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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro VIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 10.09.15 19:02

Argomento
Di tre giorni e tre notti una sol notte
fa, stando ascoso, il sol; poscia il pedestre
corso, il giuoco di canne e il corso equestre
fornito, al fin si fan giuochi di lotte.

Tramite Mercurio, Giove incarica Apollo di non mostrarsi per tre giorni, per prolungare la prima notte di nozze (1-26)

1Già qualunque animale alberga in terra
con gli occhi chiusi almo riposo prende,
ma il gran Padre del ciel gli occhi non serra,
che a l’util sempre de’ mortali intende;
e dentro al suo pensier, ch’unqua non erra,
donde ogni effetto uman deriva e pende,
volge in qual guisa di Costante e insieme
di Vittoria onorar si deggia il seme.

2Onde in tal guisa al gran figliuol di Maia
disse: «Va’, in nome mio comanda al biondo
Apollo che non esca e non appaia
tre giorni interi a dar la luce al mondo;
stia sempre notte in tanto, e non vi paia
tal cosa strana, poi che del fecondo
seme del buon Costante uscirà in breve
chi dar gran luce a l’universo deve.

3E s’altra volta anco il medesmo fece
ch’io giacqui dentro a le tebane mura,
a questa non pur tre devria ma diece
giorni sempre durar la notte oscura,
che del guerrier molti nepoti in vece
nostra, non sol de gli uomini avran cura
ma, stando involti ancor di frale scorza,
nel cielo e ne l’Inferno impero e forza.

4Se dar principio questa notte deve
a tanti eroi via più che Alcide illustri,
di cui la fama con spedito e lieve
corso n’andrà mill’anni e mille lustri,
non sia, Mercurio, come l’altre breve,
né Febo il mondo al tempo usato lustri,
ma digli in nome mio che estingua il foco
e che non muti per tre giorni loco».

5Poi la sorella sua tosto ritrova,
col Sonno, e gli comanda similmente:
quella che tarda al suo camin si mova
per la strada del ciel pura e lucente,
questo che in tanto dormir faccia a prova,
né lasci in terra mai svegliar la gente
finché uscita di braccio al suo Titone
guardi l’aurora dal sovran balcone.

6Tacque ciò detto; il pronto messaggiero
per ubidire a i piè gli aurei talari
si pose, onde gir presto e leggiero
sopra la terra alato e sopra i mari;
presa la verga poi, con questa altero
le misere alme a i tristi pianti amari
del centro guida, e quindi altre conduce
giunto il lor tempo a la superna luce.

7Con questa audace e spinge e scaccia il vento,
e le torbide nubi fora e fende;
dunque in India Mercurio in un momento
giunse là dove il sol riposo prende,
dove giunto la sera e il lume spento
tutta la notte a ristorarsi attende
del faticar ch’egli ha sofferto il giorno,
finché di nuovo a noi faccia ritorno.

8De l’India s’erge ne l’estrema parte
d’Apollo il gran palazzo e il regal tetto,
che sopra alte colonne con grand’arte
fatte si posa, e d’oro ha il muro schietto;
le gemme innumerabili che sparte
per tutto sono e c’han di fiamme aspetto
chi annoverar potria? chi potria il pregio
giamai stimar de l’artificio egregio?

9L’esser d’argento e d’or tutto di sopra
coperto, acciò che splenda di lontano,
e poco o nulla a paragon de l’opra
cui fe’ con arte e studio il gran Vulcano:
quivi il ciel pose, e par che il tutto copra,
e ne le porte i Segni a destra mano
vedeansi, e a sinistra tutti quanti
fissi, e scorrendo gir le stelle erranti.

10Posan di sotto poi la terra e l’onde
confuse insieme, e in quella arbori e fiori
vedeansi, e Ninfe con le treccie bionde
fuggir leggiere i Satiri e i pastori;
vedeansi per li prati e per le fronde
far palese gli augei lor dolci amori;
ville, città, campagne, colli e monti,
uomini e fere e fiumi e laghi e fonti.

11Di vari pesci poi tutte eran piene
l’acque, e di conche e di più strani mostri,
vitelli, orche, testugini e balene,
curvi delfini con levati rostri;
con faccia feminil false sirene
quivi erano, e coralli e perle et ostri,
e molti dèi de le Nereidi l’orme
seguir vedeansi, e Proteo in varie forme.

12Sopra un gran seggio di smeraldi adorno
stavasi Apollo, e quivi era presente
cinto di bianca e sottil vesta il Giorno,
e l’Anno alato in forma di serpente
che si mordea la coda volto intorno,
presso a cui stavan l’Ore, che ugualmente
l’una da l’altra sempre era distante,
con l’ale al capo, a gli omeri, a le piante.

13Quivi la vaga e lieta Primavera
stava, di rose il crin cinta e di fiori;
le spiche in man tenea la State altera,
sprezzando ignuda i più cocenti ardori;
l’Autunno carco di bei pomi v’era,
di Bacco intento a rovinar gli onori;
di ghiaccio il Verno irsuto e di pruine
stava, e bianco di neve e il petto e il crine.

14Fuor de l’aula sublime ove soggiorna
la notte Apollo s’erge un’ampia strada,
che sempre in giro va talché ritorna
di nuovo a la medesima contrada,
di dodici palazzi alteri adorna,
convien che alquanto obliqua ella sen vada,
perché da l’una un colle, e poscia un piano
giace a l’incontro a quel da l’altra mano.

15Dietro la strada in quei palazzi stanno
molte persone, e seco egli cortese
tutto dispensa in gran letizia l’anno,
con ciascun d’essi stando intero un mese;
dodici costor sono e tra lor s’hanno
tutto partito quel sì gran paese:
quivi è Polluce e Castore, e si vede
Pane aver quivi stanza e Ganimede.

16Di dargli a gara ogni un cerca diletto,
e di far cosa onde al signor suo piaccia
quel tempo che egli alberga nel suo tetto,
col sonar, col pescar, col gire a caccia.
Quivi sono molti eroi d’altero aspetto,
con vaghe donne di leggiadra faccia;
quivi son navi e fiumi, e lire e vaghi
cigni, e corvi e pegasi e serpi e draghi.

17Quivi aquile, avoltoi sono e saette,
cui d’avventar si prendon quei piacere,
e con cani al signor par che dilette
di cacciar lepri e lupi e altre fere;
quivi al carro l’auriga i destrier mette,
e quei cacciando a tutto corso fère;
e, in somma, e di delfini e di balene
quivi son l’acque, e d’altri pesci piene.

18Pone Erigone e pon Cassiopea
sopra l’altar triangoli e corone;
Andromeda e Calisto e quivi Astrea
stanno, e Cefeo con Ercole e Chirone;
Perseo col fiero teschio, e si vedea
con Arcade Erittonio e Orione.
Tra questi adunque con letizia immensa
parte del tempo quel signor dispensa.

