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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro IX

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 10.09.15 19:04

Argomento
Annovera ogni duce e narra dove
raccolta avea ciascun di lor sua schiera,
e ch’indi il cavalier l’orribil fera
portò, che indarno fur tutte le prove.

Dopo i quattro mesi l’oste è pronta, viene passata in rassegna (1-54)

1Del gran pianeta che n’adduce il giorno,
e scorge e tempra le create cose,
l’alma sorella e l’uno e l’altro corno
quattro volte scoperse e quattro ascose
dal dì che Citerea col crine adorno
di verdi mirti e di purpuree rose
con gli Amor quivi e con le Grazie giunse
e la regina e il cavalier congiunse.

2E di Gallia e di Britannia gente
venuta era in Marsiglia da ogni parte
co i duci lor, ch’ogni un dentro la mente
freme, e scorrendo van Bellona e Marte.
Già l’armata per gir verso Oriente
stava a i remi fornita, a vele, a sarte,
e con la tromba già Taurante intorno
de la partita avea prescritto il giorno.

3E in nome di Costante a i duci imposto,
e di Vittoria, un messaggiero avea
ch’indi a tre giorni la mattina, tosto
che risplendesse l’amorosa dea,
le sue genti abbia in ordine ogni un disposto,
ché mostra universal far si devea
fuor di Marsiglia in un gran campo, chiuso
di mura intorno e fatto a simil uso.

4Talché al termine dato ogni guerriero
sotto quel capitan che lo conduce
comparve, e con Vittoria e il cavaliero,
a lo spuntar de la diurna luce.
Ma ben fia in tutto folle il mio pensiero
se contar penso ogni lor capo e duce,
ancor che cento lingue avessi e cento
voci, ch’io sol quel so che dir ne sento.

5Dunque o voi, Muse, che vicine a Giove
dal tutto avete conoscenza intera,
cantate il nome d’ogni duce e dove
raccolta avea ciascun di lor sua schiera.
Cataldo primier i Belgi move,
con ordine sì bel, con tal maniera
ch’esser ben mostra di Toringe figlio,
di guerra esperto e d’ottimo consiglio.

6Diece mila son tutti e in cinque schiere
divisi, e tien ciascuno un capitano.
Guida i Batavi Olando, ardite e fere
genti, cui chiude il Reno e l’oceano;
giuran superbi a tutto lor potere
di ricovrar l’imperator romano.
Mille e mille son questi, e in campo d’oro
un leon rosso è l’alta insegna loro.

7Vien l’altra schiera poi, né veder cosa
di questa gente si potria più bella:
Leuci e Sicambri, et altri a cui la Mosa
fa sponda e il monte ond’esce e la Mosella,
grande e ben fatto e in viso come rosa
si mostra il duce lor, ch’Eldrio s’appella,
il qual non può, benché sia in armi forte,
fuggir la sua fatal vicina morte.

8Spiega ne l’alta insegna il gran guerriero
c’ha da macchiar del sangue suo quel loco,
duo leoni, che in giallo un d’essi e nero
l’altro in azzurro è del color del croco;
annoverava questo duce altero,
che sol le forze altrui stimar sì poco,
tra gli avi suoi Licinio Gallo, quello
che fu de’ Galli già tarlo e flagello.

9Nacque Licinio in Gallia e fu prigione
di Cesare, indi servo, indi liberto,
poscia d’Augusto, che in grande opinione
l’ebbe d’uom saggio e d’ogni cosa esperto;
ponendol sopra i censi, occasione
gli diede onde il suo cor mostrasse aperto;
la Gallia, ov’ei gran tempo i censi colse,
di sua rapacità molto si dolse.

10Che al mal solo applicando ogni suo ingegno
molti uccise e mandò molti in essiglio,
tese insidie e rubò, ch’uom non fu degno
d’uscir mai salvo da sì adunco artiglio;
tarli in tal guisa mai non rose legno,
né padre irato flagellò rio figlio
per cumulo di eccessi e gravi falli
com’ei già flagellò, già rose i Galli.

11Gridi, accuse e querele a diece, a cento
fatte fur contra di Licinio ingiusto,
ma quel molt’arche d’or piene e d’argento
fe’ in casa sua veder tosto ad Augusto,
sapendo che tal cosa in un momento
piega e sforza qualunque è più robusto,
e gli disse: «O signor, chi qui si serra
ti avria potuto far molti anni in guerra.

12Di man trassi de’ barbari il tesoro
perché ad un tempo del romano Impero
s’alzi, e si abbassi la potenza loro;
per te l’accolsi e per te il serbo interno».
Lieto Augusto pigliò l’argento e l’oro,
visto ciò ch’ei dicea tutto esser vero;
e d’ogni grave suo fallir gli diede
perdon non pur ma ancor prezzo e mercede.

13Un figlio ebb’egli allor d’una germana
ricca e gran donna, che per moglie prese;
d’alto animo dunqu’Eldrio e di romana
mente dotato da costui discese.
La terza schiera uscia poco lontana
da questa, e il duce lor saggio e cortese
scendea da quel che la bell’opra a Veto
vetò, perché invidiollo in suo secreto.

14Mentre Neron col ferro e con la falce
contra Roma più crudo ognor surgea,
stavan la Gallia e la Germania in pace,
che sol del proprio mal Roma piangea;
Veto allor, perché l’ozio a i duci spiace,
così i soldati essercitar credea:
tra l’Arari far volse e la Mosella
un’ampia fossa, impresa utile e bella.

15Dal mar che i Galli a mezzogiorno serra
nel Rodano si va, che seco unisce
l’Arari, e poi gran spazio vi è di terra,
che a le navi un bel corso indi impedisce;
ma Veto, che non ha contra alcun guerra,
di levar tanto impedimento ordisce,
acciò che ogni un, per ben capace fossa,
navigar fino a la Mosella possa,

16quindi al Reno e dal Reno a l’oceano.
Ma ciò gli fu da Gracile vietato,
sotto finto pretesto che il romano
Impero fora in grave danno stato
lasciando entrar con sì potente mano
ne la provincia altrui l’altrui legato.
La Germania di qua reggea dal Reno
Veto, e Gracile avea de’ Belgi il freno.

17Del costui seme adunque era disceso
Loranio, duce de la terza schiera,
queste genti ch’ei guida il gran Vogeso,
con l’ampio petto e con la fronte altera,
dal sol difende, allor ch’egli è più acceso,
e son chiuse verso Euro e verso sera
tra la Mosella e il Reno, e il duce loro
porta una sbarra rossa in campo d’oro,

18dentro a cui son tre bianchi augei di Giove.
Seguon Loranio e Treviri e Nemeti
e Lingoni et altri, che inaudite prove
faranno in Persia, ove ne van sì lieti
che dir non si potria quanto al core giove
del pio Costante e quanto duol gli acqueti,
visto né sferza bisognar né sproni,
e quanto in guerra siano esperti e buoni.

