commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro VI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.07.15 19:48

Argomento
Di Sipario la fraude e di Surena
Costante narra, e di Perenne; e come
fu preso Augusto e quasi il roman nome
estinto, e ch’ei scampò fra tanti a pena.

Costante racconta la vicenda di Valeriano: la prima fase della campagna era stata coronata dal successo, pur nel susseguirsi di una serie di infausti segni premonitori (1-34)

1Per l’ampia sala eran le genti sparte,
ma sendo in alto il pio Costante asceso,
ciascun tosto si fece in quella parte
col pensier tutto ad ascoltarlo inteso;
quegli allor cominciò: «Sol per mostrarte
l’animo, o donna, a satisfarti acceso,
m’apparecchio a narrar cose cui solo
pensando il cor mi sento aprir di duolo.

2La frode, ohimè, barbarica e l’acerba
pena de’ nostri e il duro caso strano,
che tinta fu del latin sangue l’erba
dal crudo Parto e dal feroce Ircano
de l’empio re di Persia, che ancor serba
in servitù l’imperator romano,
chi fia ch’oggi vedendo non trabocchi
di pianto un rivo, un fiume, un mar per gli occhi?

3Poi che Licinio il mio signor con tanto
diletto universal d’Augusto preso
ebbe col nome la corona e il manto,
sol per virtute a sì bel grado asceso,
trovò l’Imperio in gran periglio quanto
mai per l’adietro fosse, ond’egli, inteso
a ripararlo, con grand’oste verso
l’Oriente passò contra il re perso.

4L’empio Sipario, a cui da le contrade
orientali il Ciel diè in mano il freno,
visto i Romani aver volte le spade
contra lor stessi, e che in sei lustri e in meno
sedeci Augusti per diverse strade
avean del sangue lor tinto il terreno,
talché vicino era a cader l’Impero
di Persia, uscì con molta gente altero.

5Giunse al Tigre e varcollo, che contese
non ebbe mai di nostre genti armate,
talché in breve usurpò tutto il paese,
che fra il Tigre nel mezzo e fra l’Eufrate
n’acquista il nome, e poscia distese
per l’una e per l’altra Armenia a gran giornate;
passò in Ponto e in Bitinia, indi si torse
a man sinistra e Caria e Licia scorse.

6Né bastò questo, che tra Sesto e Abido
volse il ponte rifar che già fe’ Serse,
acciò che meglio e più sicuro al lido
d’Europa andasse con le genti perse;
ma sentita la voce Augusto e il grido,
sì temerario ardir più non sofferse:
le sera che tal nuova intese a punto
con grande armata era in Epiro giunto.

7Seco avea diece legioni e venti
mila soldati del nome latino,
con altrettanto poi di varie genti
liguri e greci si pose poi in camino;
ma perché i Traci stavan con le menti
sospese, avendo il barbaro vicino,
per confirmargli ne la fede, elesse
di gir per terra a Sesto, e gli successe

8ch’ogni popol d’Europa, e molti ancora
d’Asia, i legati subito mandaro
questi a pregarlo che volesse fuora
de le man trargli del re perso avaro,
e quei per offerirgli gente, allora
e sempre, quando a lui sarà più caro.
Grazie Augusto benigno a tutti rese,
e fu verso ciascun largo e cortese.

9Poscia, perché de’ Persi ognora udiva
che sempre il camin lor seguian più avanti,
passò per l’Ellesponto a l’altra riva,
salvo che un sol non vi perì fra i tanti.
Qui visitò de la gran madre diva
l’antico tempio, e stette in Frigia alquanti
giorni, e in Galazia, e d’Asia allor compose
di qua dal Tauro e racquetò le cose.

10Sipario in tanto del re nostro intesa
la giunta in Tracia e poi come in un giorno
passato era in Abido, che contesa
d’alcun non ebbe, adietro fe’ ritorno;
fermossi a Carra, illustre per l’impresa
di Crasso ond’ebbe Roma e danno e scorno,
fra pochi dì non fu a seguirlo lento
Licinio, a prevenir quel sempre intento.

11Lunge da Pessinonte otto giornate,
per la medesma via che già fe’ Crasso,
del re d’Armenia il figlio Tiridate
si gli fe’ contra per vietargli il passo;
le nostre genti a pena erano entrate
dentro un gran bosco ch’or giva alto or basso,
quando i barbari fuor d’aguato usciro,
e Marzio e Codro subito assaliro.

12Quel de la quarta legion tribuno
era, e questo de’ Greci capitano,
forte e cauto guerrier di lor ciascuno
mostrossi, e l’occhio pronto ebbe e la mano.
Fu il sito a i nostri ancor molto opportuno,
che se i nemici avean campagna e piano
saria stata maggior l’aspra contesa,
né così facil riusciria l’impresa.

13Ma d’arbori e di sterpi essendo il loco
denso, e di balzi e di ruine pieno,
era cagion che al roman fante poco
nuocer potesse il cavaliero armeno;
per ciò fu breve il cominciato giuoco,
ch’avendo per fuggir già volto il freno
Tiridate, restò prigion d’un greco
egli, e molti altri ancor che fugian seco.

14Smirneo quel greco, e fu detto Clearco,
cui noto essendo pria tutto il paese,
con mille armati appresso un tirar d’arco
fermossi, e il giovenetto incauto attese;
né molto dopo, come fera al varco,
quello a man salva e tutti gli altri prese,
tra duo balzi ove un rio ch’uscia d’un sasso
facea il sentier d’alto cadendo a basso.

15Pochi de gli altri fur cui le contrade
d’Armenia il riveder fosse concesso,
ché già da i nostri chiuse eran le strade
per tutto, come Augusto avea commesso;
e se di lor non ci prendea pietade,
forse non rimanea fra tanti un messo
che potesse dar nuova al mesto padre
del figlio preso e de le uccise squadre.

16Come per terre ostili in questa e in quella
parte i soldati a le rapine intenti
soglion rubando gir ville e castella,
indi al campo condur greggie et armenti,
ma se a tempo di questo ebber novella
i lor nemici, e ch’escan con le genti
in ordinanza a traversargli il calle,
senza contrasto alcun volgon le spalle,

17così fecer gli Armeni e Tiridate,
come cercato non il suo vantaggio
ma il nostro avesse, il che fu de l’etate
colpa, e del re poco a mandarlo saggio.
Valerian, ch’ebbe di lui pietate,
da molta gente per tutto il villaggio
accompagnato e riccamente adorno,
libero al padre il fece far ritorno.

18Giunto era già l’imperator romano
vincitor con l’essercito là dove
rotto il Tauro l’Eufrate, in fra l’Amano
e quel superbo, verso il mar si muove,
né fu quattro giornate indi lontano,
che da più parti ebbe in un tempo nove
ch’avea Sipario tutta la sua gente
volta indietro a tornar verso Oriente.

19E ben fu vero, ché di Carra uscito
con tutta l’oste e trattosi in disparte,
la voce sparta avea d’esser fuggito
per tema, ma ciò fe’ sempre con arte:
questo intese Licinio e d’infinito
piacer colmo, per gire a l’altra parte
del fiume, un ponte gettar fece tosto,
che di giungerlo in tutto era disposto.

