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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro X

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 10.09.15 19:05

Argomento
Costante a Regillan la figlia resa,
quella per moglie il buon Ragusio prende.
Nuove insidie Giunon superba tende
contra il guerrier, di nuova rabbia accesa.

Costante punisce Regillano e prende la via di Marsiglia (1-12)

1La dea, tornata a la spelonca intanto,
di Regillan trovò la bella figlia
cercato aver già l’antro in ogni canto,
ma indarno, per trovar la sua famiglia,
talché soletta in doloroso pianto
si stava, e tutta in viso era vermiglia;
ma tosto ogni sua donna, ch’ancor diece
sol ne vivean, quivi trovar le fece.

2L’altre, che tante fur due volte, parte
se ne morìr d’affanno e di dolore,
parte lor stesse uccisero, e Malarte
svelto a gli uomini tutti avea già il core;
ciò Felice sapea, ch’ebbe le sparte
lor membra innanzi a gli occhi a tutte l’ore,
ma perché mai non seppe ove condutte
fosser le donne, avea timor di tutte.

3De la necessità dunque virtute
fatta, fra genti inique e scelerate,
non tanto imaginossi aver perdute
le morte, quanto l’altre racquistate;
quelle per la insperata lor salute,
e per veder lei posta in libertate,
colme d’alto piacer se le inchinaro
e riverenti ambe le man basciaro.

4Poi mosse da la dea quivi presente,
d’un paesan pur sotto forma ascosa,
ciascuna d’esse accorta e diligente
facea per l’antro or questa or quella cosa.
Le donne che Malarte e la sua gente
servir solean senza mai prender posa
corsero al ponte per scontrargli aperte
le prigion viste e di lor vita incerte.

5Ma quivi giunte e morti per le fronde
quei trovati giacer, languide e smorte
giù da la ripa si gettàr ne l’onde,
e disperate vi rimaser morte;
l’altre a mal grado lor dunque gioconde,
perché dal faticar si riconforte
Costante, opraro con prestezza immensa,
ch’ei di nuovo trovò carca la mensa.

6Al giunger suo fu con letizia grande
da la fanciulla e da le donne accolto;
poi di buon vino e d’ottime vivande,
con tutti gli altri ristorato molto,
ch’uopo non è ch’indi lontan si mande
per trovar cibi, avendo ivi raccolto
quei che rubando ognor per tutto andaro
ciò che si puote imaginar di raro.

7Poi ch’essi adunque lor grand’agio in tutto
d’ogni fatica ristorati furo,
acciò che ogni un passar quindi per tutto
possa con l’oro in man solo e sicuro,
Costante comandò ch’ivi condutto
fosse Malarte, e già sendo maturo
a la pena il peccato, ignudo preso
e su la mensa a forza fu disteso.

8Destro era e grande, e di forza infinita,
ma fu la forza e la destrezza in vano,
ché quanto fuor del desco uscian le dita
privonne i piedi e l’una e l’altra mano;
e poi che, per più strazio, alquanto in vita
lasciato l’ebbe il cavalier romano,
la testa gli troncò tra gli occhi e il naso,
ch’ivi a punto giungea la mensa a caso.

9La providenza eterna, che non erra
giamai, né tarda le vendette giuste,
cagion fu ch’ei togliesse allor di terra
questo nuovo Sciron, nuovo Procuste.
Non lo volse abbrusciar, né por sotterra,
ma quelle membra dianzi sì robuste
furo in diverse parti del paese
per dar spavento a tutti gli altri appese.

10Poi fe’ Costante subito sul foco
gettar l’orribil legno e maledetto;
e tre giorni fermossi in questo loco,
de gli altri avuto al commodo rispetto,
che dispensàr quel tempo in festa e in gioco;
ma poi che il tutto fu messo in assetto,
tosto che Febo il quarto giorno ascese,
la face verso Illiria il camin prese

11con le donne e la giovene, che seco
sempre fe’ gir dal destro lato a paro,
e quel tutto del suo ch’entro a lo speco
salvo si ritrovò, con lor portaro.
Disse a gli altri guerrier: «Ch’esser vuol meco
lo supplico a venir, che mi fia caro;
chi non puote o non vuol prenda la strada
che più d’uopo gli fa, che più gli aggrada».

12De le fatiche ogni un grazie gli rese,
ch’ei per trargli da morte avea sofferte;
poscia chi seco andò, chi da lui prese
licenza, e tutti gli fèr gran proferte;
eran quei che il lasciaro ad altre imprese
volti, allor che per vie strette e coperte,
credendo che il camin fosse sicuro,
dal rio Malarte imprigionati furo.

Lungo la strada, chiede a un giovane mesto di raccontare la sua storia: costui è Ragusio, infelice figlio di un suddito di Regillano (13-72)

13Tra gli altri andò quel giovenetto
che al ponte egli salvò; costui nel viso
non mostrò mai ne l’antro aver diletto,
com’ebber gli altri, di Malarte ucciso,
ma come avesse ognor traffitto il petto
da mille strali e il cor da sé diviso,
pensoso andava e macilente e scarno,
dal trar sospir si ritenea ma indarno.

14Quella sera che al ponte fur le prove
contra i ladroni fatte e ch’ei fu sciolto,
subito giunto a la spelonca, dove
trovò la donna e che la vide in volto,
tra sé gli parve averla vista altrove,
ma perché ad altro avea il pensier rivolto,
stimolato da pena acerba e dura
gli occhi abbassò, né più vi pose cura.

15Ma la mattina, poi che furon tolte
di terra l’ombre, a lei pur rimirando
di nuovo ricordossi aver più volte
lei vista, ma non già dove né quando.
Quella non men, le luci a lui rivolte,
tacita si fermò, tra sé pensando
che pur l’ha visto, ma non si ricorda
il tempo o il loco, sì con lui s’accorda.

16E in questa guisa ognor ch’erano appresso
tutti quei giorni che ne l’antro stero,
fisso guardavan l’uno a l’altro spesso,
e simil anco per la strada fèro;
talché non valse aver l’animo oppresso
da grave doglia al giovene severo,
ché un dì scontrato insieme ambi lo sguardo
nel cor gli entrò d’Amor l’ardente dardo.

17O misero, o infelice giovenetto!
O rara, o nuova, o non credibil cosa,
ch’avendo pien di mille cure il petto
vi possa ancor capir cura amorosa!
Meraviglia non è s’ora costretto
sei di mandar, senza mai prender posa,
sospiri ardenti, onde l’occulta interna
fiamma d’amor si scuopra e si discerna.

18Del tanto suo dolor sì manifesto
non era alcun che non si fosse accorto,
visto lui sempre gir dolente e mesto,
di poco cibo sazio, afflitto e smorto,
né d’essi fu chi non tentasse questo
dolor scemar col dargli alcun conforto;
ma nulla posson fatti e men parole
che ritrovar non san dove gli duole.

19Ma che direm de la gentil fanciulla,
ch’oltra ogni creder suo fuor di catena
sen giva al padre, onde pur dianzi nulla
serbava più de la passata pena?
Ed or non si rallegra o si trastulla,
né si conosce in lei mente serena;
molto è cangiata, il core ad altro è intento,
che già il novello ardor l’antico ha spento.

