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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro V

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.07.15 19:44

Argomento
I venti scaccia e il mar tranquillo rende
Nettuno, onde smarrito al fin Costante
giunge a Vittoria, ch’è a pietà di tante
sue pene mossa; ambi Cupido incende.

Nettuno placa la tempesta, Costante prende porto con i resti della flotta presso Marsiglia (1-15)

1Nettuno in tanto giù da le profonde
parti del mar, da le più basse arene
sentito il grido e il mormorar de l’onde
con tanto orror, di tal spavento piene,
e scorrer gli Austri da tutte le sponde
senza che alcun tanta licenza affrene,
contra quei gravemente si commosse
e con pietate a risguardar si mosse.

2Talché benigno fuor col capo uscito,
e di Costante il gran periglio scorto,
ch’altro più non potea che sbigottito
mirar le navi sue, languido e smorto,
da la fortuna ria lunge dal lito
sbattute e rotte e quasi ogni un già morto,
ben chiar conobbe allor tanta procella
nascer da l’odio sol de la sorella.

3Onde il suo carro incontinente ascese,
d’un manto del color de l’onde adorno,
e cento ninfe, ad ubidirlo intese,
sopra cento delfini avea d’intorno,
oltra i Glauci e i Tritoni, onde l’imprese
d’Eolo fur vane e riportonne scorno.
Così Nettuno a i mostri il freno allenta,
calca il mar, l’onde acqueta, Eolo spaventa.

4Chiama a sé i venti e grida acerbo e duro:
«Qual ardir, qual fiducia o qual dissegno
vi trasse fuor d’un picciol antro oscuro,
o vil gente, a turbar l’ampio mio regno?
Qual trovar si potria loco sicuro
contra la forza mia, contra il mio sdegno?
Destri e con fretta in fuga, o rei, volti,
dite a chi v’ha per mio dispregio sciolti,

5che il tridente e de l’acque il grand’impero
a me fu dato, e non ad altri in sorte;
de gli erti sassi egli ha il dominio intero:
quivi apra e chiuda a suo piacer le porte,
quivi si stia senza altrui invidia altero,
né più la tempesta nel mio regno apporte».
Così dicendo d’ogn’intorno scaccia
l’oscure nubi, e il mar torna in bonaccia.

6Come allor che il roman popolo ardente
contra i soldati, e che non meno
quei, pien di rabbia e di furor la mente,
di sdegno il cor gonfiati e di veneno,
con l’arme in mano or questo or quel dolente
facean, d’ogni timor già rotto il freno,
volavan dardi e pietre e strali e foco,
né in tutta Roma era sicuro loco,

7ma come prima l’onorato seme
di Gordiano al lor cospetto apparve,
l’ira, lo sdegno, il furor, l’odio e insieme
la rabbia e quinci e quindi in fretta sparve,
chi più dianzi audace ora più teme,
e par più dolce chi più acerbo parve,
tal di Saturno apparso il figlio e in questa
parte e in quella cessò l’aspra tempesta,

8visto de l’acque il gran rettor sereno
il ciel, tranquillo il mar, sparito il verno,
volgendo a i mostri suoi marini il freno,
verso Tenaro andò, pago e contento.
Onde il guerrier, che in prima il petto pieno
di tema avea, di doglia e di spavento,
or visto il sol far co’ bei raggi fede
di pace, sta confuso e a pena il crede.

9Ma stato alquanto timido e smarrito,
tosto riprese il suo vigor primiero,
e commandò che al più vicino lito
si devesse accostar ciascun nocchiero.
Siede in Narbona un dilettevol sito,
contrario al loco ov’egli avea pensiero,
ché volto il suo camin contr’Euro a punto
si ritrovò presso a Marsiglia giunto.

10Con sette navi il cavaliero a pena
smontò là dove un fiume altero ha foce,
che giù da l’alpi scende e rode e mena
seco le ripe, e il mar fende veloce.
Questo ogni sponda avea fiorita e piena
di verdi allori, ove con lieta voce
gli augei volando d’una in altra fronde
salutavan gli dèi ch’eran ne l’onde.

11Stando i romani in sì piacevol loco
ancor che stanchi e sian colmi di doglie,
parte cerca ne i sassi ascoso il foco,
parte con secchi ramoscelli e foglie
fa suscitar gran fiamma a poco a poco,
altri port’acqua, ed altri erbette accoglie;
chi sopra il lito giace afflitto e smorto,
chi ’l fratel piange e chi ’l compagno morto.

12Costante un scoglio in tanto che d’intorno
scopria di Gallia e di Liguria il seno,
ascese a risguardar s’omai ritorno
Neron far veggia o il forte Arrio o Caleno,
o se di Celso il candido alicorno,
o se le tracce d’or del buon Sereno
splendean ne l’alta poppa, ma schernito
del suo pensier scese, e tornò sul lito.

13Tornò dove pur dianzi avea lasciato
que’ suoi fidi compagni che la cena
dentro un bosco apprestàr, cui d’ogni lato
chiare fonti scorrean con larga vena.
Chiudea questo nel mezzo un verde prato,
d’intorno a cui dì e notte Filomena,
con dolce pianto, la sua doglia acerba
facea palese a i fonti, al bosco, a l’erba.

14Quivi Costante, ancor che mesto il core
fra il timor abbia e fra la speme posto,
e che la speme già ceda al timore,
sendo a temer più che a sperar disposto,
quanto era in suo poter lieto di fuore
si dimostrava, e il duol tenea nascosto,
per trar d’affanno lor cui tanto incresce
la noia sua; ma chiuso il duol più cresce.

15Con grato viso e con parlar cortese
fece il travaglio lor parer men grave;
indi, postosi a mensa, il cibo prese,
che poco al gusto suo trovò soave;
né sapendo in qual terra o in qual paese
spinto abbia il vento la smarrita nave,
più ch’altra mai la notte ebbe molesta,
tra sé volgendo or quella cosa or questa.

Venere si reca da Nettuno, chiede che conceda mare tranquillo per la prossima traversata (16-46)

16Venere in tanto, che d’Eutropio il figlio
dal Ciel vide solcar l’onda tirrena,
poi scorto indi ad un tratto, per consiglio
di Giunon, l’aria d’atri nembi piena,
e che Nettuno fuor d’ogni periglio
tratto il guerrier la ritorno serena,
e ch’egli allor, benché d’acerba e dura
passion colmo, in parte era sicura,

17pensando tra sé già, timida e mesta,
ch’ei gir devendo a forza in Oriente
saria costretto a capitar per questa
strada del mar, né far potea altrimente,
onde contra di lui nuova tempesta
Giunon potrebbe concitar sovente,
e in tanto del fratel, che non le neghi
questa grazia, impetrar con dolci preghi.

18E stando in tal pensier desio le nacque
di voler tosto prevenir Giunone;
calando in fretta al gran rettor de l’acque,
sopra gli omeri assisa di Tritone;
e supplicarlo, poi che ognor gli piacque
d’inalzar tanto il dritto e la ragione,
ch’un cavalier sì buon sì pio, sì saggio
dentro al suo regno non riceva oltraggio.

