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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro VII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 20.07.15 18:19

Argomento
Dopo molti sospiri e molti pianti,
mentre i cuori più voti hanno di speme,
lega Imeneo, lega Ciprigna insieme
con leggittimo nodo ambo gli amanti.

Dopo il lungo racconto gli amanti si separano per la notte (1-8)

1Vittoria udiva il cavalier sì attenta
che da la bocca sua tutta pendea;
ma quel, colmo di doglia, e fioca e lenta
voce a pena dal petto fuor traea;
pur di seguir si sforza, e in van pur tenta
di nascondere il duol, ma gli cadea
giù da gli occhi tal pianto e da la faccia
che a suo mal grado al fin convien che taccia.

2Di ciò s’accorse la regina, e volta
verso di lui, benigna e riverente
disse: «O signor, potrete un’altra volta
contar con più vostr’agio il rimanente;
l’ora è già tarda e voi, stanco per molta
fatica avendo il corpo, egra la mente,
fia ben che riposiate in fin che il giorno
col nuovo lume a noi faccia ritorno.

3Così detto per man Costante prese,
e gir seco volea fino a la stanza,
ma quel, che accorto e saggio era e cortese,
da timor combattuto e da speranza,
ricusò molto, ancor che del paese
veda esser questa antica e ferma usanza;
cede al fin, ché al suo debito non vuole
punto in fatti mancar o in parole.

4Volse al men seco gir ch’unqua non valse
pregar né ricusar, fino a le scale;
quivi lasciollo e nel partir l’assalse
tal doglia al cor che mai non ebbe uguale.
Co’ suoi di sopra in tanto il cavalier salse,
dove in copia trovàr camere e sale,
con ricchi letti e vini rari e frutti
da ristorarsi e star con agio tutti.

5Tutti posaro in fin che il nuovo lume
fece d’intono le contrade liete;
ma il cavalier, secondo il suo costume,
non ritrovò giamai posa o quiete.
Vittoria ancor le male agiate piume,
come già colta a l’amorosa rete,
cerca, né loco ritrovar può dove
si fermi, e indarno or qua or là si muove.

6O sacra dea, che d’amoroso ardore
scaldi a i mortali, anzi gli infiammi il petto!
Non volgea il quinto dì Vittoria ancora,
cui pari al mondo di beltà non era:
così vermiglia e candida l’aurora
suol dimostrarsi in Oriente altera.
Non men di grazia colmo era Costante:
sol degno d’esser l’un de l’altro amante.

7Fatto avean le fatiche il cavaliero
magro e smorto via più del consueto,
con le vigilie nate dal pensiero
distratto, che ’l rendea sempre inquieto;
però misto col grave e col severo
nel sembiante apparia sì grato e lieto,
sì benigno e cortese ch’onorarlo
ciascun sempre convenne e sempre amarlo.

8E trovando aver dì e notte il core
da sé diviso, e posto in forza altrui,
e l’appetito infusogli d’Amore
contrasto avendo a la scoperta in lui,
come in duello contra il proprio onore,
e d’ugual forza ognor sendo ambidui,
più pallido venuto anco e più scarno,
tregua al dolor chiedea pur sempre indarno.

Costante passa le notti a lamentarsi (9-18)

9La stanza dove solo egli dormiva
guardava sopra una ampio e bel giardino
che d’ogn’intorno e di lontan scopriva
campagne e colli, e tutto il mar vicino;
né potendo patir l’interna e viva
fiamma che l’arde per suo rio destino,
punto una notte il miser da diverse
cure levossi, e la fenestra aperse.

10La luna, uscita de le oscure grotte,
di stelle d’oro sopra il carro adorno
sì chiara allor facea splender la notte
che men chiaro veggiam sovente il giorno,
onde il guerrier da le speranze rotte
dal rio naufragio, dal palese scorno
vinto, e dal foco ch’avea dentro chiuso,
stava colmo di duol, tristo e confuso.

11E il ciel guardando e il mar, l’erbe e le fronde,
dicea: «Qual pesce, qual augel, qual fera
si trova in terra o in aria o dentro a l’onde
che non prenda riposo il dì o la sera?
Ma lasso me, che mentre il sol s’asconde
e mentre appare, ognor più l’aspra e fera
doglia m’afflige, e giorno e notte sempre
par che il cor mi distrugga e mi distempre.

12Com’esser può che tal forza nel viso
stia d’una donna, che in me tenga insieme
il piacer col dolor, col pianto il riso,
e col timor possa albergar la speme?
come viver poss’io dal cor diviso?
dond’è che il mal m’aggrada e il ben mi preme,
né so in qual guisa un dolce sguardo apporte
guerra e pace ad un tempo, e vita e morte?

13Or vedi, Amor, che il loco e il tempo hai colto
atto a trar nel mio petto il duro ghiaccio,
nascosto avendo in un leggiadro volto
sì dolce fiamma e sì soave laccio,
che essendo arso da l’un, ne l’altro involto,
ne chieggio aiuto, né difesa faccio.
Che libertà quei lacci ond’io son preso
mi danno, e refrigerio il foco acceso!

14L’amor ch’io porto al mio signor m’ha spinto
fin da l’un capo a l’altro de la terra,
e in mar quasi restai pur dianzi estinto,
tal contrasto da i venti ebbi e tal guerra;
or nuovo laccio ho stretto al core avvinto,
e nuova rete lo circonda e serra,
nuovo desio mi sprona e nuovo amore
mi sforza, e m’arde nuova fiamma il core.

15So che il mio onor ricerca e il dritto e il giusto
ch’io ponga a fin la cominciata impresa,
e ch’io se a liberar non vaglio Augusto
muoia, che il viver senza lui mi pesa;
ma che poss’io s’Amor fallace e ingiusto,
contra cui faccio indarno ogni difesa,
con tal furor m’assal, con tanto orgoglio
che mi sforza a voler quel ch’io non voglio,

16e quel ch’io voglio a non voler mi sforza?
Dunque nessun mi biasmi o mi condanni,
ché la ragion non val contra la forza,
se in Gallia consumar mi vedrà gli anni.
D’amor la fiamma ogni altro foco ammorza,
e se alcuno i sottil e dolci inganni
prova d’amor, so che da lui ripreso
mai non sarò, ma con ragion difeso.

17Come potrei senza Vittoria un giorno
viver, non che da lei gir sì lontano,
ch’entro al suo petto fa il mio cor soggiorno,
e d’ogni mio voler la briglia ha in mano?
Ma debbo, ahimè, patir l’onta e lo scorno?
debbo lasciar l’imperator romano
in servitù sì amara? e debbo io solo
gioir stando in angoscia ogni altro e in duolo?