20Ma come Giove tal passaggio a sdegno
prendesse, mentre Augusto era sul ponte,
con folgori mostrò, d’ira gran segno,
già coperto di nubi l’orizzonte.
Visto la forza e non giovar l’ingegno,
ciascun tristo tenea bassa la fronte,
ché fuor d’ogni uso apparsi e tuoni e vento,
tutti n’ebber timor, doglia e spavento.

21Coro aggirò le navi e le sommerse,
e con pioggia e con lampi un folgor misto
l’insegna imperial per mezzo aperse,
e cener farsi chi l’avea fu visto;
caddero cose allor varie e diverse,
che tutte appo noi son d’augurio tristo,
per cui ciascun ne gìa pensoso molto,
fra mille cure il core avendo involto.

22Con minaccioso crin più d’una stella
vedeasi errante andar la notte e il giorno;
ferian del campo or questa parte or quella
fulmini, essendo il ciel chiaro d’intorno;
e mentre altera le febea sorella,
congiunta insieme l’uno e l’altro corno
splendea più chiara, ombrata da la dura
terra, mostrossi a l’improviso oscura.

23E mentre il biondo Apollo, alto e lucente,
scorrea veloce a mezzo giorno il cielo,
coprirsi il chiaro volto immantinente
veduto fu d’un tenebroso velo;
e steron tanto le sue luci spente
che a i mortali per l’ossa corse un gielo,
qual già in Micene al tempio di Tieste
stavan le genti e dolorose e meste.

24Temean che chiuso in quelle oscure grotte
dove la sera stanco si riduce,
o che le ruote in tutto o in parte rotte
del risplendente carro ch’ei conduce,
devesse rimaner perpetua notte,
lasciando il mondo ognor privo di luce.
Tremò la terra, e in guisa tal si scosse
che da i suoi nidi ogni animal si mosse.

25Di sangue apparve il mar cosperso e via
più del solito colmo di procelle;
lupi e fere diverse altre, qual pria
da Roma certe s’ebbero novelle,
di notte urlar ciascun chiaro sentia
tra l’alte mura in queste parti e in quelle,
né dentro a Roma sol ma in ciascun loco
de la gran Vesta dea si spense il foco.

26Per tutta Europa gli Indigeti e i Lari
pianger veduti fur dirottamente,
le statue e i doni offerti in su gli altari
caddero a terra tutti orribilmente;
nacquero parti così strani e rari
che l’uno e l’altro lor mesto parente
con mostruose forme spaventaro;
gli armenti e i greggi a gli uomini parlaro.

27Le teste alzaro da i sepolcri Silla,
Mario, Gaio, Neron, Comodo e tutti
quei che Roma, di lieta e tranquilla,
volsero in gravi e in dolorosi lutti.
Tosto i libri a guardar de la Sibilla
tre, creati per ciò, tristi ridutti
trovaro sol minaccie e sangue e morte,
ma non rimedio che salute apporte.

28L’Erinni uscite di quel triste fondo
cui l’atra Stige nuove volte serra,
orribili scorrean per tutto il mondo
annunciando e sangue e morte e guerra;
i cadaveri tutti allor, secondo
ch’eran ne le piramidi o sotterra,
dentro da l’urne ove fur quei sepulti
mandar sentiansi e gemiti e singulti.

29Fecer guerra due corvi arditamente,
rivolti a l’Orto l’un, l’altro a l’Occaso,
ma vincitor restò quel d’Oriente,
sendo l’occidental vinto rimaso;
né fu nessun tra la romana gente
cui non rendesse attonito quel caso,
oltra che gufi e nottole quel giorno
ululando scorrean per tutto intorno.

30Tosto chiamar Valerian per questo
fe’ gli auguri e d’Etruria ogni indovino;
di quei Nicandro il capo era e Nergesto
di questi, etrusco l’un, l’altro latino.
Costor commiser, visto il manifesto
lor danno irreparabile e vicino,
ch’ogni sì mostruoso inutil parto
fosse arso, e il cener tutto al vento sparto.

31Poi tutto il campo fecero d’intorno
tre volte circondar solennemente,
di notte l’una e l’altre due di giorno,
ritrovandosi Augusto ognor presente;
di sacra benda e di diadema adorno,
il sommo lor pontefice umilmente
venìa primier, seguiano i sacerdoti
porgendo preghi a Dio, mesti e devoti.

32Un bianco toro poi fra molti eletto,
sendo a l’altar condotto e già cosperso
di pietoso vin, spumante e schietto,
si gettò con gran furia da traverso;
ma pur caduto e quel dal ventre al petto
partito, le sue viscere al re perso
mostravan grande acquisto, alta ventura,
come a Licinio sol danno e sciagura.

33Non rosso il sangue qual naturalmente
suole, ma verde come tosco e nero,
veduto da ciascun fu chiaramente
madido e infetto il polmon tutto intero;
le vene, ch’eran volte a l’Oriente,
e che a Sipario portendeano impero,
tumide apparian tutte e minacciose,
l’altre vòte, sottili, quasi acquose.

34Ma quel che assai più rese afflitto e mesto
Nicandro, e che gli infuse aspro timore,
che sì turbò, sì spaventò Nergesto,
fu che due capi ritrovaro al core:
grande e sano era il manco, e manifesto
ben dimostrava il natural vigore,
ma il destro picciol, debole e corrotto,
vedeasi a pena e stava l’altro sotto.

Perenne ha concertato il tradimento con i Persiani e ha convinto Valeriano a proseguire la campagna (35-55)

35De le pretorie squadre allor governo
Perenne avea, che nato era in Numidia;
questi al nome roman nemico eterno,
e pien tutto d’inganni e di perfidia,
verso d’Augusto suo signor l’interno
odio nascosto ognor tenne e l’invidia,
fin che di spegner tanto ingorda e ria
sete gli aperse un giorno il Ciel la via.

36Fatto pur dianzi avea costui prigione
come quel ch’era in arme ardito e forte,
un perso ricco e saggio e gran barone,
molto amico del re, detto Fraorte,
il qual fu di condur quivi cagione
l’essercito d’Armenia a prender morte,
che di Sipario ad Artabasio messo
per far l’accorso e i patti era ito spesso.

37Con quel più volte adunque ebbe Perenne,
fonte di falsità, parole, e seco
di dargli Augusto in mano si convenne,
chiuso con tutti noi come in un speco;
tal cosa occulta leggiermente tenne,
ché l’uno e l’altro idioma greco
sapendo, uopo non fu mai ch’egli usasse
l’interprete, che poi l’appalesasse.

38Lasciato fu dal traditor latino
Fraorte, poi che il loco ebber conchiuso;
questo era un piano a Cabora vicino,
da monti alpestri d’ogn’intorno chiuso.
Seguia Cesare in tanto il suo camino
oltra l’Eufrate, timido e confuso,
che per gli auguri a noi pur dianzi apparsi
stava dubbioso, e non sapea che farsi.

39Vedea ciascun tutto smarrito in faccia,
mesto e pauroso andar con passo lento,
perché a seguir de i barbari la traccia,
com’egli era a seguir mai sempre intento,
alcun non è che di buon cor lo faccia,
non è chi lodi o chi ne sia contento;
per confortargli Augusto in alto salse,
ma non puoté parlar, tal duol l’assalse.

40Questo a i soldati più mestizia porse,
quinci crebbe timor, nacque bisbiglio,
talché Licinio, che di ciò s’accorse,
celando il duol sotto men fosco ciglio,
come in tai casi far solea, ricorse
a i suoi più cari a dimandar consiglio;
poi volto a me fe’ cenno che desio
avea d’intender prima il parer mio.