19Segue Brabanzio, di sì forte e fera
natura che per lancia usa una antenna,
un leon d’oro ha ne l’insegna nera,
e lui sol guarda ogni un, lui solo accenna;
d’Eburoni e di Tungri ha la sua schiera,
tra Scalde e Mosa e la gran selva Ardenna
raccolta, e di quei popoli che in terra
già fur, ma intorno il mare oggi gli serra.

20Vien poscia Artosio e il suo fratel Picerde,
che de l’ultima schiera insieme han cura;
l’animo alcun di lor giamai non perde,
né sepper mai che cosa sia paura;
per lor sanguigna farsi l’erba verde
veggio, e le donne perse in vesta oscura;
d’un fratel di Toringe ambo son figli,
e in campo azzurro d’or portan sei gigli.

21Di Remi è questa schiera e d’Ambiani,
di Nervi, di Caleti e d’Attrebati,
e di Morini, e d’altri in pace umani
ma di restar di sopra in guerra usati.
Questi vittoriosi e monti e piani
scorrendo andran per tutta Persia armati;
tra lo Scalde e la Sequana e il mar chiusi
nacquero, e sempre a guerreggiar son usi.

22Segue Tetrico poi, figlio maggiore
del buon Toringe, e perché ha già le chiome
bianche un suo figlio, cupido d’onore,
manda in sua vece del medesmo nome;
questo, se ben de’ Celti ha colto il fiore
per gire in Persia, non vi andrà già come
tien speme, anzi tien ferma opinione,
perché ordina l’uom sol, ma Dio dispone.

23Partiti ha questi in quattro schiere uguali,
e posti mille e mille per ciascuna;
Nivernio il primo duce ha due grand’ali
d’or ne l’insegna a quarti azzurra e bruna.
Rapine, incendi, morti et altri mali
farà in Persia costui, ma la fortuna,
che non arresta l’empia ruota un’ora,
vuol che sul Tigre a tradimento mora.

24Sennoni e Boi guid’egli e Cennomanni,
gente inquieta e sovra ogni altra altera,
che di qua fe’ de l’Alpi oltraggi e danni,
occupò terre e discacciò chi v’era;
gli Edui, non men di forze che d’inganni
colmi, son co’ Mandubi in questa schiera,
Turoni, Arverni seco hanno e Carnuti,
pronti per gir col cavalier venuti.

25Tra Ligeri ogni gente e l’altra sponda
di Sequana e del fiume che l’un fianco
d’Ande al passar con l’umil corso inonda,
segue Nivernio, valoroso e franco;
più verso l’Oriente beve l’onda
de l’Arari una parte di lor anco.
L’altro duce che vien de’ Celti è detto
Normando, cavalier saggio e perfetto.

26Tribori, Aulerci, Veneti, Ambilati
conduce, e Curosoliti e Naneti,
Unelli et altri, parte in arme usati,
parte a tender nel mar gli ami e le reti;
Neustri e Redoni, d’aspro cuoio armati
di salsi mostri, Armorici e Cadeti,
tra duo profondi mari e il fiume d’Ande
sua schiera accolse, più che bella, grande.

27Duo vermigli leoni in campo d’oro
son di Normando l’onorata insegna.
Vizero il terzo poi dopo costoro
la sua di color rosso e bianco segna;
questo ogni gran ricchezza, ogni tesoro
a par di libertà sprezza e disdegna;
la gente sua tra il Reno e il monte Giura
e il Rodano si sta chiusa e sicura.

28E col Rodano insieme anco il Lemanno
laco la bagna; e questo duce saggio
guida gli Elvezi suoi, che usar non sanno
benché sian forti in guerra, alcun vantaggio;
co i Leoponti ancor seco altri vanno
pronti e gagliardi a sì lontan viaggio.
La quarta schiera poi Limosio guida,
di cui non si può scorta aver più fida.

29Tra Ligeri e Garonna e l’ampio monte
d’Avernia stan le sue genti, e l’onde salse,
ma venìa con turbata e crespa fronte,
sì d’una ingiuria che patì gli calse;
l’insegna sua con gravi scherno et onte
già gli fu tolta, che il suo ardir non valse,
onde poi sempre andò pensoso e mesto,
mostrando in fronte il cor suo manifesto.

30Et oltra che in tal guisa apparea in vista,
mai più giurò di non portare insegna
finché in battaglia un’altra non acquista;
e ben essequirà ciò che dissegna,
perché forza non è ch’unqua resista
a l’uom che fermo e risoluto vegna;
legato in cima ad una lancia quanto
fèno stringe una man porta egli intanto.

31Questo conduce i Lemovici, et anco
i Pittoni e gli Avarici, con molti
altri che il buon Limosio ardito e franco
tra i medesmi confini avea raccolti.
Vien poi Vasconio dopo lor, non manco
forte che ardito, e quei c’ha seco i volti
volger vedransi a i barbari, e riversi
mandar giù in terra a mille a mille i Persi.

32Tra il mar d’Esperia e i monti Pirenei
e di Garonna la sinistra sponda
costor raccoglie, a cui dieron gli dèi
salubre terra e d’ogni ben feconda;
Vasconio ama Vittoria e sol per lei
nel cor porta una piaga aspra e profonda,
benché altro non le chiede e non desia
fuor che vederla e star dov’ella sia.

33Di sua semplicità piacer si piglia
Vittoria, e con licenza di Costante
sovente lo conforta, e tra le ciglia
sovente bascia in fronte il puro amante;
quel, vergognoso, con faccia vermiglia,
giura di far tal prove in Persia e tante,
con l’arte e con la forza e con l’ingegno,
che in tutto almen di ciò non paia indegno.

34Né di quanto promette il guerrier franco
un punto men farà, perciò che avegna
ch’ei sia d’uom giusto quasi un palmo manco,
gran virtù spesso in picciol corpo regna;
questi un leon vermiglio in campo bianco
porta, de’ suoi maggiori antica insegna;
Tarbelli e Dazi et altri in Persia mena,
con la gent’Elvia e l’Auscia e la Rutena.

35Vasconio ha sol due schiere d’Aquitani,
ma vaglion più che tutti gli altri insieme,
e diegli Arminio e Mario capitani,
in cui ripone ogni un tutta la speme;
ambo di gran consiglio, ambo di mani
con forti e pronti, e benché sian d’un seme
più brutto alcun di Mario non si vede,
l’altro i più rari di vaghezza eccede.

36E l’uno e l’altro a quel che manifesto
fuor si dimostra ancor dentro è conforme,
ché imitar spesso gli animi di questo
corpo mortal si veggiono le forme.
Sempre al nocere altrui svegliato e presto
si mostra Mario, al giovar tarda e dorme
via più d’ogni altro scelerato et empio;
Arminio è di virtù verace essempio.

37Seguon le schiere poscia di Narbona:
tre sono in tutto, e n’è Toringe guida;
gente ne l’armi essercitata e buona,
ma sopra ogni altra diligente e fida;
Vittoria in guardia a lor la sua persona
diede, che d’altri più non si confida;
sempre una schiera a lei deve e a Costante
gir d’intorno, una dietro, un’altra inante.