18Quando però gioir possa chiamarsi
questo martir ch’io provo e questa pena,
questi ardori per l’ossa infusi e sparsi,
e questa intorno al cor stretta catena?
Qual doglia al mio dolor puote agguagliarsi,
che s’io son vivo o no, comprendo a pena,
e sì tra due sospeso erro e vaneggio
ch’io scorgo il meglio e pur m’appiglio al peggio?».

Lo stesso fa Vittoria, la quale chiede consiglio alle sue ancelle: Filidia le consiglia di seguire la propria passione, Fronima di moderarla con la ragione, di non esporsi a un rischio eccessivo (19-53,2)

19Mentre si duol Costante e si lamenta
o di partirsi o di restar dubioso,
non par che dentro al cor men doglia senta
Vittoria, o che più d’esso abbia riposo.
L’antica fiamma, che credea già spenta,
più si rinova, e il fero ardor che ascoso
nel petto avea si scopre, e già faville
fuor per gli occhi le usciano a mille a mille.

20Vittoria ben s’accorge e ben comprende
esser cagion d’ogni sua pena amore,
né può fermarse in letto onde ne scende,
ché un sprone a i fianchi e un stral si sente al core;
e sì gran fiamma l’infelice accende
che per sfogar l’interno aspro dolore,
spesso interrotta da sospiri ardenti
dicea con tristi e con dogliosi accenti:

21«S’amor questo non è, chi è quel ch’io sento
struggermi il cor, né so né voglio aitarme?
Donde nasce il martir, lassa, e il tormento
ch’or aspro or dolce, or l’uno or l’altro parme?
Ma come s’egli è amor, può in un momento
ora di foco, ora di ghiaccio farme?
Come uccider mi può se non è uscita
l’alma, o tenermi senza core in vita?

22O dea senza consiglio empia e fallace,
instabil via più che il ciel, che l’onda,
da te non ebbi mai tregua né pace,
tanta perfidia in te superba abonda;
da poi ch’estinto ogni tiranno giace
sperai d’averti ognor destra e seconda,
ma quanto, ahi lassa, il mio sperar fu breve,
che mi si strugge il cor come al sol neve!».

23Mentre d’amor Vittoria e di fortuna
seco soletta si lamenta e parla,
due donne appresso avea, che sempre or l’una
or l’altra intorno l’era a consigliarla.
Fronima in guisa è saggia che a nessuna
cede, né posso a pien giamai lodarla;
in vista grave, in opre onesta, e d’anni
carca e di senno, involta in negri panni.

24Filidia è l’altra, ancor che d’anni piena
giovane sembra a l’abito, a la faccia;
sempre in gioia e in piacer sua vita mena,
sempre e cure e pensier da sé discaccia.
Visto costei che in amorosa pena
Vittoria è involta, e ch’arde e dentro agghiaccia,
tosto a lei venne e con l’usato ardire
le chiese la cagion del suo martire.

25A cui rispose la regina: «O cara
Filidia, o mia speranza, o mio conforto,
qual pena, ohimè, quant’aspra e quant’amara
doglia nel petto, e quanto ardor sopporto!,
ché, del guerrier roman visto la rara
pietà, sola cagion che al nostro porto
giungesse, amor m’assalse il cor con tanto
martir ch’io mi consumo e struggo in pianto.

26Quel foco onde con gioia e con riposo
vissi più giorni, e ch’io pensai già spento,
di me non so in qual parte stesse ascoso,
che il cor poi mi raccese in un momento;
dopo la morte del mio caro sposo
non sentì mai quel ch’ora provo e sento.
Costante ha in man, Filidia io tel confesso,
mio core; io porto lui ne l’alma impresso.

27Ma non fia vero che il mio chiaro e puro
pensier macchiar giamai possa in eterno;
con folgori più tosto entro a l’oscuro
fondo mi cacci il gran Padre superno.
Ma ben, sorella, io ti prometto e giuro
che non posso patir l’incendio interno;
dammi consiglio omai, deh dammi aita,
se non che giunta al fin vedrai mia vita».

28Così dicendo, fuor per gli occhi un fonte
di lagrime spargeva, ond’ella in tanto
su la sinistra postasi la fronte,
con la man destra si asciugava il pianto.
Filidia allor con sue lusinghe pronte
rispose e disse: «A che dolersi tanto
di cosa in van, regina, a cui tu puoi
sì facilmente proveder se vuoi?

29Che valti aver tante e sì strane genti
sotto il tuo impero ad ubidirti intese,
s’amor ti svelle il cor, se con ardenti
fiamme t’ha l’ossa e le medolle accese?
Perché in preda a i sospir darti e a i lamenti?
Forse, o donna, ti son le vie contese
di chiedere al guerrier mercé che voglia
prender pietà de la tua immensa doglia?

30Ambo giovani sète e di bellezza
dotati, e di valore ambo ugualmente,
perché debbe usar teco egli durezza
se ben non ha nel cor la fiamma ardente?
Ma s’avvien ch’arda anch’ei, come certezza,
non pur credenza, n’ho dentro la mente,
qual cosa puoi tu far di che ne senta
gioia maggior, sendo a piacergli intenta?

31Or che ogni cosa già per tutto è queta,
ma sempre avendo per tua fida scorta
nessun di gire al cavalier ti vieta,
che forse ugual dolor per te sopporta;
da le tue stanze ecco la via secreta
che infino a l’uscio de la sua ti porta;
parmi veder ch’abbia di te non meno
l’ossa di foco e il cor di doglia pieno».

32Queste parole e simili altre ancora
Filidia usava, e quasi a la regina
persuase che andasse allora allora
di Costante a la stanza egra e meschina.
Ma Fronima, che uscir Vittoria fuora
del buon sentier s’avvide, e che vicina
era a smarrirsi, a sé chiamolla, e volta
verso di lei disse: «Il mio consiglio ascolta,

33donna: molto a pensar m’è duro e greve
che essendo omai le tue virtù sì note
perder tu voglia in un sol punto breve
quel che poi racquistar mai non si puote.
Di questo ancor farai stima sì lieve,
che assisa sopra sì sublimi ruote
tu voglia a costei sol dar fede intera
che al fondo giù precipitarti spera?

34Sol Filidia al piacer, solo al diletto
pensa, né mai ragion cape in sua mente,
che l’uom rende immortal, rende perfetto.
Passa il piacer com’ombra immantinente,
fermo contento è di ragion l’effetto,
ma chi segue il piacer ratto si pente:
sol d’utile e d’onor ragion si pasce,
da quel sempre e vergogna e danno nasce.