41Con più ragioni allor mostrai che fosse
meglio a fermarsi in qualche terra alquanto,
di quelle che di mura egli e di fosse
cinte avea prima; ove potrebbe in tanto
certo saper se pur di Carra mosse
le genti il re, dov’egli andasse e quanto
fosse lontano, o se pur finto avesse
la fuga, il che parea ch’ogni un temesse.

42Nicandro era nel campo, un uom d’etade
matura e saggio e d’ogni cosa esperto,
ché servo nato essendo e in povertade
fu poi del figlio di Mammea liberto,
perciò che, oltra la fede e la bontade,
scorto Alessandro il suo valore esperto
non pur liberto il fe’ ma con sublimi
gradi lo pose e l’essaltò fra i primi.

43Era Augure, e notizia d’ogni stella
avea, che in sé contien questo emispero,
e de gli augelli, o in questa parte o in quella
seppe al volar d’ogni futuro il vero;
vista Nicandro adunque la procella
che portendea gran strage al nostro Impero,
e de le stelle erranti e delle fisse
il minacciar, soggiunse anch’egli e disse:

44- Non sol più che l’andar laudo il fermarsi
in terra, o mio signor, munita e forte,
ma dico ch’oltra il Tauro anco a ritrarsi
ne sforza il Cielo e la malvagia sorte,
ché in tutto il mondo i gran prodigi apparsi
a te minaccian servitute o morte,
e le tue genti tutte in veste oscura,
Roma lasciando, aver qui sepoltura -.

45Balista alquanto ebbe il parer diverso
(quel de la vettovaglia era prefetto),
giudicando a seguir dietro al re perso
error, ch’anch’ei d’insidie avea sospetto,
ma che lungo l’Eufrate il camin verso
Seleucia esser devea tra gli altri eletto,
ch’ivi il fiume in gran copia e di lontano
porta ciò che bisogna a l’uso umano.

46Perenne allora, il traditor, che altero
era via più d’ogni altro e impaziente,
scritto avendo il malvagio suo pensiero
in fronte, ove si legge il cor sovente,
con gli occhi biechi e con lo sguardo fero,
di superbia gonfiato e d’ira ardente,
prendea le Parche e i Cieli e Giove eterno,
le stelle e il fato e gli altri divi a scherno.

47L’empio disse: – O Licinio, se il consiglio
di costor, che a la guerra pur son usi,
sia così torto io non mi meraviglio,
perché tema e viltà gli occhi ha lor chiusi,
talché una paglia, un granellin di miglio
fa lor grand’ombra, e son tanto confusi
che discerner dal ben non sanno il male,
ma per quinci fuggir vorrebbon l’ale.

48Chi vide mai timor più van, più stolto
di quel che i tuoi più saggi or tanto preme?
Vinto l’Armeno e il Perso in fuga volto,
già di noi l’Indo e il Battriano teme;
e quei senza arrossir punto nel volto,
viste le genti tue piene di speme,
quella in tema cangiar cercan che tolta
n’ha di man la vittoria alcuna volta.

49Chi dice “resta” e chi “la strada piglia
per lochi ove son ombre e frutti e fiori”,
chi “per fuggir sciogli al destrier la briglia”,
poi de gli altri mostrando esser migliori,
con fronte crespa e con severe ciglia
nuove religioni e nuovi errori
van seminando, e copron con tal velo
le fraudi lor: così dispone il Cielo -.

50Visto a lui più che a gli altri la risposta
toccar, disse Nicandro: – Ahimè, che il forte
destin pur vuol che tante genti a posta
d’un solo in breve tempo abbiano morte!
Dunqu’io la mente avrò sempre disposta
in qual si voglia più contraria sorte
di seguirti, o signor, poi che concesso
non m’è il rimedio, e di morirti appresso.

51Chi può il fato impedir? Veggio Caronte
su la ripa letea fermar la barca,
donde e Stige e Cocito e Flegetonte
per gir al regno di Pluton si varca;
veggio altere le figlie d’Acheronte,
veggio Lachesi e Cloto e l’altra Parca
tutte insieme troncar gli stami, unite,
ch’eran sostegno de le nostre vite -.

52Soggiunse allor quel falso e disleale:
– Oggi gli dèi non siano a mandar lenti
sopra te solo tutto quanto il male
ch’or n’hai predetto, e salvin l’altre genti;
per riveder la casa tua non vale,
o i figli tuoi, ch’altro non brami e tenti,
dir ch’uno augel minaccia il nostro campo,
un tauro morto, una saetta, un lampo.

53Che da man destra o da sinistra tuone,
dimmi, che nuoca al camin nostro o giova?
che in Ciel sia Marte o Venere o Giunone
qual è di noi che il sappia dir per prova?
Sol da principio fu il timor cagione
che il miser vulgo in tanto error si trova;
io, per me, signor mio, punto con loro
non vo, poi che te sol temo et adoro.

54Ma tu di questo tuo furor ch’è volto
più tosto a predir sempre il mal che il bene,
per or n’andrai (benché nol merti) sciolto,
che il sacro abito tuo sol mi ritiene;
ma quando il regno al re di Persia tolto
e ch’indi avrem fin su l’ircane arene
scorso, il divin favore in te non scenda
che mitra allor non ti varrà né benda.

55Per tardar il viaggio un giorno o due,
per far la via del monte o de la valle,
non mi dir poscia con quest’arti tue
che volti a Marte Venere le spalle,
o che Vulcan si cangiò in capra o in bue,
che vinse a Canne in tal giorno Anniballe,
o che sia dopo le calende o gli idi,
che di lontan farei sentirne i gridi -.

Al campo giunge l’infido persiano Surena, che racconta menzogne sulle disperate condizioni dell’esercito persiano di stanza a Cabora: Valeriano decide di andare ad attaccarlo (56-82)

56Mentre superbo il traditor minaccia
per coprir la sua falsa intenzione,
molti de’ nostri un perso con le braccia
dietro legate conducean prigione;
questi parea tutto smarrito in faccia,
ch’esser devea di tanto mal cagione,
come pria con Fraorte avea Perenne
conchiuso, allor che in suo poter lo tenne.

57Io, che un anno e più sendo in Persia stato,
de’ primi ogni un conosco, perché tosto
fatto Augusto Licinio al re legato
mandommi di trattar pace disposto;
mai non vidi colui né in giostra armato
fra i duci, né fra i grandi a mensa posto;
ma s’egli è nobil de la corte fuora,
forse alcun regno avea in governo allora.

58Da se medesmo il crudo perso in mano
di nostre genti a porsi era venuto,
sapendo che sia barbaro o romano
de’ nostri alcun mai non l’avea veduto;
giunto a Licinio – Ahimè, – gridò «che in vano
posso sperar d’alcuna parte aiuto!
Qual terra o mar ricever può Surena,
sì ch’ei non muoia o stia sempre in catena?

59Qual parte trovarò ne l’universo
secura, ohimè, che tra l’ausonia gente
non è il mio loco, e il perfido re perso
placar si vuol del mio sangue innocente? -.
Al costui grido ogni un tosto converso
l’essortammo a narrar perché dolente
versi lagrime tante, e di cui teme,
e in qual terra sia nato e dia qual seme.