19Onde a i suoi bianchi augei spiegar le penne
fe’ subito, e veloce più che il vento
non lunge da Citera il camin tenne,
talché a Tenaro giunse in un momento;
seco d’Amori una gran schiera venne,
ciascuno a gara ad ubidirla intento,
a cui Ciprigna volta disse: «O cari
figli, scorrete d’ogn’intorno i mari,

20e tosto ritrovate ove si asconde
Tritone, o rimbombar faccia col suono
l’egeo mare o il carpazio, o in Libia l’onde
rompa, e fatel venir qui dov’io sono,
ché sopra lui vuo’ gir ne le profonde
arene, ove convien ch’io chieggia un dono;
del qual so ben, s’altri primier no ’l chiese,
che me ne fia quel re largo e cortese.

21E prometto a colui che primo il trova
una saetta d’or, d’avorio un arco».
Sparsi adunque gli Amori usciro a prova,
l’onde cercando ogni un leggiero e scarco.
Chi qua, chi là con gran desio si prova,
fu visto al fin Triton, che attendea al varco
Gimotoe bella dentro al mar mirtoo,
tra Claro e Mindo e l’onorata Cloo.

22«Ecco» gridò l’Amor che ’l vide in fretta,
«che i suoi furti coprir non posson l’onde!
Vieni a portar la nostra dea che aspetta
per calarsi a le arene più profonde,
che in premio avrai, se tanto ti diletta,
colei ch’or da te fugge e si nasconde».
Lieto Triton tosto che udì tal voce
si mosse, e giunse alla gran dea veloce.

23Sopra cui tosto ella a seder si pose,
che se le accomodò destro e cortese;
col crin dunque di mirto ella e di rose
cinto, nel fondo giù del mar discese;
non pur l’acqua il piacer suo non ascose,
ma per farlo più chiaro e più palese
quinci e quindi s’aperse e le fe’ strada
per cui la dea co’ suoi seguaci vada.

24Sparta la voce che Ciprigna scende
sopra Triton de l’acque a la part’ima,
ecco i marini dèi ch’ogni un contende
di gire a lei da questo e da quel clima:
Melite, Acasta, Evarne in fretta fende
l’onde, e ciascuna esser desia la prima;
ecco Anfitrite, Spio, Glauce e Nesea,
Nemerte, Urania, Psamate e Petrea.

25Ecco Nereo che sopra un’orca viene,
e sopra una testugine vien Niso,
chi foce, chi vitelli e chi balene
calca, e chi sta sopra un delfin assiso;
s’udian venir cantando le Sirene,
c’han di donzella e treccie e mani e viso,
Teti e Climene e Prinno e Xante a nuoto
ecco venire, e Polidora e Doto.

26Del mar nel fondo ella arrivò veloce,
e giù del mostro a piè tosto discese;
di che a Nettuno in fretta andò la voce,
che ad incontrarla uscì lieto e cortese.
Quivi la dea mille orche e mille foce
vide, che parte in terra eran distese,
parte pasceano e Proteo diligente
cura n’avea, contandole sovente.

27Con le man piene di marini fiori
venir Clipso e Pasitea si vede,
alga spargendo va Ferusa e Dori
dove deve fermar Ciprigna il piede.
Non stero in ozio i pargoletti Amori,
ma nel passar ciascun di lor fe’ prede:
già Forco arde e Nereo, né punto giova
che in mezzo l’acque e questo e quel si trova.

28Talor scherzando leggiermente quella
diva, Zefiro i panni alzava e Noto,
per poterla mirar quanto era bella,
ma tosto acceso l’un restò di Proto,
l’altro di Toa, ch’ognor veloce e snella
fugge da lui giù nel profondo a nuoto.
Ma tu, Triton, deh dimmi: al fin che valse
portar la dea d’amor per l’onde salse?

29Perché se ben ne riportasti in loco
di premio quella onde il tuo petto ardea,
fosti acceso però di nuovo foco
che a l’improviso ti avventò Rodea;
di questa alquanto ti prendesti gioco,
che per basciar le piante a Citerea
sopra gli omeri tuoi stese la mano
quando il colpo ti colse, e non in vano.

30Così avvenne anco a Proteo che, già stanca,
salir volendo un’orca, Dinamene
cadde supina, e l’una e l’altra bianca
coscia mostrò distesa su l’arene
quando un Amor con mano ardita e franca
la fiamma gli avventò dentro a le vene.
Glauco non men desia basciar le labbia
d’Ippo, che sceglie perle per la sabbia.

31Quivi trovar non si può ninfa o dio
a cui non arda il cor di nuovo foco:
Temisto arde, e Gianera, Admete e Spio;
non ritrova Egeon per doglia loco,
vistosi por da Cidippe in oblio,
che di sua nobiltà si cura poco;
Portunno arde e Sarone, arde ivi ogni uno
in somma, e per Ciprigna esso Nettuno.

32Giuns’ella in tanto al gran palazzo dove
abita il dio, che vien tutt’ora seco,
simile a cui non fu mai fatto altrove
da mastro alcun latin, barbaro o greco.
Sopra tenere sponghe il piè si move,
fin che si arriva in un superbo speco
che di perle ha le porte, e l’alte mura
di pumice intagliata con gran cura.

33Molti antri in questo son, molte spelonche,
ricetto de la sua nobil famiglia,
di nicchi ornate di marine conche,
qual candida, qual persa e qual vermiglia;
d’ossa da vari e strani mostri tronche,
sì grandi che a vederle è meraviglia,
son letti e scanni e mense in ogni parte
fatti, e intagliati con mirabil arte.

34Giunti del gran palazzo a l’ampia corte,
scorse con molto suo stupor la diva
che d’ogni intorno e per occulte porte
quivi ogni fiume, ogni torrente arriva:
per vie Meandro inviluppate e torte,
Peneo cinto d’alloro, Arno d’oliva,
Gange, Idraote, Ren, Tago, Istro, Indo, Ebro,
Po, Varo, Eufrate, Ibero, Idaspe e Tebro.

35Altri dèi quivi, altre nereidi a schiera
vedeansi, parte in gioco e parte in danza,
chi pia chiamar la ninfa sua, chi fera,
questo pien di timor, quel di speranza;
solo una faccia a tutte già non era
ma d’aria tutte avean però sembianza,
vaghe di pari e leggiadrette e snelle,
onde ben si scorgea ch’eran sorelle.

36Il bel ceruleo crin di lor gran parte
leggiadramente in treccie avea raccolto:
chi quelle avea per rasciugarle sparte
chinando il capo e nascondendo il volto.
Stavan co i lor amanti altre in disparte,
di cui ciascun amor ne i lacci involto:
chi le mani avea in sen, chi sotto il lembo
de la sua diva, e chi la testa in grembo.

