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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro XI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 10.09.15 19:07

Argomento
Il regno Regillan rende a Costante,
morto poi quel dal popolo nel tempio
coronar fa Ragusio, e getta l’empio
Cimara dal petron col capo inante.

Regillano assedia Epidauro per ritornare in possesso del regno, la città soffre la fame ma resiste, solo grazie al coraggio di Costante viene conquistata e saccheggiata (1-97,4)

1Giunse in tanto un corrier con molta fretta
d’Epidauro, e portò questa ria nuova:
che la figlia del re chiusa e ristretta
da la gente d’Aureolo si trova,
che mentre averla in suo poter si affretta
l’arte e gli inganni oltra le forze prova,
onde fuor che dolersi e lamentarsi
Felice altro non può, né sa che farsi.

2Simili a l’oro di color le chiome
avendo in gioventù costui ch’io dico,
detto Aureolo fu con nuovo nome,
Scauro posto in oblio, suo nome antico.
Visto ei le forze de l’Imperio dome,
e non qual figlio già ma qual nemico
Galeno verso il padre suo mostrarsi,
sendo in Epiro, Augusto fe’ chiamarsi.

3E per dispregio di Galeno, accolto
tosto avendo gran numero di gente,
contra di Macrian prima rivolto
superbo se ne gìa verso Occidente;
e ben pensò che la fortuna volto
gli avesse il crine, avuta nuovamente
quindi al passar notizia del gran caso
di Regillan, ch’era prigion rimaso.

4Con questa occasion fece dissegno
d’aver per forza o per amor Felice;
indi occupar sì ricco e nobil regno
dicendo: «Il tutto per regnar mi lice».
Contra del re prigion molti, cui sdegno
mosse od invidia, d’ogni mal radice,
non pur gli diero aiuto e l’invitaro
ma quel con prieghi ancor quasi sforzaro.

5Senza che alcun de’ suoi dunque abbia morte,
né chieder meglio avria potuto a bocca,
subito accolto fu dentro a le porte
con tutti i suoi da la vil plebe sciocca;
talché Felice con le guancie smorte
fu costretta a fuggir dentro a la rocca,
dove il tiranno ognor la notte e il giorno
la tenea chiusa, e circondata intorno.

6Parve che giunta questa nuova tanto
al re d’Illiria dentro al cor premesse
che gli scemò l’infernal rabbia alquanto,
o fosse pur che allor così paresse;
la mente sol tenea rivolta in tanto
come lo stato riaver potesse,
e mostrossi a Ragusio et a Costante
diverso assai da quel che fece inante.

7E con l’aiuto lor tosto raccolta
gran gente avendo, tutti insieme andaro
verso Epidauro con prestezza molta;
né però quivi Aureolo ritrovaro,
che una parte de’ suoi, la maggior, tolta,
mentre gli altri a l’assedio ivi restaro,
già contra Macrian s’era partito
con buono augurio, a meraviglia ardito.

8Ma se lui non trovar, ben v’era Crate,
cittadin d’Epidauro, e il rio Narento,
duci di quante genti avea lasciate,
forti e colmi ambedue d’alto ardimento;
quei, di voler serbar la libertate
mostrando, ad altro avean l’animo intento,
onde a la giunta lor trovàr le porte
chiuse, e la terra a meraviglia forte.

9Pien d’ira Regillan tosto la cinse
con l’essercito suo tutta d’intorno,
e quel più volte a darle assalto spinse,
ma sempre ritornò con danno e scorno;
senza assalirla più dunque la strinse,
e conchiuse di far quivi soggiorno,
tenendola sì chiusa e sì ristretta
che al fin di darsi a lui fosse costretta.

10Sapea quando n’uscì che solamente
vi lasciò vettovaglia per un mese,
e che essendo ivi poi giunta gran gente
la fame ch’avrian tosto era palese;
d’ogni popolo ancor pianti sovente
s’udian e strida in tutto quel paese,
che da l’Epiro e a gli Istri, a la Liguria
era in quell’anno universal penuria.

11La città si trovò per tal cagione
sì di frumento vòta, e Regillano
nel far d’intorno a ciò provisione
spese ognor l’opra e la fatica invano,
onde tra il popol nacque opinione
che sol per questo divenisse insano,
vistosi disperato e pien di noia
ch’ogni uom di fame nel suo regno muoia.

12Tanto più che per forza di danari
di biade al fin gran copia estratto avea,
corrotti prima i lor ministri avari
ne l’Egitto e ne l’isola d’Eubea,
e in un sol giorno, in due diversi mari,
appresso al promontorio di Malea
e ne l’Euripo, per tempeste gravi
s’eran sommerse al ritornar le navi.

13Quel che già lo traffisse or lo conforta,
quel che gli diè tormento ora gli aggrada,
perché la impresa sua scorge più corta,
certo di vincer senza stringer spada;
di ciò la gente ch’era dentro accorta
in disperazion convien che cada,
benché sia Crate a simular rivolto,
però scritto il suo cor mostra nel volto.

14Questo medesmo avviene anco a Narento
che l’uno e l’altro ben scorge il periglio,
e l’uno e l’altro a riparargli intento
la notte e il giorno fan tra lor consiglio;
veggion qual sia l’universal spavento,
senton qual sia l’universal bisbiglio;
stanno in sospetto grande e sempre han cura
che alcun non faccia contra lor congiura.