38Ma perché d’anni già Toringe è carco,
e che d’alzarlo a maggior grado pensa,
a tre suoi figliuoli l’onorato incarco
dona, e le genti sue tra quei dispensa:
Langedo il primo, ha in man di ferro un arco,
e quel con arte e con destrezza immensa,
dappresso e da lontan sì dotto scocca
che il segno sempre ov’ei destina tocca.

39Venian le genti ch’ei governa donde
da gli alti Pirenei Garonna scende
tra i gioghi averni e tra le gallich’onde
salse, fin dove il Rodano le fende.
Una donna ch’è ignuda e con le bionde
treccie un guerriero armato annoda e prende
di Langedo è l’impresa. E già quivi era
Delfin giunto, il fratel con l’altra schiera.

40Da la ripa del Rodano ch’è volta
verso Oriente a l’Alpi, ove la neve
riman la state e il verno, fu raccolta questa,
che far gran prove in Persia deve;
presso al lago Leman parte n’ha tolta,
e parte ancor de la Druenza beve.
D’oro porta un delfin l’illustre duce
che in campo rosso di lontan riluce.

41La terza schiera che serrar d’intorno
deve l’alta regina e il gran Romano,
guida Probenzio, di virtù sì adorno
che avanza ogni altro duce e capitano.
Le genti sue più verso il Mezzogiorno
da quelle di Delfin poco lontano
egli ha raccolte e scelte, e l’una parte
da l’altra l’Alpe e la Druenza parte.

42Questa dal Varo, c’ha inverso Oriente,
si estende infino al Rodano da Sera
verso Austro al mar di Gallia, onde la gente
di Marsiglia è compresa in questa schiera.
Probenzio il capitan, forte e prudente,
in cui tanto Vittoria e il guerrier spera,
e ciascun altro tanto si conforta
tre gigli d’oro in campo azzurro porta.

43Vengon poscia i Britanni, che, dal mondo
divisi, han diverso abito e idioma,
e a questa impresa ogni un lieto e giocondo
sen va, per far che torni Augusto a Roma.
Il primo duce lor con crespo e biondo
crine si mostra, e Scotiro si noma,
che ne la sbarra vincitor più volte
gli emuli ha vinti, e l’armi a ciascun tolte.

44Tutte le genti di costui d’intorno
rinchiuse son da l’oceano, eccetto
che da la parte verso il Mezzogiorno
gli inonda un fiume che Tueda è detto.
In campo rosso un leon d’oro, adorno
di regal mitra, porta il duce eletto,
che seco i Pitti guida, in guerra ardenti,
e i Caledoni, et altre varie genti.

45Vuaglio segue poi, che fra i più esperti
duci è posto e più grati a la regina,
Tesali guida e Veraconi e Merti,
che son tra il mar d’Esperia e la Sabrina.
Benché non sian costor d’arme coperti,
faran però gran strage e gran ruina
in Media e in Persia; e il capitan lor franco
spiega al vento una lupa in campo bianco.

46Vien poscia Anglero, né trovare altrove
persona si potria più curiosa,
che in gir cercando e investigando nuove
mai non si sazia e mai non si riposa.
Se i principi fan guerra e come e dove
si chiede a lui, che sa solo ogni cosa;
ma perché a dir “nol so” pargli che sia
vergogna, spesso ha in bocca una bugia.

47Questi i Creoni e i Canti e gli Ottadeni
guida, e molti altri ancor che di costumi
conformi sono, e gli ha fra due gran seni
di mar raccolti, e tre rapidi fiumi,
quei sempre, a i giorni torbidi, a i sereni
cacciando van per campi e selve e dumi,
e per insegna inalza il duce loro
in campo rosso tre leoni d’oro.

48Cornubio il quarto duce ha la sua gente
de l’isola raccolta in quella parte
che tra il Meriggio guarda e l’Occidente,
e in cacciar fere anch’essi han l’uso e l’arte.
Questo paese a gir verso Oriente
da quel d’Anglero il fiume Issaca parte;
poi fatto curvo a guisa entra d’un corno
nel mar d’Esperia, che lo cinge intorno.

49Per questo un corno nero in campo giallo
portan costor, che Logi e Coritani
son tutti, e pronti, come in giostra o in ballo,
dal paese natio van sì lontani.
Irlando poi con picciolo intervallo
segue, ma in sì diversi abiti strani
sen vanno i suoi che, ancor che grandi e in viso
sian bianchi e vaghi, ogni un mossero a riso.

50Venian d’Ibernia queste inculte genti,
dove han sì grasso e fertile il terreno
che da i paschi i pastor scaccian gli armenti,
acciò non vengan pel soverchio meno.
Viver quivi non pon rane o serpenti,
né simili animai ch’abbian veneno.
Costor di latte e carne e pesci han copi,
d’uve e di fichi e d’altri frutti inopia,

51e tutto il tempo lor spendono in caccia.
Chi dir potrebbe il vario portamento?
Di stran color si tinge ogni un la faccia,
per dar di sé nel guerreggiar spavento;
le gambe ignude scuoprono e le braccia,
né in guerra son però senza ardimento;
chi porta in capo un gran capel di ferro,
chi d’elce un tronco in man, d’orno o di cerro.

52Quei de l’Orcade Irlando ancora affrena,
di Taneto e d’ogni altra isola intorno,
fin de l’ultima Tile, ove il sol mena
entrato in Cancro così lungo il giorno,
sì come in quella scuopre i raggi a pena
a l’or che scalda e l’uno e l’altro corno
del gran Capro celeste, e questa schiera
contien più gente, e più selvaggia e fera.

53Sì come son di patrie e di paesi
diversi, ancor son d’abito diverso;
ruvide pelli in vece hanno d’arnesi,
con lungo e folto pel di fuor riverso;
lunghe saette in man su gli archi tesi,
e larghe spade portan di traverso,
né fuor che voci orrende e strani accenti
altro intender si può da queste genti.

54Come talor de i fiumi a l’ampie foci
anitre e storni, ed altri augei con stridi
rauchi e con fischi e con diverse voci
s’odon gir costeggiando intorno i lidi,
così dan questi, e benché sian feroci
son però sempre obedienti e fidi.
Ma da far mostra o d’arrivar non resta
duce né schiera più, ch’ultima è questa.

Proprio alle soglie della partenza giunge a Marsiglia un mostro inviato da Giunone, che innesca una cruenta battaglia (55-82,4)

55Fornita adunque di passar la gente,
e sparita del sol la luce pura,
ch’entro a l’onde attuffato in Occidente
l’aria d’intorno avea lasciata oscura,
Vittoria e il pio Costante immantinente
di Marsiglia tornàr verso le mura,
co i signori e co i duci, che su i poggi
di fuor convien che la vil turba alloggi.