37Quivi era un seggio di corallo et uno
di perle, e questo e quel di gemme ornato,
sopra cui da sinistra il gran Nettuno
si assise, e lei fe’ girar dal destro lato,
e crollando il tridente ecco ciascuno
che intento a pena tira o manda fiato;
il che visto la dea, dal seggio ov’era,
levossi alquanto e disse in tal maniera:

38«O sacro re, la cui potenza affrena
l’onda, e la terra d’ogn’intorno scuote,
non odio a te me sconsolata mena,
ch’odio albergar nel petto mio non puote,
ma sol d’amor, sol di timor piena,
che l’uno e l’altro il cor m’ange e percuote,
spinta da l’odio altrui, da l’altrui rabbia
vengo dal Ciel per questa umida sabbia.

39Quel sì chiaro guerrier che d’alta fede
pari non ha, né di pietate immensa,
Giunon, da cui sperar devria mercede,
superba uccider crudelmente pensa,
e sì ne l’alma il rio pensier le siede
che in tutto il tempo in questo sol dispensa,
né pur nel regno tuo breve dimora
può far che irata nol persegua ognora.

40Ohimè, se l’alta providenza e il fato
lui sol fra tanti ne l’età presente
de l’Impero ab eterno ha destinato
contra i barbari duce in Oriente,
perché omai non s’acqueta, e quel ch’è dato
dal Ciel, perché Giunon pia non consente?
Anzi, più sempre dispietata e dura,
né fato né destin né Giove cura.

41Dunque, o signor, se giusti preghi ardenti,
porti con umiltà nel tuo cospetto,
denno aver forza, a sì rabbiosi venti
non dar contra di lui giamai ricetto:
permetti sol che quei, placidi e lenti,
spirino in poppa, e che Favonio eletto
duce tra gli altri e salvo e in tempo corto
guidi Costante al desiato porto.

42Cosa, che s’io l’impetro, poi che tale
non è la forza in me, non è il valore,
che render te ne possa il merto eguale,
scolpita sempre avrolla in mezzo il core;
ma s’io pur vaglio, o se il mio figlio vale,
cosa che ti sia in grado, o mio signore,
più ch’io non posso con la lingua dirti,
sarem con l’opre ognor pronti a servirti».

43Tacque ciò detto e i suoi begli occhi in tanto
d’un purpureo color vago cosperse,
talché senza versar stilla di pianto
l’interno affetto suo per quei scoperse.
Nettuno allor, cui dal sinistro canto
passò lo stral pur dianzi, non sofferse
ch’ella al grave timor che sì l’afflisse
più fosse in preda, onde rispose e disse:

44«O bella dea, per cui d’amore accesa
prende ogni cosa accrescimento e vita,
non si convien che in questo regno offesa
debbi temer, ma sperare sempre aita;
quinci origine avesti e, pria che ascesa
in Ciel, tu sei fuor di quest’onde uscita;
dunque ragion è ben ch’io ti compiaccia,
e che ogni cosa in tuo servigio faccia.

45E se pur dianzi senza aver saputo
dove tua mente allor fosse inclinata,
sol porger femmi al pio Costante aiuto
la mia pietà verso d’ogni altro usata;
per l’avvenir, ch’avrò chiaro veduto
di farti cosa, o bella diva, grata,
tanto più starne dei sicura, ch’io
te sola di servir cerco e desio.

46E per quelle infernali acque ti giuro,
cui violar gran sacrilegio fora,
che per lo regno mio passar sicuro
potrà il guerrier co i suoi seguaci ognora».
Con l’animo restò tranquillo e puro
la diva, e in lei tornò la speme allora;
la qual, debite grazie al gran dio rese,
sopra Triton su verso l’aria ascese.

Venere travestita da cacciatrice incontra Costante sul lido, gli dice dove si trovi e gli consiglia di chiedere aiuto alla regina Vittoria (47-64,4)

47E subito si volse in quella parte
dov’era il cavalier tristo e dolente.
Il qual, poi ch’ebbe d’ogn’intorno sparte
l’ombre la notte, pien di doglia in mente,
l’alto infortunio suo di parte in parte
tra sé volgendo, il mal ch’era presente
da poter sopportar tenea per lieve,
rispetto a quel di che avea tema in breve.

48Ma come prima dal balcon sovrano
guardò l’aurora e spiegò l’aureo crine,
solo e pensoso il cavalier romano,
de l’ombra oscura già veduto il fine,
l’orme drizzò per loco inculto e piano,
pieno di sassi e di pungenti spine;
a cui, dubbioso omai s’indi ritrarse
debba o il camin seguir, Venere apparse.

49Trovollo in riva d’un gran bosco e folto,
donde non si scorgea del sol la faccia;
la diva allor, col crine a l’aura sciolto,
scalza ambo i piedi, ignuda ambe le braccia,
se gli mostrò, l’abito preso e il volto
di vergine che cervi e damme caccia.
La vesta al collo con un laccio avvinta,
l’arco avea in man e la faretra cinta.

50Ond’ella prima al cavalier rivolta
disse: «O signor, saper desio s’errando
veduto avete per la selva folta
alcuna mia compagna e dove e quando;
fuor del sentiero e in gran paura involta,
mentre ch’or l’una or l’altra vo chiamando,
Eco sola risponde, e un aspe crudo
parmi ogni ramoscel di fronde ignudo».

51Mentre la dea parlò, sempre nel viso
tenne a Costante ambe le luci piene
di quel splendor che il tutto già diviso
congiunse, onde ogni cosa si mantiene;
ma con lo sguardo in terra il guerrier fiso,
poi che sì ardente raggio non sostiene,
rispose: «Io qui non ho né a la campagna
udita o vista alcuna tua compagna,

52ma tu che fuor de quei begli occhi spiri
luce immortal che in ciel vince ogni stella,
da me, che cieco e senza guida miri,
le nubi scaccia, e i giusti miei desiri
adempi, e dove io sia dammi novella;
se in abitati lochi o in terre strane,
se tra fere selvagge o genti umane.

53Spinto qui dianzi da rabbiosi venti
giunsi per aspri e per turbati mari,
fendendo l’aria con dogliosi accenti,
con pianto acerbo e con sospiri amari;
di por ti giuro in su le fiamme ardenti
incensi, e d’erger tempi, statue, altari,
certo essendo tu dea, che a dea somiglia
tua faccia, o ninfa, o di Latona figlia».

54Quella soggiunse allor: «Non ben conviensi
tal pregio a me, né punto in ciò m’inganno,
ché i sacri altari e gli odorati incensi
e i tempi e i voti a Dio solo si fanno;
forse ch’io sia ninfa o Diana pensi,
né sai che in tal maniera qui sen vanno,
scinte e scalze, le vergini che al varco
le fiere attendon con gli strali e l’arco.

55Ma perché tanto hai di saper desio
dove spinto Euro t’abbia e fra qual gente,
giunto se’ in Gallia, ove ogni germe rio
svelse una donna di virtute ardente;
la qual di ferro e di valor natio
su ’l destrier salse armata arditamente,
talché, già spenta l’una e l’altra face
che il gran regno incendean, lo regge in pace.