19Tosto che giunse al Sol Mercurio avante,
la mente a quel del sommo Giove espose,
e la cagion che ’l move a far che tante
ore a gli uomini stian sue luci ascose;
Febo, che il tutto scorge, di Costante
vide il naufragio e tutte l’altre cose,
e tre giorni e tre notti entro a quel muro
stando lasciò questo empisperio oscuro.

20Partito poi Mercurio d’Oriente,
verso Boote andò per l’aria bruna,
là dove appresso la cimeria gente
di fin cristallo ha il tetto suo la Luna;
ma la trovò che già, pura e lucente,
vista al viaggio suo l’ora opportuna,
sopra il carro d’argento altera ascesa
del sommo Olimpo avea la strada presa.

21Tira il bel carro un destrier nero e un bianco,
et ella, accesa, in man porta una face;
l’Ore le stan da questo e da quel fianco,
e il Sonno a i piedi suoi disteso giace;
segue il Mese non mai di correr stanco,
segue la Notte rugiadosa e tace,
d’ogni fatica umana ampio ristoro,
col manto oscuro e pien di stelle d’oro.

22Mercurio a lei non men fatto palese
quanto gli fu dal sommo Padre imposto,
quindi, mentr’ella ad ubidirlo intese,
tolto il Sonno con lui partissi tosto.
La verga il Sonno e l’ali fosche prese,
che a seguir sempre era il suo dio disposto,
e di leteo papavero un gran corno
pieno avendo, scorrea la terra intorno.

23Col corno il Sonno e con l’usata verga
Mercurio, ambi spiegando in fretta l’ali,
perché dal pigro letto alcun non s’erga
scorrean le stanze intorno de’ mortali;
né sol per tutto ov’uomo o donna alberga,
ma le fere e gli augelli e gli animali,
tutti da quei fur con tal forza tocchi
che in tanto alcun mai non aperse gli occhi.

24Che Febo adunque per tre giorni spenta
sua luce tenga alcun saper non puote,
né che via più del consueto lenta
vada la Luna, e con più tarde ruote.
Ma s’avvien pur che infermo alcun si senta,
o ch’altri stian con lagrimose gote,
né possa al sonno tener gli occhi chiusi,
ma che tal notte e sua lunghezza accusi,

25lunga a gli amanti, né mai chiuser ciglio,
più de l’usato già però non parse.
Di Maia a questi o de la Notte il figlio
le membra di leteo liquor non sparse,
ma steron sempre in sì dolce bisbiglio
che gli fur l’ore triplicate scarse,
e se tal notte a molti lunga e greve
parve, a gli amanti fu gioconda e breve.

26Talché a grand’agio allor fece palese
Costante ogni suo caso a la regina,
fino a quel giorno ch’ella sì cortese
l’accolse armata in ripa a la marina,
e che subito Amor di lei l’accese,
facendo del suo cor dolce rapina;
et ella a lui non men poté i martiri
suoi raccontar, le lagrime e i sospiri.

Vengono indette delle giornate di gare: la prima è la corsa (27-62)

27L’Aurora in tanto fuor dal croceo letto
uscita, e già scoprendo in Oriente
le chiome d’oro e il bel purpureo petto,
facea in terra svegliar la mortal gente;
questa pose intervallo al gran diletto,
che lasciate le piume incontinente
venner là dove gli attendea con molta
gioia la nobiltà tutta raccolta.

28La sera innanzi avea a Toringe imposto
Vittoria che di ciò per tutti i lochi
del suo impero mandar devesse tosto
la nuova, e incender d’ogn’intorno fochi;
oltra di ciò che il dì seguente posto
fosse ordine di far diversi giochi,
di cui la foggia e quanti e quai devesse
dar premi al parer suo tutto rimesse.

29Onde quel saggio e diligente vecchio,
senza mai riposar tal notte, or questi
or quei chiamando fa grande apparecchio,
pria che Vittoria e il cavalier si desti;
e innanzi a gli occhi ognor come in un specchio
questo avea ch’onorato ogni un ne resti,
ma più d’ogni altro il pio Costante e tutti
quei che seco d’Italia avea condutti.

30Dunque ordinò che de i romani eroi
fosse il primier giuoco, a cui si desse
ogni più ricco premio; a l’altro poi
principi tutti, ma stranieri elesse;
a i nobili di Gallia il terzo; a i suoi
figli e nepoti l’ultimo concesse.
E questo ordine suo l’altra mattina
seguente fe’ palese a la regina.

31Il che non pur lodò ma al cor le nacque
gioia infinita, sì ne fu contenta,
né cosa alcuna al suo Costante tacque
per saper ciò ch’egli ne parli o senta.
E visto chiaramente che gli piacque
l’ordine tutto, ad essequirlo intenta,
«De i Romani» gli disse «i più perfetti
nel corso da voi sian tra gli eletti.

32E tali sian che il vincitor n’apporte
gloria, né d’aver n’abbia il vinto sdegno;
ma quel che per virtute over per sorte
giugnerà primo al destinato segno,
tre gran corone in premio ne riporte
da me, cui stimo a par di questo regno,
per l’or non tanto e per le gemme sparte
che risplendono in lor, quanto per l’arte».

33E queste a lor mostrò, che già fur date
dal gran re d’India al giovenetto altero,
da cui fu vinto allor che in libertate
gli accrebbe il regno, non pur rese intero,
per denotarli in quella acerba etate
d’Europa e d’Asia e d’Africa l’impero;
queste Alessandro a Tolomeo poi diede
di sua virtute in premio e di sua fede.

34Morto Alessandro Tolomeo portolle
seco in Egitto, e quivi si serbaro
finché la pena de l’ardir lor folle
Antonio e Cleopatra riportaro,
ché Augusto il vincitor seco le volle
in Roma aver, prezzando quelle a paro
d’un nobil regno, e così tutti fèro
i successori suoi fino a Severo.

35Il qual trovato esausto e sottosopra
da Giulian tutto l’Imperio volto,
di questa a l’avo de la cui sorte opra
si valse contra di Pescennio molto,
donolle, onde Vittoria acciò si scopra
l’alto piacer che dentro avea raccolto,
sì nobil prezzo a quel promise lieta
che primo arrivi a la prefissa meta.

36«De la virtù poscia una statua d’oro
puro e d’avorio, gemma unica al mondo
tolta;» disse a Costante «e quel di loro
che al dato segno arriverà secondo
quest’abbia in premio, il cui nobil lavoro
sì come è fama publica, e secondo
che in essa scritto appar, lo fe’ già Fidia,
né questo al primo avrà d’avere invidia».

37Poi fe’ quivi portar di marmo fino
una bell’urna, in cui stava da un lato
la Notte che dormia col capo chino,
sì natural come spirasse il fiato,
da l’altro il Dì, che un dotto e pellegrino
mastro il tutto con arte avea intagliato,
un moderno scultor tosco e sì raro
che va di gloria con gli antichi a paro.

38Disse Vittoria: «E quel che al posto segno
giungerà terzo la bell’urna pigli,
ma perché ogni un de’ suoi stima esser degno
di ciò Costante, e tutti gli ha per figli,
acciò che seco alcun non prenda sdegno,
né che tra lor si mormori o bisbigli,
fa’ ch’entro un elmo scritto ogni un gli porte
il nome suo, poi quindi trargli a sorte.