56Né più guerrier né duce alcun si aspetta,
ma il termine gia corto e che si vada;
chi l’arme intanto si racconcia in fretta,
chi d’elmo si provede e chi di spada;
l’un giura far d’Augusto aspra vendetta,
l’altro che per sua man Sipario cada;
chi pensando al camin tardi consiglio
muta, chi madre o padre abbraccia o figlio.

57Ma Giunon, che impedir questo viaggio
cerca, già di più giorni innanzi avea
quivi mandato un gran mostro selvaggio
che d’ogn’intorno il monte e il pian struggea;
da ciascun occhio della fera un raggio
qual foco ardente di lontan splendea,
e fuor le uscia da i denti e da le labbia
spuma ognor, ch’era ognor colma di rabbia.

58Di tauro avea le corna e i denti, e il morso
di leone, e le squamme di serpente,
di pantera la coda e l’unghie d’orso,
d’idra l’ale, e di tigre il rimanente.
Già di Marsiglia avea il paese scorso
con strage e morte d’infinita gente,
ché gli uomini e gli armenti uccide, e l’erbe
strugge e l’uve e le biade ancora acerbe.

59Licia, Tebe, Calìdone o Nemea
non vider mai sì spaventevol fera,
né danno tanto universal facea
l’apro, il leon, la Sfinge o la Chimera;
già con Vittoria il pio Costante avea
conchiuso di lasciar quivi una schiera
per far riparo a ciò, tosto che intese
del mostro che struggea tutto il paese.

60Ma intanto molti giunser che per sorte
scamparo fuor di così gran periglio,
di cui l’un del fratel piangea la morte,
l’altro de l’innocente unico figlio;
chi del mostro infernal tra l’unghie torte
di sangue il padre rimirò vermiglio,
chi le sue piaghe scuopre e grida e langue,
chi cade innanzi a quei signori essangue.

61Quand’ecco un grido orribil «Serra, serra»
per tutto s’ode, e «leva il ponte in alto»,
che già la belva è giunta e ne la terra
sopra le mura entrar cerca d’un salto.
Onde Costante subito da guerra
fa le trombe sonar, ch’un fiero assalto
far vuole al mostro e pria vederlo morto
che i legni sciolga e che abbandoni il porto.

62Udito il suon da i duci e da i soldati,
che partir devean l’istesso giorno,
vennero tutti con gran fretta armati
a la regina et al guerrier d’intorno;
e la cagion compresa onde chiamati
furon, senza punto ivi soggiorno,
seco là dove da più genti udiro
ch’era la belva audaci e pronti usciro.

63Ma prima con due corna l’ampia schiera
Costante acconcia in cerchio avea, con molta
arte, a guisa di luna onde la fera
fosse più agevolmente in mezzo tolta;
tanta gente e sì varia in tal maniera
dunque sen gìa verso una selva folta,
dove per suo vantaggio il mostro posto
già s’era pronto e d’aspettar disposto.

64Né pur si ferma al giunger de le genti
ma rugge altero e di lontan minaccia,
talché la turba in contro a passi lenti
gli va, per gran timor pallida in faccia;
non è sì ardito alcun che non paventi,
e il sangue a tutti dentro al cor s’agghiaccia,
poi che gli antichi e duri cerri svelle
non pur le piante fragili e novelle.

65Ma teman gli altri, che Costante ardito
e securo il destrier veloce sprona,
onde non può sì glorioso invito
con suo onor quivi ricusar persona;
chi pur dianzi più timido e smarrito
parea, meno a se stesso ora perdona,
anzi va più animoso e più gagliardo
senza al vantaggio aver punto riguardo.

66Ecco Artosio e Picerde, ecco Normando
seguir Costante, ecco Limosio altero,
Loranio, Eldrio, Brabanzio, Arminio, Olando,
Delfin, Probenzio, Scotiro e Vizero;
sprona Mario e Langedo e il forte Irlando,
e seco vien Cornubio, Vuaglio e Anglero;
sprona Tetrico il padre e sprona il figlio,
né alcun pensa ove vada o in qual periglio.

67Ma che direm di quella a cui di tante
doti fu il Ciel sì largo, alta Vittoria,
ch’emula del valor del suo Costante
a parte esser con lui vuol de la gloria?
Seco ne vien Vasconio, il puro amante,
ch’altro che lei serbar non può in memoria,
e solo a lei, che il petto e il cor gli accese,
cerca di far la sua virtù palese.

68Ma, visto il mostro quanto ogni un si affrette
di ferir primo, tra una quercia e un orno
in loco forte ad aspettar si mette,
perché non possan circondarlo intorno;
di dardi un nembo intanto e di saette
sopra gli piove, onde si oscura il giorno,
ma come palla che percuota un muro
sbalzano indietro sì l’incontro è duro.

69Tante saette e dardi eran lanciati
da la vil turba inerme di lontano,
ma i duci avean sopra i destrieri armati
o spada o lancia o simil arma in mano;
sol tien l’arco Langedo e quegli usati
strali, ch’unqua scoccar non suole in vano;
Costante arriva intanto, e ne la selva
si caccia, e fère la tartarea belve.

70Ruppe la lancia in van, che a pena il crede
visto i tronchi salir verso le stelle;
tratta la spada poi discende a piede,
e la percuote in queste parti e in quelle;
ma con la forza sua, ch’ogni altra eccede,
non può tagliar sì grossa e dura pelle.
Vittoria intanto il destrier batte e punge,
talché primiera in suo soccorso giunge.

71Convien che il petto anch’ella al mostro fèra,
ma ruppe l’asta, né cosa altra fece.
Vien poi Vasconio e s’ange e si dispera
cui di far quanto dissegnò non lece.
Ecco arrivar quivi ogni un duce in schiera,
e quel ferir nel petto a diece a diece,
che fuor che il petto e il capo tra le fronde,
tra gli arbori e tra i rami il resto asconde.

72Ma il capo muove e i feri colpi schiva,
che in ciò ben mostra d’aver l’uso e l’arte;
dunque ogni duce a poco a poco arriva,
che nessun resta a rimirar da parte
temendo non trovar la bestia viva,
e non aver di sì gran lode parte.
Ecco Olando, Brabanzio, Eldrio e Vizero,
Picerde, Artosio, Vuaglio, Irlando, Anglero.

73Ma il duro cuoio e lo star sol davante,
cader fa tutte le percosse vòte,
oltra che strette in picciol loco tante
genti, l’un l’altro in fallo si percuote;
Vasconio per mostrarsi degno amante
de la regina alzò quanto più pote
la man per dare al mostro, e in guisa colse
sul capo Vuaglio che di vita il tolse.

74Nivernio ancor ferì nel petto Olando,
talché in breve morì guerrier sì degno,
e Brabanzio sul volto il forte Irlando,
onde poi sempre vi rimase il segno;
d’una punta fu colto da Normando
Artosio alquanto, ond’ei d’ira e di sdegno
colmo l’uccise, ma poi sì gli increbbe
che sempre in vita sua gran doglia n’ebbe.

