Argomento
Narra Argeo che fortuna ebbe rubella
Zenobia, e in quai perigli fu sovente
fin che a l’Impero acese d’Oriente;
scioglie Eolo i venti e fa crudel procella.
Costante raggiunge Populonia e organizza una flotta per partire verso l’Egitto, Venere lo sconsiglia visti i rivolgimenti politici che ci sono stati in Africa e gli prescrive di recarsi dalla regina di Palmira, Zenobia (1-13,5)
1Giunto Costante a Populonio in tanto,
con gran piacer fu da ciascun raccolto.
Quivi si giacque con la febre alquanto
per la ferita ch’egli avea nel volto,
ma perché fu dal roman popol pianto,
credendol sotto al tetto suo sepolto,
da Roma e d’altri lochi ivi d’intorno
concorso a lui di gente era ogni giorno.
2E la Toscana e la Liguria tutta,
fatte a Galeno in subito ribelle,
che l’una e l’altra avendo omai destrutta,
con gli aggravi dal petto il cor le svelle,
si rimisero a lui, che già ridutta
di reggimento nuova forma in quelle,
solo un’armata ch’era quivi tolse
per suo bisogno, né da lor più volse.
3Tosto in copia venir fe’ d’ogni parte
mastri, e quella apprestar con molta fretta;
la qual poi ch’egli a remi, a vele, a sarte
fornita vide, e ch’altro non aspetta,
di quanti eran con lui già quella parte
che più gli parve al suo bisogno eletta,
publicar fe’ che il terzo dì prescritto
termine avea per gir verso l’Egitto.
4Di ciò tal grido nacque in un momento,
che ratto in fino al ciel l’aria fendea,
e sì ne fu ciascun lieto e contento,
ch’un giorno a tutti un anno esser parea;
ma quel che un anno a gli altri, a lui par cento,
ché dentro al cor maggior pietà chiudea;
e per partirsi al termine provede
or qua or là dove il bisogno vede.
5Tra l’altre cose andar di vettovaglia
fornito in abondanza avea gran cura,
e di vari tormenti da battaglia,
d’affondar navi e da combatter mura;
e perché al ritornar che non l’assaglia
con vantaggio Galeno avea paura,
sopra l’armata in copia adunar fece
d’ogni sorte armi e solfo e nitro e pece.
6La sera inanzi al giorno ch’ei devea
volger le spalle a i liti d’Occidente,
scesa da l’alto seggio, Citerea
sen venne a lui, come solea sovente;
la forma istessa aver quivi parea,
che serba in Ciel tra la beata gente,
di porpora le guancie e d’or le chiome
spiranti ambrosia, e lo chiamò per nome,
7dicendo: «Io veggio, o cavalier romano,
di gir tua mente verso Egitto intesa,
con speme che di gente Emiliano
t’aiuti, e che ti segua a tanta impresa;
ma il tuo sperar sarà fallace e vano,
ché il fido amico tuo, senza difesa
poter far contra l’altrui frode, a punto
quand’io qui giunsi a crudel morte è giunto.
8Ma Dio, che del tuo amor, de la tua fede
tien sempre cura, e innanzi al cui cospetto
vanno i prieghi devoti, oggi provede
che il giusto desir tuo venga ad effetto:
Zenobia illustre, a cui natura diede
tutte le doti, e nel candido petto
felice chiude ogni virtù più rara,
di far guerra a Sipario si prepara.
9Questa, con Odenato suo consorte,
communicò l’Imperio d’Oriente,
né di Palmira uscir fuor de le porte
disposti son con tutta la sua gente,
fin che il messo di te nuova non porte,
da lor mandato a posta diligente;
e pria ch’oggi tu parta un palmireno
ti conterà tutto il successo a pieno.
10Pria che dal lito i legni scioglia, un messo
da lor mandato a ricercarti in fretta
d’ambi ti narrerà tutto il successo,
perché d’Augusto far voglion vendetta;
questo al prescritto tempo ha lor promesso
d’essere in Siria, ove ciascun l’aspetta,
per te pensoso e con mente sospesa
se lasciare o seguir debban l’impresa.
11Tu segui il messo, e fa’ ch’ei ti sia guida
verso Palmira, e lascia il destro lito
che a questa impresa aver scorta più fida
non potrai di Zenobia, e del marito;
benché per strada sentirai le strida
che l’innocente imperator tradito
fia da l’ingrato cugino e morto,
pria che tu giunga a Miriandro in porto».
12Sparve ciò detto, e il cavalier, sparita
la dea, surse dal letto, a cui la sorte
d’Emilian recò doglia infinita
che in mezzo del fiorir sia giunto a morte.
Ma perché vuol ch’abbia Licinio aita
di Siria il messo attende, che gli apporte
de la regina l’ambasciata, e tosto
di seguirlo in Palmira era disposto.
13E perché sa che de la dea non manca
promessa mai che non riesca vera,
uccise al dio de’ venti un’agna bianca,
et una al dio de la tempesta nera,
un toro a te, Nettuno; e da man stancaGiunge un messo di Zenobia, lo informa che la regina lo sta aspettando per portare guerra a Sipario (13,5-22)
ecco in tanto apparir presta e leggiera
la nave, e il messaggier, come benigna
predetto a lui pur dianzi avea Ciprigna.
14Né molto indugio fe’, che il porto prese
la nave, e si accostò subito al lito;
e quivi in terra un cavalier discese
che di porpora e d’oro era vestito;
l’usbergo avea, con tutto l’altro arnese,
sì adorno che valean prezzo infinito
l’armi sue, sparte con sottil lavoro
di ricche gemme e di purissim’oro.
15Sembrava in vista il guerrier siro o perso,
che molti servi adorni in tal guis’anco
d’abito avea, ma di color diverso,
giallo, verde, morello, azzurro e bianco.
Sparto il grido per tutto, il popol verso
la nave corre, e giunge anelo e stanco
tanto ciascun desia mirar vicino
l’abito lor superbo e pellegrino.
16Costante allor, ch’avea l’animo intento
se il messo di Palmira omai venìa,
sperando che sia quel, con più di cento
cavalieri e patrizi in compagnia
vèr lui mosse, a grave passo e lento,
talché scontrati e con gran cortesia
fatte belle accoglienze, a lui primiero
parlò in tal guisa il cavalier straniero:
17«Costante, gloria de l’Ausonio nome,
di cui non ha più valoroso e saggio
dovunque spiega le dorate chiome
l’aurora, e scorge l’apollineo raggio,
né Giove a te sotto corporee some
produsse mai, né produrrà paraggio,
ché di rara pietà, d’alto consiglio,
d’Anchise avanzi e di Laerte il figlio,
18Zenobia, a cui fu d’Oriente il regno
dal Ciel per l’alta sua virtù concesso,
col marito Odenato, ambi sostegno
del vostro Impero in ogni parte oppresso,
contra Sipario rio, colmi di sdegno,
grande essercito insieme avendo messo,
tardi, per quel che Giove ha detto, vanno,
mentre mandato a ricercarti m’hanno.
19Quel dio cui diede l’africana arena
per tutto il nome sì famoso e chiaro,
rispose in guisa che s’intese a pena:
– Non avrai contra i barbari riparo,
né trar potrai Licinio di catena,
né fuor de l’empia man del Perso avaro:
indarno fian quest’armi e indarno tante
schiere, se teco non avrai Costante -.
20Dunque, o signor, poi che il dolor ti preme
d’Augusto tanto e la salute aggrada,
soccorri a tempo il popol nostro, e insieme
il signor tuo, con l’onorata spada;
senza il tuo braccio ogni un pauroso teme
verso Oriente di pigliar la strada,
ché, intesa avendo la fatal risposta,
ogni lor speme hanno in te sol già posta».