35Che valti aver contra i nemici invitto
l’animo, e sovra ogni altro ardire e forza,
se te stessa non vinci e se dal dritto
sentiero il senso a traviar ti sforza?
Questo nel cor porta, o Vittoria, scritto:
ch’un vizio sol molte virtuti ammorza,
e donna che non sia casta e pudica
d’acquistar fama indarno si affatica.

36E queste genti barbare che poste
sotto il tuo impero or si stan quete in pace,
sendo a guerre, a tumulti ognor disposte,
cui star soggette altrui sì annoia e spiace,
potrian le male menti, che nascoste
serban, scoprendo incender nuova face,
visto in preda d’un uom darti e in balia
c’hai visto a pena, e non sai pur chi sia.

37Questo atto, al mio parer, saria cagione
di farti giù cader da quella stima
c’hanno di te, da quella opinione
onde sei giunta de la ruota in cima.
Quanto al consiglio rio senza ragione,
che a darti esser costei volse la prima,
rispondo: se il guerrier ti esclude e scaccia,
come avrai poi di comparir mai faccia?

38Ch’ei t’abbia a compiacer però certezza
non hai, ma del contrario indizio vero,
perché solo a virtù l’anima avvezza
sempr’ebbe e sempre avrà questo guerriero,
e per l’onore ogni piacer disprezza,
non pur con l’opre ognor ma col pensiero;
dunque, o Vittoria, omai sì stran desio
raffrena, e segui audace il parer mio.

39Potresti, ohimè, del tuo consorte morto
al cener caro, a l’ombra, a la memoria,
macchiando il letto suo far sì gran torto?
Ahi, da te scaccia tal pensier, Vittoria,
vinci te stessa e prendi omai conforto,
né voler perder l’acquistata gloria;
d’amor non furon mai sì dure pene
ch’uom saggio al fin non tempri e non raffrene».

40Così la saggia consigliera e fida
con parole dicea gravi e pietose.
Ma Vittoria, in cui tanto ardor s’annida,
altro fuor che sospir mai non rispose;
par che l’alma da lei schianti e divida
la fiamma che nel petto Amor le pose,
onde a Filidia volta, in tal periglio
chiese di nuovo tacita consiglio.

41Da man sinistra avea questa vicina,
e perché far di se stessa il volere
non puote, a lei via più che a l’altra inchina,
e più loda e comenda il suo parere;
ond’ella, che sott’occhio la regina
spesso guardava, e cui grave è il tacere
quando altri parla, tosto che si volse
a lei, la lingua in tai parole sciolse:

42«Oh che fido consiglio, oh che perfetto
parer di questa, oh che ben sana mente,
che volendo ad un morto aver rispetto,
ch’un vivo muoia di dolor consente!
Quegli è privo di senso e d’intelletto,
nulla sa, nulla vede, nulla sente;
tu vivi, e tanto la tua vita importa,
ma se non segui il mio parer sei morta.

43Deh, sforzianci di star più che si puote
in vita, e con piacer sempre e con gioia;
d’affanno sian le nostre menti vòte,
stian le cure da noi lunge e la noia;
che sian polite o sian crespe le gote,
tardi o per tempo ogni un convien che muoia
lasciando il tutto adietro, e dopo morte
nulla fia mai ch’alcun piacer n’apporte.

44Costei, che tanto il cor costante e fermo
par ch’abbia, e dal piacer tanto lontano,
credi che in contra Amor facesse schermo,
o ch’egli oprasse in lei sue forze in vano?
Sappi che consigliar l’amico infermo
può facilmente ogni un, mentr’egli è sano;
parmi che a tal sia il tuo dolor venuto
che più che di consiglio uopo hai d’aiuto».

45Mentre a la donna sua così dicea
Filidia, come foglia sposta al vento,
le man battendo, or qua or là volgea
la faccia mille volte in un momento;
or si levava in piede, ora sedea,
di sua instabilità certo argomento.
Ma Fronima col guardo intento e fiso,
raro e a tempo movea le mani e il viso.

46E vista che d’amor la fiamma ardente
già sparta era per l’ossa e per le vene,
come colei che accorta era e prudente
qui dice: «Usar destrezze mi conviene,
poi che tanto martir dentro al cor sente
Vittoria, e tante e sì gravose pene
che se al grand’uopo non le presto aita
non può durar più lungamente in vita».

47Onde, non men che il buon medico esperto
allor che il polso e la virtù declina,
visto il periglio de l’infermo aperto
gli dà più lieve e facil medicina,
né per sentier sì stretto né sì erto,
come pur dianzi far solea, camina,
quel che gli vietò prima or gli concede
come del mal la qualità richiede.

48Fronima saggia così festi allora,
dicendo a la regina inferma: «Poi
che l’intenso dolor t’ange e t’accora
in guisa tal che sopportar nol puoi,
fa’ che il tuo onore e te salvi ad un’ora;
il che sarà qualor, donna, co’ suoi
nodi santi Imeneo congiunga e leghi
teco il guerrier, pur ch’egli a ciò si pieghi.

49Ma ben per esser qui contra sua mente
giunto, doppo mill’onte e mille scorni,
dove pria che danari accoglia e gente
e navi faccia star convien più giorni;
spero che nasca occasion sovente
prima che al suo viaggio il guerrier torni,
onde senza scoprir gli affetti tuoi
spiar si possan con destrezza i suoi.

50Spero, non men, per aver questo intesa
la mente a trarre Augusto di prigione,
né senza te bastando a tanta impresa,
che incontrerà sì bella occasione;
onde senza al tuo onor far punto offesa,
senza che il senso adombri la ragione,
conseguirai ciò che appetisce e brama
il cor, né punto offuscherai la fama».

51Qual d’atre nubi alcuna volta il cielo
veggiam coperto e d’ogn’intorno cinto,
onde la faccia al gran signor di Delo
si offusca, e sembra il chiaro lume estinto,
Zefiro rompe il tenebroso velo,
scacciato l’Austro, e il suo contrario vinto
che il ciel stillava in pioggia, e torna il biondo
Febo a donar l’usata luce al mondo,

52tal fece allor la consigliera accorta
che Vittoria fra tanti aspri martiri
la chiara faccia avendo afflitta e smorta,
per la nebbia offuscata de i sospiri
che lagrimosa pioggia seco apporta,
come Favonio che soave spiri
scacciolle il duol, che a guisa di procella
l’assalse, e ritornò quanto mai bella.

53Talché Filidia voltasi da canto
tosto al costei parer l’animo intese.
L’usata forma sua Venere in tantoVenere camuffata da Sereno si presenta in sogno a Costante, lo consiglia a dichiararsi a Vittoria, lui acconsente a mandarlo a fare l’ambasciata (53,3-64)
nascose, e quella di Sereno prese;
così a Costante andò, ch’anch’egli in pianto
l’occulto suo dolor facea palese,
a cui giunta si volse e con severo
sguardo gli disse: «Ohimè, puote esser vero?