75Mentre confusi a sollevar di terra
gli altri attendon chi giace in tal periglio,
con furor colto il tempo se gli serra
quel mostro addosso, e col feroce artiglio
nel petto Arminio crudelmente afferra,
e fère in fronte a Cataledo il ciglio,
talché dal capo al piè di sangue tinti
questo rimase, e quel subito estinto.

76Poi fatto ciò la belva si ritira,
e nel suo loco ov’era prima torna;
talor si avventa a insanguinar con ira
e con gran rabbia or denti or unghie or corna,
onde chi grida in terra e chi sospira,
chi fugge e chi s’asconde e chi ritorna,
e molti che temean di vita priva
trovarla dianzi, or più la temon viva.

77Stava indietro Langedo alquanto mentre
la fera or questo or quel feroce assale,
con l’arco teso a rimirar perch’entre
non sol, me perché il colpo sia mortale;
onde ascoso tra i rami avendo il ventre
nel sinistr’occhio le cacciò lo strale,
talché el ferro entrar gran parte puote;
rugge il fier mostro, e qua e là si scuote.

78E per gran doglia or leva in aria un salto,
or va serpendo per gran spazio in terra;
or morde i tronchi, or leva i piedi in alto
sbattendo il capo, né però si sferra;
qui s’incomincia a rinovar l’assalto,
ciascun si volge e torna a fargli guerra
visto ch’è fuor s’è di quel forte mosso
e ch’or può da ogni parte esser percosso.

79Ma perché più non faccia ivi ritorno
vi si cacciò Costante, e con la spada
sul capo in guisa lo ferì ch’un corno
convien ch’a mal suo grado in terra cada.
Rabbioso il mostro ecco aggirarsi intorno,
che a pena scorger può dove si vada:
di questo accorta la regina franca,
cacciogli un palmo e più d’asta in un’anca,

80ch’ivi la pelle ritrovò men dura.
Vasconio, che ciò vede, il ferro stringe
e contra il mostro va senza paura,
e d’atro sangue nel suo ventre il tinge.
In tanto ogni un ritorna e si assicura,
ogni un percuote, ogni un s’urta e si spinge
per ferir primo, ond’ei già da diversi
lochi convien che il sangue in terra versi.

81E pien di rabbia e di furor si avventa
contra Eldrio a l’improviso, e dagli morte;
poi, Delfin posto e Anglero in terra, tenta
di ritornar nel primo loco forte,
ma gli occhi apre Vittoria e mira intenta
per la salute del fedel consorte
ch’ivi poi che la belva sen fu mossa,
fermossi acciò che entrar più non vi possa.

82Langedo in tanto un’altra volta tende
l’arco, e di nuovo ne l’altr’occhio dàlle.
Rugge la fera e in terra si distende,
talché intorno rimbomba e monte e valle;
Costante allor pian pian de l’orno scende,Costante viene rapito dal mostro, finisce in una grotta da cui è impossibile uscire (82,5-95)
e destro se gli pon sopra le spalle
per darle morte, ond’ella ancor più rugge
e salta in piede, e via correndo fugge.

83Per mezzo ov’è più folto il bosco porta
Costante seco, e sì ne va veloce
che Vittoria di ciò subito accorta
volse gridar, ma le mancò la voce,
e ne divenne e sbigottita e smorta
sì fu la doglia in un momento atroce;
pur con prestezza come avesse penne
tosto il seguì, che in se stessa rivenne.

84E seco ogni altro duce e capitano
sale il destriero e corre a sciolta briglia,
ma in un gran monte ignudo ecco lontano
scoprirsi in tanto il mostro a meraviglia,
onde se ben già scorge ogni un che in vano
sarà ogni sforzo vi è però chi piglia
sentier diverso a gli altri, ché, il viaggio
sapendo, al correr suo prende vantaggio.

85Chi qua, chi là, chi a basso e chi di sopra
corre per erto e per angusto calle;
questo la sferza e quel gli sproni adopra,
né schivan monte o rupe o bosco o valle.
Ma spesa in van fia la fatica e l’opra,
ché il mostro col guerrier sopra le spalle
di vista gli esce e va nel corso quale
tigre a cui giunti sian gli sproni e l’ale.

86Con quella spada in tanto ch’avea seco
d’ucciderlo Costante indarno tenta;
l’empio non scorge ove il piè metta e cieco
pur corre e il corso suo mai non rallenta,
onde al fin cadde in uno oscuro speco,
dove restò l’infernal belva spenta,
che trenta braccia era profondo almeno,
e questo pose a sì gran corso il freno.

87Tal strepito e romor fe’ nel cadere
che da boschi e da liti e da spelonche
fuggìr lontan pesci, augelli e fere
per tema, e chiuder le marine conche;
cadendo or qua, or là percuote e fère
talché di corna il capo e d’unghie tronche
restàr le dita, e diè là giù tal crollo
che si stracciò la pelle e ruppe il collo.

88Costante in tal periglio, come piacque
a Dio, non restò già di vita spento,
ma ben disteso in terra un pezzo giacque
stordito e quasi fuor di sentimento;
poi, rivenuto, dentro al cor gli nacque
ad un tempo dolor, tema e spavento
di non poter mai quindi far partita,
ma di lasciarvi in pochi dì la vita.

89L’usbergo e ciò ch’egli ha di piastra e maglia
tutto si leva e l’elmo, perché stima
tra sé cosa impossibile che saglia
ne l’arme involto di quell’antro in cima;
poi con la punta de la spada il taglia,
e quello intento e rompe e scheggia e lima
come meglio può, e in guisa tal provede
dove attaccar la man, fermare il piede.

90E destro or si fa curvo, or si distende
lungo la rupe, e di salir fa prova,
tutto sol da una man talvolta pende,
ch’ove i piè fermi o l’altra man non trova;
ma spesso in terra sdrucciolando scende,
ché poco o nulla sua destrezza giova
lubrico essendo il sasso in tal maniera
che in fino al mezzo pur di gir non spera.

91Onde privo di lena, afflitto e lasso,
disteso in terra immobile giacea,
in guisa tal che un colorito sasso
e in forma d’uom scolpito esser parea,
col guardo fermo e fisso il capo basso,
su la destra appoggiato si tenea;
poi spinto dal dolor che ’l rode e coce
cominciò a dir con lamentevol voce.

92«Ohimè, che debb’io far poi che a l’estremo
giunto e privo d’aiuto e di consiglio,
il mal veggio presente e il peggio temo,
e porto basso e lagrimoso il ciglio?
Perché dianzi non fui di vita scemo
da l’empia fera col feroce artiglio,
deh perché vivo, ahimè, son qui rimaso
in così duro e miserabil caso?

93Venere matre, ond’ebbe il roman seme
principio, di cui sono anch’io vil germe,
e voi celesti dèe ch’ambedue insieme
sanaste dianzi le mie forze inferme,
come chiuso qua giù posso aver speme,
ch’altro debbo omai che in van dolerme?
Non perché doglia de la morte io senta,
ma il modo del morir sol mi spavente.