15Con ogni studio, de i soldati intenti
son d’acquistarsi ognor grazia e favore,
facendo ingiuria a tutte l’altre genti,
ne l’aver, ne la vita e ne l’onore.
Quanti infelici e miseri fur spenti
mentre costor coprian sotto colore
di bene il male, e di giustizia il torto,
ciascun per tema ognor languido e smorto!

16Fra pochi dì furo i più ricchi uccisi,
d’offesa magiestà tutti accusati,
e per decreto publico divisi
i beni lor fra i duci e fra i soldati;
s’alcuni tristi si vedean ne i visi,
de i beni a gran furor venian spogliati,
né mai giorno passò che a fil di spada
non fosser posti almen venti per strada.

17S’era da Crate o dal compagno ditta
cosa, in fretta da tutti si essequiva,
e forza avea di ferma legge scritta,
ch’alcun di contradir mai non ardiva.
Ma quel che la città più rese afflitta,
e che in tutto la fe’ di speme priva,
un bando fu: ch’ogni un dar gli devesse
ciò che di grano e d’altre biade avesse,

18sotto pretesto ch’uopo era aver cura
nel compartirlo al popolo d’intorno,
distribuendol poi con gran misura
per ogni bocca tanto pane il giorno.
Troppo aspra essendo questa cosa e dura,
n’ebber quasi gli autori e danno e scorno,
perciò che il popol sollevassi tosto,
pria di morir che d’ubidir disposto.

19Troppo era grave a lor quegli alimenti
prima acquistati con fatiche tante
tòr di bocca a i lor figli, a i lor parenti,
e quei morti cader vedersi avante,
per pascerne i soldati et altre genti
nemiche loro, e in guisa fu costante
nel ricusar ciascuno, e invitto e forte,
che aprire a Regillan volser le porte.

20Tutti presero l’armi e in un momento
gridaro ad alta voce: «Libertate!»,
e «Viva Regillan, muoia Narento!»
s’udia, «Viva Ragusio e muoia Crate!».
Ad ogni occasion Costante intento
si presentò con molti genti armate,
chiesta prima licenza a Regillano.
Ma tal tumulto e tal romor fu vano,

21ché dentro il popol non avendo certi
duci che gli facessero la scorta,
per contrario i tiranni essendo esperti,
e stando sempre con la mente accorta,
e in lor servizio in fino a morte offerti
già sendo i soldati, ad ogni porta
mutàr tosto le guardie e con gran gente
contra il popolo andaro arditamente.

22Sparto e confuso il popol, ma i soldati
venian sotto l’insegne e stretti e fermi,
co i duci loro in ordinanza armati,
gli altri la maggior parte erano inermi;
onde al primo arrivar furon cacciati
e rotti sì che non trovaron schermi,
e ciascun loco del lor sangue tinto
lasciando, quasi ogni un rimase estinto.

23Restaro in guisa deboli che cura
né più d’essi timor punto s’avea,
privo rimaso adunque di paura
ciascun soldato a suo piacer facea:
si sforzan donne, si uccide e si fura,
fuggita in tutto è già la bella Astrea;
cosa a soldato alcun non si disdice,
ma ciò che aggrada lor tutto ancor lice.

24Questa strage del popol doppiamente
gioco a i tiranni fe’, ch’avendo il petto
vòto d’ogni timor, potean sovente
dormir quieti e senza alcun sospetto,
oltra che essendo la città di gente
scema in tal guisa, e l’ordine ristretto,
nel dare il pan sempre adoprando i pesi
quel che un sol non gli avria bastò tre mesi.

25Ma che dich’io ristretto, poi che tolto
del tutto il cibo a molti dir si puote?
Chi lo comparte a ciascun guarda in volto,
sendogli ben tutte le faccie note,
talché il soldato vien tosto raccolto,
escluso il cittadin con le man vòte;
s’alcun pur trova al fin pietà gli tocca
di quel c’han gli altri il quarto e men per bocca.

26E da i soldati ancor gli era quel poco
tolto per forza, e quei ferito e morti,
talché dentro Epidauro in ciascun loco
magri appariano i cittadini e smorti;
tra lor stando i soldati in festa e in gioco
cui fintamente i due tiranni accorti
creder facean che Aureolo discosto
non era, e che sarian soccorsi tosto.

27E che di Tessalonica e d’altrove
s’avrian tosto in gran copia e carne e grano,
ch’ognor n’avean più certe e fresche nuove,
dando a i lor capi finte lettre in mano:
in quelle si leggean le invitte prove
d’Aureolo fatte contra Macriano,
e ch’ei già vincitor daria rimedio
presto al bisogno, e leveria l’assedio.

28Con gran speranza ma con poco pane
restò più giorni ogni un queto e satollo,
scorrendo la città sera e dimane,
dentro a le case con le tasche al collo;
e visto alcuni o topo o gatto o cane,
colombo non dirò, gallina o pollo,
cuocer per nutrir mogli o padri o figli
tosto il ghermian co i lor feroci artigli.

29E sdegnandosi a quei dar con le spade
già fatti miserabili d’aspetto,
gli davan pugni e calzi, che a l’etade,
a i gadi, al sesso non avean rispetto.
Di male in peggio adunque la cittade
sen gìa di giorno in giorno, che disdetto
non essendo mai cosa a quelle genti,
s’udian per tutto ognor strida e lamenti.