54Puote esser vero, ahimè, quel ch’ora veggio,
Costante, e quel che a mal mio grado ascolto?,
over sciocco dormendo erro e vaneggio,
son forse desto o pur nel sonno involto?
Così Licinio sia nel suo bel seggio
da te riposto, e da i legami sciolto,
di che mostrarti aver già sì gran voglia?
come il farai se ti consumi in voglia?

55Deh, dimmi qual cagion, guerrier, ti muove
a lamentarti con sì tristi accenti?
donde avvien che da gli occhi un rio ti piove,
che l’aria infiammi con sospiri ardenti?
Tu sei pur giunto in questa parte, dove
proveder d’altre navi e d’altre genti
potrai, per gir ne le contrade perse
come cortese a te Vittoria offerse».

56Rispose allor Costante: «O mio Sereno,
tu scorgi il vero, io sol vaneggio e sogno!
A tal son giunto omai ch’io vengo meno,
e del mio mal morendo io mi vergogno;
Amor mi sprona e non m’allenta il freno;
dammi, ti prego, aiuto al gran bisogno;
nulla asconder ti posso e nulla voglio,
sol di fortuna e sol d’Amor mi doglio.

57Anzi fortuna incolpo, Amor ringrazio,
onde a sì nobil donna fui soggetto,
che volentier sopporto ogni mio strazio
e d’ogni mio martir prendo diletto;
e in questo breve c’ho, di vita spazio
(ch’altro che morte omai più non aspetto),
non so se altrove aver la mente intesa
potrò, sì ch’io mi accinga ad altra impresa.

58Quel giorno che Vittoria a queste porte
condusse noi per sua bontà infinita,
con un sol sguardo, ahimè, datomi morte,
con un sol sguardo ancor tornommi in vita;
in me muoio, in lei vivo, e di tal sorte
m’appago sì che non le chieggio aita.
Come adunque potrò gir sì lontano
da lei, se sta di lei mia vita in mano?».

59Così dicendo giù da gli occhi in seno
di lagrime spargeasi un largo fonte;
la bella diva allor che al buon Sereno
si assomigliava a le fattezze conte,
soggiunse: «Or veggio ben che Amor col freno
e con la face le tue voglie pronte
infiamma, e volge a seguir nuova impresa,
ma ch’anco Augusto abbandonar ti pesa.

60Al cui tuo doppio mal sol un partito
mi occorre, onde potresti di prigione
trarre Augusto ad un tempo e d’infinito
dolor te stesso e d’aspra passione:
questo avverrà se diventar marito
puoi di Vittoria, e nulla altra cagione
più mi muove a pensar né a dir tal cosa
che il veder lei non men di te pensosa.

61Che porger possi al tuo signor soccorso
senza il suo aiuto, non ci scorgo via;
se vuoi ch’io tenti ciò ch’ora m’è occorso,
con vostra dignità farollo e mia;
da questo tuo sì lunge esser trascorso
nascerne ancor gran ben forse potria:
così vuol Dio, da cui nulla si asconde,
né senza lui qua giù si muove fronde».

62Così detto si tacque; allor Costante
soggiunse: «O fedel mio compagno e saggio,
se ben traffitto il cor porto con tante
saette, che riposo unqua non aggio,
però morir vorrei più volte inante
che al dritto et a l’onor mai fessi oltraggio;
pria che macchiar la fama in parte alcuna
mille morti provar vorrei, non ch’una.

63Se ti succederà ch’io sia consorte
di Vittoria, ben dir potrai con vero
d’avermi suscitato da la morte;
ma se fallito ancor ti andrà il pensiero,
non temer che il desio mai mi trasporte
a traviar dal mio camin primiero:
così già fermo e fisso ho dentro il core
che in van la face adopra e il freno Amore».

64La dea rispose: «E così far si deve,
raffrenando la voglia e l’appetito.
Io me ne vado adunque, e spero in breve
che di Vittoria ti vedrò marito».
Così detto uscì fuori e poggiò lieve
per l’aria verso l’Aquitano lito,
tra Borea e Coro in una nube involta,
lasciata a dietro ogni sembianza tolta.

Venere si reca da Toringe, alleato e amico di Vittoria, sotto mentite spoglie, e lo induce ad andare dalla regina per convincerla a prendere marito Costante (65-79,4)

65Reggea Toringe di Vittoria in vece
da i Belgi infin l’Esperia a l’oceano
con forza e con saper, che, se ben diece
lustri due volte avea, forte era e sano,
e sì con l’armi e col consiglio fece
contra Postumo e contro Lolliano
che da lui conoscea la vita e il regno
Vittoria, e ben mostrò d’amarlo segno.

66Ch’esso con diece figli suoi di molta
entrata fece ricco e di gran stato;
“padre” il chiamava, e lo facea, ogni volta
che a lei venìa, seder dal destro lato;
poi visto a suscitar discordie volta
questa provincia, a lui, ch’era ivi amato
e d’autorità grande, la diè in cura:
così dormia con gli occhi suoi sicura.

67Venere adunque ne la nube ascosa
che di far quanto ha detto si destina,
giunse dove Toringe era in Tolosa,
città di Gallia a i Pirenei vicina;
ch’ivi devesse andar gli avea per cosa
molto importante scritto la regina,
e quivi giunto a dir mandolle in fretta
che di saper ciò che far debba aspetta;

68e già aspettato avea più dì, né mai
da Marsiglia ebbe nuova o messo alcuno.
Quivi attese la dea che Apollo i rai
cuopra, e sia l’aer d’ogn’intorno bruno,
e quando giunto esser le parve omai
il tempo a ciò che far devea opportuno,
prese, cangiata la sua bella imago,
la voce e il volto e l’abito d’un mago.

69Druide in Gallia i maghi detti, stanno
sopra ogni altro in gran pregio e in sommo onore,
sacrificano a Dio ne i tempi e danno
sentenze, e fanno accordi a tutte l’ore.
Per sapere il futuro a lor sen vanno
gli altri, e non gli dar fede è grave errore;
Venere adunque un mago esser si finge,
e va là dove in letto era Toringe.

70Il qual tra sé pensava, avendo inteso
che in Marsilia arrivò Costante Pio,
cui d’Oriente fu il camin conteso
che il tutto fosse per voler di Dio,
e, di sua fama già gran tempo acceso,
gli nacque di vederlo alto desio;
ma d’offender temea Vittoria e molto
stava dubbioso e in gran pensiero involto,

71allor ch’entrata a lui Venere disse:
«Quando avran fin le guerre e le contese,
saggio Toringe mio, quando le risse
c’han già destrutto il gallico paese?
Lascio di ricordar quanto ne afflisse
Cesare, e di narrar tutte l’imprese
di Cereal, d’Albino e di Severo,
che andar m’empion d’orror dentro al pensiero.