21D’Argeo Costante le parole intese,
ch’era così chiamato il messaggiero,
d’ardor più vivo ancor tutto si accese
di gir là dove il Ciel gli apre il sentiero;
ma come quel che umano era e cortese,
con parlar saggio e pien d’affetto vero,
«Troppo gran premio oggi m’avete offerto»
disse «rispetto al mio sì picciol merto.
22Che Ammonio per risposta o ch’altro dio
parli di me, non so donde m’avegna,
non conoscendo il debil valor mio,
né parte alcuna in me che ne sia degna;
ma però tutti andiam, perché desio
di Zenobia seguir l’altera insegna,
che a par del sol per tutto illustre splende,
sì che a la gloria ogni fredd’alma incende».
La flotta prende il mare, il messo Argeo racconta la storia di Zenobia, cacciata dal regno del padre dal feroce zio, il sanguinario tiranno Artemio, e richiamatavi dal saggio Odenato, a cui poi è andata in sposa (23-131)
23Cortesemente il saggio palmireno,
reso grazie a Costante a paro a paro,
sendo l’onda tranquilla e il ciel sereno,
tosto sopra l’armata ambi montaro;
e di Liguria il vago lito ameno
lasciando a dietro, ne l’Etrusco entraro,
stando il nocchier la notte e il giorno intento
al suo camin, poi c’ha secondo il vento.
24Temuto in prima avea Costante molto
che a la scoperta ancor l’empio tiranno
l’avesse ad assalir, vistosi tolto
d’usar la fraude solita e l’inganno,
ma già d’ogni timor libero e sciolto,
non teme oltraggio più, non teme danno,
che il Tebro a dietro resta, e che veloce
l’armata è giunta ove il Vulturno ha foce.
25Già innanzi a gli occhi lor vicina siede
l’alta e gentil città, cui la sirena
quivi sepolta il nome antico diede,
d’amor, di leggiadria più ch’altra piena;
ma per fuggir quel mostruoso piede,
che sotto faccia limpida e serena
Scilla nasconde, e di Cariddi il morso
torcendo gian verso man destra il corso.
26Verso Merigge da man destra alquanto,
volti fendean del gran Tirreno l’onda,
sendo il sol chiaro e l’aria in ogni canto,
l’aura spirando al lor desio seconda;
Costante allor, perché non vuol che in tanto
si getti il tempo in ozio, con gioconda
faccia ad Argeo rivolto «O signor mio»
disse «da voi saper bramo e desio
27in qual guisa Zenobia il fero artiglio
d’Artemio prima e poi d’Artemidoro
fuggisse, e con qual forza o qual consiglio
consegua a i danni suoi tanto ristoro,
che, vivendo pur dianzi in duro essiglio,
or di scettro regal, di mitra d’oro
adorna, a tante nazioni e strane
genti comanda, indomite e lontane».
28De la romana nobiltà gran parte
seguia Costante a l’onorata impresa:
chi per sdegno da Roma e chi sen parte
per tema, e qual per ricevuta offesa;
altri al suo re per satisfare in parte
di espor la vita è pronto in sua difesa,
come lo sforza il debito e la fede
conoscendo da lui ciò ch’ei possede;
29costor che di Costante eran presenti
a le parole e ne la istessa nave,
tacquero tutti a la risposta intenti,
cui di saper par ch’ogni indugio aggrave.
Dunque Argeo, che i suoi re tra i più prudenti
eletto il primo avean, con saggio e grave
parlar, visto d’ogni uom le luci fisse
fermate in lui, così rispose, e disse:
30«Benché, o signor, sian per l’adietro gli anni
stati infelici di Zenobia molto,
cui fu dal zio con fraude e con inganni
la madre e il padre in pochi giorni tolto,
pur già, visto in riposo i lunghi affanni
e il gran dolore in gran piacer rivolto,
narrarvi il tutto a pien non mi fia noia,
anzi, pensando al fin, letizia e gioia.
31Ne la più vaga e dilettosa parte
siede la patria mia de l’Oriente,
nel cui bel sito, più che altrove, ogni arte
pose natura in farlo diligente;
questa, non men che Roma, il vostro Marte
da le forze barbariche sovente
difese, ond’ella il gran dominio intero
sempre servò tra l’uno e l’altro impero.
32Di questa illustre e gloriosa terra
pervenne Artemio al sommo magistrato,
che saggio essendo, e forte in pace e in guerra,
e di fortuna d’ogni ben dotato,
fu da la plebe instabile, che atterra
spesso le leggi, in vita confirmato;
ma tenne in parte il grave error nascosto
l’aversi in man d’uom sì prudente posto.
33Con modestia, con arte e con destrezza
si fece Artemio i palmireni grati,
talché, salito a quella somma altezza,
regnò con grazia ancor de gli ottimati.
Gli accrebbe anco, non men che la ricchezza,
la nobiltà favor, sendo già nati
gli antichi padri suoi de i re d’Egitto;
e ristorò l’Imperio nostro afflitto.
34Fu giusto tanto e liberal che degno
d’assai maggior Impero anco apparea.
Spinto Artoserse a tòr la vita e il regno
al parto re, che insidie a lui tendea,
pose concordia e levò il fiero sdegno
che tra quel nacque e il figlio di Mammea;
e grande Impero al palmireno aggiunto,
diece lustri regnò felice a punto.
35Lasciò due figli, Artemio et Aristarco,
de’ quali Artemio era d’età maggiore,
ma di perfidia e di viltà sì carco,
come il fratel di fede e di valore;
onde, per esser d’ogni tema scarco,
visto rivolto il popolar favore
verso Aristarco, come di più merto,
l’avelenò per man d’un suo liberto.
36Morto Aristarco, il crudo Artemio in breve
l’ardente ira sfogò che dentro l’arse:
con crudeltà, per cagion falsa o lieve,
d’ogni amico fraterno il sangue sparse.
Per questa tirannia sì dura e greve
la paterna bontà più chiara apparse;
sol di mort’era e di tormenti vago,
qual tigre ircana o qual libico drago.
37L’infelice Aristarco avea lasciate
Zenobia, figlia, e Teocrena, moglie:
con questa furo i prieghi e forze usate
dal tiranno per trarla a le sue voglie;
ma lei, che il petto armato d’onestate
dal suo fermo proposito non toglie,
prima disposto avea darsi la morte
che fare oltraggio al suo fedel consorte.
38Dopo mille repulse, egro e dolente,
come lo sdegno e il furor cieco mena,
già l’amorose fiamme avendo spente,
d’adulterio accusar fe’ Teocreana;
poi lapidar la misera innocente
fino a la morte, ahimè, con grave pena:
contra ogni donna che non sia pudica
questo osserviam per nostra legge antica.
39Ma più solennità prima si fanno
che a morte sia dannata alcuna rea;
contra lei valse più che il ver l’inganno,
poi che a l’empio signor così piacea.
Non tenne Artemio il regno a pena un anno,
che deserto in gran parte esser parea;
molti elesser più tosto eterno essiglio,
che di morte restar sempre in periglio.
40Né gli bastava che pur dianzi l’empio
l’armi avea d’ogni sorte a ciascun tolte,
e quelle chiuse in un capace tempio,
anzi più tosto si può dir sepolte,
ch’esser di tirannia volendo esempio,
più cose in mente sua prima rivolte,
mentre la gioventù far molle ordiva,
di nervo, di valor, d’animo priva.
41Fe’ questa legge e tosto in uso
pose: ch’ogni fanciul fino a i venti anni
si essercitasse a i balli, a l’ago, al fuso,
con veste d’oro e di purpurei panni
che gli arrivasser fino in terra giuso,
sedendo tra le donne in bassi scanni,
con varie reti in treccie il crin involto,
di gemme adorno il sen, di liscio il volto.