39Salvio primiero uscì, con lieto grido
de la gran turba, ch’ivi alcun non tacque;
nato era questo nel felice nido
de l’alma Flora, d’Arno in ripa a l’acque,
e fu sempre a Costante e grato e fido,
sì l’alto suo valor sempre gli piacque;
da Salvio il nome Salviati prende
l’illustre casa che per tutto splende.

40Atestio fuor de l’elmo uscì secondo,
con maggior grido e di più gioia pieno;
costui sol nacque per giovare al mondo,
vicin là dove il Po raccoglie il Reno.
Traneo fu il terzo poi, ricco e fecondo,
nato non lunge al Tiberino seno;
Montio fu il quarto e il grido ecco rinnova,
sì a tutti aggrada il nome altero e giova.

41D’un picciol borgo di Toscana, detto
Sabin, questo dal Ciel concesso a noi,
fu con favor tra i padri eletto
per virtù propria e de i maggiori suoi.
Pollion quinto uscì, saggio e perfetto,
nato in Britannia di parenti eroi,
ma fu, per cagion pia quindi fuggito,
ne la città d’Antenore nutrito.

42Dove per quel sentier per cui si varca
a la vera quiete i passi volse,
e d’ogni vil pensier la mente scarca
tutte le virtù rare in sé raccolse,
onde chiamato da quel buon monarca
per la cui morte sì Roma si dolse,
fu contra voglia sua con speme tosto
fra la gente patrizia a seder posto.

43Che fuor de l’elmo più non si seguisse
di trarre alcuno il cavalier conchiuse,
certo che d’altri il nome non si scrisse
in cui fosser dal Ciel più doti infuse;
di ciò non fu bisbiglio e non si disse
parola, ma ciascun la bocca chiuse.
Di questi in guisa era il valor palese
che il non trarre altri fuor nessuno offese.

44Quei cinque eroi dunque il medesmo giorno
s’han da provar che primo al corso arrive.
Fuor di Marsiglia era un bel loco adorno
di vaghi colli e di ben culte rive,
a cui facea quasi una siepe intorno
boschi d’allori e di pregiate olive;
quivi mai l’erba sua stagion non perde,
ma si conserva ognor fiorita e verde.

45Per meta un scudo in questo loco posto
Vittoria in guisa che lontan si vede,
e quei tutti ad un par ciascun disposto,
la tromba il segno immantinente diede:
ecco innanzi apparir Pollion tosto,
sì ch’ei primo esser debba ogni un già crede;
Salvio dopo lui vien ma sì lontano
che ben conosce affaticarsi in vano.

46Terzo, dopo gran spazio, era Traneo,
quarto il nobile Arestio e Montio quinto:
venìa costui sì lento, e si perdeo
del campo ognor che parea indietro spinto,
però sempre ebbe speme, e sempre feo
dissegni come avesse il premio vinto,
benché a pena seguir possa con gli occhi
Pollion, qual già par che il segno tocchi.

47Pollion, primo, pur seguita il corso
del tutto essendo Apollo sua cagione.
Mercurio a Salvio ancor porge soccorso
per far lui vincitor de le corone;
onde come destrier c’ha lento il morso,
e che al fianco si sente acuto sprone,
ecco Salvio che il correr suo rinforza,
e par che prenda ognor correndo forza.

48E s’era a Pollion pur dianzi lunge,
or se gli appressa tanto immantinente
ch’ogni un d’intorno dice: «Ecco, l’aggiunge»,
e di grido intonar l’aria si sente;
già gli è del pari e con parole il punge,
«Vedi che il Ciel benigno non consente
che di tal mitra sia un britanno adorno,
di ciò restando a noi sol danno e scorno».

49Pollion non risponde e non si cura
del prezzo, ma il suo corso Apollo move,
che ad un tempo e per lui cerca e procura
e contra Salvio fa tutte sue prove;
Mercurio anch’ei pone ogn’industria e giura
d’impedir quello, ancor che al suo non giove.
Dunque per tal cagion convien che avanzi
Traneo del campo e che si faccia innanzi.

50Di tal contrasto accorto Atestio il piede
veloce affretta, e gran speranza prende;
Montio che in tanto rimaner si vede
lunge da gli altri, al Ciel le braccia stende
e da Mercurio e dal suo Apollo chiede
soccorso, e di desir tutto si accende,
cercando far con voti, offerte e prieghi
che l’uno e l’altro in suo favor si pieghi.

51«Apollo, tu sai pur» dicea «che tanti
oblighi t’ho per benefici immensi,
ch’altri sperar non dei che più tuoi santi
altari onori d’odorati incensi;
e tu, Mercurio, ancor non sai con quanti
affetti verso il tuo gran nome intensi
ti onorai sempre? Il tempo oggi è venuto
che d’ambo impetri il già promesso aiuto».

52Queste parole udendo Apollo e il figlio
di Maia, ch’altro più che far non sanno,
d’aiutar Montio sol prendon consiglio,
lasciando il tosco l’un, l’altro il britanno;
e mentre stanco, or pallido or vermiglio,
guarda il segno da lunge, a lui sen vanno
dandogli forza, ond’ei tosto divenne
leggiero in guisa ch’aver sembra le penne.

53Passa Atestio e Traneo, che pervaso
s’era di vincer tutti gli altri al corso,
Salvio percosso in un cespuglio a caso
cadde, che a tempo non trovò soccorso,
onde il gran sangue che gli uscì dal naso,
e che già gli era dentro a gli occhi scorso,
la maggior parte del veder gli tolse,
e dal sinistro piè sempre si dolse.

54Scorto Atestio che Salvio era caduto,
Salvio che amava e riveriva tanto,
fermossi e diegli a sollevar aiuto,
e gli occhi e il viso gli asciugò col manto;
di sì gran corso al fin Montio venuto,
lieto lo scudo avea già tocco intanto,
Pollion poscia e i duo fece quel caso,
terzi di par, sendo Traneo rimaso.

55Fornito il corso un grido ecco rimbomba,
talché risuona d’ogn’intorno il lido,
e sì come da stral tocco o da fromba
cadde più d’uno augel tosto a quel grido;
poi la regina con sonora tromba
publicar fe’ dal suo Taurante fido
vincitor Montio, e col favor d’Apollo
d’alto e più che regal diadema ornollo.

56Diede al britanno poscia e con ragione
l’aurea virtù, che solo a lui si debbe,
perché più l’apprezzò che le corone
tosto che vista e conosciuta l’ebbe;
poi la bell’urna in man d’Atestio pone
Vittoria, ond’ei che usar mai non potrebbe
se non modestia e cortesia: «Che questo
mio non sia» disse «è chiaro e manifesto.

57Perché se non venìa di Salvio il caso,
come da lunge ogni un vide e dappresso,
molto indietro da lui sarei rimaso,
con tutti gli altri e forse Montio istesso;
dunque a lui di ragion si debbe il vaso,
a me non già, che al terzo fu promesso.
«Anzi è tuo» disse Salvio «e chi tel diede
ne fa col dritto suo giudicio fede.