60L’empio, fingendo allor dentro al pensiero
d’esser men tristi e men pensoso alquanto
– Son, – disse – Augusto, pronto a dirti il vero,
potendomi di questo almen dar vanto,
che se la sorte ria, il destin fero
nessun più di me afflige in terra, o tanto
misero sì, ma perfido e fallace
non mi farà, né mai falso e mendace.

61Negar non voglio adunque ch’io non sia
parto, e del seme d’Arsaco disceso,
donde ha principio la disgrazia mia
appresso il re, non perch’io l’abbia offeso,
nuova maniera il crudo e nuova via
cercando a spegner questo seme inteso,
con ogni crudeltà, con ogni inganno,
m’ha fatto oltraggio mille volte e danno.

62De i successori d’Arsaco un gran stuolo
l’empio ha fatto morir con diverse arti,
perché sicuro il regno abbia il figliuolo
senza temer che più ritorni a i Parti;
né di tal sangue alcun, fuor che me solo,
poria trovarsi o in queste o in altre parti,
sendo in man nostra prima, oltra il gran regno,
ogni governo et ogni officio degno.

63E s’io non mi fingea stupido e scemo
d’ingegno e di discorso e d’intelletto,
giunto sarei con gli altri al punto estremo,
ma questo il re spogliò d’ogni sospetto;
Fraorte al fin, ohimè, che a dirlo tremo,
contra il mio seme d’ira acceso il petto,
che Artabano fe’ già suo padre porre
prigione e star più dì dentro a una torre,

64costui per vendicarsi adunque un sprone
a i fianchi era del re la notte e il giorno,
dicendo esser palese fizzione
ogni opra mia, con suo gran danno e scorno,
perch’io solo attendea l’occasione
che il regno a i Parti ancor fesse ritorno.
Ma per narrarti brevemente il tutto,
fui preso un giorno e innanzi al re condutto.

65Quivi era Tisaferne il capitano
de le sue genti, e quivi era Fraorte,
che il viso percotendomi con mano
dicea: “Non basta a te solo una morte,
ma se non scopri ciò che del romano
imperatore il messo oggi ti apporte,
miser ti converrà morir di cento
morti ognora, con strazio e con tormento”.

66Benché innocente e mesto e sbigottito,
restai per tema e pallido nel volto,
né mi sovenne alcun miglior partito
che di seguir fingendo per lo stolto.
Fraorte allor “Se d’esser schernito
da questo veder vuoi,” disse al re rivolto,
“venir fa meco alcun de’ primi tuoi,
che scoprirem gli occulti inganni suoi”.

67Sipario allor mandò Timandro e Argillo
seco al mio albergo, e quivi in un momento
portò un forziere e in mia presenza aprillo,
dove eran gemme, e d’or vasi et argento,
veste romane e lettre col sigillo
imperial: quest’era un tradimento
ch’avea contro di me Fraorte ordito,
il maggior che mai fosse altrove udito.

68Da te scritte parean, parea che a pieno
mi avvisassi per quelle ogni successo,
essortandomi a dar tosto il veneno
al re di Persia, come avea promesso,
che in premio di quest’opra il regno armeno
tutto dato m’avresti e il medo appresso.
Poscia parea che tu lodassi molto
questa mia invenzion di far lo stolto,

69dicendo come anticamente ancora
co’ suoi tutti di Roma un re fu spinto
da un saggio cittadin che in fino allora
privo d’ingegno e matto s’era finto.
Talché in breve seguendo il punto e l’ora
nascer potria che da me fosse estinto
Sipario il padre, e l’uno e l’altro figlio,
traendo me di tema e di periglio.

70Molte altre cose scritte erano in quelle
che intender non potei, perché ogni un forte
gridando, sì che il grido andò a le stelle,
volea ch’io fossi condennato a morte;
ma perché di tal fraude udir novelle
mai non potesse alcun, quindi Fraorte
levar mi fece e sì chiuder la gola
che gridar non potessi o dir parola.

71In tanto era a trovar Sipario intento
qualche maniera inusitata e nuova
per darmi nel morir pena e tormento,
che nulla più gli aggrada e più gli giova;
quel bue già da Perillo in Agrigento
trovato, allora ch’ei primo fece prova
se l’opra riuscia chiuso in quel foco,
fora a lui parso in mia persona un gioco.

72Ma perché il Ciel de gli innocenti ha cura,
spezzati ho i ferri e i ceppi e son fuggito,
sol caminando per la notte oscura,
nascosto il giorno in loco ermo e romito,
via più che del morir sempre e in paura
d’alcun nuovo martir ch’egli abbia ordito.
Deh prendi, o re, ti prego, per quel Dio
che scorge il ver, pietà del dolor mio.

73Tu sai pur se mai teco intenzione
avessi, o da te lettre o doni o messo
per questa o qual si voglia altra cagione,
o se d’avvelenar t’ho il re promesso;
ma, lasso me, che valmi aver ragione
se di narrarla pur non m’è concesso? -.
Così parlò, presente ogni un, Surena,
ma con tal pianto ch’era inteso a pena.

74Commise Augusto allor che fosse sciolto
da que’ suoi che le braccia gli legaro;
poscia con grato e con benigno volto,
per trarli fuor dal petto il duolo amaro
– Fate – disse – pensier d’esservi tolto
da i Persi e dato a noi, che sempre caro
vi avrem come fratello e come figlio,
né viverete in così gran periglio -.

75Poi quanti erano i Persi e se lontani
fosser gli chiese, e dove il re ne gisse;
allora il traditor, cui già le mani
sciolte avean, quelle al Ciel levando disse:
– O dèi e dee, che dentro a i petti umani
scorgete i cuori, o stelle erranti e fisse,
o luna, o sol, voi testimoni chiamo
se vita o morte al re di Persia bramo.

76Ma perché Augusto il mio signor ciò chiede,
da cui conosco in don la propria vita,
ch’io servi a lui più che a Sipario fede
mi sforza l’alta sua bontà infinita,
oltra che il giusto e il debito richiede
ch’io debba quella espor sempre in aita
d’ogni suo più vil servo, e vuole il dritto
che l’obligo nel cor mi resti scritto.

77La strage udita de le genti armene,
e che l’Eufrate vincitor passato
eri già, ribellò la Persia Eumene,
da Sipario al governo ivi lasciato.
Come ne la contraria sorte avviene,
l’animo suo primier costui cangiato,
anzi scoperto in breve tempo il regno
tutto usurpò con forza e con ingegno.

78Sipario, allor, da quella viva speme
che di farsi monarca avea caduto,
fu costretto a mandar fin ne le estreme
parti di Scizia, onde impetrasse aiuto,
ché del re di Carmania ancora teme,
a cui chiesto pur dianzi avea tributo
con minaccie di venti o di trent’anni,
e fattogli più volte oltraggi e danni.

79Contra d’Eumene con la maggior parte
di sue genti Archelao fe’ gir in fretta;
da Cabora egli in tanto non si parte,
che in pochi giorni quivi aiuto aspetta
di genti mede, armene, ircane e parte,
le quali ognor con nuovi messi affretta,
perciò che in tanto il misero si trova
con pochi, e quei gente inesperta e nuova.