42Penne acconcie con arte avean la state,
e il verno pelli preziose in mano,
d’oro adorne e di gemme, a lor portate
da questo e da quel loco indi lontano.
Ma quei che nacquer prima in libertate
da gli occhi tutti si levò pian piano:
parte uccise e sforzò, parte con legge
a coltivar le campagne, a pascer gregge.
43Fece ogni servo libero che a i suoi
signori desse occultamente morte,
spingendogli a sposar per forza poi
de i miseri o le figlie o la consorte,
con dir: – Le donne io lascio in preda a voi,
pur che la robba a me tutta si porte -;
questa ognor tolta altrui con varie frodi,
de la persona sua dava i custodi.
44Cento e più ricchi un dì senza cagione
fatti morir, per torgli ogni tesoro,
vista non riuscir l’opinione,
madri e sorelle e mogli e figlie loro
fe’ subito cacciar tutte in prigione,
dubitando che ascoso avesser l’oro;
e stato essendo a i preghi e duro e sordo
gran tempo, al fin con lor fe’ questo accordo:
45che, pagata gran somma di danari,
uscisser di Palmira il quarto giorno
con le gemme e co i panni a lor più cari,
per quella porta ch’esce a mezzogiorno.
L’empio tiranno e i suoi ministri avari,
per farle oltra il gran danno ancor più scorno,
con gran misterio avean prescritta l’ora
che tutte insieme uscir devesser fora.
46Credendo ogni una adunque andar sicura,
le cose avean di maggior prezzo tolte,
e quelle accomodate con gran cura
nel seno, in grembo, o in qualche tasca involte;
le giovani, vezzose per natura,
con reti d’or le treccie avean raccolte,
e il collo di monili e il capo adorno,
con l’oro a i piedi et a le braccia intorno.
47Ma non sì tosto il quarto giorno unite
giunsero per uscir fuor de la porta
che fur da quelle genti empie assalite
che far (di patto) le dovean da scorta;
per questo assalto afflitte e sbigottite
ne rimase di lor gran parte morta,
che non sapendo, misere, che farsi
s’eran volte a fuggir sol per salvarsi.
48Tosto ignude spogliate, e crudelmente
di nuovo tutte imprigionate furo;
ma si diè morte alcuna arditamente,
ch’altro partito non trovò sicuro;
onde quell’empia e maledetta gente,
poste subito l’altre il loco oscuro,
con ceppi e nodi le acconciaro in guisa
che la strada a fuggir fu lor precisa.
49Dal carnefice poi furo in gran strazio
tenute alquanto, e finalmente appese;
ma trecento e più sendo in minor spazio
non si poté espedir l’empio d’un mese.
Molti che Artemio esser credean già sazio,
e spente in lui trovàr le voglie accese,
gli disser, per salvar quattro polzelle,
di seme illustri, a meraviglia belle:
50- Vergine dal carnefice aver morte
non può per legge e per nostr’uso antico -.
L’empio rispose: – Una medesma sorte
con l’altre avran; ma quanto a l’uso io dico,
de l’oscura prigion dentro a le porte
il carnefice, fatto a quelle amico,
piacer seco amoroso in prima prenda,
né più vergini poi loro anco appenda -.
51Così fu fatto; e videsi quel giorno
tosto il sole apparir di chiaro oscuro,
e indietro far dal suo camin ritorno,
che non volse mirar caso sì duro.
Dunque in tal guisa e l’unghia e il dente e il corno,
per far la vita e il suo regno sicuro
quel mostro insanguinassi, che l’Inferno
tal mai non ebbe e non avrà in eterno.
52Sola Zenobia rimanea fra tanti,
d’Aristarco e d’Artemio unico seme,
di rare doti e di costumi santi
ornata, e di virtù chiare e supreme,
talché il mondo di lei par che si vanti
più che di tutte l’altre unite insieme,
e il sesso feminil per sì chiar’alma
tra noi riporta di valor la palma.
53Fornito avea Zenobia un lustro a pena
quando fortuna sì crudel l’assalse,
ché fur morti Aristarco e Teocrena
parenti suoi, né la innocenza valse:
quei d’ascoso col tosco e con gran pena,
questa in publico sol per prove false.
L’infanzia e il sesso di Zenobia forse
di sé pietate al crudo Artemio porse;
54o che de l’empio zio l’ingorda voglia
già fosse in parte, e il furor grave spento;
o ch’ei nel cor tormento avesse e doglia,
e del fraterno spirto ombra e spavento;
o che l’eterna providenza toglia
l’intelletto a i mortali e l’ardimento,
perché ad effetto il fatal corso vegna
non quanto l’uom tra sé volge e dissegna.
55Questa fanciulla il sommo Padre eterno
serbava ad alte e gloriose imprese,
e datole ab eterno avea il governo
di tante genti e di sì gran paese.
Del zio contra lei dunque l’odio interno
fu vano ognor, ch’ognor Dio la difese,
benché restasse in man del mostro fero
dopo il caso materno un lustro interno.
56Quella tenera età, quel fragil sesso
d’Artemio prima avea ogni dubbio tolto,
ma poi, scorto il valor sì saldo impresso,
e il popol tutto a lei sola rivolto,
come a gli animi vili accade spesso
riman per tema in gran travaglio involto,
sì ch’altro mai non pensa e non discorre
che lei di vita occultamente tòrre.
57L’empio crede dopo Aristarco estinto
e Teocrena al viver regio avvezza,
dopo aver morto o fuor del regno spinto
qual più splendea per nobiltà o ricchezza,
securo in pace (essendo giunto al quinto
lustro due volte omai) starsi in vecchiezza:
or di Zenobia inerme orfana teme,
tal coscienza il cor gli punge e preme.
58Era in Rodi a quel tempo, assai potente,
Adrasto, in terra e in mar di guerra esperto,
da cui servito Artemio lungamente
con fede ancor gli avea renduto il merto,
dunque l’empio a costui si pose in mente
di far l’occulto suo pensiero aperto.
Così tra sé questo conchiuso, scrisse
che per cosa importante a lui venisse.
59E sparse in tanto voce che volea
mandar Zenobia a star più giorni seco,
poi che a prender disposta la vedea
le discipline e l’idioma greco;
di questo il popol gran letizia avea,
dal desio fatto e da la speme cieco,
né pensa che il tiranno ognor nasconde
l’aspe crudel sotto fiorite fronde.
60Ma poi che in Siria giunto il rodiano
e di Palmira fu dentro a le porte,
cortesemente e con sembiante umano
l’accolse Artemio, et onorollo in corte;
poi trattolo in secreto un dì per mano,
lo costrinse a giurar con modo forte
di far quanto vorrebbe, e ch’ei non manco
di servir lui non si vedria mai stanco.
61Soggiunse poi, turbato in vista molto,
che per timor, per gelosia di stato
contra il proprio fratel s’era rivolto,
di ragion vera e di giust’odio armato;
né per averlo al fin di vita tolto
s’era il sospetto in lui punto scemato
per una figlia sua, da cui prendea
tal forza quel, ch’ognor dentro il rodea.
62- E perché ritrovar non so, per trarla
a morte, via più occulta e più sicura,
teco – l’empio dicea – voglio mandarla,
con patto che nel mar debbi gettarla,
così da me fia tolta ogni paura,
scrivendo indietro poi come sommersa
sia per la tempesta e per fortuna avversa -.