20Sicuro intanto il cavalier passato
già tutto avea l’italico paese,
che invisibile ognor standogli a lato
Minerva, lo salvò sempre e difese;
del giovenetto anch’ei dunque notato
l’animo oppresso, a lui tutto cortese
volto disse: «O figliuol, s’ogni desio
vostro s’adempia e vi consoli Dio,

21deh ditemi, vi prego, in cortesia
se il dir però non v’è grave e noioso,
la patria e il nome vostro, e donde sia
quella cagion che sì vi fa pensoso.
Ciascun pietà di voi prende, e desia
ch’abbiate, almen talor, tregua e riposo;
però se il vostro mal fia noto, alcuno
forse rimedio vi darà opportuno».

22Tacque ciò detto; e la fanciulla bella,
che non potria maggior diletto averne,
soggiunse: «Anch’io vi supplico, per quella
cosa che più bramate d’ottenere,
che noia non vi sia darci novella
di quanto il cavalier desia sapere;
e dove gir vogliate e s’anco involto
di nodo marital voi sète o sciolto».

23Per strada a caso il giovene compreso
d’altri al parlar, con sua gran meraviglia,
questa, che gli avea tanto il petto acceso,
esser di Regillan la bella figlia,
de la cui morte avendo il padre inteso
tristo ne gìa con lagrimose ciglia,
subito, gli occhi in lei fissi, guardolla,
e finalmente pur raffigurolla.

24E vistosi pregar con dolci prieghi
a punto allor da quelle due persone
cui deve tanto, è forza che si pieghi,
anzi ogni studio in compiacerli pone,
rispose adunque: «A voi non fia ch’io nieghi
qual si voglia mai cosa, e con ragione,
ché la vita da l’un conosco in dono,
servo e soggetto a l’altra insieme sono.

25E benché lieve altrui fosse il dar nuova
de la stirpe onde nacque e di se stesso,
a me fia grave; ma però mi giova
via più di far quanto è da voi commesso;
e troverete, se ne fate prova,
queste mie membra ad ogni strazio espresso
tutte esposte per voi da sommo ad imo,
la vita non dirò, ch’io non la stimo».

26Soggiunse poi «Sappiate», avendo il ciglio
volto a Felice e sospirando forte,
«ch’io son Ragusio, quel d’Arpago figlio,
tanto del padre vostro amato in corte,
e di mia patria in volontario essiglio
men vo, mercé de l’empia e dura sorte,
con tal rossor di me che a tutto il mondo
la stirpe e il nome mio celo e nascondo.

27In tutta Illiria nessun altro, dopo
il re, più stato d’Arpago possede,
ch’ei di Scodra non pur duce e d’Europo
ma d’ogni terra che tra queste siede,
di mille e più talenti non ebb’uopo
giamai, sì come ogni un giudica e crede;
ma perché l’uom giamai non si contenta,
né mai riman d’aver la sete spenta,

28al padre vostro, che di gemme e d’oro
gli altri re tutti avanza uniti insieme,
gli nacque di rubar l’ampio tesoro
ad un sol punto desiderio e speme,
quando con sì leggiadro e bel lavoro
fe’ d’Epidauro ne le parti estreme
Regillan fabricar quell’alta torre
per far tutto il tesor quivi riporre.

29Ma destinato ch’ebbe di far l’opra
un de gli amici suoi, persona esperta,
con gran provision vi pose sopra,
che visto in altro avea sua fede aperta;
ma, lasso, al fin convien che pur si scuopra
la fraude in fino a qui stata coperta:
questo architetto troppo iniquo e rio,
corrotto in breve fu dal padre mio,

30onde in tal guisa fece un marmo porre
l’ingrato, senza aver cagion di sdegno,
che facilmente un sol torlo e riporre
potea, con arte tal, con tale ingegno
che sottilmente a risguardar la torre
né dentro né di fuor n’apparia segno.
Mio padre poi scoverse a noi suoi figli,
ch’eravam quattro allor, gli empi consigli,

31dicendo che ad ognor pensava come
veder potesse tutti e quattro insieme
di corona regal cinti le chiome,
di che innanzi a la morte avea ancor speme;
ma che da gli anni essendo in lui già dome
le forze, e di vigor le membra sceme,
toccava a noi di esporci, arditi e forti,
per questo a mille strazi, a mille morti.

32Poi ci narrò, per far l’istoria breve,
tutto il dissegno suo qual fosse a pieno;
il che d’udir mi fu sì duro e greve,
sì d’ira il cor gonfiommi e di veneno
che in un punto divenni e foco e neve,
e se non era che a quell’ira il freno
la ragion pose, avrei mio padre ucciso
da me medesmo, per dolor diviso.

33L’impeto istesso un mio fratello assalse,
ma la istessa ragione ambeduo tenne;
volerlo appalesar mostrai, né valse,
ch’ei da quel rio pensier non si ritenne;
ben si sforzò, con sue parole false,
di farmi creder che a tentar mi venne,
per far prova se in me poner tal fede
possa il re mio signor, qual si richiede.

34Ma ben m’accorsi ch’oro in copia e spesso
portavan gli altri due fratei maggiori,
come dal padre nostro era commesso,
di che s’udiron poi tosto i romori,
ché il re s’avvide, con suo danno espresso,
quindi esser tratto d’or gran somma fuori;
l’arche ogni giorno più rimangon sceme,
e vòte in breve ancor trovarle teme.

35Cerca né può trovar dov’entra, ond’esce
quel ladro, e il tempo in van cercando spende,
di cui via più che del tesor gli incresce,
onde lacci di ferro in copia tende,
e come augello al visco, a l’amo pesce
prender veggiam talor, l’un d’essi prende,
che aprir volendo una grand’arca tocca
l’occulto laccio, e quel subito scocca.

36E dal piè tutto in fin quasi a le gote,
senza potersi aitar, legollo stretto,
talché l’aggira in van l’altro e lo scuote,
d’improviso dolor traffitto il petto;
quel duro ferro in van lima percuote,
onde al fin di lasciarlo ivi costretto,
da l’alta torre in fretta giù discese
e tutto il caso al padre fe’ palese.

37Il padre allor, senza che pur mostrasse
un picciol segno di mestizia in volto,
tosto gli comandò che ritornasse
dove l’incauto suo fratel fu colto,
di cui la testo a lui giuso portasse,
quivi lasciando il tronco ignudo involto;
tornò quel dunque subito, e dal collo
spiccogli il capo, e morto ivi lasciollo.

38Sopra la torre il padre vostro asceso
l’altra mattina, a lo spuntar del giorno,
e colui senza capo e nudo preso
trovato, restò pien di doppio scorno;
onde, colmo di doglia e d’ira acceso,
al palazzo regal fece ritorno,
dove ardendo di rabbia e fulminando
per tutto il regno suo gir fece un bando,

39nel qual gran premio e ricco a quel propose
che ladro sì sottil faccia palese,
e il prezzo intero in altrui man depose,
prescritto avendo il termine d’un mese;
il qual durando, il re di quante cose
fino allor tolte avrà gli fia cortese;
poi triplicato il premio ancor promette
a chi ne le sue man vivo lo mette.