72Ma quel che in spazio di pochissim’anni
tutti a nostro mal grado abbiam provato
chi potria dirlo? e quanti empi tiranni
il sangue nostro han sparso in ogni lato?
L’onte e le morti e le rapine e i danni
tu sai meglio di me, ché sempre armato
stavi appresso Vittoria, onde vittrice
regge il gran regno queta oggi e felice.

73Benché pensando che il marito e il figlio
sì fanciullo patiro acerba morte,
mentre che ogni altro ha speme, io di consiglio
privo sol temo la contraria sorte;
veggio dappresso il nostro gran periglio
ch’ella, né figli avendo né consorte,
giunta al fin di sua vita un’altra volta
sarà la Gallia sottosopra volta.

74Onde Mercurio il grande, che tien cura
de la salute nostra, oggi m’ha detto
che tosto a l’apparir de l’ombra oscura
venir dovessi a ritrovarti in letto,
e dirti in nome suo ch’entro le mura
di Marsiglia arrivar debbi al cospetto
di Vittoria, che ognor languida e smorta
di mortal piaga il cor traffitto porta,

75e dirle che non stia per cosa alcuna
di prender per suo sposo e suo marito
quel gentil cavalier, cui ria fortuna
spinse pur dianzi di Narbona al lito,
ché altrimente coperta a vesta bruna
fia l’infelice Gallia, e da infinito
travaglio oppressa e con gravoso affanno
preda or di questo or di quel rio tiranno.

76Ma s’ella a lui si legherà sì come
brama, e sì come di ragion far si deve,
d’ambi altero e glorioso nome
vedrassi al ciel poggiar spedito e lieve,
e de i nemici de l’imperio dome
saran le forze, e soggiogati in breve
si vedran tutti quei che fan dissegno
sopra la vita sua, sopra il suo regno.

77Levati adunque omai, Toringe, e piglia
tosto che Febo il nuovo giorno apporte
di Narbona il camin verso Marsiglia
per le strade più facili e più corte.
E la regina tua prega e consiglia
che di Costante voglia esser consorte,
indarno mossi non saran tuoi prieghi
per far che a questo ella, e il guerrier si pieghi,

78ché l’uno e l’altro l’appetisce, e l’uno
per l’altro d’amor porta acceso il petto;
onde fia il giunger tuo molto opportuno,
che n’avranno egualmente ambi diletto;
oltre che a par di te crede a nessuno
Vittoria, e che ti onora e in fatto e in detto,
Mercurio, che desia tal nodo e vuole
che segua, darà forza a tue parole».

79Sparve la dea ciò detto e in Oriente
tornò di Cipro a la sua antica stanza,
lasciando il buon Toringe entro la mente
tutto di piacer pien, di speranza.
Tosto levossi e con fiorita gente,Toringe parte, arriva a Marsiglia in capo a otto giorni, nel frattempo Venere rassicura Costante e Vittoria (79,5-94,4)
che in tal guisa di gir sempre avea usanza,
verso Marsiglia al giunger del mattino
fra diece figli suoi prese il camino.

80Ma prima in vece sua lasciò in Tolosa
un suo fratel, che detto era Sinarte,
e gli ordinò ch’indi null’altra cosa
gir lo facesse in qual si voglia parte.
Già in Aquitania avea di valorosa
gente posto gran numero, che parte
eran Liguri e parte Iberi e Celti,
parte Britanni, e tutti uomini scelti,

81a cui diè il forte Matrico per duce,
figlio d’un altro suo fratel già morto.
Dunqu’ei, visto apparir la nuova luce,
di Narbona il camin prese più corto.
E mentre a la regina si conduce
colmo nel cor di speme e di conforto,
Venere in Pafo attendea l’ora e il punto
ch’ei fosse al fin del suo viaggio giunto.

82E visto che arrivò l’ottavo giorno
ad un castel vicin tredeci miglia,
per far tutta la notte in quel soggiorno
e per tempo esser poi l’altro in Marsiglia,
tosto a Costante anch’ella fa ritorno,
e di Sereno ancor sembianza piglia,
ma perché d’uno error cauta s’avvede
che avvenir può, con arte gli provvede.

83Quella mattina che arrivar dovea
Toringe per far quanto ella avea detto,
Sereno, come far sempre solea,
molto per tempo si levò dal letto,
e dove la regina in opra avea
tanti uomini sul porto, uscì soletto
per mirar quelle torri e quelle mura
superbe, e tutto l’altro con gran cura.

84Allor la dea nel viso di nascosto
spruzzolli alquanto del licor di Lete;
poi fe’ che il sonno sopragiunse tosto,
e gli infuse nel cor dolce quiete;
e quivi in loco commodo e riposto
posollo, e ritornò per vie secrete
entro a Marsiglia, dove al pio Costante
con gran diletto appresentossi avante.

85Ella avea il volto, avea il parlare istesso,
sembrava a i gesti, a l’abito Sereno,
né mai partiasi al cavalier d’appresso,
com’ei proprio solea, né più né meno,
dicendo: «Quel ch’io t’ho di far promesso
l’ho fatto in guisa tal, signor, che a pieno
fra pochi giorni, anzi poche ore spero,
che effetto conseguir debba il pensiero».

86L’interno incendio la regina intanto,
del suo ghiaccio primier degna mercede,
refrigerò con quella speme alquanto
che accorta e saggia Fronima le diede;
e come suol che da i sospir, dal pianto
alto sonno talor nascer si vede,
la notte che molto infra se stessa
restò pensosa, fu dal sonno oppressa.

87E d’esser le parea, mentre dormiva,
tra pruni e sterpi in una selva oscura,
d’un precipizio sì profondo in riva
che a risguardarlo sol mettea paura;
e quivi, stando in gran dolor, sentiva
vento soffiar, cader tempesta dura
sopra le fronde e sopra i rami in guisa
ch’ogni speme a scampar l’era precisa.

88Ma nulla o poco la tempesta e i venti
parean rispetto a l’altre cose, quando
idre e ceraste e mille altri serpenti
le gian stridendo incontra e sibilando,
scoprendo acuti e venenosi denti,
mentre il petto da terra in alto alzando
ciascun vibra la lingua, e l’empia coda
avvinchia e stende, e in stretti groppi annoda.

89E stando circondata d’ogn’intorno
da tante angustie, al ciel levò le ciglia,
e di veder le parve ond’esce il giorno
un augel vago e grande a meraviglia,
di bianche piume tutto in guisa adorno
che a latte, a neve il suo color simiglia;
e giù calato a lei con breve giro
tutti quei serpi e qua e là fuggiro.