63Stupido Adrasto a le parole intento,
pien d’ira e di dolor la faccia tinse,
e dentro al cor l’assalse aspro tormento,
ma tristo al fin ne gli omeri si strinse,
poi che a l’incauto il forte giuramento
la libertà del voler proprio estinse,
onde, sforzato il parricidio atroce,
disse di far però con bassa voce.
64Quindi poi si partir che il rio tiranno
gli diè Zenobia, e del camin più corto
notizia avuta, a gran giornate vanno,
fin che di Lodicea giunsero al porto;
dove, imbarcati per soverchio affanno,
rimase Adrasto isbigottito e smorto,
poi che il mar vide a lui prescritto, dove
far si devean le scelerate prove.
65Giunto a Cipro il nocchier dal destro canto,
costeggia di Cilicia la riviera;
lascia indietro Panfilia, Olimpo e Xanto,
ch’apre dal mar l’acqua profonda e nera;
già vicina è la nave a Rodi tanto
che il dì medesmo d’arrivarvi spera;
già la terra si mostra e scopre il lito,
né trova Adrasto al suo dolor partito.
66Quinci religion, quindi pietade
gli fan con ugual forza impeto al core;
questa vuol che riguardo abbia a l’etade
de la fanciulla che innocente muore,
quella gli ricorda e persuade
che il mancar di sua fé sia grave errore;
dar morte a chi non l’abbia offeso è grave,
romper la fede e il giuramento pave.
67Deh, quanto è falsa in quei l’opinione
che nel romper la fé timidi stanno,
la fé data a colui che intenzione
mala e fondata tien sopra l’inganno,
perché l’uom che in servarla fia cagione
non pur di morte ma d’altrui men danno
commette error, né si può in alcun modo
stringere a ciò, con qual si voglia nodo.
68Rimaso era tra sé gran pezzo in forse
l’afflitto Adrasto, e dal travaglio oppresso,
quando un util rimedio al fin gli occorse,
come dal Ciel per gran pietà concesso;
con questo aiuto a la fanciulla porse
senza mancar di quanto avea promesso:
fece un seggio acconciar, sopra cui salse
Zenobia, e l’attuffò ne l’onde salse.
69D’asse con pece il seggio era ben chiuso
d’intorno sì ch’entrar non potea l’onda,
poi con funi apprestate a sì fatto uso
de la nave appiccato ad una sponda,
la fe’ calar con pesi gravi giuso
pian pian, fin che nel mar tutta s’asconda,
poi quindi trar, ché satisfatto vede
con la pietade a l’obligata fede.
70Giunsero in tanto a Rodi e la donzella
tenne Adrasto nascosta con gran cura,
perché il zio non n’udisse altra novella,
e da gli inganni suoi fosse sicura;
scritto gli avea che per crudel procella,
sì come piacque a l’empia sorte dura,
s’era sommersa, e quasi ogni altro morto,
tra il Xanto in Licia e di Telmezzo il porto.
71Ma perché star nascosta in Rodi vieta
de’ Siri il conversar troppo frequente,
fra pochi giorni la condusse in Creta,
a Filocrate Isauro suo parente;
il qual l’accolse con la faccia lieta,
ma ben nel cor per lei gran doglia sente.
Poi quindi a lui, sendo a partir costretto,
raccomandolla con paterno affetto.
72Subito Adrasto in Rodi fe’ ritorno,
e Zenobia lasciò con Filocràte,
presso a cui poi gran tempo ebbe soggiorno,
raro essempio di grazia e d’onestate.
Fioriano in lei virtù di giorno in giorno:
senno e prudenza oltra la verde etade,
valor bontà, forza, destrezza e fede,
che sol fu di virtù del padre erede.
73D’ogni arte liberal, d’ogni idioma
sì studiosa fu, sì piacer n’ebbe
che al suo dir puro e grave Atene e Roma,
cui gloria accresce, al par d’ogni altro ebbe;
Marte ornolla di lauro ancor la chioma,
e fu (ma chi parlarne a pien potrebbe?)
ne i giochi o di palestra o d’altra sorte
con feminil decoro e destra e forte.
74Non solo in continenza imitatrice
fu de la diva di Latona figlia,
ma di selvagge fere cacciatrice,
del cui sangue facea vermiglia l’erba.
Non rupe o bosco, non antro o pendice
al suo corso leggier poser mai briglia,
mentre più franca ognor con lancia o dardo
seguiva or capro or damma or cervo or pardo.
75Prima solea con maraviglia molta
vincer nel corso ogni animal veloce,
e quei cacciava ognor leggiera e sciolta,
al duro ghiaccio e quando più il sol coce;
cominciò poi per l’aspra selva incolta
ad affrontarsi col cinghial feroce,
e con l’orso e col tigre e col leone,
onde ne riportò palme e corone.
76Di queste fere già per tutto inopia
ne l’isola di Creta esser solea,
ma ne l’Imperio d’Antonin già copia
Marzio pretor condotto ivi n’avea,
che di Scizia e d’Arabia e d’Etiopia
portar ne fece quante più potea;
godeasi quei l’universal bonaccia
del vostro Impero in giochi e in feste e in caccia.
77Da indi innanzi ognor ne fu abondante
la nobil Creta quanto ogni altra parte.
Ne gia per campi o selve indarno errante
d’Aristarco la figlia, anzi di Marte,
che tra i virgulti spesso e tra le piante,
d’un vel succinta e con le freccie sparte,
dormia appoggiando il capo a pietra o stelo
la state, il verno, a la rugiada, al gielo.
78Oltra che di bontà Zenobia è piena
di senno, d’onestade e di valore:
sembra donna celeste, anzi terrena
dea nel bel viso ove s’annida amore;
quivi come a lui par scalda e raffrena
ogni più duro et agghiacciato core;
la donna a rimirar gli occhi e le ciglia
s’empie d’invidia, e l’uom di meraviglia.
79Ben fu Tomiri in arme illustre, e quella
regina nota a la cantata chioma,
in castità colei che a sé rubella
diè morte e liberò dal giogo Roma,
tra le muse fu Saffo, e in esser bella
la greca, onde restò la Frigia doma;
ma questa il pregio a tutte l’altre ha tolto,
sendo in lei sola ogni valor raccolto.
80Publicata la nova Artemio in tanto
dal vero, a mal suo grado, avea diversa,
e già sparto era il grido in ogni canto
che la fanciulla in mar giacque sommersa;
quinci nacque dolor, mestizia e pianto,
che il popol tutto da un sol occhio versa;
quindi ad alto salian strida e querele:
chi ingiusto il Ciel dicea, chi il mar crudele.
81Ma fatto il caso avea contrario effetto
nel falso re, che lo credea per vero,
perché s’altri sospira ei n’ha diletto,
s’altri si dole ei va di gioia altero,
benché per simular quel ch’avea in petto
si vestì con lugubre abito nero,
ma non sì ben pone l’astuzia in opra
che l’interno piacer non si discopra.
82Perché sì come egli è difficil cosa
finger con mente afflitta il gioco e il riso,
così non può l’alta letizia ascosa
restar sotto fallace e finto viso;
vorria l’empio mostrar mente dogliosa
e ch’abbia da se stesso il cor diviso,
ma far nol può perch’al fin sempre è forza
che il ver di fizzion rompa la scorza.
83Tenuto avea già fino al settim’anno
l’empio a Palmira il giogo e i ceppi e il morso
dal dì che il popol con sì grave affanno
pianse il naufragio che non era occorso,
quando il Padre superno, a cui sen vanno
de’ giusti i preghi, non tardò soccorso,
sendo ognor pronto con mortal saetta
castigar gli empi, allor che men si aspetta.