30Ciò che di grano avean serbando questo
modo, pur non bastava un mese intero,
però solo era a i duci manifesto,
restando a tutti gli altri occulto il vero;
si manda, sotto il solito pretesto,
di pane il cittadin scarco e leggiero,
talché a vedergli afflitti per le strade
mosse l’Erinni avrian tutte a pietade.

31Per debolezza in piè teneansi a pena
vecchi e putti non sol, ma d’ogni etade.
Di cadaveri già sendo ripiena
quella infelice e misera cittade,
che fosser arsi quei, sotto gran pena,
gli empi ordinaro al fin, non per pietade
che ne i tiranni sia, ma per sospetto
che il Ciel non fosse da la puzza infetto.

32Ma nessuno ubidia, ché a gli infelici
stato saria l’uccidergli un conforto,
che sì miseri essendo e sì mendici
dir si potea ciascun peggio che morto.
Dunque i soldati de i tiranni amici,
di tal puzzo il periglio anch’essi scorto,
pronti ubidiro al bando e in ciascun loco
purgaron tutta la città col foco.

33E, fatti più superbi e più arroganti
per la tanta licenza a lor concessa,
sordi a i lamenti, a le querele, a i pianti
de la città da grave giogo oppressa,
le tolser di città forma e sembianti,
con l’impietà ne i cuori loro impressa;
nulla di fuori è de i nimici il danno
rispetto a quel che costor dentro fanno.

34E s’han da prima ognor furti e rapine
fatte, di sangue orribilmente tinti,
se tante donne e vergini meschine
e s’han tanti fanciulli e vecchi estinti,
che faran dunque, disperati, al fine
da gran disagio e da gran fame spinti?
Non giova a i duci più scusa o coperta
che a tutti è già la gran penuria certa.

35E quel che a i cittadin prima a diletto
facean, fanno a i soldati ora per forza
Crate e Narento, essendo a ciò costretto
da gran necessità ch’ambo gli sforza;
e sì grave timor gli ingombra il petto
ch’ogni viva speranza in tutto ammorza,
e d’ogni ’ntorno già stretti e rinchiusi
disperati ne stan, non che confusi.

36Nel dispensare il pane e le vivande
più non si serva alcun ordine o meta,
onde, se prima avean licenza grande,
ora a i soldati più nulla si vieta;
scorrendo vanno da tutte le bande,
che parte alcuna non è lor secreta;
gettano gli usci e le finestre in terra,
e via più che i nemici essi fan guerra.

37Non basta esser col ferro, esser col foco
per strada e in casa i cittadini oppressi,
talché trovar non puon sicuro loco,
che si uccidon per fame anco lor stessi;
per debolezza a molti giova poco
ferirsi, che il morir non gli è concesso,
e pregan s’indi alcun passa per sorte
che dar gli voglian per pietà la morte.

38Molti da chi passava eran negletti,
scarsi de l’empio in van chiamato aiuto;
a molti ancor traffitti erano i petti
sol per far prova s’era il ferro acuto.
Ma chi volesse i tanti vari effetti
tutti narrar, non gli saria creduto;
pur vo’ contarne un solo e da quel spero
ch’ogni altro creder si potrà per vero.

39Tra l’altre donne in tutto di consigli
prive e d’aiuti in così aperti danni,
una vedova fu, ch’avea tre figli
maschi, di tre, di quattro e di cinqu’anni,
che di color vincean le rose e i gigli,
cagion che in gravi e in dolorosi affanni
la madre stia, cui troppo è duro e greve
ch’abbian di fame a perir tutti in breve.

40Di cose immonde l’infelice in vita
gli avea più giorni a gran pena tenuti,
ma sendo ogni distanza già fornita,
né più trovando cosa onde gli aiuti,
si rinovò la sua doglia infinita,
e in un sol dì le diventàr canuti,
con meraviglia e fuor d’ogni altrui stima,
quei capelli che d’or sembraro in prima.

41Dentro tutta struggeasi a dramma a dramma,
misera intorno avendo quei, che spesso
piangendo le dicean: «Dolce mia mamma,
dammi del pane, ohimè, ch’io muoio adesso».
Come talor sopra l’ardente fiamma
legno verde veggiam dal villan messo
strider, stillarsi in acqua a poco a poco,
in cener farsi al fin cedendo al foco,

42così l’afflitta giovene, che priva
d’ogni speranza e d’ogni timor piena,
veggendo ben che pochi giorni viva
devea restar per l’angosciosa pena,
talor gemer pian pian, talor si udiva
stridere, e co i sospir l’aria serena
spesso offuscava, e da i begli occhi fuore
stillato in pioggia uscir sentiasi il core.

43E le nacque un pensier malvagio e fello:
ad uno di quei tre dar morte (a cui
diede già vita) acciò che poi con quello
nutrimento porgesse a gli altri due,
onde senza indugiar prese il coltello,
dicendo a i figli suoi: «Qual fia di vui
sì dal destin condotto e da la sorte,
che a gli altri vita dia con la sua morte?».

44E mentre or guarda or l’uno or l’altro intente,
che intorno a chieder pane ognor gli avea,
come una statua immobile diventa,
cadendole il coltel che in man tenea;
poi si sveglia, e di nuovo uccider tenta
l’un d’essi, ma però qual non sapea;
tutti ugualmente come figli ha cari,
e son di grazia e di bellezza pari.