80E di quei pochi ancor poco si fida,
né di ragion fidar molto sen puote,
che Tisaferne, lor capo e lor guida,
è di quel rio che lo tradì nepote.
Così par che di noi fortuna rida,
così volge l’instabili sue ruote:
ecco al fondo colui che un giorno prima
seder superbo fu veduto in cima -.

81Perenne il traditor soggiunse allora:
– Dubbio non è che a Cabora il camino
volger si de’, né far più qui dimora,
ché l’aiuto a Sipario è già vicino;
dunque prima che giunga e fin che fuora
egli è di speme, e misero e meschino,
pigliam la strada e sia Surena duce,
se il re consente, a la diurna luce -.

82Quivi di nuovo allor contesa nacque
tra noi, che molti a quel fede non diero,
né dal maggiore al minimo alcun tacque
quanto chiudea nel cor fido e sincero;
ma perché a Cesare di partirsi piacque,
ceder convenne al parer falso il vero,
e fu seguito il perfido là dove
per noi successer l’infelici prove.

Surena conduce l’esercito in una gola, dove vengono attaccati dai Persiani, che ne fanno strage immensa (83-142)

83Senza dimora adunque il dì seguente,
tosto che le dorate chiome bionde
spiegò l’aurora, e il bel carro lucente
co i destrieri cacciò Febo da l’onde,
Surena ci guidò verso Oriente,
per lochi privi d’arbori e di fronde,
dove non era fiume o colle o riva,
né pure un picciol cespo d’erba viva.

84Un deserto era questo, arido e piano,
sì che di morte avean tutti paura,
vistol, quanto guardar potean lontano,
grande in guisa che eccede ogni misura.
Quivi doler s’udian le genti in vano,
quivi cangiar l’usata lor figura,
ché il disagio ogni uom fe’ languido et egro,
e il troppo ardente sol qual carbon negro.

85Più dì si caminò per quel deserto,
dove perì de i nostri una gran parte;
si giunse al fin dove un gran monte et erto,
come fatto da gli uomini per arte,
chiudea nel mezzo un largo campo aperto,
con le sponde d’intorno in giro sparte
che poi si congiungean, tal che un sol calle
stretto varco facea dentro a la valle.

86Non fu lento a seguir tra quei duo monti
alcun del nostro essercito Surena,
visto che d’erbe, d’arbori e di fonti
tutta la valle era abondante e piena;
così scender gli augei sogliono pronti,
scorta nel prato l’esca o ne la rena,
ma non sì tosto a prenderne son volti
che si ritrovan ne la rete involti.

87Quivi, restauro alquanto del disagio
prendendo noi, con strali e pietre e dardi,
saliti d’ogni intorno a lor grand’agio,
ecco i Persi apparir feri e gagliardi.
Tosto Augusto cercar fe’ del malvagio
Surena, di sua fraude accorto tardi,
ma quel più tosto che da noi fuggito,
come non so, dir si potea sparito.

88Comandò che affrettar si debba il passo,
che d’uscirne in tal guisa avea speranza,
ma ritrovò da l’altra parte il passo
chiuso, e in modo alto che le nubi avanza.
Compreso adunque ogni un pauroso e lasso
che i Parti a starsi in fra le donne in danza
strugger potean l’essercito latino,
sen gìa tristo e dolente a capo chino.

89L’alto Imperio di Roma in tal periglio
non si trovò giamai ne gli anni a dietro;
subito Augusto addimandò consiglio,
e fu conchiuso ch’ei tornasse indietro,
ché i Persi d’ogni ’ntorno a men d’un miglio
su i monti ne chiudean com’acqua il vetro,
privo di vettovaglia essendo il campo,
talché altra via non era al nostro scampo.

90Tornossi adunque, ma trovammo in tanto
con sassi, arbori svelti e tronchi e pali
quel sentier chiuso i Persi aver con tanto
studio che uscir non si potea senz’ali.
Chi potria le querele, i gridi e il pianto
narra de’ nostri? e quanti furo e quali
i sospir che accendean l’aria e i lamenti
che al ciel salian con dolorosi accenti?

91Ma per contrario chi potria narrarte
de’ barbari, o regina, il riso e il gioco,
che cento miglia il monte da ogni parte
risonava, e splendea per tutto il foco,
mentre con gli archi, come quei c’han l’arte,
scemando il nostro campo a poco a poco
venian di gente, e più crudel l’assalto
rendea l’esser noi bassi e quegli in alto?

92C’ha visto in Roma nel teatro cento
tigri o leoni, o simili altre fere,
cui dotto e cauto arcier con ardimento,
mentr’ei sicuro stassi in alto fère,
mugghiando gridi mandar pien di spavento,
e le saette minacciose e fere
romper co’ denti e con spumanti labbia,
spargendo il sangue al fin morir di rabbia,

93di veder puote imaginarsi allora
fremer d’ira l’essercito romano,
che cento e mille e più ne cadean l’ora,
sendo ogni aiuto, ogni consiglio vano.
Pur come avvenir suol che l’uom talora
quanto da la speranza è più lontano
tanto si desta in lui maggior virtute,
che suol sovente partorir salute,

94così Licinio fe’, così ciascuno
ancor, che indarno la virtù natia
quel giorno fu, né a produr valse alcuno
frutto, mercé de la fortuna ria.
Stava Sipario in alto sì ch’ogni uno
potea vederlo, e seco in compagnia
la nobiltà di Persia avea, che intenta
godea del nostro mal, lieta e contenta.

95Contra costor si fece impeto in fretta,
tosto che fur da tutto il campo scorti,
per non esser almen senza vendetta
sì come augelli in sacrificio morti;
tutta la gente nostra unita e stretta,
poi che rimedio alcun non è che apporti
salute, in tutto omai priva di speme
sul monte gìa, d’un cor congiunta insieme.

96Quivi né strada, né sentier non era
ma balzi solo e scheggie e pietre e spine;
ma i nostri, che già l’ultima lor sera
giunta vedeano, e di lor vita il fine,
con animoso cor, con mente altera
quell’erto monte e quell’aspre ruine
con tal velocità salian che tardi
appo lor foran cervi e tigri e pardi.

97Visto il re perso la romana gente
salir con tal furor sopra quel sasso,
mandò sei mila arcieri immantinente,
che ne tenesser risospinti al basso;
ma i nostri avean già fermo e fisso in mente
di non ritrarre un dito adietro il passo,
con l’arme in man parendo lor men greve
che vilmente morir di fame in breve.

98Non fur là dunque, ove eravammo intenti
di gir, quegli a vietarcelo bastanti,
che se ben ne cadean diciotto o venti
per le saette lor, tosto altrettanti
più caldi di furor, più d’ira ardenti
nel loco istesso far vedeansi avanti,
talché gli arcieri inordinati e sparsi
smarriti cominciàr tutti a ritrarsi.

99Mentre Sipario fuor d’ogni periglio
credea il tutto mirar con suo diletto,
giunse un perso correndo, che vermiglio
di sangue cadde morto al suo cospetto,
ma de gli suoi, pria che chiudesse il ciglio,
gli avea la fuga e lo spavento detto,
e che il romano essercito feroce
venìa con strida e con terribil voce.

100Questo al re non fu nuovo perch’ei stesso
con gli occhi in parte già l’avea veduto,
e già mandato a Tisaferne un messo
che a lui pur dianzi in fretta era venuto;
e tutta l’oste in ordine avea messo
chiaro d’ogni roman già conosciuto
l’animo, che morendo invitto e forte
far vendetta volea de la sua morte.