56Vittoria è questa, che d’intorno i vanni
spiega di sua virtù con chiaro grido,
Lollian vinto, e gli altri empi tiranni
che ucciso hanno il caro sposo e fido
e il giovenetto figlio con inganni,
per occupargli il suo paterno nido,
di ch’ella è stata presta a far vendetta
non men che a scender giù dal ciel saetta.

57Tutte le genti che tra l’Alpe e il Reno,
tra il golfo di Britannia e l’Aquitano,
tra i Pirenei son chiuse e il mar Tirreno
vinse Vittoria con vittrice mano:
pose a i Britanni et a gli Iberni il freno,
chiusi dal boreal freddo Oceano,
talché più fece in un sol anno prove
che Cesare il maggior non fece in nove.

58Quinci non lunge una famosa terra
siede, ne l’arme e ne gli studi chiara,
ch’entro il bel grembo riposato serra
ogni arte, ogni virtù pregiata e rara.
Vinti quei di Focea da i Persi in guerra,
per fuggir l’aspra servitute amara,
nel tempo che di Media in Persia Ciro
portò l’impero, fuor de l’Asia usciro,

59e poi ch’errando molti giorni furo
per mar, cacciati da diverse genti,
senza mai ritrovar porto sicuro,
contrari avendo il ciel, la terra, i venti,
questa gli accolse, e il lor travaglio duro
mutò in riposo, e in gioia i lor tormenti.
Né però meno essa a i Foceni debbe,
ch’indi il suo nome al par d’ogni altra accrebbe,

60ché di tempi non sol questi e di mura
e d’alte torri l’adornaron tutta
per farla ancor da i barbari sicura,
che già l’avean più volte arsa e distrutta,
ma sì d’ogni altra cosa ebbero cura
che Grecia in Gallia aver parean condutta,
con leggi e con statuti e con decreti,
perché al ben si dia loco e il mal si vieti.

61Marsiglia è il nome, che sì chiaro vola
d’avervi ognor servato intera fede.
Vittoria adunque sì gran regno sola,
per sua propria virtù, regge e possede,
e il pregio a l’altre d’onestate invola,
onde n’ebbe dal Ciel tanta mercede;
e quivi è già gran tempo che soggiorna
di regal scettro e d’aureo manto adorna.

62Dunque tu, che di speme e di conforto
sei privo in tutto, omai ricorri a quella,
che ristorar può sola in tempo corto
la gran giattura di sì ria procella,
con le migliaia d’uomini sul porto
la troverai rifar torri e castella
e mura, e tutto ciò che pose in terra
Cesare, allor che al gran Pompeo fe’ guerra».

63Così detto ella sparve, e l’auree chiome
spiràr nel suo sparir soavi odori.
Restò il guerrier, che la conobbe, come
stupido e quasi di se stesso fuori.
Poi con man giunte la chiamò per nome,
dicendo: «Se a pietà de’ miei dolori
sei mossa, o diva, e se di me ti calse,
perché m’inganni con sembianze false?

64Se del tuo seme nacqui e se romano
sono perché m’ascondi il vero volto?
Perché non mi porgendo, ahimè, la mano
la vera voce tua d’udir m’è tolto?».
Così dicendo, per l’istesso pianoCostante chiede ricetto a Vittoria, la quale si offre di accompagnarlo nella spedizione contro Sipario (64,5-84,2)
giunse a i compagni, in gravi cure involto,
e visto quanto a i miseri precisa
fosse la speme, gli parlò in tal guisa:

65«Non è di voi chi non sapesse certo
pria ch’abbia posto fuor di Roma il piede
d’aver travaglio, e quinci il vostro merto,
sendo maggior, più degno è di mercede;
io, quanto per l’adietro ho mai sofferto
per osservare al mio signor la fede,
riposo ognor l’affaticar m’è parso,
piacer l’affanno e dolce il sangue sparso.

66Voi de’ Persi pur dianzi in Oriente
provato avete con l’inganno mista
la forza, e conosciuto chiaramente
che ben senza penar mai non s’acquista;
ma il Padre eterno, che l’intera mente
scorge da Cielo, ha stabilito, vista
la pietà che a tal rischio v’ha condutti,
di darvi in breve i desiati frutti.

67Siede quinci vicina, a due giornate,
una città di vago sito amena,
dove una donna in giovenil etate,
di guerra esperta, il gran paese affrena;
noi dunque a lei, ch’è saggia e di pietate
più ch’altra colma, il destin nostro mena,
da cui di gente avremo e di tesoro
soccorso, e d’ogni danno ampio ristoro.

68Voi da voi stessi adunque omai togliete
quel van timor che sì v’ingombra il petto,
l’alte cagioni essendo a noi secrete
per cui produce il Ciel diverso effetto:
secondo i casi occorsi or triste or liete
le menti abbiamo, e con terreno affetto
ciascun mira a quel che Iddio dispone,
poi che da i sensi oppressa è la ragione».

69Così detto, il guerrier la strada prese
verso Marsiglia, per l’istessa fossa
che allor fe’ Mario che la nuova intese
de i Cimbri, ch’ivi poi lasciaron l’ossa,
giunti sì di lontan con voglie accese
di far la terra del lor sangue rossa.
Dunque il guerrier ch’avea l’aura seconda,
del Rodano sen gìa solcando l’onda.

70L’altro giorno, che uscito ancor non era
co i raggi il sol de l’onde in Oriente,
giunse là dove la regina altera
sul porto armata era con molta gente.
L’africana palude in tal maniera
solea Minerva risguardar sovente:
l’elmo avea in capo e ne la man sinestra
tenea lo scudo, e l’asta ne la destra.

71Quivi Costante con suo gran conforto
trovò la nave d’Arrio e di Sereno
e di Neron, ch’ogni un credea già morto
e sepolto co’ suoi nel mar Tirreno,
talché afflitto n’andò, con viso smorto,
tutto nel cor d’acerba doglia pieno;
né quegli ebber men gioia ché, altrettanto,
lui già tre giorni avean per morto pianto.

72Scesero in terra e il cavalier romano
l’orme con lor verso Vittoria torse;
la qual per impedirgli un capitano
mandò con gente, allor che se n’accorse,
per timor ch’ella avea di Regillano,
che spesso in fino al Rodano trascorse,
con morte e servitù di molta gente,
struggendo i campi, e ciò facea sovente.

73Ma poi visto il guerrier di nave uscire,
e che senz’armi verso lei si move,
ad incontrarlo andò, sol per desire
di saper di chi sia quel nato e dove;
gli altri non men, sì come avvien che udire
sempre si braman cose rare e nove,
corsero tutti in quella parte in fretta,
stando insieme la turba unita e stretta.