45Ma tanto nel suo cor la forza infuse
questo, in un, crudo e pio proponimento
ch’ambi gli occhi, ripreso il coltel, chiuse,
e menò cieca, un picciol colpo e lento,
perché sì gran tremor se le diffuse
per l’ossa e per le vene in un momento,
che il colpo tardo alquanto e debil rese,
né con forza o vigor giuso discese.

46Sera e mattina poi di quella carne
tenea gli altri due vivi, e cinque o sei
giorni interi si astenne, che gustarne
né mica puote o volse mai per lei;
la fame ognor la spinge, e per mangiarne
talor mossa la man, – Dunque farei
tal fallo? – seco parla, e si ritira,
e tra forza e ragion piange e sospira.

47Ma poi, di nuovo da gran fame vinta,
mangiar ne vuol, poi subito non vuole.
Digiuna vista già l’avea la quinta
volta girando, anzi al sesta il sole,
talché vicina al rimanente estinta
si afflige e si ramarica e si duole,
né quivi essendo alcun per aiutarla
seco soletta in questa guisa parla:

48- Ohimè, che debb’io far? debb’io soffrire
che il proprio figlio mio cibo mi sia?
O pur di fame or or debb’io morire,
vedendo poi che da la morte mia
di questi due la morte ha da seguire
e cruda farmi sol per esser pia?
Tra gran pietà gran crudeltà si asconde
da ciascun lato, il che più mi confonde.

49Se mangiandone ancor mi serbo in vita
per nutrir questi pargoletti infanti,
quando del tutto poi sarà finita
la carne del figliuol c’ho qui davanti
per dare a l’un di questi vivi aita
debbo iterar nuovi funebri pianti?
Debbo uccider di nuovo un altro figlio
per pascer l’altro e me trar di periglio?

50Ma se d’animo ancor sarò sì forte
che de’ miei cari figli un altro uccida,
fornito quel torno a la istessa sorte
del terzo figlio udendo ognor le strida,
giunger per fame al fin vedrollo a morte;
dunque fia ben che a me stessa divida
per mezzo il cor, né fuor trarmi d’impaccio
potrò, s’io non mi annodo al collo un laccio.

51Ma posto, o figli miei, che ogni un di voi
senza disagio in sanità conservi,
presa Epidauro, ahimè, che sarà poi,
ché in sua difesa mancan forze e nervi?
Da Regillano o da i soldati suoi
morti sarete, o prigion fatti e servi.
Gli occhi non volgo in parte alcuna, ch’io
l’eccidio vostro non vi scorga e il mio -.

52E d’essi or l’uno or l’altro lacrimando
basciava, e tra le braccia tenea stretto,
dicendo: «O dolci, o cari figli, quando
non posso aitarvi, di morir m’affretto;
ma prima a gli alti dèi vi raccomando».
Così dicendo si traffisse il petto
con un coltello acuto ch’avea in mano,
ma fu per debolezza il colpo vano.

53Sì profonda però fu la ferita
che mandò sangue in copia, e per dolore
distesa cadde, ma rimase in vita,
perché l’afflizion fosse maggiore.
Quando mai fu sì gran miseria udita?
Vivendo, morto avea nel petto il core;
potea a pena parlar, ma il sentimento
restava, e il lume in lei non era spento.

54Quei figli suoi stando ella in tal maniera
del pan chiedeano e le piangean d’intorno;
quindi a caso passaro in quella sera,
su l’ora che da noi sparisce il giorno,
venti soldati Achei, che in una schiera
faceano a i cittadini oltraggio e scorno;
quei, de la carne ch’ivi era rimasa
l’odor sentito, entràr per forza in casa.

55Tre d’essi l’uscio ruppero e calaro
gli altri dal tetto, e venner tutti dove
quel sì brutto spettacolo trovaro,
che forse tal mai non si vide altrove;
giacer la donna in terra e i figli a paro
videro, e d’essa le inumane prove:
sopra la mensa dentro un panno involto
del figlio cotto ambe le braccia e il volto.

56E mentre come attoniti e insensati
l’un l’altro si tenean le luci fisse,
«Questi innocenti, ahimè, raccomandati
vi sian;» la donna a gran fatica disse,
«a me, cui sì contrari furo i fati,
cui sì fortuna in ogni tempo afflisse,
vi prego per dar fine al gran dolore
con quelle spade a trapassarmi il core».

57Ma quel che gli empi Greci far pensaro
fu contrario a i suoi prieghi totalmente,
che viva lei per più dolor lasciaro
in tal guisa stentar miseramente,
e in sua presenza i figli suoi scannaro,
e gli arrostiro al foco immantinente;
poi, quei partiti, ch’eran cotti a pena,
se ne fecer tra loro orribil cena.

58Benché avesse gran fame, un sol fra tanti
non ne toccò, ma si partì digiuno,
e narrò il caso andato a i duci avanti,
caso che sbigottir fece ciascuno;
quei dunque udendo sol querele e pianti,
giudicaro per lor molto opportuno
di dar, trattando accordo, a Regillano
salva la robba e lor, la terra in mano.

59Tanto più ch’eran le promesse note
ch’avean fatto a i soldati ambo i tiranni,
le quai d’effetti riuscendo vòte,
chiari a tutti apparian gli orditi inganni.
Gran tempo la bugia regnar non puote,
talché gli empi temean d’aperti danni,
se non che occasion molto insperata
gli fu da la fortuna apparecchiata.