40E se per caso due questi, o più sono,
già tante volte a rubar l’oro ascesi,
colui premio n’avrà non che perdono
che primo gli altri al re farà palesi,
con quelle gemme e quei danari in dono,
che allor ne’ suoi bisogni avrà già spesi;
ma tosto il fisso termine fornito,
il conscio fia non men che il reo punito.

41Tal bando in guisa al padre mio dispiacque,
e sì grave timor gli infuse in petto
che languido più giorni e tristo giacque,
e non picciol di me gli entrò sospetto,
e di quell’altro mio fratel, che nacque
meco ad un parto istesso, Armodio detto,
perché noi spender tutto il tempo nostro
ne i servigi vedea del padre vostro.

42E ch’amava ambedue quai propri figli
dandone imprese e gran maneggi ognora,
gli accrebbe anco il timor, ché i suoi consigli
accettati da noi non furo allora;
già sapea ch’io m’accorsi in quai bisbigli
fosser pur dianzi, e del fratello ancora
che ucciso l’altro avea dentro a la torre,
onde ancor noi pensò di vita tòrre.

43E volgendo in qual guisa agevolmente
potesse l’empio e di nascosto farlo,
tra sé conchiuse questo rio serpente
(che padre mi vergogno a nominarlo)
di far ch’io dessi morte a l’innocente
mio frate, et egli a me, d’Armodio parlo,
col qual congiunto fui di tanto amore
che men cara mi fu l’anima e il core.

44Voi dovete saper che una sorella
mi trovo aver, ma d’altra matre nata,
sì di costumi adorna e in guisa bella
che in Epidauro vien da molti amata;
tra gli altri d’amorosa aspra facella
n’ha in tal guisa arso il cor, l’alma infiammata
d’un gran sire un figliuol, che a poco a poco
strugger si sente da l’interno foco.

45Il padre suo, che il caro figlio vede
languire oppresso da sì gravi doglie,
pregar fe’ il padre mio che per mercede
sua figlia dar volesse a quel per moglie;
il che non pur negò, ma ancor gli diede
risposta altera, ch’egli omai si spoglie
di tal pensier, come di quella indegno,
onde il padre e il figliuol n’ebber gran sdegno.

46Fattomi a sé chiamar, dunque, una sera
il malvagio mio padre, essendo in letto,
per man mi prese e da tenace e fera
doglia fingendo aver traffitto il petto,
– Tu sai, – mi disse – o figlio, in qual maniera
Corimbo già (così l’amante è detto)
per tua sorella ognor struggeasi, e come
mi fu per moglie allora chiesta in suo nome.

47Ciò gli negai per più cagioni, a voi
ignote ancor, perché inesperti sète;
ben vi fian note, come spero, poi
che a più matura età giunti sarete;
quest’una sol dirò: che i maggior suoi
co i nostri ebbero già non pur secrete
nimistà ma palesi, e in copia grande
fur sangue e morti d’ambedue le bande.

48Quel dunque al natural lor odio antico
per l’avuta repulsa il nuovo aggiunto,
di tua sorella amante e nostro amico
d’esser fingea, com’era in prima a punto;
ma, nel secreto suo crudel nemico,
altro non attendea che l’ora e il punto
da far con nuovo oltraggio e nuovo inganno
cosa che scorno ci apportasse e danno.

49E questo suo pensier sì rio scoperse
ad un mio servo, e mi disse anco il nome,
cui diè molt’oro, e più di dar gli offerse
se ’l togliea in casa, e dimostrogli come.
Quel per tema accettò, ma poi mi aperse
l’ordine, che arricciar mi fe’ le chiome:
di notte pensa in abito di donna
d’entrar con rete e con feminil gonna.

50E poi ch’avrà per forza a tua sorella
tratto il fior virginal, d’aprir le porte
dissegna a molti, e con ria mente e fella
voi tutti por miei cari figli a morte,
per far ch’io resti ognor misero in quella
sì dura pena e sì malvagia sorte,
perché di voi quand’io restassi privo
mi fora assai men mal non esser vivo.

51Ho fatto sì che il servo ordine ha posto
per la seguente notte, e già gli ha detto
d’aprirgli e di condurlo di nascosto
dove sola sarà mia figlia in letto:
dunque fia di mestier ch’entri tu tosto,
e ch’ivi solo e senza alcun sospetto
l’uccida, acciò che, noi schivando il danno,
sopra l’ingannator torni l’inganno -.

52Parmi che ancor l’istesso giorno questa
favola al mio fratel tutta narrasse,
e fe’ sì ch’egli con feminea vesta
de la sorella ne la stanza entrasse,
dove, con l’occhio e con la mente desta,
Corimbo al fisso termine aspettasse;
poi con la spada, qual nascosta porte,
quel giunto, il ponga immantinente a morte.

53Dunque in tal guisa essendo Armodio intento
ch’entri colui ch’esser Corimbo stima,
quel servo rio, quivi ogni lume spento,
mi diede il cenno già ordinato prima;
io, che d’ira e di pessimo talento
colmo, e roso nel cor d’acuta lima
questo sol attendea, con furor strinsi
la spada e corsi, e il mio fratello estinsi.

54Non poté in tutto riuscir l’avviso
d’Arpago rio (né men crudel che avaro)
di veder quivi l’un da l’altro ucciso,
per trar sé fuor di quel sospetto amaro;
dunque il capo al fratel da me diviso,
– Ahi – gridò quel cadendo, – Ahi fratel caro -,
che me vestito al solito costume
conobbe, ancor che fosse estinto il lume.

55A quella voce e mesto e sbigottito
rimasi, e, tutto pien d’alto spavento,
gridar non puoti, in guisa era smarrito,
e in guisa ogni vigore in me fu spento;
e sopra Armodio a morte, ahimè, ferito,
cieco e privo d’ogni altro sentimento
subito caddi, e così stetti alquanto;
indi proruppi in alte strida e in pianto.

56E già contra me stesso il ferro volto,
scioglier l’alma volea da questo laccio,
ma il misero fratel pallido in volto
con la sua destra mi ritenne il braccio;
e già l’ultimo sguardo in me rivolto,
e di dentro e di fuor tutto di ghiaccio,
pregommi a viver fin che piaccia a Dio,
e a perdonar l’offesa al padre mio.

57Ma da sì fier proponimento in vano
m’avria rimosso, in gran furor trascorso,
s’altro non adoprava che la mano,
da cui più non potea sperar soccorso;
sol mi tirò da quel pensier lontano
co i preghi, ov’egli insieme ebbe ricorso;
poscia ottenuto, ohimè, ciò che mi chiese,
l’alma innocente con singulti rese.

58Ma non sì tosto che da me richiesto
a perdonarmi l’opra iniqua e fella
di farlo non mostrasse manifesto
segno con gli occhi, privo di favella.
Morto lui dunque, a me stesso molesto,
men vado errante in questa parte e in quella,
lontan per balzi a l’aria ognor più fosca,
fuggendo il ritrovar chi mi conosca.