74E fatto un cerchio intorno a quel (beato
chi può dinanzi a tutti gli altri starsi),
vòto lasciando d’ogn’intorno il prato,
che pien prima parea mentr’eran sparsi,
Costante, in tanta d’eloquenza ornato
sì che ad ogni altro in ciò puote agguagliarsi,
scontrato già con la regina altera
parlò modesto e disse in tal maniera:

75«Regina, a cui diè il sommo Padre eterno
d’affrenar genti barbare e superbe,
perché mill’anni e mille, anzi in eterno,
chiaro nel mondo il tuo nome si serbe,
di noi, per dubbio e procelloso verno
del mar commessi a le tempeste acerbe,
pietà ti prenda, e se non sai chi tante
fortune abbia sofferte, io son Costante.

76Non per far guerra al gallico paese,
né per addur fuor del tuo regno prede
qua siam venuti, ma le menti accese
abbiam d’amor, d’alta pietà, di fede;
queste a più degne e più lodate imprese,
non desio d’acquistar prezzo o mercede
spronan gli animi nostri, e il dritto e il giusto
ne sforza a dar soccorso al grande Augusto.

77Ma quella dea ch’ogni uom superba mena
su la volubil rota or basso or alto,
l’aria che in favor nostro era serena
turbò con crudo e paventoso assalto,
talché di nembi e di procelle piena
noi dal Sicanio mar solo in un salto
spinse in Narbona, avendo in prima rotte
e sarte e vele, e il dì cangiato in notte.

78Onde volto il camin nostro già verso
Zenobia, alta regina d’Oriente,
l’ampio Vulturno a sì bell’opra avverso
rivolse impetuoso in Occidente,
gli Austri avendo nel mar prima sommerso
la maggior parte de la nostra gente,
che a pena il quarto è di noi giunto in porto
per onde e scogli, e il rimanente è morto.

79Dunque tu, donna, a cui per lunghe strade
smarrite e torte abbiam fornito il corso,
deh fa’ che torni Augusto in libertade,
ch’esser non può se non col tuo soccorso.
Se a l’altre tue virtù questa pietade
s’aggiunge ancor, non sarà mai che il morso
de l’invidia e del tempo o de la morte
un picciol danno al tuo gran nome apporte».

80Fornito il suo parlar Costante a pena,
cui gli interroppe il sospirar sovente,
Vittoria, d’alta meraviglia piena
ch’oda e veggia il guerrier quivi presente,
rispose: «O signor mio, la grave pena
che sì t’affligge e sì turba la mente
scaccia, e la doglia acerba e il rio timore,
e in vece lor pasci di speme il core.

81Non han di pietra il cor, di ferro il petto
gli uomini qui, né son di fere usciti,
ma contra vi mandai sol per sospetto
d’un re che va scorrendo i nostri liti:
l’empio sovente, allor ch’io men l’aspetto,
questi morti lasciando e quei feriti
con grande armata audace in terra scende
e donne e greggie e biade invola e prende.

82Però non perché a voi fosse contesa
la terra, né per farvi oltraggio o danno
mi volsi oppor, ma sol perché difesa
fosse mia gente dal crudel tiranno.
Tu pur volendo far con rara impresa
che sopra i Persi al fin cada l’inganno,
eccomi pronta a darti un tal soccorso,
ch’util ti fia l’aver smarrito il corso.

83Ma s’anco avrai di rimaner desio
qui meco, io vuo’ che l’ampio e nobil regno
sia più di tutti voi che non è mio,
ché assai ne stimo ogni un di voi più degno;
su l’alte rive et onorate anch’io
del Tebro nacqui, ond’ira e giusto sdegno
mi spinse a far tra i barbari dimora,
con gran desio di rivederle ancora».

84Così detto, e per man Costante preso,
si mosse a gir con lui verso le mura.
Ma Venere, ch’avea l’animo intesoVenere chiede a Giove se il destino prefisso a Costante sia mutato, lui le risponde di no e le elenca la discendenza che da lui avrà origine (84,3-105)
a la salute sua, né s’assicura,
ché l’ira e l’odio di Giunon compreso
quanto sia grave, ognor vivea in paura,
sol per tema d’insidie occulte e nove,
mesta e dolente andò dinanzi a Giove.

85Quel, che l’umane e le divine genti
regge, né a giusti preghi unqua s’ascose,
con l’occhio suo, che scorge e le presenti
e le future e le passate cose,
dal ciel mirava intento gli elementi,
e tutto ciò ch’ei di sua man compose,
d’ogni uom fisso mirando ogni atto, ogni opra:
ché nulla è in terra che da lui si scopra.

86Fermò lo sguardo in Gallia, e tenea fisse
le luci allor verso il guerrier romano,
a cui la diva sospirando disse:
«Tu che il seme divin reggi e l’umano,
tu che la luna e il sol, l’erranti e fisse
stelle governi, e con potente mano
il ciel muovi e la terra, e con ardenti
folgori ogni mortal domi e spaventi,

87qual fin gli errori, ahimè, qual fin le pene
del mio Costante e le fatiche avranno?
Quando fia il dì che Giunon l’ira affrene,
sola cagion del mio sì lungo affanno?
Pur dianzi che gonfiar l’onde tirrene
contra lui vidi, e fargli oltraggio e danno,
sol mi porgean le tue promesse alquanto
di speme e di conforto in mezzo il pianto.

88Tu promettesti, o Padre, già che il seme
fora non sol del pio Costante eterno,
ma che i nepoti suoi fin ne le estreme
parti del mondo avrian scettro e governo:
qual nuova occasion toglie di speme
tua figlia, e cangia in te l’animo interno?
Qual grave fallo, ahimè, qual rio peccato
di quel mutar può l’immutabil fato?».

89Sorridendo il gran Padre eterno allora,
con lieta faccia e con tranquilla ciglia,
per trarla del gran duol che sì l’accora,
dolcemente abbracciò la bella figlia.
Quella, che il Ciel di sua beltà innamora,
per vergogna si fe’ tutta vermiglia,
colma d’eterne grazie e di leggiadre
maniere; e in guisa tal le disse il Padre:

90«Non temer, figlia mia, quel che una volta
fu conchiuso qua su, non può mutarsi.
L’alta virtù romana oggi è raccolta
solo in Costante, e in lui de’ rinovarsi;
però di tanto onor degno con molta
fatica e con travaglio ha da mostrarsi:
qual novo Alcide al fin dal mortal velo
scarco, il vedrai salir con gloria al Cielo.

91Ma di lui nascer prima e di Vittoria
vedrassi un figlio illustre, Eutropio detto,
che d’infinito onor, d’eterna gloria
colmo, e d’ogni virtù fido ricetto,
sarà con chiara et immortal memoria,
dovunque il sol risplende, alto soggetto
de i più nobili ingegni, e fia per tutto
sparto del seme suo felice frutto.

92Di cui poscia e di Claudia un germe altero
nascerà in breve, e fia Costanzo Cloro
forte sostegno del romano Impero,
cinto le chiome d’onorato alloro;
ecco, di questo figlio, per cui spero
che d’ogni avuto danno ampio ristoro
prenda la bella Europa e tutto il mondo,
e che torni per lui vago e giocondo.