84Molti di quei che il rio sotto pretesto
d’arar campi cacciati avea in essiglio,
scorto a più veri indizi manifesto
soprastargli maggior sempre il periglio,
ché Artemio non contento ancor di questo,
come uccidergli ognor chiedea consiglio,
fatti per la total perduta speme
audaci e forti s’adunaro insieme.
85E questa cosa da principio lieve
stimata fu, ma poi da varie parti
vi si ridusser tante genti in breve,
Siri, Armeni, Fenici, Arabi e Parti,
ch’oltra ogni creder riuscita greve,
Artemio i suoi soldati prima sparti
raccoglier fe’ dentro a Palmira tosto
severo a castigar color disposto.
86E pensando tra sé come ad effetto
mandar potesse quel sì rio pensiero,
ecco arrivargli un giovene al cospetto,
ignudo e tutto di percosse nero,
co i segni a i piedi, onde parea che stretto
stato in catena fosse un mese intero;
e giunto afflitto e smorto nel sembiante,
prostrato a i piè se gli gettò davante,
87simulando fuggir da i suoi ribelli,
che l’avrian crudelmente a torto ucciso,
gli disse ove sarian la notte quelli,
l’un da l’altro senz’ordin diviso,
talché a la rete aver non men che augelli
potea tutti a man salva a l’improviso;
e in somma oprò che Artemio allora allora
seco i soldati uscir fe’ tutti fuora.
88Questo era Ermippo, figlio d’Andronoro,
che fu con gli altri dal tiranno spento,
allor che per levargli ogni tesoro
n’uccise a torto in un sol giorno cento.
Cauto Ermippo guidò sempre costoro,
del padre morto a vendicarsi intento,
per lochi inculti ove altro non si vede
che sabbia, né si può fermarvi il piede.
89Con circa trenta in tanto Alceste ardito,
il cui padre ebbe ancor quel giorno morte,
con pelli da pastor ciascun vestito,
entraro a quattro a sei per varie porte;
ma poi che il giorno in tutto fu partito,
raccolti insieme, ogni un sicuro e forte,
giunto per altra via con l’oste Artode,
gli apriro, ucciso prima ogni custode.
90Di quei prescritti figlio Artode ancora,
con diece mila ch’egli avea raccolti,
dentro a Palmira entrò proprio in quell’ora
che stan nel sonno gli uomini sepolti,
chiusa con tanta astuzia avendo fuora
del tiranno i soldati, a cercar volti
l’orme lor, mentre Ermippo per l’arena
più lunge ognor da la città gli mena.
91Stato era il giorno innanzi di Derceto
solenne festa, in simil giorno ogni uno
mangia e beve assai più del consueto,
e questo a i nostri fu molto opportuno,
ché Artode se n’andò presto e secreto
con quelle genti, essendo l’aer bruno,
del tiranno al palazzo e su la porta
trovò dormir quei che facean la scorta.
92Sendo ebri e di vin colmi in fino in gola
gli diero a tutti immantinente morte,
talché senza udir grido, anzi parola,
si fe’ il medesmo a tutte l’altre porte;
giunsero al fin dove nel letto sola,
col tiranno giacea la sua consorte,
per figli aver da lui pur dianzi tolta,
dotata di beltà, di grazia molta.
93Ma non raffrenò grazia né beltade
l’impeto lor, né punto alcun commosse
a prender de la misera pietade,
per timor ch’ella già gravida fosse:
cento lancie in un punto e cento spade
del sangue d’ambedue rimaser rosse.
Poi quindi fuor mandando al ciel le voci,
scorser per tutta la città feroci.
94Gli amici del tiranno crudelmente
morti fur, poste a sacco, arse le case,
e in tal tumulto alcun ch’era innocente
colto in error quel dì spento rimase;
ciò visto Artode, il duce lor prudente,
a depor l’arme il popol persuase,
d’Artemio esposto tra deserte rupi
il cadavero in preda a i corvi, a i lupi.
95Dunque per opra del prudente duce
l’armi posate, era ogni cosa queta.
Ma l’ozio, che a discordia spesso induce
l’instabil vulgo che non serva meta,
per timor de la legge che produce
gli ordini tutti e la licenza vieta,
cagion fu quasi che in ruina andasse
Palmira, e d’uom più rio serva restasse.
96Fornito ancor non era intero un anno
da che in Palmira Artemio ebbe la morte,
ch’Artemidor cugin di quel tiranno
scorse de la città fino a le porte;
con fraude il re di Persia e con inganno
lo fe’ di gente e di danari forte,
con speme d’acquistar per quella strada
regno sì bel senza oprar lancia o spada.
97Dentro a la terra ecco il tumulto grande,
d’amici essendo Artemidor potente;
corron gli armati da diverse bande,
come i rivi per pioggia al lor torrente,
né di quei primi alcuno appar, che mande
(non ch’egli vada) ove il periglio sente,
perché a se stesso ogni un pauroso attende,
né donde esca il rumor vede o comprende.
98La congiura però non ebbe effetto
(così van senza capo ognor l’imprese):
la turba vil per natural difetto
a vendicar l’onte private attese,
ond’ebbe tempo un saggio duce eletto,
per tal cagion di porsi a le difese,
ragunar genti armate e con gran cura
chiuder le porte, e circondar le mura.
99Ma poi che usciti fur del gran periglio
d’Artemidor, ch’abbandonò l’impresa,
e ch’ebber morto over posto in essiglio
chi dentro avea la parte sua difesa,
il Senato ordinò, visto il consiglio
del re perso e la mente sua compresa,
che de l’ordine loro un si eleggesse
a cui l’impero, come pria, si desse.
100Perché nel tempo tempestoso e fero
lo stato popolar non è opportuno,
ma quel perfetto può chiamarsi e vero
governo, il qual sia posto in man sol d’uno,
pur ch’ei segua d’Astrea sempre il sentiero,
né mai riguardo in questo abbia ad alcuno,
raffreni il senso e sprezzi l’oro e ceda
a la ragione, e che il tutto oda e veda.
101Questo decreto adunque stabilito
da i padri, e da la plebe confirmato,
fu con giudicio intero anco adempito
quel dì, ché a tale effetto era ordinato,
poi che ogni un d’essi di volere unito
monarca elesse e principe Odenato,
e sì ugualmente a tutti il nome aggrada
che ne risuona intorno ogni contrada.
102Era Odenato figlio d’Arismarte,
disceso da Seleuco, illustre seme,
grato a Minerva e non men grato a Marte,
di virtù rara e d’infallibil speme;
qual, per fuggir la civil guerra, in parte
ritratto s’era, ove di nulla teme,
col pensier volto ad ogni cosa, eccetto
che ad esser re de la sua patria eletto.
103Dunque non era ivi presente allora
quando il suo nome risonar s’udia,
che spendea il tempo di Palmira fuora
in caccie e in studi e in far sol cortesia;
non fèro i padri e il popolo dimora,
per dar lor stessi e il regno in sua balia,
ma tutti usciro, ond’era in guisa piena
la strada che potea capirgli a pena.
104Contra sua voglia fu Odenato in tutto
rimosso da quel viver sì tranquillo,
e con trionfo a la città condutto,
sicura omai sotto sì bel vessillo;
così de i merti suoi l’intero frutto
ebbe dal Ciel, che a tanto onor sortillo;
e d’aurea mitra e d’aureo manto adorno
dava legge a le genti ivi d’intorno.
105Ma volse in tanto a la ventura il Cielo
di Zenobia innocente aprir la porta
da i palmireni rimuovendo il velo
de l’ignoranza, onde l’avean per morta.
Però mentr’ella con ardente zelo
di virtù segue l’onorata scorta,
giunse la nuova ch’era Artemio morto,
ond’ebbe Adrasto al cor gioia e conforto.