59Ch’esser dubito in odio al mondo tutto,
per sì grave peccato, e insieme a Dio,
e ch’arbor mala non può far buon frutto
debba ogni un dir, che sappia il padre mio.
Dunque d’alti sospir, d’amaro lutto,
di me medesmo ognor posto in oblio,
sol pascendomi andavo allor che involto
fui da i ladri ne i lacci e da voi sciolto.

60Con ogni affetto voi dunque ringrazio,
signor, che a tempo mi porgeste sita;
ancor ch’io sia del mondo in tutto sazio
e ch’odi tanto la infelice vita;
ma quel duro martir, quel fiero strazio,
quell’aspra pena e crudeltà infinita
che ogni un prima soffria che fosse spento,
mi dier, non già il morir, noia e tormento».

61E così detto, in tal guisa l’assalse
il pianto e tai sospir gli uscian dal petto
che a poter più parlar sforzo non valse,
ma di tacer fu il misero costretto;
onde Costante, a cui molto ne calse,
mosso da puro e da paterno affetto,
cercò di mitigar l’aspra e tenace
doglia, che seco aver nol lascia pace,

62dicendo che devea scemargli quello
dolor sì grave e porgergli conforto,
l’aver perdono avuto del fratello
del preso error, pria che restasse morto,
e che nascer dal padre iniquo e fello
la colpa, e non da lui, ben s’era accorto,
visto l’animo suo sì puro e sincero,
col cor disposto e pien d’affetto vero.

63E che al grave martire, al gran dolore
non dovea in preda dar tanto se stesso,
che senza aver mai tregua a tutte l’ore
l’abbia nel tristo cor sì forte impresso,
perché in breve il trarria di vita fuore,
né faria quanto avea al fratel promesso,
qual morendo il pregò che viver voglia
fin che a Dio piaccia, e non morir di doglia.

64E benché fosse di quel padre uscito,
la cui scelerità nota è per tutto,
questo proverbio spesso aver fallito
che da mal arbor sol nasca mal frutto,
ch’esser nato più volte egli avea udito
e visto figlio bel di padre brutto,
e che il medesmo che veggiam di fuora
nel corpo, dentro avvien ne l’alma ancora.

65Il che gli confirmò con mille essempi
d’uomini illustri in ogni parte occorsi,
e de gli antichi e de i moderni tempi;
fattogli sopra ciò dotto discorso,
mostrò che di fortuna i duri scempi
contra d’un solo in picciol tempo scorsi
son brevi, e che in piacer tornano i guai,
perché sua rota non si arresta mai.

66Felice intanto, che Ragusio questo
esser pur ramentossi e che d’amore
già tutta ardea, fe’ segno manifesto
d’aver pietà del grave suo dolore,
e con parlar non men che saggio onesto,
anch’ella si sforzò trargli del core
l’aspro martir, l’insopportabil pena,
che a certa morte e desiata mena,

67«Deh, Ragusio» dicendo «e qual cagione
d’aver conforto omai vi toglie e vieta
se in voi, come devria, può la ragione?
perché l’animo e il cor già non si acqueta?
Se buona fu la vostra intenzione
che nuocer può, se al mondo è ben secreta,
restando in voi la coscienza pura,
ch’ogni opra col voler libra e misura?».

68Con tai parole e simil altre andaro
scemando alquanto di quell’aspra doglia;
poi quel benignamente ambi pregaro
che tornar seco in Epidauro voglia,
promettendogli far, che non men caro
il re l’avrà di quanto aver lo soglia,
anzi via più facendogli palese
chi su la torre a rubar l’oro ascese.

69Gli promettono ancor quando gli piaccia
che al padre e che al fratel pur si perdoni,
d’oprar che il re per amor suo lo faccia,
e che sia largo a lui di ricchi doni;
Ragusio si gettò lor ne le braccia
dicendo: «I prieghi vostri a me son sproni
da spingermi e da far ch’io sempre vada
dovunque a voi più che a me stesso aggrada».

70Così diss’egli, perché a poco a poco
la pena, ond’era a sospirar sempr’uso,
consumata venìa da quel gran foco
ch’Amor gli avea nel cor pur dianzi infuso;
e serpendo in tal guisa in ogni loco
s’era per l’ossa già sparto e diffuso
che dentro acceso di novel desio
posto l’antico avea tutto in oblio.

71La dea quivi presente allor gli tolse
del duol gran parte col divin su’aiuto,
ma la fiamma d’amor scemar non volse,
né volendo anco avria forse potuto.
Ragusio adunque il cor tutto rivolse
a la fanciulla: or chi l’avria creduto,
che l’amoroso stral dovunque scenda
rompa ogni marmo et ogni ghiaccio incenda?

72Questa sì cara e nobil compagnia
l’Alsa avendo e il Timavo già passato,
facil rendea quella difficil via,
con parlar dolce in tal maniera e grato;
del Norico e de i Carni tutta via
lasciando l’Alpi dal sinistro lato,
dove in gran copia nasce e ferro e zolfo
e da man destra di Tergeste il golfo,

Giungono in Illiria, Regillano è contento di dare la figlia per sposa a Ragusio, mentre Costante dà ordine alla flotta di Marsiglia di partire (73-105,4)

73giunti che furo a Pola, indi a Velcera,
parve deversi al cavalier romano,
perché già nel suo regno entrato s’era,
dar de la figlia nuova a Regillano.
Scriver da lei fa dunque in qual maniera
vien salva, uscita di spietata mano;
ma il tutto sol con brevità gli tocca,
serbando a dirlo interamente a bocca.

74Poi diè la carta ad un che molto accorto
parea, di quei ch’uscìr fuor de le grotte,
pregandolo che vada in tempo corto,
mai non posando il dì, poco la notte.
Seguia in tanto il guerrier per aspro e torto
camin, sendo le vie fangose, e rotte
da rivi e da torrenti, che in gran parte
loro acque avean per molta pioggia sparte.

75Restan l’isole adietro che Medea
nomò, dal frate quivi morto, Absirti,
e già ne le cretee chiar si vedea
da lunge il verdeggiar gli allori e i mirti;
da l’altra parte al ciel salir parea
l’Adrio, con spessi gioghi orridi et irti;
rimane indietro Enona, e un giorno ch’era
molto per tempo ancor giunse in Giadera.

76Quivi, perché a le donne ebbe rispetto,
quel giorno tutto a riposarsi attese;
d’Arpago in tanto, che passato il petto
a due suoi figli avea, la nuova intese,
e che se stesso poi, sol per difetto
di senno, ad una quercia ancor sospese;
e che per anco di Ragusio nuova
non si ha, né vivo o morto si ritrova.

77E dicean tutti: «O miserabil caso,
che il più saggio e il maggior duce del regno
con tal miseria sia giunto a l’occaso!
Che giova stato al fin, che vale ingegno?
Né gli è di quattro figli un sol rimaso,
ch’egli due per insania o per disdegno
ha tratto con sue man di vita fuora,
indi se stesso orribilmente ancora.

78Da Scodra un altro ritornando verso
la corte, come far solea sovente,
di notte per la via s’era sommerso
poco prima in un rapido torrente.
Nessun sa l’altro per qual caso avverso
sparito sia, ben teme ogni un dolente
che il padre ancor lui morto abbia e sepulto,
perch’era amato, in qualche loco occulto».