93Ancor che Roma con lo sguardo bieco
mesta vedrallo e disdegnosa alquanto,
poi che l’imperial corona seco
porterà in Tracia, e l’aureo scettro e il manto,
sendole grave che un vil popol greco
vada altero di quel per cui già tanto
sangue avrà sparto, e fame e caldo e gielo
sofferto; ma così conchiuso è in Cielo.

94Che tempo essendo omai che appaia il vero
fin qui rimaso ascoso in ogni etade,
ceder convien questo profano impero
al sacro, e tornar Roma in libertade;
onde a Costante il tuo saggio guerriero,
per la sua fede e per la sua pietade,
sciolta da gli occhi ho già l’oscura benda,
perché tal verità scorga e comprenda.

95Ma per non esser giunto ancora il giorno
poner questo ad effetto non si puote,
però, di fe’, di pietà pari adorno,
farallo al tempo questo suo nepote,
lasciando in Roma aver regno e soggiorno
di tre mitre superbe un sacerdote,
che in Cielo avrà possanza e ne l’Inferno,
non pur in terra; e fia tal regno eterno.

96Perché sì come per gli enormi e brutti
vizi lor questi Cesari profani
dal seggio imperial rimossi tutti
vedransi co i pensier lor nuovi e strani,
così questi altri in vece lor ridutti,
che per l’alta virtù non detti umani
ma divini saran sotto uman velo,
difenderà da l’altrui forza il Cielo.

97E questo nuovo Augusto, e sommo e santo
terreno Iddio, perché la grave soma
meglio sopporti, illustri padri a canto
vedrallo aver lieta e felice Roma,
di sacro adorni e di purpureo manto,
di purpureo capel cinti la chioma,
perché a l’interna lor bontà e valore
conforme appaia maiestà di fuore.

98E s’or tra i padri gli istrioni e i mimi
sono posti, e Struma e con Sarmento Apizio,
e se da i grandi par che più si stimi
e più che la virtù si essalti, il vizio,
da quegli allor ne i gradi più sublimi
fia riposto Caton, Brutto e Fabrizio,
riportando virtù suo degno merto,
come il contrario ognor castigo aperto.

99Talché il vestir di bisso e d’ostro segno
sempre sarà che in quell’alma divina
chiuso fia raro e sopra umano ingegno,
valor, bontà, religion, dottrina;
dunque del mondo e cardini e sostegno
quei fian, cui senza andrìa tosto in ruina,
e ben miser colui sarà che tolto
del sentier lor vedrassi ad altro volto,

100come quel si potrà chiamar felice
che starà sotto il bel stendardo loro.
Né sendo il tempo ancor publicar lice
al pio nostro guerrier tanto tesoro,
ma come frutto de la sua radice
farallo il figlio di Costanzo Cloro,
poi che reso con l’armi e col vessillo
per tutto il mondo avrà queto e tranquillo.

101Quattro figli di questo alteri e chiari
veggio che doppo la paterna morte
divideran la terra e i mari,
ma più d’ogni altro fia Costanzo forte.
Verrà poi Giulian, che tra i più rari
principi fora posto, se men corte
fossero l’ore sue: ma un fallo greve
cagion sarà de la sua vita breve.

102Ecco Gioviniano, ecco Valente,
e il maggior suo fratel co i figli, e quello
folgore ispano in guerra via più ardente
che Scipio a Roma, o Cesare o Marcello;
veggio in Esperia e veggio in Oriente
da i figli suoi diviso il nostro augello;
veggio i nepoti e poco indi lontano,
fra duo Giustini il gran Giustiniano.

103Ma s’ogni frutto che il bel ramo asconde
contar volessi, e ch’indi in luce altero
uscir vedrai con chiare e con profonde
virtuti a sostener quel novo impero,
più tosto il sol girar tre volte, donde
egli esce a rischiarar questo empispero
fino a l’Esperia, si vedrebbe, e quindi
non men tornar per via nascosta a gli Indi,

104ché Tiberio, Maurizio, Eraclio e tanti
e Costanzi e Leoni e Costantini,
con mitre d’oro e con purpurei manti
veggio nascer di lui, greci e latini,
ch’altro non fu, né fia, ch’unqua si vanti
che a questo il seme suo pur si avvicini,
non che si agguagli, e fin che il mondo dura
di sua salute in Cielo abbiam noi cura.

105Ma perché al tutto dar si possa effetto,
convien che il figlio tuo con quello impero
che serba in cielo e in terra, il freddo petto
de la regina infiammi e del guerriero,
così a lui quella et egli a lei costretto
sarà di volger l’animo e il pensiero,
talché insieme congiunti a l’alma impresa
n’andranno, ov’egli ha tutta l’alma intesa».

Venere incarica Amore di scagliare i propri dardi su Costante e Vittoria (106-114)

106La bella dea, che in fino allora intenta
stette al parlar del sommo Giove, piena
di speme e dentro al cor lieta e contenta,
rendea d’intorno a sé l’aria serena.
Scese dal ciel, né in ritrovar fu lenta
quel fanciul che ugualmente altero affrena
uomini e dèi, né Marte armato teme,
e giove sprezza e il mondo e il cielo insieme.

107Sopra Idalio a la cima un gran palagio
s’erge a guisa di tempio, ove dimora
col corno pien la Copia e l’Ozio e l’Agio,
e si sta fra suoni e danze ognora;
qui sol, dove albergar non può disagio,
Cupido e Bacco e Venere s’adora;
qui stan le Grazie e i pargoletti Amori,
qui gigli e rose d’ogni tempo e fiori.

108D’amaraco e di calta in un bel prato
stava il fanciul, di mirto il capo cinto,
con l’arco in man, con la faretra a lato,
e d’una benda intorno a gli occhi avvinto;
tutto era ignudo (or che farebbe armato,
se in tal guisa ogni un resta e preso e vinto?)
sopra gli omeri avea sol due grand’ali
di color mille, e in man gli acuti strali.

109Presso avea da man desta il Riso e il Canto,
col Piacer, con la Speme e col Diletto,
e da sinistra le Querele e il pianto,
col Timor, con la Doglia e col Sospetto;
cinta la Gelosia d’oscuro manto,
con chiodi acuti ogni un pungea nel petto:
qui si vedea, sopra un bel colle ameno,
di genti vane un labirinto pieno,

110che giorno e notte, or quinci or quindi, smorte
vedeansi errar per gli intricati calli,
né potean per uscir trovar le porte,
chi tristo, e chi stava in giochi e in balli.
Qui ninfe ignudi e satiri con torte
corna scherzando gìan per queste valli;
qui di capri eran piene e di lascive
colombe d’ogn’intorno e piagge e rive.