58Ché se allor non ti fosti ch’io cadei
per cortesia dal corso tuo ritratto,
tu il primo, io forse l’ultimo sarei;
l’urna abbi adunque e non si rompa il patto,
oltra che ancor di maggior premio sei
ben degno, per sì raro e nobil atto,
che il proprio util sprezzar per la salute
d’altrui palese fa tua gran virtute».

59Vittoria allor, che a belle e lodate opre
con ogni studio suo mai sempre intese,
disse al guerrier: «Ne’ vostri ancor si scopre
quell’ardor di virtù che in voi si accese.
Ciascuno il valor proprio offusca e copre
per far l’altrui più chiaro e più palese;
deh, perché non poss’io che in ogni parte
del mondo sian le vostre lodi sparte?».

60E detto ciò l’urna di nuovo diede
al magnanimo Atestio, e disse: «Questa,
benché sia al gran valor poca mercede,
mia mente in parte almen fa manifesta;
il non poter far quanto richiede
d’ambedue al merto assai m’ange e molesta,
ma non voglio però che resti in tutto
di Salvio la virtù senza alcun frutto».

61E fattosi portar di seta fina
un manto carco di ricami d’oro,
donollo a Salvio la gentil regina,
ond’ei del danno suo prenda ristoro.
Giove in quel si vedea, l’alta e divina
forma cangiando or farsi aquila, or toro,
or cigno, or pioggia, e darsi a quello in preda
Danae, Calisto, Almena, Europa e Leda.

62In questo in somma riccamente adorno
di bei trapunti a foggie vaghe e nuove,
dentro un gran fregio che ’l cingea d’intorno
tutti i furti amorosi eran di Giove.
Rimaso era Traneo colmo di scorno,
che senza premio sol quivi si trove,
ma Vittoria gli diè d’oro e d’argento
gran somma, ond’ei restò pago e contento.

La seconda è una finta battaglia (63-80)

63Fornito il corso e da Vittoria dato
con gran giudizio il suo premio a ciascuno,
vuoto lasciando il fresco e verde prato
si ritornò dentro a Marsiglia ogni uno;
ma poi che l’aureo crin di rose ornato
spiegò l’aurora, e scacciò l’aer bruno,
di nuovo usciro al loco istesso dove
gli stranieri anco avean da far lor prove.

64Molti eroi quivi e molti regi tratti
s’eran da i regni al gallico vicini,
chi per far con Vittoria accordi e patti,
che per seco fermar mete e confini,
perché di questa i gloriosi fatti
visto a gara ciascuno alti e divini
onori falle, ogni un cerca e desia
che tra lor ferma e stabil pace sia.

65Né da i vicini sol ma da i lontani
regni oltra i Pirenei, verso l’Occaso,
che di Vaccei, d’Iberi e d’Oretani
pochi o nessun de’ primi era rimaso;
ma i più potenti e valorosi ispani
tra quanti allor si trovàr quivi a caso
Aragonio fu l’un, l’altro Castiglio,
questi d’Arceo, quel di Mandanio figlio.

66E ben fur questi eroi famosi (come
narran l’istorie lor), per virtù degni
che d’Aragonia e di Castiglia il nome
da lor prendesser le famiglie e i regni;
di più tiranni avean le forze dome,
e de gli imperi lor portati i segni
oltra l’Ibero e il Tago, e varie genti
con pace ambi reggean giusti e prudenti.

67Questi fatti fur capi, e in lor rimesse
Toringe il modo del secondo giuoco,
onde ciascun di lor quaranta elesse,
e venner tutti al destinato loco;
quivi dal manco l’un, l’altro si messe
dal destro lato, e stati fermi un poco
si mosser, e d’intorno circondaro
il prato su i destrier due sempre al paro.

68Per mostrare a Vittoria e al cavaliero
con gli altri il loro addobbo altero e vago,
fuor che la sella ignudo ogni destriero
vedeasi, e reggea il freno un sottil spago;
come un carbon quel d’Aragonio nero,
venìa soffiando che sembrava un drago,
era in fronte stellato e il primo manco
piede avea più che latte o neve bianco.

69Egli poi d’oro avea la sopra vesta,
fatta a liste una gialla, una vermiglia,
sul capo un Argo ch’ogni luce desta
teneva, e incontro al sol fisse le ciglia;
nel bel vestir le gemme in quella e in questa
parte splendean da lunge a meraviglia;
vinti e vinti staffier d’un color stesso
vestiti gli eran quinci e quindi appresso.

70Ne la man manca un scudo a la divisa
del ricco manto avea, con l’altra poi
gìa vibrando una canna e in questa guisa
seguiano adorni tutti gli altri suoi.
Per stupor da sé quasi era divisa
Vittoria, e il cavalier con gli altri eroi,
dond’abbian quei tanto oro e gemme tratte,
e sì gran cose in picciol tempo fatte.

71Ma il nobil fondator de la Castiglia,
che d’avanzare ogni altro ha sempre usanza,
accresce a i riguardanti meraviglia
ché in spesa e in leggiadria l’emulo avanza.
Sopra un bianco destrier Marte simiglia
che in Tracia torni a riveder sua stanza,
per manto un drappo avea d’alto lavoro
doppio, e contesto riccamente d’oro.

72Grosse e candide perle erano sparte
nel manto, e gemme d’incredibil pregio,
che vivi raggi ardenti in ogni parte
uscir facean del guarnimento egregio;
molte penne vermiglie in quel, con arte
poste, vedeansi e intorno un ricco fregio;
sul capo avea un castel che a mille a mille
addosso gli spargea fiamme e faville.

73E il destrier sempre or l’uno or l’altro piede
s’accosta al petto e leva in aria salti,
talché a narrarlo ogni credenza eccede,
in tal guisa eran destri, in tal guis’alti.
Ad ogni salto del castel si vede
fiamma cader su per gli erbosi smalti,
di cui la turba meraviglia prende
visto che nulla ov’ella tocca incende.

74Con l’abito medesmo da ogni lato
quanti Aragonio avea mauri staffieri,
e poi ch’ebbe d’intorno circondato
quel loco, anch’ei co’ suoi seguaci alteri,
da una banda ciascun del verde prato
fermossi, e seco gli altri cavalieri,
bianchi i cavalli avea tutti Castiglio,
come i suoi negri di Mandanio il figlio.

75Diece intanto di quei da i destrier bianchi
corsero a lento fren tutti ad un paro,
e giunti appresso a gli altri, arditi e franchi
le canne in verso il ciel destri lanciaro;
poi con gli scudi tosto i lati manchi
coprìrsi, e con le destre il fren pigliaro,
fuggendo indietro a i suoi con fretta tale
che i veloci destrier par ch’abbian l’ale.

76Ma non prima a fuggir questi si diero
che fur seguiti da diece altri in fretta,
da diece altri di quei dal destrier nero,
di cui men presta d’arco esce saetta;
corte le staffe aveano, onde leggiero
ciascuno alto si leva e il tempo aspetta
atto a lanciar la canna, e mira e bada
acciò che indarno il colpo suo non cada.