79Così dicean, perché quando la testa
troncar fe’ il padre al figlio per celarse,
ché in lui sospetto non cadesse, questa
voce, ch’era per via sommerso, sparse;
poi di Ragusio in guisa ebbe molesta
la vita e il riuscir sue fraudi scarse
che, disperato, il dì che venne appresso
diè morte a l’altro figlio, indi a se stesso.

80E da se stesso per furor diviso
tal parricidio fe’ sì manifesto
ch’ancor poi ritrovato Armodio ucciso
non men si diede a lui colpa di questo.
Costante, udito ciò, subito avviso
gli venne di poter con modo onesto
satisfare al desio d’ambo gli amanti,
che ben di lor già s’era accorto avanti.

81Perché rimaso essendo unico erede
Ragusio di sì grande e nobil stato,
di congiunger con lui la figlia crede
che non gli fia da Regillan negato;
e tanto più che a Renzo già la diede,
di lui men ricco e men di lui pregiato,
quanto più sopra vi pensò gli piacque
più tal pensier, ma in sé serbollo, e tacque.

82L’altra mattina, di Giadera uscito
con tutti gli altri, il suo camin riprese,
sempre a man destra costeggiando il lito,
per lieto, ameno e fertile paese.
In tanto il re de la sua figlia udito
ben mostrò l’alto suo piacer palese,
che il dì medesmo con tutta la corte
per incontrarla uscì fuor de le porte.

83E con letizia tutti se n’andaro,
ma non furo lontani oltra sei miglia
che a riscontrar per strada incominciaro
a quattro, a sei quei de la sua famiglia;
indi giunse Costante, e seco a paro
a destra man del re l’unica figlia,
la qual tosto discese e con leggiadre
maniere corse ad abbracciare il padre.

84Chi dir potria quelle accoglienze grate
fatte a la figlia e fatte al cavaliero
dal re, cui fur dal messo a pien narrate
le cose occorse e tutto il fatto intero?
Molte parole affettuose usate
tra loro, e fatto il re sopra il destriero
ripor la bella figlia, a paro a paro
con gran piacer verso Epidauro andaro.

85E ragionando insieme entraro a caso
che in tal soggetto ogni parlar cadea
d’Arpago a dir del nuovo orribil caso
che i figli e se medesmo uccisi avea;
«Fosse in vita Ragusio almen rimaso!»
con tenerezza Regillan dicea,
«Tanto è il senno e il valor che in sé raccoglie
che te, mia figlia, gli darei per moglie».

86Tal cosa udir piacque a Costante molto,
ma più d’udirla a la fanciulla piacque,
che si vide arrossir tutta nel volto,
né mai sì lieta fu dal dì che nacque;
dunque il guerrier da quel parlar raccolto
del re qual fosse l’animo, non tacque
con questa occasion, ma sì ben disse
che a quel più tal pensier nel petto fisse.

87Ne la città poi giunti al gran palagio
regal smontaro, e fur quivi condutti
a le superbe stanze, e con grand’agio
di ciò ch’uopo lor fu provisti tutti;
Ragusio intanto al rio padre malvagio
pensando, star non può con gli occhi asciutti:
pien di vergogna, e mesto e sconosciuto
da gli altri alquanto indietro era venuto.

88Ma chiamatolo a sé lieto Costante
gli disse quanto il re dianzi avea detto,
e in somma a quel venir lo fe’ davante,
cui molto il cor s’intenerì nel petto,
e mostrò con parole e nel sembiante
segno d’alto piacer, d’alto diletto,
«Signor,» dicendo al cavalier «di nuovo
obligo equal devervi oggi mi trovo,

89ché Ragusio e mia figlia amo egualmente,
di ciò stimando ambi egualmente degni,
onde tenuto a voi son doppiamente
d’avermi resi duo sì cari pegni;
e spero di mostrar mia buona mente
verso di voi con manifesti segni».
Poscia benigno al giovene si volse,
e seco assai del caso si condolse.

90Ragusio, che facondo era e modesto
al par d’ogni altro, e di prudenza pieno,
rese grazie infinite al re di questo;
poi gli narrò tutto il successo a pieno:
sì come il padre a lui fe’ manifesto
quel rio pensier ch’egli avea occulto in seno,
e che il tesor rubar da gli altri dui
figli fe’ poi, guardandosi da lui.

91E come a quel nel duro laccio colto
che il capo fosse tronco avea sofferto,
acciò che visto e conosciuto in volto
non fosse, e per ciò seco anch’ei scoperto;
e che il fratel da lui di vita tolto
fu sotto gonna feminil coperto;
e il doppio inganno ch’avea del padre finto,
perch’ambi fosser l’un da l’altro estinto.

92E come, sconosciuto il suo paese,
fuggendo or qua or là sen giva errante,
e in somma gli narrò come lo prese
Malarte e come lo salvò Costante;
indi perdon con umiltà gli chiese
del fallir suo, prostrato a lui davante,
se a dirgli ciò, come devea, non venne,
ché sol pietà che al padre ebbe il ritenne.

93Del parlar di Ragusio Regillano
prende letizia e meraviglia insieme,
poi che il tesor che cerca tanto in vano
ritrovi allor, che n’era fuor di speme;
porge aiuto, e levar fa con la mano
Ragusio, il cui dolor molto gli preme,
dicendo: «Abbiate, o figli, in noi speranza,
ché il merto vostro ogni altrui fallo avanza».

94E de’ suoi tolta seco una gran schiera,
che tardando temea d’altro accidente,
cenato ch’ebbe andò la istessa sera
di Ragusio al palazzo immantinente,
e tanto fe’ che ritrovò dov’era
tutto il tesor, poi ch’ebbe lungamente
fatto cercarlo timido e dubbioso,
quivi sotterra al fin trovollo ascoso.

95Talché se amò Ragusio in prima, l’ebbe
in sommo pregio e sovra ogni altro grato;
or quel suo primo amor molto più crebbe
ch’egli ha tutto il tesor per lui trovato;
e visto che la figlia non potrebbe
porre in tutto il suo regno in maggior stato,
col pio Costante l’altro dì la cosa
conchiuse, e publicar la fe’ sua sposa.

96E prescritto a le nozze il quarto giorno,
in tanto a far conviti e pompe attese;
e sforzato il guerrier ch’ivi soggiorno
far voglia in fino allor, molto l’offese,
ché impossibil gli par, con suo gran scorno
e danno, al fin di non restar palese;
ma non tema di ciò, che ignoto il rende
la dea, ch’ognor di lui cura prende.

97Onde Costante a sé chiamò quel messo
che al re portò la nuova de la figlia,
da cui pregato essendo avea promesso
d’accettarlo di quei tra sua famiglia,
e datogli una carta, il giorno istesso
con prieghi il rimandò verso Marsiglia,
perché la desse di Vittoria in mano
senza farne parola a Regillano.

