrier che l’avea vinto
ma contra di Paterno e di Galeno.
E là dove attendea con viso finto
quei, per saper tutto il successo a pieno,
se n’andò ratto; al cui cospetto giunto
senza inchinarlo o riverirlo punto,

127disse ardito in tal guisa immantinente,
per disperazion già troppo audace:
– Per man d’un sol guerrier tutta la gente
che ad assalirlo andò nel bosco giace,
mercé de la tua dura e falsa mente
che tanto annoia Iddio, tanto gli spiace,
sendo a colui sì perfido e crudele
ch’è sì pietoso al tuo padre e fedele.

128Né pensar che si fermi a questo segno
l’ira di Dio, ché a vendicarsi volto,
mosso dal giusto e ben concetto sdegno
sol per vederti ognior ne i vizi involto,
l’Impero, di cui t’ha scoperto indegno,
ti sarà con la vita in breve tolto;
e quel che tanti uccise di sua mano
vassene vivo a Populonio e sano.

129E in testimonio de i compagni chiamo
l’ombre, che tutte a noi d’intorno sono,
che in vita punto più di star non bramo,
né quella riportai con prieghi in dono;
ma se la vita ho in odio over s’io l’amo,
se falso o vero sia quant’io ragiono,
nel tuo cospetto or or farò con nuova
maniera sì che ne vedrai tu prova -.

130A pena avea queste parole detto,
ch’empiendo i circostanti di stupore,
tratta la spada fuor subito il petto
si traffisse, e passò per mezzo il core,
dicendo: – O giorno d’ogni mio diletto,
vero principio e fin d’ogni dolore,
voglio, o compagni, anch’io seguir quel fato
che di seguir mi fu con voi negato -.

131Sì stupido e sì attonito Galeno
riman, che statua immobile assimiglia,
di sdegno da l’un canto e d’ira pieno,
da l’altro di stupor, di meraviglia,
vistosi Caro innanzi venir meno
e far la terra intorno a lui vermiglia,
mentre alternando il misero trabocca
or per la piaga il sangue, or per la bocca.

132Di così nobil fatto ecco la voce
volar d’intorno, e da Carilla udita;
corse dov’era il suo figliuol veloce
da turba innumerabile seguita,
e mentre il rio Galeno agghiaccia e coce,
or questo affetto or quel la matre ardita,
disse verso di lui con gli occhi asciutti:
– De la tua crudeltà questi son frutti -.

133Segno maggior, più manifesto segno
non ebber mai, né mai gli uomini avranno
che Iddio contra di lor sia mosso a sdegno,
di questo avendo il principe tiranno.
Tu che non sei di tanto Imperio degno,
sol per travaglio de le genti e danno,
sol per castigo d’ogni nostro errore
fosti essaltato a sì sublime onore.

134Poi sanguinoso de la piaga tratto
il coltello, e rivolta a i circostanti:
– Deh, non vogliate questo illustre fatto –
disse – oscurar con lagrime e con pianti;
anzi, del grande acquisto ch’abbiam fatto,
meco si allegri ogni un, gioisca e canti;
d’uom veggio il figliuol mio caduco e frale
farsi a Dio sol per questa morte uguale -.

135Soggiunse poi levando ambe le mani
congiunte, e verso il Ciel la faccia volta:
– O Dio, ch’ognior riserbi a i preghi umani
l’orecchie aperte, i miei benigno ascolta:
deh, sciogli omai fra tanti pensier vani
questa infelice e miser’alma involta;
e lei con quella del mio Caro unita,
raccogli a goder sempiterna vita -.

136E così detto a Dio subito l’alma
mandò, schernendo il miser mondo e cieco,
cader la sciando la corporea salma
presso al suo Caro, e fu sepolta seco.
Diva Carilla, qual trionfo o palma
riportò mai duce romano e greco
che tu nol merti? Essempio antico o novo
d’altri che agguagli il tuo valor non trovo.

La popolazione si reca sul luogo dell’agguato, le donne si disperano (137-150)

137Sì raro caso avea diverso effetto,
dolor, colera, sdegno, odio e paura,
nel popol tutto in guisa tal concetto
ch’ogni un veloce uscia fuor de le mura,
dove innanzi al morir Caro avea detto
ch’un sol guerrier feroce oltra misura
di cento armati interi una coorte,
eccetto il messo, avea condotti a morte.

138Mogli e figli e fratelli ecco e parenti,
de i miseri che fur pur dianzi morti,
correndo al ciel mandar strida e lamenti,
per pietà, per dolor languidi e smorti;
seguia gran turba di lor, parte intenti
ch’or questo or quel si acqueti e si conforti,
parte con gli occhi per mirar le prove
d’un sol guerrier meravigliose e nove.