94Tardi o per tempo io so che ogni un conviene
giungere al punto estremo, e so che allora
tante miserie han fine e tante pene,
che in tante guise il mondo apporta ognora;
so che la morte non è mal ma bene
concesso a l’uom, pur che onorato mora,
ma non a guisa di selvaggia belva,
com’io chiuso in quest’antro e in questa selva.

95L’esser lontan da gli uomini rinchiuso
qual fera in gabbia, e privo a peggior sorte
di ciò ch’è necessario a l’uman uso
sol mi spaventa, ma non già la morte;
anzi, del suo tardar la morte accuso,
e l’aspetto e la bramo invitto e forte,
che sola può dar fine al crudo scempio
ond’io son fatto di miseria essempio».

Sgattaiolando per un cunicolo finisce in una segreta, dove incontra la mesta Felice, figlia di Regillano, rapita e imprigionata assieme ai suoi servi dal ladrone Malarte (96-127)

96E, così detto, da giacer levosse,
poi che ripreso in parte ebbe il vigore,
per far prova se ancor possibil fosse
d’uscir con forza o con industria fuore,
e mentre a tòr la spada in man chinosse,
veder gli parve alquanto di splendore
da un lato uscir, che appresso il fondo a basso
feria a l’incontro con un raggio il sasso.

97Più chino ancor Costante guarda e vede
quivi un’angusta e tanto bassa strada,
ch’uom gir per quella non potendo in piede,
per terra con le man convien che vada.
Lieto il guerrier dove son l’armi riede,
quelle si veste e in man prende la spada,
e qual fanciul fa ne l’età novella
a gir carpone incominciò per quella.

98E quel sommo Rettor che il Ciel governa
sempre invocando, come avea costume,
non molto innanzi andò che la caverna
ritrovò rotta, e donde entrava il lume;
benché a salir del monte a la superna
parte non bastarian d’aquila piume,
ch’alto più del prim’antro assai quest’era;
guai al guerrier s’ivi cadea la fera.

99Dunque a guisa di talpa, e curvo e cieco,
già seguendo sotterra il suo camino,
tal volta in piedi, ch’ampio era lo speco,
ma più spesso sforzato era a gir chino,
e tra se stesso rivolgendo seco
quanto allor fosse misero e meschino,
sospirando n’andò tutta la notte
per quelle oscure e solitarie grotte.

100E senza prender mai cibo o riposo
del giorno anco in tal guisa andò gran parte.
Giunse in un loco al fin ben luminoso,
ma pien di veste e d’armi rotte e sparte;
per lungo tempo da la pioggia roso
quivi parea tagliato il sasso ad arte
da dotto mastro, e per via larga e piana
si uscia da l’antro ov’era una fontana.

101Ad uscir fuor de l’antro non fu lento
Costante, e coricossi appresso il fonte,
dove mentre posava ecco un lamento
d’un altro speco uscir ch’era nel monte;
tosto fermossi ad ascoltarlo intento,
tenendo in verso quel volta la fronte,
onde comprese esser fanciulla quella
che il ciel chiamava iniquo, empia ogni stella.

102«Crudel sorte,» dicea «che in sì giocondo
stato m’alzasti al più sublime scanno,
volendo poi precipitarmi al fondo
con maggior scorno e con maggior mio danno!
O dolce sposo mio, perché del mondo
non tolse in prima me l’empio tiranno?
Deh, perché se pietà regna qual suole
non ti apri, o terra, e non ti oscuri, o sole?».

103Queste et altre assai con molto
pianto e con molta passion dicea;
ma il soffiar d’Austro per quel bosco folto
d’udirne il tutto al cavalier togliea;
pur da più cose or qua, or là raccolto
che il suo marito ucciso ella piangea,
e che in prigion si stava; aspro dolore
misto con gran pietà gli assalse il core.

104E il dolor tanto e tal fu la pietade
e sì di liberar colei spem’ebbe
che si caccio per le medesme strade
dove pur dianzi tanto esser gli increbbe;
e di ripor la donna in libertade
quanto più innanzi andò più il desio crebbe,
visto esser pien quell’antro in ogni parte
d’elmi e di scudi e d’ossa umane sparte.

105Seguendo il grido in una stanza grande
piena di tronche man, di piè, di braccia
trovò in gran copia vin, pane e vivande,
di varie sorti fere uccise in caccia;
quivi assisa colei par che al ciel mande
le strida e le querele, e il crin si straccia,
e il vago petto e le vermiglie gote
piangendo e sospirando si percuote.

106Subito andò Costante a trovar quella
tutta a i sospiri e tutta intesa al pianto,
cui giunto appresso disse: «O damigella,
perché ti struggi e ti consumi tanto?».
A quel parlar levò la faccia bella
la donna, e gli occhi si asciugò col manto;
e, visto il cavalier, per onorarlo
si fora alzata, ma non potea farlo,

107ché a traverso del petto era legata
con catena di ferro, e grossa e grave,
nel sasso e qua e là si conficcata
che sol poteasi aprir con una chiave.
«Signor (rispose quella), essend’io nata
ne i gran palazzi, e in queste oscure cave
lo star dì e notte chiusa, e di catena
avvinta, è la minor d’ogni mia pena.

108Ché il mio restare in vita o il gire a morte,
l’esser in libertate o in prigionia,
non so ch’utile o danno al mondo apporte,
dunque a doler non m’ho per cagion mia,
ma per cagion del caro mio consorte,
ingiusto chiamo il Ciel, la sorte ria;
del mio consorte, ahi lassa, che innocente
morto con strazio fu sì crudelmente.

109Ma perché da principio il mio gran lutto
intender possi, e la mia grave pena,
sappi, o signor, che la Dalmazia e tutto
l’Illirio Regillan mio padre affrena,
e d’un tal seme essendo unico frutto,
e stando in vita ognor lieta e serena,
se così donna dirsi al mondo lice,
io fui ben detta con ragion Felice.

110Mio padre, ch’altro bene, altro diletto
non ha che me, né senza me riposo,
tenera ancor d’etate un giovenetto
nobile e ricco mi donò per sposo.
Ma perché serba grave sdegno in petto
contra Costante, quel guerrier famoso,
di cui Vittoria sol cagion si stima
ch’essergli sposa a lui promise in prima,

111perché i piaceri lor tornino amari,
mandò Renzo il mio sposo immantinente
fino in Liguria a guardar porti e mari,
fabricar navi e proveder di gente,
perché ciò che può d’arme e di danari
la Gallia far, per gir verso Oriente,
quei già raccolti avendo e tante schiere,
cerca impedirgli a tutto suo potere.

112E perché Renzo era in Liguria nato
di gente illustre e ricca del paese,
e ch’ivi d’ampia autoritate e grato
era a ciascun, mandollo a queste imprese.
Io, che star gli solea dì e notte a lato,
piansi al partirsi, e quando il tutto intese
mio padre, a compiacermi ognor disposto,
mandommi dietro al caro sposo tosto.