98Per questa a pien d’ogni caso nuova
le dà, che in fino allor gli era avvenuto,
e come appresso a Regillan si trova,
dove il guidò pietà, ma sconosciuto;
la prega poi che subito si mova
con l’armata, cui fe’ per dargli aiuto,
e che a Nauplio l’aspetti un mese in porto,
dove spera anco in tempo esser più corto.

99Tosto ch’ucciso egli ebbe ancor Malarte,
mandato a quella un altro messo avea,
e sparse voce sempre in ogni parte
ch’ei di padre roman nacque in Nemea,
e che sen giva essercitando Marte
dove stipendio di trovar credea;
e fu per strada ognor, come anco in corte
di Regillan sol detto il guerrier forte.

100Venuto in tanto de le nozze il giorno,
e l’ora essendo del riporsi a mensa,
di regal mitra e d’aureo manto adorno,
e colmo il re d’alta letizia immensa,
di tutto il regno i primi avendo intorno,
Falerno antico a questo e a quel dispensa;
poscia in man tolta una gran coppa, e fisse
ambe le luci al ciel tenendo, disse:

101«Talasio, e tu Giunon, che ancor fautrice
sei d’ogni casto marital diletto,
sacro e santo Imeneo, per cui si dice
prender le nozze avventuroso effetto,
vi supplico a voler che sia felice
mia figlia in fatto sì com’ella è in detto,
e tu, che di letizia empi ogni mente,
non men ti prego, o Bacco, esser presente».

102E così detto alzò la coppa d’oro,
gustando in essa il prezioso vino,
che ad ogni infermo dar potria ristoro
quando a la morte ancor fosse vicino;
ecco di chiare voci allora un coro,
il cui concerto esser parea divino,
comparve il dotto Astreo poi con la cetra,
che fatto avria di cera un cor di pietra.

103Costui cantò di Venere, che a Marte
fu di se stessa e del suo amor cortese,
e come il Sol scorrendo in ogni parte,
visto il furto, a Vulcan lo fe’ palese,
il qual per gelosia con sì grand’arte
una rete sottil di ferro tese,
che quei tornando al dolce lor diletto
presi e legati ambo restaro in letto.

104E come a tutti gli altri dèi le porte
l’accorto fabro incontinente aperse,
e, nuda, la bellissima consorte
con l’adultero avvinta gli scoperse;
molti con Marte avrian cangiato sorte,
sì bella a gli occhi lor la dea s’offerse,
la dea che alcune parti con la mano
pur si sforzava di coprir ma in vano.

105A questo il coro subito rispose
Astreo seguendo, e in tal guisa alternaro
fin ch’altri giunse, e in molte e varie cose
con gran diletto il dì tutto passaro.
Ma poi che i raggi a noi Febo nascose,Costante è indeciso sul da farsi, risolve di partire (105,5-110)
forse altrove apportando il giorno chiaro,
quindi levato il re levossi ogni uno
visto d’intorno il ciel già farsi bruno.

106E tornato a la stanza il cavaliero
stava dubbioso alquanto tra se stesso
qual fosse al desir suo miglior sentiero,
devendosi partir quel giorno appresso;
che se bene a Vittoria il suo pensiero
pur dianzi a dir mandò per fido messo,
che indarno quel non la trovando vada
pur teme, o che impedito sia per strada.

107E in tal pensier, da duro sonno vinto,
se gli mostrò la dea ch’era presente,
e con sembiante in nulla parte finto
gli disse che tra l’Austro e l’Oriente
mover devesse il piè verso Corinto,
trattosi ogni altro dubbio fuor di mente;
ch’oltra ogni creder suo ciò che desia
più ch’altro al mondo incontrarà tra via.

108Onde il guerrier dal re tosto commiato
venuto il giorno e da gli amanti prese,
di che rimase afflitto e sconsolato
Ragusio, allor che questa nuova intese,
e di partir con lui tutto il suo stato
gli offerse, grande e fertile paese,
ch’oltra lo Scadro, che gli Illiri serra,
in Macedonia avea più d’una terra.

109Ma perché ognor d’Augusto il caso avea
ne l’alma, ringraziollo assai Costante,
dicendo che sforzato era in Nemea
di gir, per cosa a lui molto importante;
ma quel, che star senz’esso non potea,
con dir colmo d’affetto, e nel sembiante
benigno e grazioso, al fin sforzollo
che in fino a Scodra andar seco lasciollo.

110Né valse a dir che essendo nuovo sposo
restar devea con la sua cara moglie,
quei primi giorni almen, fermo in riposo,
che dal proponimento suo nol toglie.
Già per tutto il terren vedeasi erboso
e i boschi adorni di novelle spoglie
quando colmo il guerrier, d’alto desio
che scampi Augusto, d’Epidauro uscìo.

Giunone fa rivoltare Regillano, tramite l’Invidia, contro Costante, ma con l’aiuto di Minerva il romano riesce a fermarlo e a deporlo dal regno (111-156)

111Giunone in tanto che l’orribil fera
mandò per trarre il cavalier di vita
con gli altri duci, onde l’armata ch’era
nel porto del partir fosse impedita,
poi visto quel salvarsi e in qual maniera,
gli diè Minerva in suo dispregio aita,
di nuovo sdegno, anzi di nuova rabbia
ripiena, or l’unghie, or si mordea le labbia.

112E pensando tra sé che de la notte
le figlie indarno avean gettata l’opra;
e che al mostro restàr le membra rotte,
onde convien ch’eterna nube il copra;
e che, a mal grado suo, fuor de le grotte
non pur salvo il guerrier tornò di sopra,
ma che, ucciso Malarte, a Regillano,
non men salvo e sicuro uscia di mano,

113ella se ben che tanto in odio l’ebbe,
che udirlo nominar potea a fatica,
ma parle che cangiato aver devrebbe
in amor l’odio e quella rabbia antica,
poi che de l’opra sua tanto gli debbe,
che indarno appalesandol si affatica,
se pria non fa che furor nuovo accenda
Regillan sì che mal per ben gli renda.

114E come ciò far possa nel più interno
del cor sempre volgendo, le sovvenne
d’una gran Furia uscita de l’Inferno,
che scorre il mondo con veloci penne:
d’Aletto fu costei figlia e d’Averno,
da cui fuggir con fretta al fin convenne,
che a quei mill’onte e tradimenti in vece
del don d’aver lei generata fece.

115Con quel furor che ognor non pur l’invita
ma sforza a dar per ben travagli e mali,
più volte e padre e madre avria di vita
tratti, se stati fossero mortali,
talché de l’empia sua rabbia infinita
forte temendo il re de l’infernali
ombre, al futuro mal prese consiglio
scacciando quella in sempiterno essiglio.

116Sopra un carro ella adunque, le cui rote
via più che l’aura son veloci e lievi,
scorre del mondo ognor le parti note
al buio, al chiaro, a i giorni lunghi, a i brevi;
colei, cui l’Orco tolerar non puote,
ahi mondo ingrato in te dunque ricevi?
L’empia dal centro a punto in questa parte
giunse, allor che toccò lo scettro a Marte.