106Anzi era sparta questa voce intorno
ch’ei ne fosse cagion stato in gran parte,
per far vendetta di quel grave scorno
quando egli strinse a giurar lui con arte;
e se presente non trovosse il giorno
che l’ossa fur del rio tiranno sparte,
di sé sospetto dar non volea forse;
ma fosse o no, così la fama scorse.
107Né così tosto dopo il caso occorso
si mosse a far Zenobia manifesta,
d’Artemidoro inteso ch’era scorso,
e che a tumulto avea la plebe desta;
e che l’averli dato il re soccorso
più rendea la città turbata e mesta,
vedutosi nemico al fin scoperto
sì gran re, sì vicin, sì d’armi esperto.
108Ma poi saputo che a l’Imperio loro
felicemente era Odenato asceso,
per cui d’ogni lor danno ampio ristoro
scarchi prendean d’insopportabil peso,
con Sipario schernendo Artemidoro,
visto il re nuovo a la vendetta inteso,
tempo gli parve da non star più a bada,
ma che a Palmira egli in persona vada.
109Così fe’ dunque, e quivi tosto giunto
appresentossi al nobil Palmirarco,
e gli narrò com’era il tutto a punto
de l’innocente figlia d’Aristarco:
com’ei giurò, come di duol compunto
la salvò poi dal periglioso varco;
e d’ogni cosa in somma il fa capace
mentr’ei pien di stupor lo guarda e tace.
110Come Egeo quando rimirò presente
starsi Teseo suo nobil figlio e d’Etra,
conosciuto a la spada incontinente
chiusa da lui sotto la grave pietra,
di meraviglia e di letizia in mente
colmo restò, che morte oscura e tetra
temea, né di lasciar frutto che il seme
d’esso illustrasse, avea punto di speme,
111così Odenato, che in gravosa pena
fu per Zenobia, ch’ogni un morta crede,
ora al parlar del caro amico a pena,
che sì verace tien, prestar può fede;
ma d’alta gioia al fin con l’alma piena,
poi che al piacer la meraviglia cede,
rivolto al rodian lieto e cortese
grazie, non senza lagrimar, gli rese.
112Poi divulgar fe’ la medesma sera,
là dove il popol tutto si raguna,
ciò ch’avea inteso di Zenobia: ch’era
viva, ma in quale stato e in qual fortuna;
chi la scampò da l’onde e in qual maniera,
e l’altre cose tutte ad una ad una;
e che fanciulla in arme e in studi a quante
donne illustri fur mai già passa inante.
113Ciascun rassembra attonito e diviso
da se medesmo, e con la mente astratto,
né gli è d’udir ma di sognarsi avviso,
quel che pur ode apertamente in fatto;
tacito guarda l’uno a l’altro in viso,
quando ecco un gran bisbiglio, indi ad un tratto
con impeto sì forte, un grido fende,
l’aria che in fino al ciel veloce ascende.
114Simile a quel che alzato in Lilibeo
fu da la gente in Libia poi condutta
dal buon roman, che tributaria feo
la gran città ch’or giace arsa e distrutta;
overo allor nel ludicro Nemeo,
che a la gente di Grecia ivi ridutta,
Quinto dopo sì belle e rare imprese
fu de l’amata libertà cortese.
115E sì tal caso al popol tutto piace
che più frequente ognor la lingua scioglie;
brama ciascun che d’Imeneo la face
si accenda, e che fian quei marito e moglie;
la più vil turba non si ferma o tace,
ma grida e tutta insieme si raccoglie,
poi quinci e quindi or corre or torna or gira,
com’onda in mar quando Austro e Borea spira.
116Ma poi che il grido alquanto fu cessato
del popol, che passò per gioia il segno,
con quei più vecchi e saggi del Senato,
di cui solea più commendar l’ingegno,
questo conchiuse il principe Odenato:
che per ridur Zenobia al suo bel regno
vada onorata e bella compagnia,
di cui signore e capo Adrasto sia.
117Un altro ancor mandò col rodiano
che per invidia si consuma e rode,
Meonio detto, suo cugin germano,
perfido e colmo dentro al cor di frode;
e benché il copra sotto viso umano,
e con parlar di cui più bel non s’ode,
però guardar con l’animo disposto
non può il fratel nel regal seggio posto.
118Et or che d’altri vede a questa impresa
soggetto farsi, tal dolor ne sente
che fu, sì l’alto sdegno al cor gli pesa,
un giunger cera o pece al foco ardente.
La via di Creta in tanto Adrasto presa
avea con molta ed onorata gente:
questi a l’armata in Miriandro andaro,
quivi apprestata, e il golfo issico entraro.
119Zenobia in Creta nuova e Filocràte
ebbero sempre a pien d’ogni successo,
talché in Gortina, ricca e gran cittate,
fu d’alloggiar ciascun l’ordine messo.
Cortesie quivi e gran carezze usate
a i duci fur, con tutti gli altri appresso;
poi seco andàr fino al carpazio seno,
tranquillo essendo il mar, l’aer sereno.
120Rodi, che il nome d’Aristarco onora,
con pompa ad incontrar sua figlia venne;
così d’intorno isole e terre ancora
tal modo in farle onor ciascuna tenne.
Si fe’ quel giorno in Carpato dimora;
l’altro, con trionfal pompa solenne,
giunser di Rodi a l’isola famosa,
in studi e in arme illustre e gloriosa.
121Adrasto sempre ad onorarla intento
già preparato avea ne le salse onde
una nave, i cui remi eran d’argento,
la poppa d’oro e d’ebeno le sponde,
di porpora le vele, e d’ornamento
a queste parti ogni altra corrisponde;
tal Cleopatra, del cui seme nacque
Zenobia, navigò del Cidno l’acque.
122Sotto un purpureo padiglione, adorno
di fregi e di ricami e di compassi,
di gemme e d’oro, in mezzo e d’ogn’intorno,
Zenobia altera sopra un seggio stassi,
l’arco e gli strali avea qual Cinzia e il corno;
poi quinci e quindi, assise in seggi bassi,
le donne sue d’un velo eran succinte
quai ninfe, e i piè d’aurei coturni avvinte.
123Al suon d’arpe e di cetre e di stromenti
diversi a tempo mossi erano i remi,
con voci umane in sì soavi accenti
che, d’ogni rabbia e d’ogni orgoglio scemi,
fermi per ascoltar restaro i venti;
Giove con gli altri dèi da i più supremi
seggi porser le orecchie al gran concento,
e ciascun dio del mar fermossi intento.
124A Cipro in tanto era Odenato giunto,
ché già per fama di Zenobia ardea;
dove ornò tempi e coprì strade a punto,
come a tal donna e tanta esser devea;
quel regno con molti altri al suo congiunto,
per forza d’arme il primo Artemio avea:
dunque Odenato chiama da ogni banda
i magistrati e ciò che vuol comanda.
125Volse che in Cipro fosse più che altrove
con sommo onor raccolta, onde archi e ponti
sopra le mura fèr per tutto dove
passar devea, quei cittadini pronti;
molti altri ancor, con più stupende prove,
le valli alzaro et abbassaro i monti,
perché l’alta regina lor non vada
giamai per erta e men per china strada.
126Giunse da Paffo a Salamina in diece
giorni, e l’onor fu in ciascun loco immenso,
dove molte città libere fece
del tutto, e molte alleggerì del censo;
Filocrate al partir lasciò in sua vece,
che per l’affetto a lei mostrato intenso
di doni e d’altri privilegi ornollo,
e con gran potestà quivi lasciollo.
127Poi su la bella e ricca nave ascese,
che di tre giorni prima era nel porto,
e per mano Odenato al salir prese
già piagato nel cor, nel viso smorto;
ma, non facendo il dolor suo palese,
non era alcun che se ne fosse accorto,
e mentre ch’ei la notte e il dì sospira,
giunsero a Miriandro; indi a Palmira.