111Nel tempio entrata, e quindi nel vermiglio
prato la matre di Cupido uscita,
se le fe’ incontro riverente il figlio,
con quella turba sua ch’era infinita.
La dea più volte in bocca e sopra il ciglio
e ne la guancia bianca e colorita
lieta basciollo dolcemente, e fisse
tenendo in lui le belle luci disse:

112«Tu vedi, o figliuol mio, quanto di Giove
Giunon moglie e sorella in dar morte
al gran latin più calda ognor si move,
né giova a quei l’esser prudente e forte,
però convien con nuove arti e per nuove
strade, che aiuto al sangue mio s’apporte,
ond’io ricorro a te (pietà mi sforza),
sola potenza mia, sola mia forza.

113Giunto a Vittoria è qui, che de’ suoi mali
mossa a pietà, verso Marsiglia il mena;
tu prendi l’arco e i tuoi dorati strali,
et empi a quegli il cor di dolce pena;
tutti gli infiamma e fa’ che siano eguali
gli incendi loro, e con ugual catena,
come a te piace, e l’uno e l’altro guida,
così a Costante ella sarà più fida».

114Senza risposta il figlio obediente
quindi con gran velocità discese;
e quei, mentre venian tra gente e gente,
sopra le mura appresso il monte attese,
contra cui tirò l’arco arditamente,
talché nessun di lor l’armi difese,
ma per lo petto l’invisibil strale
lasciò nel cor la piaga aspra e mortale.

Costante e Vittoria si innamorano reciprocamente, poi banchettano (115-122)

115Tosto ch’Amor fanciullo inerme vinse
Vittoria e il cavalier di ferro armati,
di più colori e questo e quella tinse
la faccia, ambi nel petto arsi e infiammati,
e la man l’un con l’altro insieme strinse,
dal foco interno e dal dolor sforzati;
e da se stesso già ciascun diviso
si volse a riguardar l’altro nel viso.

116L’uno a l’altro ad un tempo il ciglio volse,
per chieder forse al gran bisogno aita,
talché la fiamma l’un de l’altro accolse
per gli occhi, ond’era e quinci e quindi uscita;
che tosto ogni un di lor di vita tolse,
ma rimase ciascun ne l’altro in vita:
l’un per sé solo è morto ma risorge
ne l’altro e, insieme, a l’altro aiuto porge.

117Vittoria rivolgea tra sé la fede
del cavalier, la forza e la pietade,
e che nel mondo abbia pari a lui non crede,
o ne la nuova o ne l’antica etade.
Costante anch’ei, che già dal capo al piede
l’ha tutta scorsa, in lei l’alta beltade
loda, prezza il valor, la virtù ammira,
poi con dolcezza e questo e quel sospira.

118Dentro da la città giunsero in tanto,
dove al regal palagio si fermaro.
Vittoria quivi ogni un di ricco manto
trapunto d’or con artificio raro
fatto vestir, col cibo i corpi alquanto
e con vin prezioso ristoraro,
perché i ministri meglio avvesser l’agio
di por la cena, senza lor disagio.

119Costei, che fu magnanima e cortese
via più d’ogni altra gran regina antica,
a far tal cena in guisa lauta intese
che in eterno convien che se ne dica,
sendo quel grasso e fertile paese
mai non schivo in mandar spesa o fatica,
d’intorno gente, ond’ella avea da tutti
quei lochi pesco, fere, augelli e frutti.

120Provista in casa avea d’ogni stagione
vini odorati e saporiti e chiari,
ch’or da questa ora da quella regione
giungean per terra e per diversi mari,
talché ad ogni improvisa occasione
facea conviti sontuosi e rari.
Ma questo, fatto a cavalier sì degno,
ben convenne passar d’ogni altro il segno.

121Con cento accesi torchi, essendo l’ora,
Vittoria andò là dove il cavaliero
da se stesso lontan facea dimora,
volgendo ov’era il cor sempre il pensiero;
e in sala ogni un condutto allora allora,
con vasi d’or l’acqua a le man gli diero
gran principi e gran duci, e con immensa
lor meraviglia fur posati a mensa.

122Ma più gli empiro ancor di meraviglia
tanti cibi e sì rari e sì diversi,
che per terra e per mar mille e più miglia
portati fur da Medi, Assiri e Persi.
Questi, e l’ordine bel de la famiglia,
mai prosa esprimer non potrian né versi;
ma che direm di tanti e sì onorati
doni che a tutti allor fur quivi dati?

Amore torna alla reggia, è accolto con grandi feste dai fratelli e dalla madre (123-141)

123Sopra Idalio tornò Cupido in tanto,
ma non si riposò dentro a la stanza
che non sapesse pria la matre quanto
successe, il che di far sempr’ebbe usanza.
Del gran monte al piè giace un piano alquanto
pendente, e d’un teatro ha la sembianza,
sì di bei colli d’ogn’intorno cinto
che ad arte a risguardar sembra dipinto.

124Da l’alta cima al dilettoso piano
si va per dritta strada a tutti aperta,
ch’avendo a destra et a sinistra mano
folti arbori, dal sol sempr’è coperta;
nel pian la moglie alberga di Vulcano,
talché a l’andarvi è china, al tornar erta
quella strada, che i miseri conduce
dove un cieco fanciul nudo è lor duce.

125Tra Venere e Cupido io sol discerno
differenza del sesso e de l’etate:
stanno insieme e staran sempre in eterno,
né fur le stanze lor mai separate;
giù nel piano ambedue quei stanno il verno,
sopra il monte ambedue stanno la state;
d’effigie l’uno a l’altro si assimiglia,
e di par serve ogni un la lor famiglia.

126Condutta a fin sì grande e rara impresa,
de l’alta diva il figlio glorioso
dentro a petti sì freddi avendo accesa
tal fiamma, ritornò vittorioso;
e perché da la matre fosse intesa
la gran vittoria, non pigliò riposo,
ma tosto a quella giunse anelo e stanco,
con l’arco in man, con la faretra al fianco.

127Seguia Cupido molta turba e molta
quivi al servigio de la madre stava,
che in una loggia e in un giardin raccolta
ch’ella uscisse di camera aspettava:
la Penitenza d’atra benda involta,
col volto in su la destra lagrimava;
lo Sdegno v’era e l’Ira e con la Cura
le Lagrime e i Sospiri e la Paura.

128La Disperazion sopra una torre,
stracciata il rozzo crin, par che, per darsi
la morte, in atto stia sempre di tòrre
coltello o fune o di precipitarsi;
per lubrico terren la Speme corre,
e co i capelli d’oro a l’aura sparsi
sen va Beltà, Vaghezza e Leggiadria,
per cui se stesso ogni un ch’arriva oblia.

129Misti e confusi quivi insieme stanno
contrarie passion, contrari effetti
col Contento l’Angoscia, e con l’Affanno
vi è la Letizia, e gli altri chiusi affetti
palesi occultamente i Cenni fanno,
poi che sicuri andar non ponno i Detti;
la Fideltà, l’Inganno evvi e il Pallore,
con le Vigilie, e grande appar l’Errore.