117E desio tosto infuse a quei giganti
di scacciar Giove del suo regno fuora,
da cui la vita e gli alimenti e tanti
gran benefici riceveano ognora.
Ma perché l’empia sol vive di pianti,
e il ben reso per ben l’ange e l’accora,
di rei ministri una gran schiera seco
trasse a l’uscir fuor del tartareo speco.

118La Superbia, la Fraude e la Perfidia,
ciascuna è sua compagna e sua seguace;
l’Odio la segue ognor, l’Ira e l’Invidia,
questa col ghiaccio e quella con la face;
la Bugia, la Discordia, ond’ella insidia
sempre a noi mortai per disturbar la pace;
va l’Avarizia et altri ch’io non narro,
col Tradimento ognor d’intorno al carro.

119Dunque a costei Giunon chieder soccorso
pensò, che più potea d’ogni altro aitarla;
ma stando ognor quella in continuo corso
non si può imaginar dove trovarla,
onde, molto paese indarno scorso,
fermossi al fin sul Tebro ad aspettarla,
dove suol capitar quasi ogni giorno
colei che in loco alcun non ha soggiorno.

120Né molto s’indugiò che la feroce
furia infernal, ch’esser fa l’uomo ingrato,
sopra il suo carro apparve che veloce
venìa da quattro rondini tirato:
più che struzzi eran grandi, onde la voce
da lunge udiasi, e dietro e da ogni lato;
la dea guardando vide la gran turba
ch’ogni mal nutre e ch’ogni ben disturba.

121Andolle incontro e con gran meraviglia
seco vid’esser tutti quanti i mali,
vari di forma, e seco si consiglia,
la Furia sempre a danno de’ mortali.
Fermar la fe’ Giunon, poi disse: «O figlia
d’Averno, spiega verso Illiria l’ali,
e in Epidauro al re subito scendi,
e quel contra Costante ingrato rendi.

122Che gli fosse da lui pur dianzi resa
l’unica figlia salva, e per lui tutto
riavuto il tesor senza contesa
nulla gli giove, e non gli apporte frutto;
anzi, più di furor con l’alma accesa,
da quel subito in polve sia ridutto.
Fa’ che la meno ingiuria ch’ei riporte
dal re per guidernon resti la morte».

123Così parlò l’irata dea, cui tanto
quelle furie a veder parver noiose,
ma più colei d’ogni altra che col manto,
mentre parlava, gli occhi si nascose;
dal seggio a l’apparir del lume santo
levatasi la Furia: «Ecco» rispose
«ch’io vo veloce, e fin su nel tuo regno
te ne darò con alto grido segno».

124E così detto il fren subito torse
a quegli augei veloci a par del vento,
talché per l’aria sì leggiera corse
che fu sopra Epidauro in un momento.
Era già notte, e d’alto in guisa scorse
il re dormir, che parea in tutto spento,
onde simil si fece ad una donna
vecchia di faccia, di parlar, di gonna.

125Costei, di quelle donne che Felice
condusse a gir verso Liguria seco
tra l’altre era la prima e sua nutrice,
stata anch’ella in prigion nel cavo speco;
la Furia adunque, a cui ciò che vuol lice,
deposto il crin di serpi e il guardo bieco,
rassomigliolla con sue finte larve,
e in sogno al re tutta benigna apparve,

126dicendogli: «Colui che poco avante
partissi, o signor mio, di vostra corte
per star duo giorni in Scodra è quel Costante
per cui Vittoria non vi fu consorte;
non pur l’ho visto e gli ho parlato tante
volte già dentro a le romane porte,
ma del padre vicina esso fanciullo
portato ho in braccio ancor per mio trastullo.

127Diece anni son, né mai più l’ho veduto,
fuor gli spuntava il primo pelo allora,
né per la strada mai l’ho conosciuto,
sì cieca fui, sì di me stessa fuora;
pareami averlo visto, e mai potuto
non l’ho raffigurar se non pur ora,
nel partirsi ad un gesto ch’anco in mente
serbo, avendol notato in lui sovente».

128E, così detto, un stral d’atro veneno
tinto, qual seco porta a tutte l’ore,
al miser che giacea supino in seno
cacciato, gli passò per mezzo il core;
per la piaga poi sparse un vaso pieno
da sommo ad imo d’infernal liquore,
il qual fa, tosto ch’è infuso in petto,
d’alcun mortal meraviglioso effetto.

129Questo è che ingrato e perfido si scorda
quel ben ch’altri gli ha fatto immantinente,
ma se per caso pur se ne ricorda,
di render mal per ben gli imprime in mente;
né giova che nel cor sempre il rimorda
la coscienza con acuto dente,
anzi per questo in lui divien maggiore
l’ira e la rabbia e l’infernal furore.

130Fatto questo la Furia in aria salse
sul carro, ov’ella alberga, ove fa nido;
e, giù deposte le sembianze false,
mandò tosto a Giunon l’orribil grido,
talché non pur le vicin’onde salse
ne risonaro, e d’Epidauro il lido,
non pur tremar fe’ il monte indi vicino,
ma Pindo, Etna, Ossa, Olimpo, Ato, Appenino.

131Meraviglia non è ch’ogni uom paventi
se fa tremar di tutta Europa i monti,
e i rivi e i fiumi e i rapidi torrenti
tutti adietro tornar verso i lor fonti;
sopra i cari lor figli le dolenti
madri paurose giù chinar le fronti,
e quei più stretti al petto si accostaro,
e fuor s’impallidir, dentro agghiacciaro.

132Regillan, dunque infuso ch’ebbe il petto
quel tartareo venen che agghiaccia e coce,
desto dal grido si gettò del letto,
più che serpe o leon crudo e feroce;
e da la rabbia e dal furor costretto
loco non trova, e con terribil voce
minacciando comanda, e fosco e torto
risguarda, e fassi ora vermiglio, or smorto.

133Gli amici e i servi e tutta la famiglia
conoscendo l’usata sua natura,
dolor ne prendon tutti e meraviglia,
né di parlargli alcun pur si assicura;
ma più d’ogni altro la sua bella figlia
di sì torto guardar prende paura;
donde avvien ciò, che in prima era sì queto
(dicean), né puon saper l’alto secreto.

134Qual egro in guisa debil che non vaglia
volgersi in letto da se stesso pria,
s’avvien che il capo adusto umor gli assaglia
sì che gli apporti e doglia e frenesia,
ogni più forte allor di forze agguaglia,
lascia le piume e il mal presente oblia,
talché suda in fermarlo e fronte e petto
a chi pria mover nol potea nel letto,

135tale avvenne anco a Regillan, che prima
benigno essendo e di modestia pieno,
or che si sente con acuta lima
da la Furia infernal corroso il seno,
arrabbia e freme, e, giunto a la part’ima
del cor, l’aspro e mortifero veneno
lo sforza a comandar superbo e fero
che tosto armato ogni un saglia il destriero.

136Né potendo patir di far dimore
pur breve spazio, con cinquanta a pena
uscì fuor d’Epidauro allora allora
per quel sentier che dritto a Scodra il mena;
né mai posò. che a l’altra nuova aurora
vi giunse, e ritrovò di piacer piena
la terra tutta, e i cittadin con molto
fausto il nuovo lor duce aver raccolto.