101Sipario, ch’era intento al suo vantaggio,
si volse alquanto a la sinistra mano
perché ferisse con l’ardente raggio
ne gli occhi il sol l’essercito romano;
l’Austro ne fece ancor più grave oltraggio
soffiando impetuoso, e di lontano
seco portando arena e polve mista,
sì densa che a ciascun togliea la vista.

102Contra di noi già i barbari feroci
movendo gir facean la polve in alto;
già d’alte strida e di confuse voci
rimbomba il suon nel cominciar l’assalto;
già d’acute saette e di veloci
strali coperto intorno era lo smalto;
l’armi percosse già mandar faville
vedeansi, e cader morti a mille a mille.

103Più di cento romani in una schiera
venian sprezzando innanzi a gli altri morte:
tra questi Marco e Sergio e Matern’era,
Scribonio il fido e Pompeiano il forte;
convien che Protolisio adunque pèra,
figlio d’Eumene, e ch’ei subito apporte
nuova del caso a l’infernal nocchiero,
che del nostro tardar stava in pensiero.

104Marco, del seme d’Antonin disceso,
ferì con sì gran forza il giovenetto
che morto in terra lo mandò disteso,
versante come un rio sangue dal petto;
Timandro, che l’amò, nel core acceso
d’ira e tutto infiammato ne l’aspetto,
per vendicarlo andò, ma Pompeiano
se gli fe’ contra con la spada in mano.

105D’Erennia, figlia del buon duce Decio Augusto,
Pompeian meco in ripa al Tebro nacque:
questi dove si giunge il capo al busto
ferì Timandro sì che morto giacque.
E tu coppia gentil, Giustino e Giusto,
nati ad un parto ove il Metauro l’acque
con l’Adria mesce, allora tai festi prove
che intese non fur mai né viste altrove.

106Licio, Dario, Sarpedone, Arimanto,
cari tutti a Sipario, di sua mano
Giusto uccise, e Giustin fece altrettanto,
che alcun di lor mai non diè colpo in vano;
ma ciò veduto Ilermo si diè vanto
di vendicar la morte del germano:
quest’era Ormisda, a cui Giustin divise
la testa, e inanzi a gli occhi suoi l’uccise.

107Mentre Giustino è intento a ferir Sita,
nobil tra i Persi, ecco a due mani Ilermo,
per trarlo ad un sol colpo fuor di vita,
con la spada alta e sopra i piedi fermo;
ma tosto Giusto al fratel porse aita,
talché il perso a fuggir non ebbe schermo,
ferendo il roman con tal valore
che gli passò l’acuto ferro il core.

108Segue la gentil coppia ardita e franca,
e lascia or questo morto or quel ferito,
né si dimostra per gran prove stanca,
facendo a gli altri un valoroso invito:
Quinci l’animo a i Persi in tutto manca,
quinci divien ogni Roman più ardito.
Non men fa Sergio e Marzio e Pompeiano,
Fulvio, Claudio, Perpenna e Claudiano.

109Già il barbarico stuol pauroso in questa
parte fuggia, ma il franco Tisaferne,
col ferro nudo in man, con l’elmo in testa,
là dove il danno esser maggior discerne
corre con tal furor, con tal tempesta
che risonar fa gli antri e le caverne,
dal capo al piè di lucid’armi adorno,
coi più forti guerrier di Persia intorno.

110Caramante, Carange, Unel, Fraorte
un di Persia, un d’Arabia, un medo, un siro,
che tutti avean grado onorato in corte
seguiano, e Zamma e Gebro e Uranio e Ciro;
venìa Sipario appresso e seco il forte
Carano, un altro Zamma e Filomiro,
molto al re grati, e poscia un perso e un greco,
suoi tesorieri, Androfilo e Paveco.

111Di quel Paveco fu nepote questo,
cui sendo a casa già Sanno arrivato,
per non aver sorella o figlia mesto,
la sua moglie a giacer gli pose a lato,
e questo fe’ scorgendo manifesto
quanto al seme di quel fosse inclinato,
a concedere il Ciel stato e ricchezza,
per cui la fama oggi e l’onor si sprezza.

112Paveco adunque de la sua consorte
nato e di Sanno, vil nutrì Artoserse,
che al suo signore Artabano diè morte,
presa l’occasion che se gli offerse,
e tanto in breve ebbe felice sorte
che riportò ne le contrade perse
la corona e lo scettro d’Oriente,
che tien Sipario il figlio anco al presente.

113Tra questi Orode e Cosroe e Surena
tutti eran a seguir Sipario intenti.
Di tronche membra e d’armi rotte è piena
la terra, e l’aria di dogliosi accenti.
Quel morto in tutto cade e questo a pena
vivo, e per tutto son strida e lamenti.
Chi l’asta ha in man, chi l’arco e la saetta,
chi di sé, chi d’altrui vuol far vendetta.

114Già in quella parte il mio signor Augusto
giunto a Sipario fatto era vicino,
sì a tempo che far cose vide a Giusto
miracolose, col fratel Giustino:
a gara di que’ duo forte e robusto,
si sforza di mostrarsi ogni Latino;
questo Uranio e Carange uccise, e quello
senza capo cader fe’ in terra Unello.

115Con l’arco in man dopo un cipresso Gebro
traffisse il petto a Giusto, e tra sé questo
disse: – Non vuo’ che mai più veggia il Tebro -,
ma in vendicar sua morte il Roman presto
talmente ferì lui che a guisa d’ebro
non sapea s’era addormentato o desto;
cenno fe’ di cader più volte e appresso
Giusto al fin cadde a piè di quel cipresso.

116Ma di Giustin chi potria dir l’eterne
prove, poi ch’ebbe Giusto in terra scorto?
Ecco Zamma venir con Tisaferne,
ch’avea l’un Sergio e l’altro Claudio morto:
percosse il primo sì che non discerne
s’è notte o giorno, sì nel viso smorto
divenne, e sì di sangue e molle e tinto
che quasi fu per rimanerne estinto;

117raddoppia il colpo il cavalier romano
d’ira infiammato, e minacciando forte
– Ogni tua forza, ogni tuo ingegno vano
fia – disse – oggi a scampar da me la morte -.
Ma Tisaferne a lui la destra mano
spiccò dal braccio e disse: – Ecco la sorte
riuscita contraria in tutto a quanto
tu pur dianzi di far ti desti vanto -.

118Giustino a quel parlar punto non bada,
disposto a mantener quanto avea detto,
ma con quell’altra man colta la spada
lasciò senz’armi a Zamma il capo e il petto;
convien che ad un sol colpo in terra cada
l’elmo e l’usbergo, poi che in sé ristretto
ferillo sì che al barbaro il timore
di neve il volto e fe’ di ghiaccio il core.

119Ma non è per questo ancor Giustin contento:
quanto più puote alza la spada in alto,
con gli occhi sol dove colpirlo intento
che fin conforme al vanto abbia l’assalto;
quando ecco Tisaferne in un momento
gettarli altiero su l’erboso smalto
quell’alta man levata in aria, mentre
pensava di ferir la testa o il ventre.