113Donne e donzelle e servi e cavalieri
venir fe’ in copia meco in compagnia;
Renzo, quanto udir cosa volentieri
si puote, udì de la venuta mia,
e con molti de’ suoi salse i destrieri
per incontrarne un gran pezzo di via,
bench’ei poi venne, di vedermi troppo
volenteroso, innanzi di galoppo.

114Sol con tre servi, ogni otto o diece miglia
destrier mutando ad ogni albero giunto,
seguir pian pian facea l’altra famiglia
con molto stuol che seco era congiunto,
fin ch’egli un dì tra Genova e Toriglia
in noi scontrossi a mezza strada a punto,
che per stretto sentier salendo un monte
ce gli trovammo a l’improviso a fronte.

115Se lieta e consolata allor rimasi,
chi sa quanto amor può, pensar sel deve
per soverchio piacer del destrier quasi
caddi, e nel viso diventai di neve,
benché, ahimè, poscia i dolorosi casi
han fatto sì che il gran piacer fu breve,
anzi il riso e la gioia in pianto amaro,
e la letizia in duol tosto cangiaro.

116Ma poi che scorsi, mi si uniro al core
gli spirti, e che tornommi il sentimento
insieme col mio solito colore,
il che però fu quasi in un momento,
e poscia ch’ebbi dato al mio signore
mille e più basci in dolce abbracciamento,
tutti seguimmo il camin nostro insieme
privi d’ogni timor, colmi di speme.

117E di cose tra noi gioconde e grate
parlando, come per viaggio fassi,
presso a Sabbazia molte genti armate
trovammo tra quei boschi e tra quei sassi,
che n’uscìr contra e con gran crudeltate,
prima occupati avendo e chiusi i passi,
pigliàr noi tutti quanti, ad uno ad uno,
che n’andavam senza sospetto alcuno.

118E stretti su i destrier quivi legaro
tutti con le man dietro, uomini e donne,
fuor che me sola, cui tosto spogliaro
di gemme e d’oro e di fregiate gonne.
Per lunga via qua giù poi ne guidaro,
dove a l’entrar tra quelle due colonne
de i nostri in croce por fece una parte
il capo di costor, detto Malarte.

119I servi e chi gli parve esser di poco
conto posero in croce, che fur venti;
gli altri tutti guidaro in questo loco,
e gli ucciser con strazi e con tormenti.
Dinanzi a gli occhi miei chi sopra il foco
post fu vivo in tra le bragie ardenti,
a chi fu il capo tronco e a chi le mani,
e i piedi a molti, e quei gettati a i cani.

120Su quella mensa, ora carca di vivande,
che a l’incontro di noi posta si vede,
d’ugual misura d’ambedue le bande,
che l’una men non è, né l’altra eccede,
tutti son posti, e s’un trovan più grande
talché fuor esca o capo o mano o piede,
da l’empio duce lor di quello estremo
che fuori avanza è crudelmente scemo.

121Poscia legar fa il collo e i piè con funi
grosse a i più corti, et ambedue le braccia,
e da que’ suoi, d’ogni pietà digiuni,
tanto tirar fin che gli arriva in faccia.
N’ho visti e veggio tutto il giorno alcuni
da i quali o collo o man si svelle e straccia,
altri la carne aver sì rotta e scossa
che si potrian contarli e i nervi e l’ossa.

122Tra questi Renzo fu, che per gran spazio
picciolo essendo, non giungea a la mensa,
onde per forza, ohimè, con fero strazio
giunger fu fatto e con mia doglia immensa.
Di trovar nuove vie non è mai sazio
l’empio Malarte, e sol dì e notte pensa
come i prigioni suoi faccia in tormenti
mille volte morir pria che sian spenti.

123Dunque fuggi, o signor, che il minor male
che si provi è la morte in questo loco;
chi si trova per sorte al desco uguale
subito è posto in croce over nel foco,
né virtù punto o nobiltà qui vale,
qui può la forza nulla e il saper poco;
le donne sol vengon serbate vive,
fuor che di libertà, di nulla prive.

124Quelle che meco dentro a queste porte
condutte fur, già son presso a due mesi,
non ebber come gli uomini allor morte
(così da i servi di Malarte intesi);
ma dove l’abbian poste et a qual sorte
si stian non so, ben so che ognor cortesi
son stati in conservar la mia onestate,
mostrando aver di me doglia e pietate.

125Talor di confortarmi il rio Malarte
cerca, e mi dice con parole finte
ch’ei fu sforzato a seguir quell’arte,
ma che in breve lasciarla in tutto vuole;
– Tosto al tuo padre ancor vuo’ rimenarte, –
soggiunge – ché di te m’incresce e duole -.
Io, come il tempo e l’esser mio richiede,
ne le imprimesse sue mostro aver fede.

126In una stanza ov’è un bel letto adorno
d’oro e di seta, mi fa gir la sera,
e quattro donne sue sempre d’intorno
stanno a servirmi con gentil maniera;
poi fa ripormi in questo loco il giorno
legata a guisa di selvaggia fera,
acciò che io possa de i diurni furti
veder quai sian più lunghi e quai più curti.

127Deh qui non far più, cavalier, dimora!
Vedi a l’Occaso avvicinarsi il sole,
talché non puote esser lontana l’ora
che far ritorno il rio Malarte suole;
col salvar te salvar me forse ancora
potrai, se pur del caso mio ti duole,
facendo a Regillan saper le nuove
da chi fui presa e in qual maniera e dove».

128Mentre palese ogni sua doglia quella
gentil fanciulla al cavalier facea,
egli a vederla sì leggiadra e bella
gran meraviglia tra se stesso avea:
l’uno e l’altr’occhio a guisa d’una stella,
anzi a guisa del sol, chiaro splendea,
dentro a cui stavan come in proprio nido
gli Amor, le Grazie e la gran dea di Gnido.

129E non pur sembran gli occhi un sole
ma tutto il vago e ben formato viso;
la bocca ond’escon sì dolci parole
mostra, a l’aprirsi, in terra il paradiso;
e s’ella è tal mentre s’afflige e duole
e pianto versa, or che faria nel riso?
D’altra non s’ode che mai fosse o sia
pari a lei di beltà, di leggiadria.

130Del vero unico bel, che a Dio davante
sta sempre in Ciel, per farne in terra fede
a questa diva sotto uman sembiante
tutte le grazie e le bellezze diede.
Non è gran cosa adunque s’or Costante,
benché digiun, non sente e non si avvede
che in gran copia e dappresso abbia vivande
di cui l’odor per tutto ivi si spande.

131Ma come quel che la salute altrui
sempre cercò più che la propria, allora
ch’esser lei figlia intenda di colui
che sì l’ha in odio e lo persegue ognora,
e che, sperando aver Vittoria, a lui
tendendo insidie va per far che mora,
pur si dispose a quelle genti ladre
provar di torla, e di condurla al padre.

132E s’ei deve ben perder la vita,
fare con ogni sforzo vuol ch’ella non pèra,
onde a lei, sconsolata e sbigottita,
per confortarla disse in tal maniera:
«Donna gentil, l’alta bontà infinita
che sempre aiuto porge a chi ben spera,
mi fe’ qui giunger dove men pensai
per trarre a fin sì dolorosi guai».