137Molti destrier per strada venner meno
che il re seguiano a quattro, a cinque, a diece,
poi che d’un giorno e d’una notte in meno
senza fermarsi ottanta miglia fece;
entrato adunque in Scodra, e con sereno
viso raccolto da Ragusio, in vece
di sì grate accoglienze diede alquanto
di tempo a i suoi ch’ogni un giungesse in tanto.

138Ma visto esserne giunto a poco a poco
numero a far ciò che volea bastante,
e mura e porte e torri e ciascun loco
tosto occupò che più credea importante;
Ragusio prender poi, che nulla o poco
di ciò temea, fe’ subito, e Costante;
ma quel, perché contrasto non gli apporte
né gli impedisca in por Costante a morte.

139Poi fatto questo, senza alcun sospetto,
ch’eran sue genti a guardia de le mura,
stanco, per riposar si pose in letto
tosto che l’aria fu per tutto oscura;
Minerva in tanto, quel visto soletto,
giacer sì vòto d’ogni interna cura,
fattol dormir, del buon Ragusio prese
l’armi e la voce, e il suo destriero ascese.

140E per tutta la terra afflitto e mesto
contra il tiranno andò chiedendo aita,
il qual d’affinità sotto pretesto
lo stato dissegnò torgli e la vita;
la plebe, a cui veder fu sì molesto
prigion Ragusio, ora Minerva udita
chieder soccorso, a lei n’andò veloce,
ché il suo signor esser credea a la voce.

141E de la nobiltà la maggior parte
non men colma di sdegno a lei sen venne;
ecco armati arrivar già da ogni parte,
che alcun molto pregar non le convenne.
Poi che raccolte fur le genti sparte,
senza punto aspettar ch’altri gli accenne,
con quel furor che suol turba confusa,
del re corse a la stanza, ch’era chiusa.

142E giù tratte le porte in uno istante,
preser nel letto ignudo Regillano,
e quel, per tema pallido e tremante,
condusser vivo al buon Ragusio in mano,
che, posto in libertà col pio Costante,
gli venìa in contro, e poco era lontano;
la dea, che indarno non tentò mai cosa,
tratti quei di prigion s’era nascosa.

143Non puote il pio roman con fermo volto
star presente a spettacolo sì crudo,
visto in catene e in duri lacci avvolto
starsi colui miseramente ignudo,
che in contra a tanti barbari rivolto
fu sol pur dianzi a tutta Europa scudo,
e con fatica il pianto allor ritenne,
ché del caso d’Augusto gli sovvenne.

144Onde pregò Ragusio che per segno
del grand’amor, qual porta a la sua sposa,
voglia dargli la vita e insieme il regno,
ché essendo padre a lei merta ogni cosa;
Ragusio, che in gran parte avea lo sdegno
rimesso, ma non già quell’amorosa
fiamma ch’ogni altro affetto in lui tien spento,
di compiacer fu il cavalier contento.

145Ma conchiuser tra lor, poi che compreso
avean, per molti e manifesti segni,
che il popol tutto restarebbe offeso,
di farlo in modo tal ch’ei non si sdegni;
onde, finto d’ira in volto acceso,
«Non fia mai più che in Epidauro regni»
verso il re disse, e por lo fe’ in prigione,
cercando di salvarlo occasione.

146Né dopo questo il terzo dì finio
che l’aspettata occasion si offerse,
ond’ebbe effetto in lui quel bel desio
che nel secreto suo dianzi coperse:
questo fu ch’ivi certa nuova udio,
da più genti portata e da diverse,
talché in Scodra ad alcun non era occulto
che in Epidauro si facea tumulto.

147Dunque Ragusio, questa nuova udita,
ne la sala adunar fe’ del consiglio
quei che pur dianzi avean la propria vita
per lui salvar posta in sì gran periglio;
e rese grazie pria de l’infinita
bontà, che, morto il padre, a lui, suo figlio,
senza notizia d’esso aver lo stato
devoto e obediente avean serbato.

148E ch’avean l’armi finalmente prese
perché la vita sua fosse sicura,
contra il gran re di tutto quel paese,
già signor de la rocca e de le mura;
indi s’offerse, con parlar cortese,
de la salute lor sempre aver cura,
in publico e in privato, «Né mai penso
poter» dicea «scontar l’obligo immens».

149Ma ben vi prego, per quel vivo amore
che in tante guise ognor mi dimostrate,
che il vostro re, mio suocero e signore,
sia per vostr’opra posto in libertate.
Qual desiderio esser devria maggiore
ch’aver l’occasion d’usar pietate,
tanto più in voi, ch’or di soggetto tale
lode e gloria n’avrete alta e immortale?

150Qual miglior, qual più nobile vendetta
trovar può l’uom che perdonar l’offesa?
Chi presta altrui pietà non meno aspetta
che a loco e a tempo a lui pietà sia resa.
L’orso, l’aspe e il leon sempre s’affretta
l’onta e il mal vendicar con rabbia accesa,
ma l’uom far quei pentir, da cui riceve
l’ingiuria, sol co i benefici deve.

151Di tutta Illiria ancor per la salute
devete farlo, avendo già tanti anni
tal piaghe per l’adietro in lei vedute,
con sì gravosi e manifesti danni,
che dolce parer può la servitute
presente, priva de i passati affanni;
ma se al re vostro si dà morte, a peggio
l’antico mal tosto ridursi veggio.

152E che sia il ver non fu la prima voce
del re prigion dentro Epidauro udita,
ch’ogni un contra la figlia empio e feroce
fu sì che a pena ebbe a salvar la vita;
che saria dunque uscendo fuor veloce
per tutto il grido esser lui fuor di vita,
e che ad un tempo avesse ogni un dissegno
d’Illiria a forza d’usurparsi il regno?».

153Più oltra il buon Ragusio ancor volea
seguire, e a quegli addur nuove ragioni,
che ben gran campo sopra questo avea
per far che al re la vita si perdoni;
ma il popol, che negar nulla potea,
al duce loro, e più d’ogni altro a i buoni,
gridàr tutti: «A voi sia di Regillano
non men la vita che la morte in mano».

154Soggiunse un d’essi poi, ch’era il maggiore
di grado, e disse: «Alcun non è di noi
che offeso dal re sia, ma fu, signore,
ciò fatto sol per trar da morte voi;
vostra è l’offesa, ambi di vita fuore
sareste già per l’empio re, ma poi
che volete per mal rendergli bene
di contradirvi a noi non si conviene».

155Costante replicò ch’eran di vera
lode ben degni, e che il buon duce questo
facea scorgendo sol che in tal maniera
vietava loro eccidio manifesto.
Né s’indugiò, che quella istessa sera
il re fu sciolto, il qual pallido e mesto,
l’oscure luci ognor tenendo fisse,
traea sospir, né mai parola disse.

156Ben fe’ Ragusio e fe’ Costante seco,
con gran sommission più volte scusa,
ma quel sempre con sguardo oscuro e bieco
mirando ogni un, tenea la bocca chiusa,
poi che il liquor che dal tartareo speco
portò la Furia sì gli avea confusa
la mente che sol pensa e sol discorre
come possa il guerrier di vita tòrre.