60Quando Aureolo, contra Macriano
passar volendo, ragunava gente
d’Etolia e d’Arcanania, in copia grano
cercò prima d’aver cauto e prudente;
e, commesso che a lui dietro pian piano
s’inviasse per mar verso Occidente,
mentre venìa per gran procella spinto,
fu di quel parte in Itaca e in Zacinto.

61L’altro Aureolo avendo a salvamento
ricevuto, e per via quasi rimaso,
di Crate in tanto seppe e di Narento,
da cui fu d’aiutargli persuaso,
e stando a questo e giorno e notte intento
conobbe molto periglioso il caso,
che senza vettovaglia alcun rimedio
non trovariano a così lungo assedio.

62Né potendo in persona gir per trargli
d’assedio, ch’era troppo innanzi scorso,
con tutto quel che può per aiutargli,
e far che di frumento abbian soccorso,
fece quel poco subito portargli
che in Itaca e in Zacinto era trascorso,
scrivendo che andaria, sì come deve,
con la persona a dargli aiuto in breve.

63Quel nocchiero, a cui diede Aureolo cura
di condur tal frumento, oltra che accorto
mostrossi, di buon vento ebbe ventura,
talché arrivò senza contrasto in porto;
quanto più d’Epidauro intra le mura
si fe’ palese il giubilo e il conforto
ch’ogni tiranno, ogni soldato n’ebbe,
tanto a quegli di fuor più ne rincrebbe.

64E Regillan, perch’ebbe opinione
che il duce de l’armata sua Careno
fosse di tutto ciò stato cagione,
se non per fraude, per pigrizia almeno,
senza punto ascoltar la sua ragione
del solito furor tartareo pieno,
sordo a i prieghi, implacabile e feroce,
con doglia universal fe’ porlo in croce.

65Sapeasi da ciascun ch’era innocente,
e per tutto l’essercito era noto
che da l’esser quel fido e diligente,
sempre ogni cosa al re successe a vòto,
ma che l’armata quindi finalmente
cacciò per forza un procelloso Noto,
dal contrario nocchier più giorni atteso
mentr’era cauto al suo dissegno inteso.

66Dunque si fe’ ne la città gran festa
con gridi e fochi da i soldati, avegna
che essendo poca vettovaglia questa
di così gran rumor non era degna;
solo a i tiranni essendo manifesta
la poca quantità, ciascun s’ingegna,
ponendo studio e stando a questo intenti,
che diece appaia ogni misura e venti.

67Né più volser trattar con Regillano
accordo o patto alcun, sperando in breve
ch’Aureolo, vinto e rotto Macriano,
gli scampi da sì lungo assedio e greve.
Giunto sicuro in Epidauro il grano,
come ne i gran bisogni far si deve,
ritornaro ad usar con somma cura
nel compartirlo il peso e la misura.

68E per mostrar che de i nemici vane
saran le forze, e che non han timore
gettar fecer quel giorno in copia pane
con archi e frombe nel lor campo fuore;
e scoprendosi alcun le parti strane,
per dispregio del re, per disonore,
«Guarda» dicean gridando da le mura,
«se in questo volto aver mostriam paura».

69Onde il guerrier, che a’ prieghi del cortese
Ragusio indietro il suo viaggio torse,
visto che più d’un giorno e più d’un mese
da far si avrebbe e più d’un anno forse,
tra se medesmo per partito prese
di volere in camin l’altro dì porse,
ripigliando il lasciato suo viaggio
tosto che il sol scoprisse il nuovo raggio.

70Ma quella dea, che fuor del capo uscita
essendo già del sommo Padre eterno,
seco participò de l’infinita
sua providenza e suo consiglio interno,
di dar conchiuse a Regillano aita,
ma che al guerrier, di ch’ella avea il governo,
si devesse l’onor di tanta impresa,
a cui subito andò, dal Ciel discesa.

71E con quel suo divin sembiante vero
che spira leggiadria, senno e valore,
«Non lasciar questa impresa, o cavaliero»
gli disse «ché n’avrai subito onore,
e Vittoria gentil, che nel pensiero
sempre fissa ti siede, anzi nel core,
e che t’ingombra ognor l’anima e i sensi
trovarai dove di trovar non pensi».

72E così detto, essendo l’aria oscura,
seco il guidò per una grotta antica,
ch’uno acquedotto fu dentro a le mura
dove andar si potea senza fatica;
nessuno a questo avria mai posto cura,
che di felce e di pruni e d’alta ortica
quasi ad arte la bocca era coperta,
né mai, gran tempo è già, fu vista aperta.

73E per l’istessa via tornollo ancora
dove prima il trovò ne la sua tenda,
dicendo a quello: «Io sarò teco ognora,
acciò che il tuo valor più chiaro splenda».
Ond’ei senza aspettar che nuova aurora
di nuovo lume l’Oriente accenda,
al buon Ragusio suo de l’acquedutto
che pur dianzi trovò fe’ noto il tutto.