128Quivi Odenato di Zenobia acceso
foggie straniere e nuovi giochi trova,
e sì soave il giogo e lieve il peso
pargli d’amor ch’ogni martir gli giova.
Ne l’entrar la cittade a piè disceso
segue colei, che il secol d’or rinova,
e con gran pompa e con trionfo raro
de la dea Siria al maggior tempio andaro;
129quindi al palazzo, ma trovò contrasto
nel voler dare al matrimonio effetto,
perché Zenobia il viver puro e casto
s’avea tra sé fino a la morte eletto,
ma tanto oprò con l’eloquenza Adrasto,
con preghi ardenti e con paterno affetto,
a cui ragion tanto efficace aggiunse
che d’un nodo immortale ambi congiunse.
130E da che son nel regal seggio assisi,
d’autoritate e di potenza pari,
non fur mai di voler punto divisi,
ambi ugualmente a i lor soggetti cari,
perché sì grati e sì benigni visi
sempr’hanno, e contra de i ministri avari
l’uno e l’altro è sì rigido e severo
ch’ogni uom si sottopone al loro impero.
131Ciò ch’è tra il mar di Licia e il grande Eusino,
tra l’Eufrate superbo e l’onda egea
diessi a lor, visto il gran regno latino
che senza alcun sostegno omai cadea;
de l’Asia il rimanente a quei vicino
già soggiogato il re di Persia avea,
fuori che i Siri e gli Armeni e quella parte
d’Arabia cui l’arena incide e parte.
L’invidioso Meonio, cugino di Zenobia, ha però tramato una congiura con Sipario: Zenobia lo è venuta a sapere da Argeo e ora attende Costante per sbaragliare i nemici (132-143)
132E già tre volte di purpureo manto
ricamato di fior, d’erbe e di foglie
s’era il terren vestito, et altrettanto
cangiate in bianche avea le verdi spoglie,
quando Meonio, a cui può darsi il vanto
d’invidia, stava in angosciose doglie
ch’ogni favor fatto al frattel dal Cielo
gli era al cor grave e velenoso telo.
133Costui, che vince e di perfidia e d’arte
Zopiro e Polinnestore e Sinone,
tratto i re nostri un dì soli da parte,
mostrò con verisimile ragione
che il Perso raccogliea le schiere sparte,
d’entrare in Siria avendo intenzione;
– E se da voi non è – dicea – prevento,
d’orror m’empio a pensarvi e di spavento -.
134Chi detto non avria che a buona strada
Meonio andasse allor, visto per prova
che più la guerra nuoce in sua contrada
che non fa quando ne l’altrui si trova?
Tanto più ch’era ver che il Perso, a bada
non restando, attendea la stagion nuova
per assalirgli da più parti in fretta,
con cento milia e più di gente eletta.
135Ma sotto il rio consiglio in apparenza
buono, mortal veneno era coperto,
ch’ei de l’uno e de l’altro per l’assenza
di restare in lor vece era ben certo,
talché allor senza impedimento e senza
contrasto alcun sfogare il duol sofferto
gran tempo già potrebbe, e il foco ch’arso
l’ha tutto omai per le midolle sparso.
136E già del re di Persia a questo effetto
fattosi amico, e già più volte a i Persi
dato in Palmira il perfido ricetto,
con quei ragionamenti ebbe diversi,
finché tra lor con giuramento stretto
questi partiti occultamente fersi,
ch’entro a Palmira abbia Meonio a tòrre
Sipario, e il regno tutto in sua man porre.
137Ma ch’egli in cambio a lui di Media il regno
dia, tra i confin di Persia e il mare Ircano,
e ben fora successo ogni dissegno
l’un figlio e l’altro a quel lasciando in mano
de la gran fede lor palese pegno,
tanto il sospetto era da quei lontano.
Ahi troppo ingorda fame, ahi sete ardente
d’impero, a che non sforzi umana mente?
138Erenniano e Timolao duo figli
già di Zenobia trovasi Odenato.
Questi del mostro rio ne i crudi artigli
lasciava, e tutto il palmireno stato;
ma di sì stretti e taciti consigli
sospetto ebb’io, che prima avea notato
con vestir finto uscir de le sue porte
spesso de i primi c’ha Sipario in corte.
139Dunque al re venni e quel con la regina
persuasi ch’essendo questa impresa
di Siria o la salute o la ruina,
esser devea con destro augurio presa;
e per chiaro saper se a la divina
magiestà piaccia o se ne resti offesa
dovevano, o se il fin suo sia buono o reo,
consultar Pizia, Ammonio o Dodoneo.
140Ancor ch’io fossi tra me stesso certo
di Meonio che i Persi occulti tenne,
pur non avendo alcuno indizio aperto,
né potendone far prova solenne,
tacqui, di sua eloquenza prima esperto,
a cui ceder ciascun sempre convenne,
ché il falso a lui più che ad ogni altro il vero
si crede, e fa parer bianco per nero.
141Quest’altra via da me dunque proposta
con speme fu, ché a ritardargli alquanto
non dovesse gran tempo star nascosta
la fraude, e che potria scoprirsi in tanto.
Piacque il mio aviso, e s’ebbe tal risposta
d’Ammonio, involta sotto oscuro manto:
– Sia col favor commesso il legno a l’onda
di costante aura, al tuo desir seconda -.
142Auruspici e caldei chiamati furo,
e di Telmesso ogni indovin più raro,
per intender di Giove il detto oscuro,
cui fe’ d’Etruria un sacerdote chiaro:
– Sarà – disse – in Palmira ogni un sicuro,
ma se d’uscirne ancor vi sarà caro,
quando Costante non vi faccia scorta,
la gente vostra fia sconfitta e morta -.
143Sendo, o signor, tua nobiltà, tua fede
sì note, fu di te subito inteso,
talché Zenobia di trovarti diede
la cura a me, che il desir n’ebbi acceso;
io volsi in fretta verso Esperia il piede,
visto in Palmira a te con speme atteso
da i re, da i padri e da tutta la plebe,
com’era Anfiarao per gire a Tebe».
Giunone di concerto con Eolo provoca una terribile tempesta, la flotta ne viene investita (144-168)
144Così, stando a lui sol ciascuno intento,
narrava Argeo de la sua donna i casi;
ma tacque al fin, visto cangiarsi il vento
e smarriti i nocchier tutti rimasi
che senza darne segno, in un momento,
di sì tranquillo il mari si turbi, quasi
ch’Eolo spinto da i preghi di Giunone
esser non possa d’ogni mal cagione.
145Perché visto la dea che di Megera
stato era ogni opra et ogni sforzo vano,
e che il fato non vuol che cada e pèra
ma che risorga il gran nome romano,
colma di doglia e per gran sdegno altera,
stringendo insieme e l’una e l’altra mano,
con gli occhi alzati e con l’immote labbia,
chiusa nel cor tenea l’ardente rabbia.
146Talché nel viso or pallida or vermiglia,
secondo che più l’ira o il duol crescea,
«Di Licaone e d’Inaco la figlia
sol per dispregio mio» dunque dicea,
«nel ciel risplende l’una, e tante miglia
scorsa l’altra per mar d’Egitto è dea,
oltra che Alcide e Bacco e Ganimede
immortal nosco a l’alta mensa siede.
147Ma non fia però mai, notte né giorno,
spenta in me la giust’ira in fin ch’io veda
Costante morto e Roma, con gran scorno
di tal ch’ella sdegnò per servo, preda;
over che chiara stella al Polo intorno
girar vedrollo, o tra i figliuoi di Leda
chiaro apparendo in quelle parti e in quelle,
acquetar venti e mitigar procelle.