90Cacciate l’idre, a lei fermarsi in seno
parve l’augello, e se smarrita e mesta
si trovò prima, il cor tosto ripieno
sentissi poi di gioia manifesta,
e chiaro apparve il sol, l’aer sereno,
non pur cessaro i venti e la tempesta;
la selva in un bel prato e le ruine
e in vaghi fiori si cangiàr le spine.

91E mentre il bianco augel tenea sul petto,
fra l’erba e i fiori già posta a sedere,
le parve di sentir tanto diletto
e di gustar tal gioia e tal piacere
che ognor di Giove stando nel cospetto
non s’ha là sopra le celesti sfere
la millesima parte di sua gioia:
questa obliar fe’ la passata noia.

92E così stando un’altra voce udio,
che disse: «O donna, se il piacer presente
far brami eterno, ti comanda Iddio,
la cui parola sta sempre e non mente,
che tuo marito sia Costante Pio,
il qual volto per gir verso Oriente
fu spinto a i liti tuoi: questo è quel cigno
che fugò l’idre, e il ciel tornò benigno».

93E così detto l’ineffabil voce
col sonno sparve, onde Vittoria desta,
dentro al pensier via più ch’aura veloce,
scorrea volgendo or quella cosa or questa:
spesso l’ardor preval che l’arde e coce,
spesso la speme vincitrice resta,
come anco spesso in lei regna il sospetto;
con tal contrasto adunque uscì dal letto.

94E come quella ch’onorar desia
Costante, e questo sol dì e notte pensa,
venne e cortese a quel fe’ compagnia,
poi che fu l’ora e si posaro a mensa.
E mentre i servi e le vivande inviaSopraggiunge Toringe, alla fine del pranzo invita i due a celebrare lo sposalizio per il bene comune, Venere stessa sotto mentite spoglie loda il proposito di Toringe (94,5-113)
lo scalco, e che il tutto ordina e dispensa,
Toringe a punto venne e l’ampia scala
ascese, e giunse a l’improviso in sala.

95Rosso era in volto, avea la barba bianca
che gli ondeggiava infino a la centura;
giunto a cent’anni e di persona franca
era, e di grande e di regal statura;
seco avea da man destra e da man manca
diece figli, e ciascun d’età matura,
tutti d’arme guarniti, e dopo loro
molti adorni seguian d’argento e d’oro.

96Costante, che di lui primier s’accorse,
levossi e disse: «Chi, regina, è questo?»,
talché indietro Vittoria il capo torse,
e riconobbe il suo Toringe presto.
Vèr lui mossa, la man lieta gli porse,
del suo amor vero indizio e manifesto,
e volse che a l’incontro di Costante
sedesse a mensa, ov’ella stava inante.

97Poscia di sotto appresso a lui si pose,
da man sinistra avendo il palmireno
e Venere a l’incontro, che si ascose
sotto la vera effigie di Sereno;
a i figli appresso di Toringe impose
con tutti i suoi del gallico terreno,
che stiano a mensa, ma più basso un poco,
dando a i compagni di Costante loco.

98Mentre si desinò, quel tempo in molto
dolce e grato parlar fu speso ancora,
stando sempre al guerrier Toringe volto,
cui di vederlo parve un giorno ogni ora.
Costante anch’ei guardava a lui nel volto,
sì per veder ch’ogni un tanto l’onora,
sì perché al parlar grave, a la presenza
d’alto affar gli sembrò d’alta prudenza.

99Ma poi, fornito il pranzo, ch’indi ogni uno
co i servi uscì de la vil turba densa,
e ch’ivi più non è rimaso alcuno
fuor che i signori ch’eran stati a mensa,
Toringe il saggio, ancor quasi digiuno,
ché sol quel per cui venne e studia e pensa
né cosa altra capir gli puote in mente,
si levò in piè, cortese e riverente,

100e voltosi a Vittoria «O gloriosa
regina,» disse «avrai forse oggi presa
meraviglia di me, che nulla cosa
del mio venir sapevi, e forse offesa
resti che abbandonato abbia Tolosa,
senza aver prima la tua mente intesa;
ma Dio, che a voglia sua muove e dispone
l’oprar nostro e il voler, n’è sol cagione.

101Ascolta quel che al gran Mercurio piace,
e quel che in nome suo vengo ora a dirti:
se vuoi goder di Gallia il regno in pace,
e un’ampia strada a maggior cose aprirti,
poi che il tuo sposo e il figlio in terra giace,
godendo il Ciel quei sì felici spirti,
convien che a nuovo sposo ancor ti appoggi
onde il tuo nome illustre in alto poggi.

102Tu col valor, sol senno e col consiglio
morti e cacciati hai tanti empi tiranni,
e reggi sol con un girar di ciglio
gli Iberni e i Galli indomiti e i Britanni,
ma se morendo almen non lasci un figlio,
di quante doglie, ahimè, di quanti affanni
sarà l’afflitta Gallia erede? e quanto
di sangue rossa, e fia molle di pianto?

103Non sai che senza figli alcun felice
dir non si puote, e men che ha d’altri impero?
Che giova a te, Vittoria, esser vittrice
di tante genti, se risguardi al vero?
Ma se farai quel che Mercurio dice
che debbi far, sì come io bramo e spero,
da l’altrui frode allor sarai sicura,
stando in periglio sempre ora e in paura.

104Se adunque è necessario non pur bene
questo, che il nostro Dio comanda e vuole,
oltra che in gioventù non si conviene
viver le donne senza appoggio e sole,
prendi il guerrier, Vittoria, che a te viene
volendo gir fin là dond’esce il sole.
Questo sì torto e sì lontan camino,
credi, non fu senza voler divino.

105Dove altri ritrovar potrai che sia
pari a lui di prudenza e di valore?
E se fé rara e se pietà natia
lo sforza a dare aiuto al suo signore,
quanto abbiam noi più da sperar ch’ei sia
congiunto a te di lealtà d’amore?
E sol col nome glorioso e degno
farà i nemici tuoi star tutti a segno.

106A te ciò dico ancor, Costante, in nome
del gran padre de’ Galli unico e vero,
al qual se obedirai subito, come
si deve, adempirai tuo bel pensiero,
che del superbo re di Persia dome
saran le forze e libero l’Impero,
ma s’anco il voler suo sprezzi e non segui
nullo fia mai che il tuo travaglio adegui.

107Tra quanti furo al mondo illustri eroi
chi giamai donna ritrovò sì degna?
Qual per grandezza d’alti gesti suoi
fia che al tuo gran valor più si convegna?
Poscia da guerre e da travagli noi
già domi, e in cui desir di pace regna,
di qual signor possiam più giusto e forte
nostra vita in man porre e nostra morte?».