77Da l’altra parte quei fuggendo han cura
che l’altrui canna non gli arrivi e tocchi,
e con la targa ogni un, ch’è grossa e dura,
dal piè tutto si cuopre infino a gli occhi;
si volse indietro, e ben guarda e misura
quando suo stral la man contraria scocchi,
onde altri arriva a i suoi libero e franco,
percosso altri ne porta il petto o il fianco.

78E giunti al loco lor quei primi diece,
di ugual numero tosto un’altra schiera
si mosse, e fe’ come la prima fece,
contra la parte che già presso gli era;
quei fuggon parimente, indi in lor vece
vanno altrettanti, e fèro in tal maniera
sempre, or fuggendo or dando a i suoi soccorso
fin che ciascuno ebbe lanciato e corso.

79Gran piacer fu a mirar gran meraviglia,
quei su le staffe sì leggieri alzarsi,
or questa or quella man prender la briglia,
e tutti sotto un picciol scudo starsi,
questo lanciar, quel fisse aver le ciglia,
subito a mezzo il corso altri fermarsi,
con leggiadria di terra altri raccorre
la canna, mentre a tutta briglia corre.

80Poi che i due capi e tutto gli altri insieme
lodati fur, Vittoria un’armatura
diede a Castiglio che di stral non teme,
né d’altro colpo, sì di tempra è dura;
d’avorio un arco a l’altro che l’estreme
parti ha d’argento, e un stral di tal natura
che tocca il segno destinato sempre,
fatto con salde adamantine tempre.

La terza è una gara di corsa con cavalli (81-126)rf)

81Di Gallia ogni gran duce il dì seguente
comparve d’oro alteramente adorno,
tosto che al balcon vider d’Oriente
farsi l’aurora, e portar seco il giorno;
e sopra un palco allor fatto eminente,
di ricchi panni circondato intorno,
Vittoria e il cavalier vennero al loco
dove s’era di far conchiuso il gioco,

82non molto lunge da quel verde prato
dove i romani eroi, dove gli Iberi
gran meraviglia e gran diletto dato
aveano a i duci, a i principi, a i guerrieri;
questo era un loco anticamente usato
per far publici corsi da i destrieri,
chiuso di spessi e d’alti abeti in guisa
che al febeo raggio era ogni via precisa.

83D’ogni altro comparir veggion primiero
Loranio, d’alto e gran seme latino,
di gemme adorno e d’or, sopra un destriero
candido più che un candido armellino;
quel, vago e destro e coraggioso e fero,
la testa storta e il collo ha curvo e chino,
nel gir co i piedi a pena il terren tocca,
e bianca spuma ognor gli esce di bocca.

84Dopo lui sopra un gran destrier morello,
candido in faccia ecco apparir Normando:
non men del primo adorno e non men bello
destrier cavalca, o men leggiadro, e quando
lo spinge, ancor che grosso, è così snello
che intento e fisso dietro a quel mirando
ne l’arena alcun segno non si vede
picciol né grande, ov’abbia posto il piede.

85Segue Brabanzio sopra un destrier bianco,
di nere macchie quasi sparso ad arte,
sempre nel corso più gagliardo e franco,
degno che sopra vi cavalchi Marte;
non vi si scorge da la groppa il fianco,
né in questa può capir, né in quella parte;
va di traverso e fa sopra il terreno
cader la spuma, e ne risuona il freno.

86Comparir per lo quarto ecco Vizero,
non come gli altri riccamente adorno,
nato in steril terren, ma il suo destriero
sì destro e snello si volgea d’intorno,
sì mille volte in corto spazio altero
correa veloce e poi facea ritorno,
sì leggiadro e sì facile a la briglia
che i riguardanti empìa di meraviglia.

87Baio oscuro il destrier, stellato in fronte,
le gambe e i crini e nera avea la coda.
Quinto Arminio seguia, di virtù fonte,
cosa che raro avvien che in signor s’oda;
le sue bellezze a tutto il mondo conte
ciascuno anco a i dì nostri ammira e loda,
di porpora e di gemme adorno e d’oro,
disceso esser parea dal sommo coro.

88Venìa sopra un destrier leggiadro, ch’era
bel di fattezze e il pelo avea roano,
con una lista in su la groppa nera
e dal sinistro primo piè balzano;
superbo ne l’andar con vista altera,
obediente e presto ad ogni mano,
con l’uno e l’altro piè zappa e percuote
la terra allegro, e fermo star non puote.

89L’altro è pur baio ch’Eldrio porta e d’oro
sembra il suo pelo, e tutto è pien di rose,
e il cavalier con ricco e bel lavoro
quel giorno in dosso un manto d’or si pose,
con foglie ricamate in quel d’alloro
per denotar le piaghe sue amorose,
e d’amor punto or forte, or pian sospira
mentre salta il destrier, mentre s’aggira.

90Dovea trovarsi Olando anch’egli al corso,
ma con l’artiglio una ferita diede
al suo destrier, mentr’era a caccia, un orso,
talché zoppo il lasciò dal destro piede;
traffitto d’aste al fin, da’ cani morso
ben di quei fece Olando e d’altri prede,
però rimase con suo grave scorno
dal corso escluso il destinato giorno.

91Brabanzio uscì d’ogni altro fuor primiero,
e primier posto in schiera a destra mano,
da man sinistra appresso ebbe Vizero;
Loranio il terzo uscìo, seme romano;
fu il quarto Arminio, e il quinto cavaliero
Normando, et Eldrio, che bramava in vano
di star nel mezzo, l’ultimo fu posto,
dal suo vicin Brabanzio più discosto.

92Con questo ordine acconci ogni uno intento
stava che via togliesser la catena,
di ciò i destrieri accorti in un momento
mille vestigi fan sopra la rena;
superbi, allegri et animosi, in cento
piè di terren capir non ponno a pena;
or destri alzando i piedi aspiran verso
la meta, or stan per dritto, or per traverso.

93La testa l’uno impaziente scuote,
e per desio di correr si consuma;
co i piè l’altro il terren zappa e percuote,
e fa del fren, mordendo, uscir la spuma;
questo astenersi dal nitrir non puote,
quel con gli occhi qual faci il corso alluma;
che del troppo indugiar mostra aver sdegno,
e chi trappassa il lor prescritto segno.

94Ciascun la tromba impetuoso aspetta
e s’infiamma d’ardor dentro e s’accende,
quando ecco udito il primo suon che in fretta
ciascun sì presto al corso si distende,
che men veloce d’arco esce saetta,
men veloce dal ciel folgor discende,
e men veloce l’aquila, già d’alto
vista la preda, va per farle assalto.

95Loranio e Arminio ch’erano per sorte
nel mezzo quando il corso cominciaro,
di par correndo i lor destrieri forte
dinanzi a gli altri nel partir restaro;
Eldrio e Brabanzio, che patir la morte
più tosto avrian quel dì che perder caro,
Normando innanzi vistosi e Vizero
sezzai venian battendo ambo il destriero.