148Volgendo tai cose adunque in mente
con tutte l’altre, l’infiammata diva
rinova l’odio e, di grave ira ardente,
riman d’ogni pietade in tutto priva;
e d’Argo volta a gir verso Occidente
fra monti alpestri e inabitati arriva,
dove non si vedean virgulti o fronde,
ma scogli alpestri e dirupate sponde.
149Sopra il maggior di quegli, erto e sassoso,
e lubrico a salir via più che il vetro,
dentro una grotta stava Eolo nascoso,
che i venti or spinge innanzi or tira indietro;
e perché alcun non sia di scorrer oso,
gli tien rinchiusi in cavo loco e tetro,
talor gli scioglie, d’ira e d’ardor pieno,
poi gli rimette ancor placato il freno.
150Il Padre eterno allor che si dispose
di dare ordine e forma a gli elementi,
acciò che fosser le create cose
tutte al servigio de l’umane genti,
compreso atto costui, cura gli impose
d’imponer legge e d’affrenar i venti,
ché quei lasciando nel primier lor uso
nel gran caos il mondo avrian confuso.
151Eolo, poi ch’ebbe l’alta impresa tolta
di regger quella turba orrenda e fera,
che pria solea d’ogni legame sciolta
scorrendo andar per tutto il mondo altera,
usò grand’arte, usò destrezza molta
non riposando mai mattina e sera,
fin che non ebbe quei, sparti e diffusi,
tutti ridotti in stretto speco e chiusi.
152Sopra cui poste e moli e monti serra
l’antro, e lega ciascun di laccio forte,
che strepito e romor fanno sotterra
da spaventar Tisifone e la Morte;
par che il Ciel tremi e caggia, e che la terra
s’apra, e si spezzin le tartaree porte,
mormoran monti, scogli, antri e caverne
al fremer lor tra quelle grotte interne.
153Sopra il seggio regale Eolo dimora,
e mitiga il furor temprando l’ira,
a quei rallenta il duro fren talora,
e talor anco a sé la man ritira.
A questo adunque andò Giunone allora,
spinta dal grave duol per cui sospira;
e con voce dolente e con pietose
parole, il suo desir così gli espose:
154«Eolo, a cui diede il sommo eterno Giove,
re de le dive e de l’umane genti,
d’acquetar l’onde e in ogni parte dove
t’aggrada, d’inalzar per l’aria i venti,
contra i nemici miei l’alte tue prove
usa, e per te sian suffocati e spenti,
che dopo avermi tante volte offesa
la via securi han d’Oriente presa.
155Ben puoi vedere in me quanto e qual sia
l’alto dolor, che in gravi cure involta
venir, per aspra e per solinga via,
mi sforza a te già la seconda volta;
quinci anco appar più la miseria mia,
ch’ogni altra strada a vendicar m’è tolta,
contra di lor mill’onte antiche e nove
sendoti noto e come e quando e dove.
156E perché il seme fu di Deiopea
cagion del grave tuo martir, che allora
non pur con man sì cruda ti premea
ma che la notte e il dì ti preme ancora,
con più felice nodo o ninfa o dea
teco a tua scelta avrai senza dimora,
se ben mia figlia chiedi, che al dispetto
d’Alcide, osservarò quant’io prometto».
157Eolo rispose: «Alta regina, molto
potrei di te dolermi e con ragione,
che essendo stato tra gli dèi raccolto
non per mio merto ma per tua cagione,
e per te Giove ad essaltarmi volto
me sol prepose ad ogni regione:
e tu con doni aver cerchi e con preghi
quel che il giusto non vuol che ti si neghi.
158Per te fra gli altri dèi sono potente
di muover tuoni e di eccitar tempeste,
e mandar posso la sfrenata gente
a me soggetta in quelle parti e in queste,
e d’Apollo adombrar l’empia e lucente
faccia con nubi tenebrose e meste,
e per te in mar, dove or tua mente intende,
via più che altrove il poter mio s’estende».
159Così dicendo, un’asta in man già tolta,
percosse in guisa il cavernoso monte
che risonando aprissi, et ecco molta
turba, con forze a gli altrui danni pronte,
scorrer per tutto, e d’atra nube folta
coprirsi in un momento l’orizzonte,
e con folgori spessi e d’orror pieni
tuoni e pioggie apparir, lampi e baleni.
160In poco d’ora in quella parte tutti
che prescritta gli fu dal re crudele,
con maggior sforzo i venti ecco ridutti,
ecco strida, sospir, pianti e querele;
chi fu che gli occhi aver potesse asciutti,
visto cadute sarte, arbori e vele,
con strana e con orribile figura
farsi del sol la chiara luce oscura?
161Scorre e rimbomba in questa e in quella parte
soffiando il vento, e l’onda or gonfia or preme;
romper d’antenne e fracassar di sarte
per tutto s’ode, e il mar mormora e freme;
non giova di nocchier la forza o l’arte,
già di scampar ciascun perde la speme;
si van d’intorno percotendo l’onde
e i sassi e gli antri e l’arenose sponde.
162Già tolto il lume e d’ogn’intorno steso
avean le nubi un tenebroso velo;
spesso dal folgorar de i lampi acceso
parea per tutto orribilmente il cielo
quando, a i ripari sol Costante inteso,
scorrer sentissi per le membra un gelo,
onde al fin visto ogni rimedio vano
levò al ciel gli occhi, e l’una e l’altra mano,
163dicendo: «O mille volte e più beati
voi, che con tanto avventurosa sorte
dinnanzi al vostro imperatore armati
per sua difesa riceveste morte;
O Tisaferne, ahimè!, quai crudi fati
qual rio destin sì ne’ miei danni forte
quel giorno ti vietàr di poter l’alma
cacciar da questa grave inutil salma?
164Là dove giace il forte Aurelio, e dove
Sergio, Giusto, Scribonio e Pompeiano,
con tutti gli altri che per chiare prove
moriron degni del nome romano,
dove Cabora ancor volgendo move
con l’onde tinte e porta indi lontano
non pur armi romane e scudi e veste
ma corpi interi e tronche braccia e teste».
165Così dicendo ecco da Borea spinta
crescer con più stridor l’aspra procella;
rompe l’antenna, i remi spezza, e vinta
caccia la nave in questa parte e in quella;
Africo in contro a quel la tien respinta,
e par che il mar da l’ima parte svella:
per l’uno al ciel montar l’onda conviene,
l’altro scoprir fa le più basse arene.
166Una nave a cui dentro eran d’Etruria
molti con Fausto al cavalier sì caro,
dinanzi a gli occhi suoi, per far l’ingiuria
più grave, essendo ambe le navi a paro,
tre volte o quattro un turbo con tal furia
rotò, che indarno usando ogni riparo
cadde al fin vinta su la destra sponda,
e in giù col capo andò il nocchier ne l’onda.
167Contra d’un scoglio un’altra Euro sospinse,
dov’era Montio e il buon Sereno fido,
e tre Favonio d’alta arena cinse
fuori de l’acque, ma lontan dal lido;
dolor, tema e pietate ogni uom vinse,
che al ciel ne van l’alte querele e il grido:
chi face a Teti e chi a Nettuno voto,
e molti se ne gian per l’onde a nuoto.
168De’ quai ciascun per dritto e per traverso
già stanco spinto e con furor sì grave,
giù nel profondo al fin riman sommerso,
che alcun rimedio onde scampar non have;
Or più che mai rabbioso il vento avverso
caccia l’onda superba entro ogni nave,
e già l’ingordo mar per tutto accoglie
l’armi e le veste e le più ricche spoglie.