108Tacque ciò detto e il saggio vecchio assiso
la lor risposta tacito attendea;
ma la regina, per vergogna in viso
vermiglia e dentro al cor lieta tacea.
Costante, anch’ei da sé quasi diviso,
per soverchio piacer nulla dicea.
Volendo ogni un che a l’altro in prima tocchi,
taciti a terra tenean fissi gli occhi.

109Quando Venere bella, che al cospetto
stava di quei sotto mentite forme,
per aver sempre di Giunon sospetto,
qual sa che in danno lor giamai non dorme,
levosse, e con benigno e grato aspetto
disse a gli amanti: «Anch’io parer conforme
serbo a quel di Toringe, al che mi muove
l’infallibil voler del sommo Giove.

110Ch’ognor pensando a l’util de i mortali,
pria che spuntasse in Oriente il sole,
l’usato messo con la verga e l’ali
mandommi in fretta a dir queste parole:
– Se fuggir mille sovrastanti mali
il tuo Costante e la regina vuole,
l’un con l’altro di stretto nodo eterno
si leghi, ch’altra via non ci discerno -.

111E così detto al ciel veloce salse,
lasciando desto me proprio a quell’ora
che suole Apollo fuor de l’onde salse
esser condotto da la vaga Aurora;
ma subito gran tema il cor m’assalse
che a me avvenisse quel che avvenne allora
che per simil cagion perduto il figlio
Latin, di morte anch’ei restò in periglio.

112Stava dubbioso poi da l’altra parte
come tal cosa a voi dir si potesse,
e nel dir qual maniera usar, qual arte
ch’una favola, un sogno non paresse;
ma visto ora Toringe che si parte
fin d’Aquitania, spinto da le istesse
parole di Mercurio, anch’io non celo
quel che per dirmi allor scese dal cielo.

113Dunque non sia di voi che al manifesto
voler di Dio contrasti o non si pieghi:
l’un l’altro insieme omai soave e onesto
giogo congiunga e stretto nodo leghi.
Oltra il saggio Toringe anch’io di questo
vi prego, ma se i nostri ardenti preghi
forza non hanno, abbiate almen riguardo
che a vendicarsi Dio non fu mai tardo».

I due interessati confermano il proprio amore, e si celebra il matrimonio (114-124)

114Tacque ciò detto la dea, e il pio Costante,
volto modesto a la regina gli occhi,
cenno le fe’ con signoril sembiante
come a lei prima di risponder tocchi;
ma volendo ella pur ch’ei dica, inante
levatosi e piegati ambo i ginocchi,
che l’alta cortesia mai non ascose,
così al parlar di quei saggio rispose:

115«Ciascun ben creder può che il pensier mio
non fu giamai d’entrar sotto a tal giogo,
che non posso il mio re porre in oblio
se contra i Persi pria l’ira non sfogo;
ma se vuol questo e se ’l comanda Iddio,
né contra lui forze terrene han luogo,
non so se non lodarlo e dir ch’io sono
di tanta grazia indegno e di tal dono.

116E se Vittoria a questo far s’inchina,
e che d’unirsi meco non disdegni,
non pur lei, ch’è gran donna e gran regina,
che tante isole affrena e tanti regni,
e che per opre illustri già camina
di par con quegli antichi eroi più degni,
ma son, per ubidir devoto e umile,
pronto a pigliar qual più negletta e vile».

117Qui tacque e colmo dentro al cor di molta
gioia, a seder tornò presso a la dea.
Ma con la faccia la regina volta
verso la terra, tacita sedea,
a cui chiese Toringe un’altra volta
se per suo sposo il cavalier volea;
ond’ella alquanto in piè levata: «Anch’io»
disse «farà quanto m’impone Iddio».

118«Dunque,» soggiunse quei «prenda Costante
l’anello, e sia tuo sposo e tuo marito».
Già diede Augusto in dono un bel diamante
al guerriero, il cui prezzo era infinito;
quel, trattosi a Vittoria, venne avante,
a cui Venere prese e tenne il dito:
così, presente ogni un, quivi sposolla
Costante, e in fronte subito basciolla.

119Fatto questo la dea per tutto sparse
molti soavi e dilettosi odori,
e subito Imeneo benigno apparse,
col crin cinto d’amaraco e di fiori.
Ne la man destra avea una face ch’arse
mai sempre in segno di felici amori,
ne l’altra un velo, e i socchi in piè, che al foco
quel di color simiglia e questo al croco.

120Ciprigna poi tornò dove Sereno
dormiva e quel, dal pigro sonno desto,
ciò che fe’ dianzi raccontogli a pieno,
e la cagion che l’avea indutta a questo;
talch’egli tutto di letizia pieno
dentro a Marsiglia ritornossi presto,
sì ben di ciò informato ch’ivi occorse
che di tal cosa alcun mai non si accorse.

121Venere, poi che di Seren depose
la forma, in Cipri sopra Idalio venne,
dove di mirto il crin cinta e di rose
fece a i candidi augei spiegar le penne;
da man sinistra Amor lieta si pose
sul carro, e verso Gallia il camin tenne;
seguian le Grazie e i pargoletti Amori,
spargendo in terra e gigli e rose e fiori.

122Ma poi che giunta fu sopra Marsiglia,
lasciato il carro e i cigni adietro, scese
con tutta quella sua dolce famiglia
dove Cupido più d’un’alma accese;
e mentre con Toringe si consiglia
Vittoria, e che magnanima e cortese
solo in far pompe e giuochi studia e pensa,
scorre invisibil con letizia immensa.

123Quando invisibil, quando la persona
e l’abito e il parlar d’un altro finge,
con Seren, con Argeo talor ragiona,
talor con la regina e con Toringe;
né mai Costante, over raro, abandona,
col qual spesso a parlar anco si stringe;
or fa di sua man opra, opra comanda,
e gli Amori e le Grazie intorno manda.

124Quai nozze mai d’illustre semideo
devrian successi conseguir migliori
di queste, a cui presente era Imeneo,
Venere e il figlio e i pargoletti Amori?
E sì gran segni di letizia feo
la dea per gli alti e già promessi onori
a i lor nepoti, che il medesmo giorno
mille miglia n’andò la Fama intorno.

La Fama ne porta notizia a Regillano re d’Illiria, più volte rifiutato da Vittoria: invoca Giunone perché intervenga, la dea lo rassicura (125-140,2)

125La Fama, orribil mostro, e più veloce
d’ogni altro e immenso, in fretta spiegò l’ale;
dentro ogni piuma ha lingua e bocca e voce,
orecchie et occhi, e sempre o scende o sale;
talor giova a i mortali e talor nuoce,
che ugualmente riporta e il bene e il male;
per tema è debil pria, poi si rinforza,
e sempre acquista ne l’andar più forza.