74E tosto ambi n’andaro a Regillano
dicendo che assalir con ogni gente
devesse la città là dove in piano
tra l’Austro ella risguarda e l’Oriente,
che in breve promettean di dargli in mano
que’ duo sleali, ond’essi incontinente
dal re partiti a l’acquedutto andaro
e dentro a quel con mille armati entraro

75E mentre il re, che non fu punto lento
a moversi con ciò che allor far puote,
la terra assale, e spinge in un momento
machine e scale, e il muro urta e percuote,
e che i soldati armar Crate e Narento
fan tosto, e corron con pallide gote,
per tema ch’ogni speme a lor sia tronca,
Costante e gli altri entràr ne la spelonca.

76Minerva armata a tutti andava inante,
lo scudo avendo in braccio e l’asta in mano,
ma nessun la scorgea fuor che Costante,
che la seguia, né mai l’era lontano,
sempre là donde ella togliea le piante
le sue ponendo il cavalier romano;
e così andando ognor carpone e cieco
giunser dove finia l’oscuro speco.

77Ma dove quel dentro a la terra usciva
avea molt’alta la salita, e in cima
con verdi e folti rami era un’oliva,
talché il sol non vedea già la part’ima;
l’arbore tosto a la celeste diva
porse aiuto a salir d’ogni altro prima,
che a l’inventrice sua, come la scorse,
chinata i rami in fino al fondo porse.

78Onde la dea, tosto che fu per opra
de l’util pianta fuor de l’antro uscita,
tirò Costante con la man di sopra,
il qual poi diede a tutti gli altri aita;
la forza intanto ogni soldato adopra,
prima disposti di lasciar la vita
che il re nella città rimetta il piede,
né del guerrier ch’è giunto alcun s’avvede.

79Di questa schiera non si accorge alcuno,
né de l’armata dea che le fe’ scorta,
la qual già sendo il ciel tra chiaro e bruno
subito aperse a Regillan la porta;
mentre Narento con parole ogni uno
che la sua libertà diffenda essorta,
e che tagliar fa Crate uncini e scale,
dietro a le spalle quei Costante assale.

80Onde, non pur senza contrasto, allora
ciò fe’ Minerva, che invisibil era,
ma l’avria fatto un uom mortale ancora,
smarrito ogni un per l’improvisa schiera;
Narento tutti quei ch’eran di fuora
già visti entrar, né pur sa in qual maniera,
quindi fuggì pauroso e molte miglia
corse, che dal destrier mai non torse briglia.

81E giunto ad un gran fiume che a traverso
de la strada correa gonfio e spumoso,
come quel che a gran salti sen gìa verso
la sua morte, anzi verso il suo riposo,
passar volendo vi restò sommerso,
col destrier tutto ne la rena ascoso,
ché trar di staffa non potendo un piede
con la sua morte nome al fiume diede.

82Così Crate non fe’, che ardito e forte
faceva animo a i suoi, ma ciò non valse,
ché dal popolo irato ebbe la morte;
tal rabbia, visto il danno suo, l’assalse
essendo state al re chiuse le porte
per sue parole e sue promesse false;
ma ciò dispiacque molto a Regillano
che volea vivo e l’uno e l’altro in mano.

83In Epidauro in tanto entrar sicura
potea per tutto la nemica gente,
ch’ogni porta era rotta, e che le mura
abbandonate furo immantinente;
già l’empio re l’usata sua natura
riprende, poi che vincitor si sente,
onde innocenza né vecchiezza giova,
né per beltà donna mercé ritrova.

84De la misera gente s’udian solo
lamenti e strida, essendo sol per tutto
con disperazion, mestizia e duolo,
singulti, crudeltà, querele e lutto.
Per tutto sparto d’uman sangue il suolo
vedeasi, né pur era un loco asciutto;
le vergini dolenti e scapigliate
ne i tempi e ne le piazze eran sforzate.

85Molti, cui per potente alta cagione,
stato il re fora a premiar costretto,
né colpa avean di tal ribellione,
né pur sopra di lor cadea sospetto,
punto nel fianco da tartareo sprone
e colmo il re d’infernal tosco il petto,
l’ingrato uccider fe’ tosto per merto
di quanto avea ciascun per lui sofferto.

86E tal licenza colmo di veneno
ne l’entrar dentro a i suoi soldati diede,
che poi pentito ritirando il freno
ritrar non però quei volsero il piede,
ma, d’uman sangue ogni un tinto il terreno
lasciando, era sol volto a furti, a prede,
e i più superbi tetti e i più sublimi
furo a provar di quei la rabbia i primi.

87Del re dinanzi a gli occhi, che gran doglia
n’have, e di sacre e di profane cose
la misera città tutta spogliata;
«Statue, pitture e veste preziose,
chi più puote di noi più se ne toglia»
dicean tra lor, e vasi e gemme ascose
tutte cercate e ritrovate furo,
né fu loco a tanto impeto sicuro.

88Patì fra l’altre donne violenza
da Tampso duce dardano, Torena,
che sola in casa abbandonata, senza
potersi aitar, restò di sdegno piena;
ma di Tampso mostrando a la presenza
d’esser dentro e di fuor tutta serena,
ciò visto quei le chiese ov’ella messe
le cose sue più preziose avesse.

89Quella rispose: «O signor mio, se vui
mi promettere far ch’io sia difesa
stando in man vostra, da le forze altrui,
talché a patir non abbia nuova offesa,
vi mostrerò dove ho riposto in dui
lochi tant’oro, a conservarlo intesa,
che al par d’ogni altri ricco ne sarete,
e sempre agiato riposar potrete».