120Giustin, che al tutto vuol di questa impresa,
benché sia privo d’ogni man, l’onore,
tosto chinossi e stretta in bocca presa
la spada, a Zamma la cacciò nel core;
poi sol con l’alma a la vendetta intesa,
contra Argillo pien d’ira e di furore
correndo, in guisa il petto gli traffisse
che cadde, né mai più parola disse.

121Tisaferne, che Regillo amava a paro
di se stesso, con impeto sì fiero
ferì Giustin, che appresso al fratel caro
cadde (e seco l’onor del nostro Impero).
Nessun trovar potea schermo o riparo,
sì destro e forte e cauto era il guerriero:
l’un dopo l’altro Marco, Arrio e Traiano
uccise, e il fido e saggio Giordano.

122Stoico era questo e capo in quella scola,
che giunto a i sette e sette lustri appresso
mai fuor di bocca non gli uscì parola
che fosse in danno altrui o di se stesso;
ma il crudo perso gli forò la gola
ch’error né fallo avea giamai commesso.
Poi volto altrove e Fulvio e Marzio uccise,
ch’un Zamma e morto l’altro avea Cambise.

123Scorge da lunge Pompeian, che in terra
Pacoro e Carmante avea già posto,
feriti in guisa che ad alcun più guerra
far non potran, perché moriron tosto:
contra quel Tisaferne si disserra
(che d’ucciderlo al tutto era disposto)
come fulmine rompe, atterra e fende
ciò che di gir gli vieta ov’egli intende.

124Scontrò primier d’ogni altro Ingenuo, figlio
d’Ingenio, che d’Illiria era prefetto:
del sangue perso il giovane vermiglio
ferì, ma indarno il barbaro nel petto;
quel lui superbo sopra il destro ciglio
percosse e disse: – Or si vedrà l’effetto
a chi tocchi di noi d’aver la palma -;
cadde prima il roman di spirto e d’alma.

125Visto poi Mario, e seco Antonio, a questo
lasciò in tal guisa il petto e il cor traffitto
che morto cadde, e fu caso molesto
al mio signor, che ne rimase afflitto;
Mario col capo tronco anch’ei fe’ mesto
morendo Emilian, ch’avea d’Egitto
l’impero, a cui sendo egli unico figlio
n’ebbe il cor tristo e lagrimoso il ciglio.

126Tra l’essercito perso e tra il latino
occhi più vaghi e più leggiadro viso
di Mario altri non ebbe, il cui destino
volse che sul fiorir restasse ucciso;
vistosi questo il barbaro vicino
venir col guardo incontra torto e fiso,
e ch’ivi alcun non è che possa aitarlo
gettossi in terra e incominciò a pregarlo,

127dicendo: – O cavalier, s’unqua pietade
forza ebbe in core uman, quella ti muova
a risguardar la mia sì verde etade,
e la faccia che ugual forse non trova;
tuo prigion fammi, e poi ne le contrade
d’Egitto al padre mio danne la nuova,
che in vece ivi d’Augusto il tutto regge,
ricco d’argento e d’or, ricco di gregge.

128Da questo, a cui son figlio unico e caro,
gran copia avrai d’oro e d’ogni altra cosa,
e Quintilla gentil, che in pianto amaro
per me sta notte e dì, cara mia sposa,
ti manderà dal Tebro un ricco e raro
dono; adunque la spada, o guerrier, posa -,
ma il barbaro più ch’aspe e sordo e crudo
l’uccise, e d’armi fe’ lasciarlo ignudo.

129Già Tisaferne giunto in quella parte
dov’era Pompeian, benché ognor forte
pur giunse allor, visto il bisogno, l’arte
al solito valor per dargli morte;
ma il cavalier roman quel giorno Marte
sembrò, bench’ebbe al fin contraria sorte;
quale il troiano Ettorre o il greco Achille,
ciascun di lor valea per mille e mille.

130Primo il perso a ferir fu Pompeiano,
che Ciro avea nel suo cospetto ucciso,
ma fu contra di lui quel colpo vano,
che il capo e il collo ancor gli avria diviso;
fattosi indietro il cavalier romano,
che al suo vantaggio ognor l’occhio avea fiso,
nel calar giuso il grave colpo colse
Ciriade in guisa che di vita il tolse.

131Nato in Roma, costui fu sì perverso
che, ucciso avendo il padre crudelmente,
fuggì di gemme e d’or carco al re perso,
e gli infiammò contra di noi la mente,
ché di veder bramava l’universo
gir sottosopra, e posto in fiamma ardente,
e che la terra il più sublime loco
salisse, e ruinasse al centro il foco.

132E il temerario ardir suo crebbe tanto
che di corona imperial la chioma
cinto, e vestito di purpureo manto,
facea chiamarsi imperator di Roma;
quel colpo, fatto al perso amaro pianto
versar, tra i più notabili si noma,
che in fallo un fianco il barbaro divise
del primo amico suo, talché l’uccise.

133La giustizia di Dio, ch’unqua non erra,
volse che allora Tisaferne errasse,
perché mostro sì rio sopra la terra
con danno universal più non restasse:
volse che ucciso fosse in quella guerra,
ch’egli avea ordita, e da chi più l’amasse,
scendendo il colpo giù nel lato manco
tutto gli aperse e gli divise il fianco.

134Colmo di sdegno il barbaro superbo
gridò, poi ch’esser quel morto s’accorse:
– Non più là d’ora a vendicar mi serbo -,
e l’errante sua man rabbioso morse;
su l’elmo in tanto un grave colpo acerbo
gli diede Pompeian, tal ch’egli in forse
fu di cader più volte in terra essangue,
e gli scoppiò fuor da l’orecchie il sangue.

135E se non fosse che la spada in mano
al buon guerrier giù nel calar si volse,
fora la forza e il valor stato vano
di Tisaferne, ma di piatto il colse.
Quel ferì pur su l’elmo Pompeiano,
talché da capo al piè tutto si dolse;
cadde l’elmo in due parti e il capo ignudo
lasciò al roman, sì fu il colpo aspro e crudo.

136Visto ch’era senz’elmo ecco Fraorte,
bramoso aver di quella pugna onore,
correr con fretta, ma per dargli morte
uopo era d’un guerrier di più valore;
mentre il braccio avea in alto, acciò che apporte
scendendo in giuso poi colpo maggiore,
Pompeian gli cacciò mezza spada
nel ventre, onde convien che morto cada.

137D’ira allor Tisaferne acceso in viso,
ben mostrò l’alto suo valor stupendo,
che in fino a i denti Pompeian diviso
senz’alma in terra fe’ cader, dicendo:
– Del mio compagno c’ho pur dianzi ucciso,
l’ombra a placar con la tua morte intendo -.
Poscia Materno uccise, Aulo e Perpenna,
che in van colpo non scende ov’egli accenna.

138Vide Clearco il forte che, vermiglio
di sangue, tanti barbari uccidea;
Clearco, poi che d’Artabasio il figlio
prigion fece, in gran stima Augusto avea:
loco gli diè tra quei del suo consiglio
e in vita il fe’ vicario d’Eritrea,
et era ancor per maggior cose averne,
se uscir potea di man di Tisaferne.

139Ma chi potrebbe annoverar ciascuno
che giù mandò costui nel regno cieco?
Toante uccise, e fu molto opportuno
il giunger suo, perché salvò Paveco;
de l’Augustal Toante era tribuno,
ancor che non roman fosse ma greco,
che de la bella Argilla e di Piroo
nacque, là dove il mar fende Acheloo.