96Par che tremi la terra e d’ogn’intorno
rimbomba il monte e ne risuona il lito;
la densa polve in guisa oscura il giorno
che il sol del tutto via sembra sparito;
non si conosce al manto ond’era adorno,
né al viso alcun, ma sol ciascun udito
da lunge vien, mentre gridando altero
loda o accusa o minaccia il suo destriero.

97Loranio avendo di paro a destra mano
d’Arminio avantaggiato il primo loco,
fatto ogni prova et ogni sforzo vano,
venìa restando indietro a poco a poco;
gli parve, giunto da Normando, strano,
e sentissi avampar tutto di foco;
Normando tanto avea battuto e punto
il suo destrier che al par già gli era giunto.

98Ma ciò non basta ancor, ché ad alta voce
gridando e percotendo il destrier sprona,
talché dal giogo estremo a l’ampia foce
del Rodano il terren tutto risuona;
Loranio, anch’ei terribile e feroce,
né a piè né a man quel di punto perdona,
ma con sferza e co’ sproni or punge or batte,
ché il timor con la speme in lui combatte.

99Correndo e contrastando ambi ad un paro,
che vantaggio nessun tra lor si vede,
le fibbie de gli spron sì gli intricaro
quinci e quindi col destro e il manco piede
che ad ambedue gli eroi tal nuovo e raro
caso avvenuto impedimento diede;
cagion che meno e l’uno e l’altro corse,
e vinse tal ch’avria perduto forse.

100D’allontanarsi l’un da l’altro prova,
credendo di spiccarsi in tal maniera;
ciascun volge al contrario il fren, né giova
che il piè possa ritrar di là dov’era;
poi la fortuna con disgrazia nova
Normando assalse, ond’ei s’ange e dispera:
mentre a scioglier l’un piè tutto è rivolto
ne la cinghia riman con l’altro involto.

101Mentre quasi per forza si dispone
di riaver lo spron dal destro lato,
ne la cinghia intricò quell’altro sprone
talché tutto restò preso e legato;
questo nuovo accidente fu cagione
che punto ove il destrier non era usato
mandasse in aria diece volte e cento
copie di calzi, al corso pigro e lento.

102Onde Loranio il misero percosse
nel piè sinistro con sì gran furore
che non sapea se notte o giorno fosse,
e quasi spasimò per gran dolore;
da gli altri urti strette le ginocchia mosse,
Normando il trasse da la sella fuore;
ma nel cader lo spron si ruppe e sciolto
restò col piè, qual neve bianco in volto.

103Che la fibbia e lo spron restasse rotto
per lui fu molto avventurosa sorte,
perché a l’altro destrier caduto sotto,
con strascinarlo e calpestarlo forte,
a tal termine al fin l’avria condotto
che il men mal fora in lui stata la morte.
Proprio in quel punto che cader convenne
Loranio, un altro simil caso avvenne.

104Che di Normando essendo il destrier punto
dov’esser non solea, lasciato il corso
e mille calzi e più quasi in un punto
tirando, e preso già co i denti il morso,
l’un de i ferri che al piede era congiunto
con forti chiodi (o caso raro occorso!)
spiccossi, e in fronte in tal guisa Vizero
ferì che cadde anch’ei giù dal destriero.

105Non così stride o sì veloce fende
l’aria, cacciato da dur’arco, strale;
né giù dal monte alcun torrente scende
gonfio per pioggia mai con furor tale;
né Giove, allor che a castigarne intende,
dal Ciel veloce avventa folgor quale
si vide allor quel ferro uscir dal piede
che in fronte al buon guerrier tal colpo diede.

106Stridendo al ciel mandò faville e tosto
Vizero tra le ciglia sì percosse
che in terra cadde, e il suo destrier discosto
fuggì, che non gli ostaro argini o fosse;
fu sopra un letto quasi morto posto,
con le vesti di sangue e molli e rosse;
Brabanzio intanto in guisa il destrier punse
che Normando varcato Arminio giunse.

107Facilmente varcar potea Normando,
cui tardo assai quell’accidente rese,
quando intricossi con Loranio e quando
stretto il morso co i denti il destrier prese,
ma che del campo ognor gisse avanzando
e che, a guisa d’augel con l’ali tese,
giungesse Arminio par miracol, anzi
che gli passasse come fece innanzi.

108Cento trombe mandar subito in alto
s’udiro il suono, e il capo era Taurante;
parea che a i Persi dessero l’assalto,
e, sempre avendo il vincitor davante,
lo condussero là dove su l’alto
palco Vittoria stava e il pio Costante,
con tutti gli altri principi, e con molto
piacer fu da ciascun quivi raccolto.

109E per suo premio gli donò Vittoria
un ricco vaso di purissim’oro,
dentro a cui tutta si vedea l’istoria
di Romulo, con nuovo e bel lavoro;
ciò ch’ei degno qua giù fe’ di memoria,
fin che ascese, dio fatto, al sommo coro,
di terra per miracol via sparito
si vedea in quel da dotta man scolpito.

110Prima nel Tebro crudelmente esposto
col fratel stava pargoletto e nudo,
dove un lupa sopragiunta tosto,
di natura animal feroce e crudo,
gli fu per gran secreto a l’uom nascosto,
contra ogni colpo di fortuna scudo,
porgendo lor benigna e mansueta
le poppe, colma d’incredibil pieta.

111Volgendo gli occhi a quei, torta la gola,
par che gli inviti con materno affetto;
ma in vece di mandar fuor la parola
gli porge il ventre e gli avvicina il petto;
de gli due infanti una nutrice sola
senz’aver tema del feroce aspetto,
con le mani ciascun giocando tocca,
e prende or questa or quella mamma in bocca.

112Le bianche man sopra l’oscuro pelo
con artificio son mirabil fatte,
e gli occhi alzar quei due gemelli al cielo
si veggion mentre stan suggendo il latte;
traffitto Amulio poi d’acuto telo,
e in lor soccorso molte genti tratte
stan quivi, e surgon quelle altere mura
ch’empiro e terra e ciel già di paura.

113Si veggion da le parti indi vicine
venir le donne a Roma al divin gioco,
e i romani rapir poi le sabine,
giunte che fur al destinato loco;
con gran prudenza impor si vede fine
a lo sdegno, a la guerra, e spento il foco
pregan le donne in questa e in quella parte,
padri e mariti con le chiome sparte.

114Romulo, posto a morte Acron, si vede
vincer Veienti e vincer Fidenati,
e portar sempre in Campidoglio prede
di principi e di re da lui spogliati;
salir si vede al fin su l’alta sede
dove i giusti nel Ciel son premiati,
e quivi con altari e templi ognora
Roma l’invoca e per suo dio l’adora.

115Diede ad Arminio ancor Vittoria un vaso
di puro argento, e in quel si veggion d’oro
le Muse e Febo sopra il gran Parnaso
tesser corone d’edera e d’alloro;
quivi Ippocrene e quivi sta Pegàso,
quivi alternando ogni un a doppio coro
la bocca apre, e sì ben la lingua snoda
che ad ascoltar par che la voce s’oda.