133E così detto, in man la spada
provando di tagliar l’aspra catena,
la qual non sol col suo valor non fende
ma dentro non le fa pur segno a pena;
Felice, che ciò indarno esser comprende,
grida: «Il tuo ardire a me di maggior pena
cagion fia tosto, e a te d’acerba morte,
dunque esci fuor de le malvagie porte.

134De fuggi, o cavalier, per Dio, ch’omai
del costui ritornar l’ora è vicina:
vedi che Apollo i luminosi rai
per attuffar nel mar d’Esperia inchina.
Ma se brami pur me tragger di guai,
verso Epidauro al padre mio camina,
che a te il tardar di mille strazi fia
cagion, né scema la miseria mia».

135Minerva intanto, a cui diè Giove cura
di far che il saggio cavalier non pèra,
subito entrò ne la spelonca oscura,
benché invisibil, con sembianza vera;
e mentre ei forte percotea la dura
catena, cui di fender si dispera,
la dea gli infuse al venir tal forza
che la tagliò come una fragil scorza.

136Poi guidollo per man dove in diverse
prigioni stavan molte genti chiuse,
le quai fe’ che il guerrier per forza aperse,
mercé del gran valor ch’ella gli infuse;
poi sotto umana forma si coperse,
e a quelle genti per timor confuse,
tolta d’un paesan lingua e sembianza,
così parlò per crescer lor baldanza:

137«Voi, che più giorni son di speme privi
foste condotti a le infelici porte,
con gran timor di non n’uscir mai vivi
ma d’or in or sempre aspettando morte,
pur dianzi piacque a i sommi eterni divi
di far che un cavalier famoso e forte
giungesse a voi per disusate strade
per darvi, a tempo, e vita e libertade.

138Ma non vi basta a la total salute
la forza sola del celeste messo,
perché convien ch’ogni un con la virtute
propria si sforzi d’aiutar se stesso;
pria che le genti adunque sian venute
del rio Malarte, che già sono appresso,
col cibo che apprestato era per loro
a i corpi afflitti omai date ristoro,

139ché in contra poi gli andrem a le contese,
sendo quei stanchi e senza alcun sospetto.
Né come in fino a qui tutte l’imprese
succederà lor questa, io vi prometto,
ché qui son nato e m’è noto il paese,
onde vi condurrò dov’è ristretto
in guisa il passo da una selva folta
che a pena un sol capir vi può per volta.

140Per l’ampia selva scorre un largo fiume,
cui quinci e quindi abbraccia un stretto ponte:
quivi allor giungeran che il febeo lume
l’ombra nasconde e imbruna l’orizzonte,
talché, se non avran da volar piume,
tosto che noi ce gli mostriamo a fronte
quei tutti uccisi e fia Malarte preso,
poi qui per forza anch’ei tratto e disteso».

141Così detto e per man preso il guerriero,
si pose a mensa, e quelle genti liete
da lor chiamate similmente fèro,
sofferta avendo già gran fame e sete.
Ma l’alta dea, c’ha pur fisso il pensiero
di far che i ladri sian colti a la rete,
come chi il tempo ben parte e dispensa
sempre utilmente, si levò da mensa.

142E mentre a scacciar gli altri erano intenti
la fame, ella per l’antro in ogni parte
de gli infelici per l’adietro spenti
gìa raccogliendo tutte l’armi sparte,
di cui fe’ tosto armar poi quelle genti
come si poté, e gir contra Malarte,
facendo lor scorta un pezzo inante
sempre da gli altri e seco a par Costante.

143Onde per corta e per commoda strada
tutti gli guida al destinato loco;
gli guida al ponte ove convien che vada
per volta un sol, quindi lontano poco.
E con saggio parlar, che a tutti aggrada,
gli va dicendo: «Ora fia spento il foco
che il bel paese intorno arde e distrugge
da quel braccio divin ch’uom mai non fugge.

144Scorrer Giove talor lascia impunito,
per occulta ragion, gran fallo atroce,
ma tosto, il fisso termine fornito,
opra il suo strale orribile e veloce.
Ciascun dunque mi segua e venga ardito
contra il ladron che a tutto il mondo nuoce:
giunto è il suo fine, ond’ei languido e stracco
ne vien, che già di vizi ha colmo il sacco».

145Così dicendo, al già narrato ponte,
e giunti al bosco da l’angusto calle,
di là dal fiume parte, a piè d’un monte,
e di qua parte, in una chiusa valle,
quivi ascose la dea, perché a la fronte
ad un tempo e ferir dietro a le spalle
costor tutti dissegna ad un sol cenno,
che già vicini arrivar tosto denno.

146Né molto s’indugiar che afflitti e stanchi
giunti i ladroni e di gran preda carchi,
quegli in contra gli usciro arditi e franchi
con lancie al primo cenno, e frombe et archi;
Malarte e i suoi seguaci, in viso bianchi
per non saper come di là si varchi,
ché il ponte è preso, sbigottiti stanno,
né chi gli assaglia imaginar non sanno.

147Onde volti a fuggir tosto si diero;
ma quei che ascosi fur ne l’altra riva
già d’ogn’intorno avean preso il sentiero,
come pur dianzi gli ordinò la diva;
Malarte, il capo al par d’ogni altro fero,
che da ogni parte il romor grande udiva,
disposto di passar per forza il ponte,
si ritrovò d’aver Costante a fronte,

148che su l’elmo ferendol con la spada
gli fece in guisa gir la testa intorno
che al fin convien che tramortito cada,
e che sia preso con obbrobrio e scorno.
Quegli altri, e qua e là sendo la strada
per tutto cinta, e già sparito il giorno,
tutti a man salva morti fur, che sazio
mai non si vide alcun di farne strazio.

149Costante, poi che tutti uccisi furo,
sopra un destrier fe’ porre e legar stretto
Malarte, indi chiamò Ponte Sicuro
quel ponte, in prima Da la Morte detto;
poscia, ancor che sia il ciel per tutto oscuro,
visto ch’ivi non è stanza né tetto,
con la preda, che sua tutta divenne,
verso il speco il camin dritto tenne.

150Tra l’altra preda un giovenetto molto
nobil d’aspetto fu prigion trovato,
il qual Costante comandò che sciolto
subito fosse, e in libertà lasciato;
ma, fatto questo, non però nel volto
si mostrò quel di cor punto cangiato:
non men pensoso apparve, e non men trista
l’interna mente sua fuor mostrava in vista.

151Molto onorollo il pio Costante e seco
sempre sforzollo a gir per strada a paro,
mentre gli altri con sguardo oscuro e bieco
Malarte il traditor sempre guardaro,
e dal ponte ne gir fino a lo speco,
ne gli occhi polve e fango gli gettaro,
talché restò sì contrafatto in viso
ch’ogni un movea nel risguardarlo a riso.