140Perenne in tanto giù verso la valle
ritratto s’era e, tre mila africani
seco avendo, a ferir dietro a le spalle
cominciò il traditor tutti i Romani:
se dal barbaro alcun per torto calle
scampa convien che a lor dia ne le mani,
e già le nove de le diece parti
di noi morte giacean da i crudi Parti.

141L’esser rinchiusi come augelli in gabbia,
che uscir non sen potea senz’ali e piume,
del sol gli ardenti rai, l’arida sabbia
che ferian gli occhi e ne toglieano il lume,
de l’african l’avidità, la rabbia
che dentro par che ognor roda e consume,
oltra che i Persi eran tre volte tanti,
cagion fur che sia Roma e il mondo in pianti.

142Ma non per questo l’ebbero da riso
i Persi, ancor che piangano i Romani,
ché, se ben fu di noi ciascuno ucciso,
se tinse il roman sangue i colli e i piani,
non mostrò alcun però mai tema in viso,
ma pronto sempre in adoprar le mani
sì fu ciascun, pria che restasse estinto,
che a piè rimase il vincitor del vinto.

Costante ha tentato di liberare Valeriano ormai catturato, ma è finito accerchiato e solo l’intervento di Venere l’ha posto in salvo (143-158)

143Ma d’Augusto non posso interamente
dir come al fin restasse in man de’ Persi,
poi che l’alto dolor c’ho sempre in mente
mel vieta, e fa ch’ognor lagrime versi,
oltra che allor non mi trovai presente,
quinci doglia maggior nel cor soffersi,
quando al ritorno mio vidi poi trarlo
da quel legato, e ch’io non puoti aitarlo.

144Sappi, o regina, che dal dì che armato
di Roma uscìo con l’oste il mio signore,
in qual si voglia caso sempre a lato
m’ebbe, la notte e il giorno a tutte l’ore,
non men feci quel dì che il nostro fato,
privò d’ogni trionfo e d’ogni onore
Roma, a tal che su gli omeri mi stanno
l’onor perduto e l’acquistato danno.

145Tosto che di Surena fu scoperto
e di Perenne il gabbo, io mi disposi,
chiaro compreso il nostro eccidio aperto,
di cercar quei, che già s’eran nascosi;
e perché ugual fosse al castigo il merto,
se ugual trovar poteasi, allor deposi
ogni altra cura, ogni altro mio pensiero
perché alcun mai non se ne andasse altero.

146Ma poi che indarno scorsi tutto il giorno,
con gli occhi a ritrovargli sempre intenti,
cercato avendo il campo d’ogn’intorno
con strage ognor de le nemiche genti,
ciascun di lor d’altere spoglie adorno
visto in gran parte noi già rotti e spenti,
ridendo e motteggiando insieme a paro
dinanzi a gli occhi a sorte mi arrivaro.

147Strinsi la spada e corsi, e l’africano
da me fu prima d’un mandritto colto,
talché vendetta fei d’ogni romano
partitogli per mezzo il capo e il volto;
l’altro, che più nel piè che nella mano
sperò, già s’era intanto a fuggir volto,
cui seguir volsi, d’ira acceso in tutto,
disposto a dargli di sua fraude il frutto.

148Del monte al fin lo giunsi a la part’ima,
et – Ecco – dissi – o traditor che in vano
sperasti andar superbo de l’opima
spoglia d’Augusto e di ciascun romano -.
Poi di due forti abeti a l’alta cima
stretta gli avvinsi e l’una e l’altra mano,
mentre Neron, Montio e Sereno lieti
di tal vendetta, giù tenean gli abeti.

149Talché non pur la man ma il destro e il manco
piè con l’aiuto lor gli avvinsi ancora;
ma pria divenne ogni un sudando stanco,
poscia aprimmo le mani tutti ad un’ora:
gli arbori tosto l’un da l’altro fianco
stracciaron sì che il cor mostrava allora,
perché al rizzarsi quei dieron tal crollo
ch’ei partito restò da l’anche al collo.

150Trovai nel ritornar proprio in quel loco
dove pur dianzi avea Perpenna ucciso,
che Memmio e Claudian l’istesso gioco
fattogli, anch’ei per mezzo era diviso;
quivi mi stetti a riguardarlo un poco,
poi dissi alzando e Dio le mani e il viso:
– Fra tante angustie e tai pur mi conforta
visto che in Ciel non sei, Giustizia, morta -.

151Giunsi poi dove al santo vecchio quelli
barbari crudi avean le man, le braccia
e il collo avvinto, e la barba e i capelli
stracciarli, ohimè, vidi, e sputargli in faccia.
Codro e Marco, e due Flavi e due Marcelli,
cui sol pensando il cor m’arde et agghiaccia,
dinanzi a gli occhi suoi, che grati e fidi
sempre gli fur, scemar del capo vidi.

152Ritrovai quivi un grande orribil monte
di corpi estinti, e d’uman sangue un lago,
ch’ardito volse ogni Roman la fronte
dinanzi al suo signor di morir vago.
Nicandro, che patì gli scherni e l’onte
allor che fu di tanto mal presago,
vecchio sì che a destrier teneasi a pena,
trar vidi avvinto anch’ei d’aspra catena.

153Un altro vecchio, Aureliano detto,
grato a Licinio e venerabil molto,
gli fu condutto ignudo nel cospetto,
di ferro e piedi e mani e collo involto;
fermo Augusto a guardar co i piè nel petto
ferillo un perso, e con le man nel volto,
e per gran spazio in terra strascinollo
con la catena ch’avea stretta al collo.

154Pensa quant’ira allor, regina, e quanto
sdegno m’assalse e quanta doglia il core,
ma sendo e le querele indarno e il pianto,
quelle in rabbia cangiai tosto e in furore;
bench’io sapessi non poter far tanto
che in libertà tornasse il mio signore,
pur mi disposi al fin di morir seco,
per soverchio dolor rabbioso e cieco.

155Cieco e rabbioso con la spada in mano,
qual ferito cinghial, dove la schiera
sentì più folta corso, e fei Carano
gire a stancar Tisifone e Megera;
poscia Paveco, che pur dianzi in vano,
da le man di Toante fuggit’era,
Filomiro fu il terzo, Erode il quarto,
che tanto avean del roman sangue sparto.

156Ma Tisaferne, in quella parte volto
tosto che di costor la morte intese,
con un gran colpo mi ferì nel volto,
che sopra il braccio destro ancor discese;
e di goder m’avria quest’aura tolto
se non che a tempo allor Dio mi difese,
acciò che sol per le mie man la morte
quel mostro avesse, più crudel che sorte.

157Contra lui dunque di novel furore
colmo, presi a due man la spada e strinsi,
e tutta quella gli cacciai nel core
e in fino a l’elsa del suo sangue tinsi.
Così, presente Augusto mio signore,
quel nemico sì fier di Roma estinsi:
mostrò Licinio gran letizia averne,
che a legar lui primier fu Tisaferne.

158Caduto al fin costui, che d’Oriente
fu riputato onor, gloria e sostegno,
tutti quegli altri, ogni un di rabbia ardente
e pien d’ira, e di colera e di sdegno,
fatto avrian di me strazio orribilmente
se non venìa giù dal celeste regno
Venere, e perché allor ciò non sofferse
con nube oscura e densa mi coperse».