126Costei fu de la Terra ultima figlia,
più leggiera e veloce assai che il vento;
l’alte torri ha per stanza, e mille miglia
fa correndo e volando in un momento;
non chiude mai per riposar le ciglia
ma sempre ha l’occhio in ogni parte intento;
solea gir sol di notte, or anco il giorno
col vero il falso va spargendo intorno.

127Scorse Britannia, Ibernia e tutta Spagna
col gallico paese, e passò il Reno,
poi, di tal nuova empiendo l’Alemagna,
giunse in Italia e scorse il mar Tirreno;
quindi a sinistra volta, ove la bagna
d’Adria il golfo, passò tutto quel seno,
fin che in Illiria giunse, ove reggea
Regillan, che Vittoria amando ardea.

128Sul Tebro dentro a le romane porte
di Nervio nato il franco Regillano,
tra i suoi maggiori annoverava il forte
Decebalo, che al fin provato in vano
or la forza or gli inganni si diè morte,
lasciando il regno al vincitor Traiano.
Da scherzo prima Regillan, prefetto
sendo in Illiria, imperator fu detto;

129stando egli un dì tra molti a mensa, come
spesso face, gli disse un suo soldato
ch’ei di seme regal disceso il nome
regio avea ancora, e re fu salutato;
poi di corona d’or cinto le chiome,
sopra una gran seggio imperial portato,
ond’ebbe in lui poscia molti anni loco
quel che al principio si trovò per gioco.

130E in molte rare e gloriose imprese
non si mostrò di tal corona indegno,
poi di Vittoria sì nel cor si accese
che volse in acquistarla ogni suo ingegno;
ma, lui sprezzando, sempre altera intese
solo a domar chi tòr di Gallia il regno
con fraude le volea, già posto a morte
l’unico figlio e il caro suo consorte.

131Doni le manda Regillano e prieghi,
or quella strada or questo modo truova
perché di nodo marital si leghi
seco la donna sua, ma nulla giova.
Non sa trovar cagione ond’ella nieghi
tal cosa, e gran martir dì e notte prova,
al fin tentò se in lei forza o timore
più che pietà potesse o più che amore.

132E con molte galee quei mari intorno
scorrendo andava, e in Gallia fea sovente,
pien di sdegno, a Vittoria e danno e scorno
con morte e prigionia di molta gente.
A questo adunque andò l’istesso giorno
la Fama, e fe’ saperli incontinente
tutto il successo, mentre era tra via
che d’Apollonia in Epidauro gìa.

133Gli fe’ saper che fuor di Roma spinto
Costante, e in Gallia a mal suo grado giunto,
di stretto nodo con Vittoria avvinto
s’era, e di giogo marital congiunto.
Regillan quasi a questo annunzio estinto
rimase, e rosso e pallido in un punto
divenuto, il destrier sì ratto punse
che fra poche ore in Epidauro giunse.

134Dove in un tempio entrò sacro a Giunone,
che cento statue avea su cento altari,
le quai di gigli ornate e di corone
d’oro le offerse ricchi doni e rari;
poi, come a lei non fosse ogni cagione
nota de gli aspri suoi tormenti amari,
con le man giunte e con le luci fisse
al ciel, piangendo in tal maniera disse:

135«Sacra, celeste e gloriosa diva,
dovunque qui dimori o in Campidoglio,
o in Samo o in Argo o là dove surgea
Birsa, ascolta il successo ond’io mi doglio:
Vittoria non men cruda che Medea,
colma d’odio vèr me, colma d’orgoglio,
d’un sol guerrier ch’ella conosce a pena
si è data in preda per maggior mia pena.

136Questi è Costante, ahi lasso!, che sbandito
per sua fraude e perfidia da Galeno,
pur dianzi ignudo a lei giunse e smarrito,
spinto per forza fuor del mar Tirreno;
tolto ha l’empia costui per suo marito,
de’ Galli a costui pone in mano il freno;
prendi la sferza adunque, o diva, in fretta
e fa’ di tanta offesa omai vendetta».

137Mentre devoto Regillan si dolse
verso Giunon con lagrimose ciglia,
quella benigna a lui gli occhi rivolse,
poi di Taumante a sé chiamò la figlia,
e in verso lei così la lingua sciolse:
«Fida mia serva, di Dalmazia piglia
la strada e del mar d’Adria in su la riva
in Epidauro a Regillano arriva;

138e digli in nome mio ch’entro la mente
si acqueti, ché Vittoria e il cavaliero,
prima che giungan salvi in Oriente
come di giunger fisso han nel pensiero,
farò tremar dal capo al piè sovente,
sia per acqua o per terra il lor sentiero;
come le nozze con augurio buono
faran, s’ivi presente anch’io non sono?».

139Tacque ciò detto e la mirabil figlia
di Taumante, col crin cinto di fiori,
con vesta gialla, candida e vermiglia;
con l’ali sparse d’altri bei colori
che andando incontro al febeo raggio piglia,
giunse là dove di se stesso fuori
costui per doglia stava, e sì gli espose
ciò tutto a punto che Giunone impose;

140poi tosto indietro a lei fece ritorno,
lasciando il sol già l’aer freddo e cieco.
Venere in tanto di Vittoria intornoVenere prosegue ad allietare le nozze (140,3-143)
scorre il palagio, e la Concordia è seco;
d’Acheronte le figlie con gran scorno
rinchiuse stan giù nel tartareo speco,
e il popol, che non sa quel che si faccia,
per gioia grida e non v’è alcun che taccia.

141Scorre lieto d’intorno e le prigioni,
gridando «Pace e libertate» aperse.
Vittoria a quel gettar fe’ larghi doni,
d’oro stampato in più forme diverse,
parte volendo in quel far le cagioni
del gran martir che in prima ella sofferse
con motti arguti e con leggiadre imprese,
parte il piacer che poi seguì palese.

142Giunta omai l’ora in tanto, ecco la mensa
apparecchiata sontuosa e grande,
di cui narrar non si potria l’immensa
copia di vini eletti e di vivande;
ma Venere, che sol procura e pensa
che a compimento il suo desir si mande,
fin che non furo ambo gli amanti in letto
non si volse partir dal lor cospetto.

143Ma poi che in letto vede ambo gli amanti,
e che ogni cosa già d’intorno tace,
cessando e giochi e balli e suoni e canti,
ma stando accesa d’Imeneo la face,
lasciate ivi le Grazie e seco alquanti
Amori, col Diletto e con la Pace,
per gire in Cipro a i bianchi cigni il freno
sciolse, rendendo il ciel puro e sereno.