130Ma quei son tanti che impossibil quasi
sarebbe a raccontar turba sì grande;
molti senza esser visti eran rimasi,
che il palazzo il gran giro altero spande;
d’Amor leggeansi vari occorsi casi,
de l’ampia loggia in tutte due le bande,
quivi per tutto intorno e dentro e fuori
scherzar vedeansi i pargoletti Amori.

131Parte aguzza gli strali ad una cote
e sparge l’acqua su la pietra parte,
chi volge intorno le marmoree ruote,
chi d’avventar nel segno impara l’arte;
l’un da scherzo il fratel punge o percuote,
l’altro attende a lottar destro in disparte;
quel tempra l’arco a molle e questo il tende,
chi sopra il monte va, chi giù discende.

132Ciascun visto il fratel venir da lunge
verso lui corre per la via più corta;
beato è quel che innanzi a gli altri giunge,
e che a la matre sua tal nuova porta;
molti di lor nel petto invidia punge
per la sì nobil palma ch’ei riporta.
Dal giardin, da la loggia e da la torre
l’altra turba non men verso lui corre.

133Pur dianzi uscita Venere del letto
tutta allor solo intesa era ad adornarsi;
le ninfe di servirla avean diletto,
ma potean loco a pena insieme darsi:
chi le acconciava i bei monili al petto,
chi raccogliea con arte i capei sparsi,
l’un involve in bianca e sottil vesta,
l’altra le pone la ghirlanda in testa.

134Chi ricche perle a l’una e a l’altra orecchia
leggiadramente adatta, e chi le porge
lo specchio, e mentre Venere si specchia,
mentre in se stessa ogni bellezza scorge,
di gemme e d’oro il vaso una apparecchia;
poi quando quella dal gran seggio sorge
per lavarsi le man, chiaro liquore
un’altra versa e di soave odore.

135Più d’ogni altra la diva Pasitea
sempr’ebbe cara e pose in lei più fede:
tra le sue braccia questa la tenea,
mentre i monili ponean l’altre al piede.
La nuova udita in tanto Citerea,
dopo sì gloriose altere imprese
tornar vittorioso il caro figlio,
rasserenò via più che prima il ciglio.

136E, il piè sinistro scalza e il destro adorna
di gemme e d’oro, incontro a quello uscito,
Ninfa né Grazia punto ivi soggiorna,
colme d’alto piacer, d’alto desio.
«Correte» gridò Venere «che torna
con gran trionfo il caro figlio mio».
Vista Cupido uscir la matre fuori,
corse veloce a lei con gli altri Amori.

137E riscontrati, al collo ambe le braccia
con diletto l’un l’altro si gettaro,
e mille volte dolcemente in faccia,
pria che parlar potesser si basciaro.
Mentre sì stretto ogni un di lor si abbraccia,
per tenerezza quasi lagrimaro,
ma pur la matre ancor che stretti ambo insieme
disse: «O dolce mio cor, vera mia speme,

138o mia vita, o mia gioia, o mio conforto
mio ristoro tu sei, tu mio diletto».
Gioir vista la matre il figlio accorto
più le basciava or la fronte, or bocca or petto;
poi disse: «O matre, oggi una palma io porto,
che simil di portar mai non aspetto;
e più d’onor mi dan quest’alte prove
che d’aver Marte vinto, Alcide e Giove.

139Non ti par che l’aver vinta Vittoria,
dolce mia matre, più vaglia di quante
mai fece imprese e che m’acquisti gloria
via più d’ogni altra palma avuta inante?
Degno non è d’eterna ancor memoria
ch’io superato seco abbia Costante,
e già tepido reso in lui, col mio
foco, l’ardente suo primo desio?

140Matre non temer più che non sia servo
di lui Vittoria, anzi abbi speme,
perch’io non credo mai che l’universo
tutto gli possa disunir d’insieme;
non so se Augusto più, che dal re perso
vien serbato prigion, tanto gli preme,
ben so che il petto ad ambidue costoro
lasciai traffitto co i miei strali d’oro».

141Così detto il fratel, mill’altri Amori
sopra il letto di Venere il posaro,
e lo coperser d’odorati fiori;
dolci verso le Grazie ivi cantaro,
ché l’alti lode sue gli eterni onori
noti facean con stil pregiato e raro.
Ma di ristoro quel già preso alquanto,
de la dea giunse l’aureo carro in tanto.

Venere e Amore si recano al banchetto, dove Vittoria chiede a Costante di raccontargli delle vicende occorse all’imperatore (142-148)

142E poi che di vestirla ebber fornito,
per gir la dea veloce incontro al Polo,
d’oro e di gemme il bel carro salito,
seco le salse a par Cupido solo,
e seguita da stuol quasi infinito
tosto i candidi augei levati a volo,
dentro a Marsilia con prestezza grande
giunse, al levar de l’ultime vivande.

143E la sala trovò di genti piena,
ma la mensa poi subito levaro,
né cominciata fu prima la cena
che i balli e i suoni e i canti incominciaro,
con sì gran melodia, ch’ogni aspra pena
del naufragio in piacer tutti cangiaro,
vi furo ancora e giocolieri e mimi,
gli ultimi sempre superando i primi.

144Poi furon certe tavole portate,
dentro a cui molte spade eran confitte
e, queste in sala sul terren fermate,
le punte acute in su rimaser dritte,
sopra a cui donne ignude e d’ogni etate,
che parean prima stanche e in viso afflitte,
balli e salti facea con leggiadria
talché a guardarle ogni un se stesso oblia.

145Di poi bevuto in lor presenza quelle,
e postasi la man tre volte al core
resero tutto il vin per le mammelle,
col suo color di prima e col sapore;
faville innumerabili e fiammelle
gettaro ardenti poi di bocca fuore.
Vennero ancor molti altri e fêr diversi
giuochi, ma dir non si potriano in versi.

146Se ben Costante a queste genti attende
con gli occhi, altrove ha poi fissa la mente:
sol di mirar Vittoria piacer prende,
e sol per questo al cor dolcezza sente;
quella da gli occhi suoi tutta ancor pende,
talor mandando alcun sospiro ardente.
E l’uno e l’altro a tanta cena poco
mangiaro, essendo colmi ambi di foco.

147Poi ch’indi fu la regal mensa tolta,
durando ancora i suoni e i balli e i canti,
che a quei ch’avean d’amor la mente sciolta
porgean piacer, ma noia a i tristi amanti,
Vittoria verso il cavalier rivolta,
forse acciò che più l’ora andasse avanti,
cominciò a domandar varie e diverse
cose, or d’Augusto, o de le genti perse.

148Soggiunse al fin: «Signor, fammi palese,
se il dir non t’è molesto, e come e dove
furo a Valerian l’insidie tese,
e de i più forti eroi l’altere prove,
perché se ben già molte cose ho intese,
me ne son molte ancor secrete e nuove;
deh, grave non ti sia dirmi non meno
gli errori tuoi, le tue fatiche a pieno».