116D’intorno un fregio avea con bei colori
di narcisi e di crochi e di giacinti,
e d’altri vaghi e sì ben fatti fiori
che parean veri, non da l’arte finti;
faggi, abeti, cipressi, orni, alni, allori,
celsi, platani, olive, elci, olmi, cinti
con ordine mirabil tutti quanti
v’eran di viti e d’edere e d’acanti.

117N’ebber Loranio ancor premio e Vizero,
benché allor fosser l’uno e l’altro in letto,
perché l’esser caduti dal destriero
non fu per colpa lor, né per diffetto,
ma ciascun s’era esperto cavaliero
di tanti duci allor mostro al cospetto;
da Vittoria ogni un d’essi ebbe una vesta
di porpora, d’argento e d’or contesta.

118Ne la città poi fèr tutti ritorno,
e quivi la regina e il cavaliero
subito andaro, e fèr lungo soggiorno
dove in letto Loranio era e Vizero.
Quindi partiti, e visto ancor del giorno
restar quasi di verno un giorno intero,
Vittoria con Toringe fe’ consiglio,
presente ogni nepote, ogni suo figlio.

119E giovenetti essendo una gran parte,
con dir colmo d’affetto gli essortaro
che volessero usar la forza e l’arte
nel giuoco, ond’essi stian con gli altri a paro;
poi quindi ogni un di lor tratto in disparte
fèr sì che insieme ognor si essercitaro
non pur il resto di quel dì ma tutta
la notte ancor, co i torchi in forte lutta.

120La regina per meglio anco infiammargli
e per far che ogni un divenghi ardito,
una giovene bella fe’ mostrargli
che a pena il terzo lustro avea compiuto,
e per colui quella promise dargli
che saria vincitor del giuoco uscito;
mostrogli ancora, e dar promise loro,
per chi vincea secondo un fanciul moro.

121La giovenetta di color simiglia
prezioso rubin, candida perla
ne gli occhi, ne la fronte e ne le ciglia,
e in tutto il viso dea sembra a vederla;
sì bella appar che non è meraviglia
se di Toringe per desio d’averla
si provassero i figli, e co i nepoti
porgesser prieghi a Dio, facesser voti.

122Sì gentil poi quella si mostra e tanto
modesta e saggia, e sì l’onor conserva,
sì prattica è nel suono e sì nel canto,
e sì ne l’arte dotta di Minerva
che il vincitor potrà ben darsi vanto;
e se fortuna cieca, in farla serva
l’avea trattata da crudel matrigna,
natura ben le fu matre benigna.

123Quel fanciul moro ancor de i cavalieri
sì gli occhi a sé tirò, ch’eran presenti,
che, in oblio posti gli altri lor pensieri,
rimaser tutti a rimirarlo intenti.
Le mani e il volto e i crini avea sì neri,
sì bianchi avea tra nere labbia i denti
che i ligustri da questi erano vinti,
da quei le bragie, anzi i carboni estinti.

124Da le orecchie pendean perle al fanciullo
candide e grosse, e riccio era la chioma;
vincea Latin parlando, Albio e Catullo,
nel centro esser parea nato di Roma.
Porgea a sentirlo ancor gioia e trastullo
mentre parlava in arabo idioma;
rispondea pronto a popoli diversi,
Greci, Indi, Armeni, Ebrei, Fenici e Persi.

125Diece mori Vittoria avendo in corte
che l’un l’altro a parlar non s’intendea,
di tutti egli era interprete di sorte
che a gli ascoltanti gran stupor porgea;
di là da l’ampio regno ove la forte
Candace altera già regnar solea
fin dove il Nilo in Etiopia nasce,
nacque il fanciullo e fu nutrito in fasce.

126Salti meravigliosi e nuovi balli
leggiadramente ognor muove, non solo
sopra il terren ma ancor sopra i cavalli,
mentre veloci van battendo il suolo;
non sì destri ne i boschi e ne le valli
sopra i rami gli augei sen vanno a volo
com’ei sopra una corda, e sia pur alta
quanto si voglia, in aria or corre or salta.

La quarta è un torneo di lotta (127-152,2)

127L’altra mattina poi, mentre l’aurora
de l’onde uscita al sol facea la scorta,
di nuovo quei signori escono fuora
de la città per la medesma porta,
e giunti al loco istesso fanno ancora,
sendo strada miglior questa e più corta,
quivi accoppiar quei lottatori a caso,
secondo ch’escon fuor tutti d’un vaso.

128E chiamato un fanciul, Toringe tosto,
Toringe che indugiar punto non puote,
e scritto dentro un’urna il nome posto
d’ogni suo figlio e d’ogni suo nepote,
Picerde il primo uscì, grande e disposto,
ch’avea il crin d’oro e senza pel le gote;
ben di Toringe si mostrava degno
nepote a la gran forza, a l’alto ingegno.

129Vasconio fuor de l’urna uscìo secondo,
di Toringe figliuol, ch’oltra misura
picciol di corpo, il crine ha crespo e biondo,
forte di membra e vago di figura;
bench’egli appaia ognor dolce e giocondo,
però non ebbe mai d’altr’uom paura;
leal sempre a Vittoria, accorto e fido,
farà chiaro volar d’intorno il grido.

130Così quei duo furo accoppiati insieme;
l’altra coppia fur Tetrico e Lungedo,
d’aver la donna colmi ambo di speme;
la terza fur Probenzio e Cataledo,
questi e quei di Toringe illustre seme;
poscia Delfin, di cui maggior non credo
che si trovi di Gallia in tutto il regno
(fuor che suo patre) di valor, d’ingegno.

131Matrico uscito poi fu con Delfino,
questo accoppiato, e più nessun vi resta,
l’un l’altro insieme era fratel cugino;
la quarta coppia e l’ultima fu questa.
Vittoria adunque e il gran guerrier latino
piacer mostrando e gioia manifesta,
con ciascun duce asceso il palco in alto
stavano intenti per mirar l’assalto.

132Vasconio e il suo cugin Picerde, in tanto
spogliato et unti d’oglio ambi d’oliva,
da questo l’uno e l’altro da quel canto
ridendo e motteggiando sen veniva.
E indritto al palco giunti e quivi tanto
fermatisi, ché il nome lor si scriva,
l’un verso l’altro poscia arditi andaro
pian pian, né così tosto s’abbracciaro.

133Sendo ambedue non men che arditi e forti
di gran giudicio, l’un e l’altro saggio,
stettero a risguardar gran pezzo accorti,
sempre aspirando al suo maggior vantaggio.
Larghi le gambe parimenti e torti
le braccia, tenta ogni un che il febeo raggio
contrario il suo fratel ne gli occhi colga,
e ch’ei le spalle a quel sempre rivolga.

134Poi che un pezzo pian pian con lungo giro
sempre in tal guisa il campo circondaro,
destri ad un tratto insieme si ghermiro
e con mani e con piè stretti legaro;
da lunge i denti batter quei si udiro,
mentre sì impetuosi si abbracciaro;
se ben Vasconio al mento di Picerde
non giunge però l’animo non perde.