90Promise quei con mente non sincera;
di cor dunque la donna invitto e forte,
per man lo prese e lo guidò dov’era
profondo un pozzo in mezzo de la corte,
cui disse: «Qui gettando ascosi iersera
quanti danari fur del mio consorte,
le gemme e i vasi d’or tutti e d’argento,
poi ch’ei rimase armato in piazza spento».

91Tampso malcauto, pien di manifesta
speranza, quella punto non ascose,
ma perché l’indugiar troppo il molesta
su la bocca del pozzo il petto pose;
co i piedi alti da terra, in giù la testa
porgea, per veder meglio quelle cose:
colto allor la donna il tempo, entrambe,
destra e sicura, al ciel gli alzò le gambe.

92E in tal maniera giù precipitollo
che intero pur non gli rimase un osso,
né le bastò che desse quei tal crollo,
ma gravi pietre ancor gettogli addosso;
poi nel pozzo sepolto star lasciollo,
del sangue suo già divenuto rosso;
questo saputo il re con fier sembiante
condur legata se la fe’ davante.

93E chiestala qual fosse: «Io fui di Crate
moglie, e sorella» disse «di Narento;
duci per conservar la libertate
contra te solo ad occuparla intento;
e Crate a torto e con gran crudeltate
per tua cagion restò pur dianzi spento».
Commise il re che in prigionia guardata
fosse, ma dal guerrier fu liberata.

94Scorrean le turbe intanto per le strade
senza pietà, di crudel sete ardenti,
vecchi e donne e fanciulli a fil di spade
ne gian, non che i soldati e l’altre genti;
le spoglie da diverse altre contrade
portate, e d’Epidauro gli ornamenti
tolti a i nemici già fur da coloro
rapiti, e l’armi e il publico tesoro.

95Mai non fu pari a sì gran strage essempio,
ancor che stesse a terminarsi poco;
torre sicura ivi non era o tempio,
non che più vile e più negletto loco;
commesso a tutti avea da prima l’empio
re che adoprasser solo il ferro e il foco,
a cui Ragusio oppostogli e Costante
fèr sì che il mal più gir non poté avante.

96Quella gente d’Aureolo che chiusa
tenea Felice ne la rocca intorno,
subito quindi si partì confusa,
ché pazzia fora stata il far soggiorno;
ma perché troppo se ne gìa diffusa,
n’ebbe al fin danno a mal suo grado e scorno,
che, da Ragusio e dal guerrier seguita,
pochi o nessun di lor salvò la vita.

97Onde al ritorno con le braccia aperte
corse la donna al suo diletto sposo,
che da lei volse udir l’onte sofferte,
ond’ei privò restò d’ogni riposo.
In tanto Regillan tener coperte. Regillano cerca di uccidere di sua mano Costante, ma è trucidato dal popolo (97,5-109)
non può le cure che già il cor gli han roso:
or che ogni suo nemico è in tutto estinto,
scoprir convien quel che gran pezzo ha finto.

98Ora ch’egli ha ricovrato il regno,
né più bisogno aver d’alcun si vede,
di dar morte a colui pur fa dissegno
cui debbe ciò ch’egli ha, per sua mercede;
da cui lo stato ebbe e la vita in pegno,
di verace pietà, d’intera fede;
ma il conoscer lui ciò gli è maggior sprone
che ’l fa scorrer lontan più da ragione.

99E d’alta rabbia cieco in guisa il rende,
e sì con più furor sempre in lui sorge
che il grave suo periglio non comprende,
né la sua morte manifesta scorge;
egli sa pur che il popol tutto offende
col dar morte a Costante, e pur si accorge
che sol per opra sua gente infinita
salvò dianzi l’aver, salvò la vita.

100E che ciascun non pur l’ama e l’onora,
tutto a servirlo e giorno e notte inteso,
ma che l’inchina e come dio l’adora,
per sua salute giù dal ciel disceso,
e che Ragusio, il qual sta seco ognora,
fia di tal morte in fino a l’alma offeso;
ma l’empio altro non mira, altro non pensa,
che di sfogar l’infernal rabbia immensa.

101Nel tempio di Giunon, dunque, non molto
dopo che al sacrificio erano intenti,
dov’era il più de i nobili raccolto
e de la plebe e d’altre varie genti,
fatto in un punto il re pallido in volto,
con gli occhi torti e più che fiamma ardenti,
ferir volse Costante, ma fu vano
quel colpo allor, ché gli tremò la mano.

102Meraviglioso indietro si ritira
tosto il guerrier, che il ferro in alto vede,
ma per fretta e per colera non mira
nel ritrarsi ov’egli ponga il piede,
onde in un grado che d’intorno gira
l’altar, che in mezzo a quel più basso siede,
col piè percuote, e cade in terra steso
non che dal ferro fosse punto offeso.

103Tosto che ogni un si fu de l’atto accorto
che il re fece, e il guerrier visto cadere,
per soverchio dolor credendol morto
questo e quel l’empio re sdegnoso fère,
talché non gli lasciaro in spazio corto
gambe né braccia né pur dita intere,
tanti di ciò volean l’onor, la palma
ch’ei senza corpo fu pria che senz’alma.