139Ma giunti al bosco ove successe il fatto,
come tacciuto in fino allor si fosse,
lo strido rinforzàr tanto ad un tratto
ch’augelli e fere a gran pietà commosse;
ciascun rassembra furioso e matto,
visto al primo apparir di sangue rosse
le frondi e molle orribilmente l’erba,
tutti rinovan l’aspra doglia acerba.

140Toccan le piaghe e co i ginocchi in terra
meste le donne, e volta in giù la faccia,
maledicendo chi trovò la guerra,
giungono i corpi a le spiccate braccia:
chi capo tronco in tra le man si serra,
basciandol spesso, e il busto essangue abbraccia,
chi con la scure a tagliar rami attende,
chi quei raccoglie e chi la pira incende.

141Ma che direm de la gentile e bella
Drusilla, di Carin diletta sposa,
lucida più che mattutina stella,
bianca e vermiglia qual giaccinto e rosa?,
che come il cor dal petto se le svella,
dolente e scapigliata e lagrimosa,
cercando gia tra quelle genti morti
col capo chino il dolce suo consorte.

142Sciogliendo se ne va da quelle teste
gli elmi, e ferma lo sguardo in tutto fiso,
prima asciugando con le ricche veste
il sangue, acciò che meglio appaia il viso;
né trovando Carin fa le foreste
tremar col grido, e giunta a l’improviso
dove Caro ne l’orno il tutto scrisse,
gli occhi per sorte in quel, stupida, fisse.

143E letto avendo in quel ruvido stelo
ch’ivi era il cener di Carin sepolto,
con impeto maggior le strida al cielo
mandando, si graffiò con l’unghie il volto,
e stracciatosi il bel candido velo
e il crin leggiadramente al capo involto,
di senso priva al fin cadde per forza
tra il cener caro e quella scritta scorza.

144A quelle strida, a quei sospir concorso
gran popol d’ogni sesso era in quel loco,
che a la fanciulla per donar soccorso,
subito acceso, essendo fredda, il foco,
or col tirarle il crine, ora col morso,
et or con le punture, a poco a poco
dandole in ciò che potean quivi aita,
ritornar fecer la virtù smarrita.

145Ma ritornata in sé gli occhi rivolse
d’intorno a chi ricoverolle il senso,
e seco sdegno setta si condolse
d’averle tolto un refrigerio immenso,
dicendo: – In braccio il mio Carin mi raccolse
da me quest’alma uscita, e quand’io penso
d’esserne al tutto in fin ch’io muoia priva,
veggio ch’ogni mio mal da voi deriva -.

146E detto ciò, di nuovo ancor l’assalse
con impeto più fier l’aspro dolore,
tal che né prego né conforto valse
per far che in parte almen fosse minore;
anzi mostrò che ad altra più non calse,
né passion provo più grave al core
d’essa giamai, del caro sposo morto,
né fu più lunge dal trovar conforto.

147Poi che attonito ogni un stando e confuso,
di quei che allor presenti si trovaro,
scoperta l’urna ov’era il cener chiuso
del suo Carin, ch’avea sepolto Caro,
e in un gran vaso quel pien d’acqua infuso
ch’ivi sorgea d’un vivo fonte chiaro,
lo bevve tutto e disse: – Urna men degna
parmi che al mio signor non si convegna -.

148Mentre costei con lagrimoso ciglio
del suo corpo a Carin fa sepoltura,
cercando Ortensia Firmian suo figlio,
sen va tra quei cadaveri sicura,
e ritrovato quel tutto vermiglio
di sangue, e sì cangiato di figura,
l’aria fendea di strida e di querele,
falso il mondo chiamando e il Ciel crudele.

149- Dolce figlio, – dicea – dov’è la speme
ch’avea di te gran tempo già concetta?
Ne i giorni estremi, anzi ne l’ore estreme,
vedova vecchia qual conforto aspetta,
vistosi al fin de l’unico suo seme
priva, in tanto dolor restar soletta?
ben segno al tuo partir, lassa, men diede
da te percosso il limitar col piede -.

150Ma chi dir potesse d’ogni madre o moglie
che allor priva restò d’ogni sua spene,
le lagrime contar tutte e le doglia,
gli aspri martiri e le soverchie pene,
potria d’ogni gran selva ancor le foglie,
e del Tirreno annoverar le arene.
S’udia di strida risonar d’intorno
l’aria, e i sospir rendean torbido il giorno.