135Spesso per molto spazio con le braccia
legate insieme e l’uno e l’altro stassi,
e, fatto curvo il grande, a faccia a faccia
si stan, né qua né là muoveno i passi;
che de le dita i forti nodi straccia,
chi s’alza e chi convien che in giù s’abbassi;
su i piè fermi alternando ambi con ambe
le mani or stringon fianchi, or braccia or gambe.

136Talor par che l’un d’essi cada in terra,
ma più feroce subito risorge,
e il rival con le braccia stretto afferra,
né vantaggio tra lor punto si scorge;
spesso al petto il maggior l’altro si serra,
ma quel, che del periglio suo s’accorge,
con le mani e co i piè se stesso aiuta
e, destro, presa or quinci or quindi muta.

137Come in riva del Po l’alno, o il cipresso
che s’erge al ciel sopra una piaggia alpina,
quando l’Austro s’adira o il Borea spesso
la cima verso la radice inchina,
di nuovo sorge, e vinta da l’istesso
furor di nuovo a terra s’avvicina,
così fanno i due gioveni e si vede
ch’or l’un supera l’altro, a l’altro or cede.

138Talor Picerde il grande si radoppia
contra il picciol Vasconio, e spesso il petto
questo col ventre di quell’altro accoppia,
e stan gran pezzo l’un con l’altro stretto;
chi guarda afferma che l’un d’essi scoppia;
poi di lasciarsi e questo e quel costretto
or collo, or fianco, or gamba con la mano
di prender cerca, e spesse volte in vano.

139Vasconio, essendo nerbi et ossa tutto,
largo gli omeri e il petto, e stretto il fianco,
e de le membra in ogni parte asciutto,
con maggior lena, ognor fatto più franco,
a tal termine l’altro avea ridutto
che di sudor già molle, anelo e stanco,
con la grandezza più che con la forza
s’aiuta, e d’esser vincitor si sforza.

140Ma spinto da l’onor più si raccende
Picerde, e il valor suo più chiaro scopre;
Vasconio spesso arida polve prende
con le mani, e il fratel tutto ne copre,
acciò che mentre a la vittoria intende
con gli effetti e con l’animo e con l’opre,
più facilmente in queste parti e in quelle
fermar possa le man ne l’unta pelle.

141Più volte al collo poi quel se gli avventa,
d’ambo i piè su le dita alzato in alto,
ma picciol troppo essendo indarno tenta
né può levar, stretto tenuto, il salto;
onde tutta la mente avendo intenta
con sua gran lode a terminar l’assalto,
quei nervi di pigliar subito addocchia
che son dietro, e inchinar fan le ginocchia.

142Mentre Picerde intento si difese,
ché nol potesse mai prender nel collo,
Vasconio chino a l’improviso il prese
ne le ginocchia, e subito piegollo;
poi nel petto col capo sì l’offese,
forte spingendo, che cader sforzollo;
supin cadde Picerde e con la schena
gran segno impresse ne l’asciutta arena.

143E Vasconio abbracciato avendo stretto,
mentre facea per atterrarlo ogni opra,
se lo tirò nel cader giù sul petto
talch’ei di sotto, e quel restò di sopra.
Vasconio parte poi perché il difetto
di Picerde, sì publico, si copra,
d’ascosto aiuto con le man gli diede
e visti furo ambi ad un tempo in piede.

144E con modestia in fronte si basciaro,
poscia l’un da l’altro avendosi per mano
ridendo in verso l’alto palco andaro,
dov’era la regina e il gran romano,
e riverenti quei tosto inchinaro
del palco a piè sopra l’erboso piano.
Di qua poscia e di là tosto appariro
quei che secondi fuor de l’urna usciro.

145Ma poi che appresentati e scritti furo,
per dar principio al lor assalto intenti,
l’aer, ch’era pur dianzi e chiaro e puro,
per forza d’aspri e di rabbiosi venti
così divenne a l’improviso oscuro
che i bel raggi del sol sembraron spenti,
e con tuoni e con fulmini e con lampi
correan di pioggia e boschi e selve campi.

146Costretti adunque a far tutti ritorno
dentro a Marsiglia, abbandonaro il loco,
col pensier fermo che il seguente giorno
si ritornasse a terminar quel gioco;
ma i figli co i nepoti ebbe d’intorno
Toringe, i quai di speme nulla o poco
tenendo d’arrivar de i primi al paro,
con gran modestia in tal guisa il pregaro,

147«Signor,» dicendo «i due fratelli tanto
son riusciti al parer nostro bene
che riportato alteri avendo il vanto,
diciam che il precio a lor dar si conviene».
Per tenerezza non ritenne il pianto
quel vecchio, e sentì allor dentro a le vene
nuova speme destarsi, e dolcemente
quegli abbracciò, come solea sovente.

148Poi dinanzi a Vittoria quei condutti,
le disse quanto inteso avea da loro;
prima lodolli assai Vittoria tutti,
poi chiamata la donna e il fanciul moro
dove i guerrieri e i duci eran ridutti,
quella tutta di gemme adorna e d’oro,
per man presa a Vasconio appresentolla,
e come a vincitor pronta donolla.

149Ma perché d’un continuo ardente foco
Vasconio acceso avea nel petto Amore,
la speme sua nel più sublime loco
riposta avendo, e collocato il core,
però curossi de la serva poco,
benché di beltà colma e di valore,
ma divenuto or bianco or rosso in volto,
parlò in tal guisa a la regina volto:

150«Magnanima regina, io veggio certo
ch’io son da vostra altezza premiato
via più di quel che si richiede al merto,
talché d’eterna servitù legato
il mio cor sempre mostrerolle aperto,
né mai da lei mi partirò da lato,
e in acqua e in terra ognor voglio seguirla,
in qual fortuna sia pronto a servirla.

151Ma la supplico ben per questa mia
servitù, che trovar non può maggiore,
che al buon Picerde la fanciulla dia,
ché in armi e in lotta egli è di me migliore».
Così Vittoria fe’, se ben quel pria
si chiamasse a Vasconio inferiore;
però sforzato alfin pronto accettolla,
et a sua matre subito donolla.

152Diede a Vasconio poi Vittoria il nero
fanciul, che Cigno era per nome detto.
Poi di quel giorno tutto il resto interoCostante e Vittoria diffondono un editto: che ogni abile in armi si presenti entro quattro mesi, apparecchiato per andare in Oriente (152,3-153)
con balli e canti ogni un speso in diletto,
comandò la regina e il cavaliero
c’ivi ogni duce a i regni lor soggetto
fra quattro mesi quanto può di gente
conduca per l’impresa d’Oriente.

153E quanto a i duci ch’ivi eran presenti
fu detto a bocca, ancor mandato in scritto
a tutti quei che si trovaro assenti,
publicossi per tutto il nuovo editto.
Vittoria e il cavalier mentre le genti
stanno aspettando al termine prescritto,
di cento navi e più crescon l’armata,
perché sia al tempo in porto apparecchiata.