104Qual fier orso o cinghial ch’abbia col dente
fatto o con l’unghie alcun restare essangue,
ferir dappresso e di lontan si sente,
or da questo or da quel che geme e langue,
e sì contra di lui cresce la gente
ch’esser tinto il terren del proprio sangue
mira prima che cada, et ancor vivo
riman di gambe e d’altre membra privo,

105tale avvenne ano al re perfido e ingrato.
In tanto il cavalier, ch’era caduto,
levossi, e corse di buon zelo armato
per dare al re, ché non perisse, aiuto;
ma sì come ab eterno era ordinato
al suo fin già trovollo esser venuto,
onde con pompa i tronchi indi fe’ tòrre,
e sopra un’alta e regal pira porre.

106Ma poi che fu abbrusciato, e il cener posto,
sì come a re conviensi, in ricco vaso,
coronar fece il buon Ragusio tosto,
che per la moglie erede era rimaso;
a questo il popol si trovò disposto,
ch’uopo non fu d’averlo persuaso.
A cui via più che al re felice e buona
fu l’ora e il punto in ch’ei prese corona,

107ché giusto essendo e pio regnò sol diece
anni, e morì in età verde e fiorita,
ma tante e sì buon’opre in questi fece
ch’esser stato parea mill’anni in vita;
a nullo altro signor d’arrivar lece
per molto spazio a sua bontà infinita.
Senza alcun figlio aver prima la morte
vide, con suo gran duol, de la consorte,

108ma con varie maniere e con diverse
sempre occulto serbò l’interno affanno,
e sì dentro lo chiuse e lo coperse
che in lui cagion fu di palese danno,
perché in un punto poi se gli scoperse:
non era fuori a pena anco il prim’anno,
una sì gran postema al cor d’intorno
che se gli ruppe e l’affogò in un giorno.

109E lasciò tosto ch’ebbe il suo fin scorto
libera la città, ma il popol tutto
privo d’ogni piacer, d’ogni conforto
molti anni visse in grave doglia e in lutto.
Poi fu da lui chiamata in tempo corto
Ragusia la città quivi e per tutto
che in fino a questa età ricca e superba
tal nome in pace e in libertà riserba.

Costante riparte e trova sul lido un cavaliere che sta cercando di togliersi la vita: è Vasconio, che gli narra come Vittoria, per venirlo a cercare, sia finita in mano del rio Cimara (110-133)

110Costante adunque, poi che vide il saggio
Ragusio di regal corona adorno,
da Minerva ammonito, il suo viaggio
dopo questo riprese il terzo giorno.
Era allor che il temprato e lieto maggio
tutto rende il terren fiorito intorno,
quando Costante uscì fuor de le porte
col re novello e con la sua consorte.

111E tre miglia lontan quindi commiato
da lor con molte e gran proferte prese,
a cui benigno il re più ch’altri e grato,
grazie di tanti benefici rese;
e da lui fu di ritornar sforzato,
poi ch’ebbe in vano assai parole spese,
ch’ei più lasciarsi accompagnar non volse,
ma diece a pena sol con lui si tolse.

112Con questi giunto in Scodra il terzo giorno
il popol tutto ad incontrarlo uscìo,
e con letizia stando a quel d’intorno
gridava ogni un «Viva Costante Pio!»,
prima ogni loco avendo in Scodra adorno
come s’ei fosse non mortal ma dio;
ma quindi si partì poi la seguente
mattina, e si drizzò verso Oriente.

113E costeggiando ognor lungo le sponde
de lo Scadro a sinistra, indi vicino,
et a man destra de l’Ionio l’onde,
seguia con molta fretta il suo camino;
e così andando un dì sopra le fronde
trovò disteso un cavalier meschino
dolersi, e molli in guisa aver le gote
che dir, né pure imaginar si puote.

114Seco il miser facea sì gran lamento
che a le fere, a gli augei pietà ne porse,
e stava in guisa a querelarsi intento
che di tanti guerrier pur non s’accorse;
ma bramoso restar di vita spento,
cieco, sì lunge da ragion trascorse,
ch’avea contra se stesso il ferro volto,
pallido, afflitto e sbigottito in volto.

115Ma Costante gridò: «Che fai tu, insano
guerrier? la passion dove ti caccia?»,
e giù trattosi in fretta a quel la mano
prende, acciò che sì grave error non faccia.
Visto egli adunque riuscito vano
l’empio dissegno suo, l’umida faccia
levò turbato, e mesto nel sembiante,
e riconobbe il suo signor Costante.

116Onde la man gli bascia e salta in piede,
con sguardo assai men torbido e men fosco,
credendo a pena quel che tocca e vede
ciò è di trovar lui dentro a quel bosco.
«Deh, ditemi» Costante allor gli chiede
«chi siate voi, perch’io non vi conosco»,
sendo ei nel volto in guisa afflitto e scarno
che prima il fe’ pensar gran pezzo indarno.

117Ma in questo dir, con sua gran meraviglia,
ch’era Vasconio pur tornogli in mente,
che gli Aquitani suoi dentro a Marsiglia
guidò, per gir con gli altri in Oriente;
onde con gran pietà sopra le ciglia
basciollo, indi gli chiese immantinente
novelle de l’amata sua consorte,
e la cagion ch’ei volea darsi morte.

118Allor, poi ch’ebbe quel con più profonda
vena lagrime nuove in copia sparte,
cominciò a dir: «Qual mai grata o gioconda
cosa fia che il mio dolor pur scemi in parte?
Poi che pensando a quella orribil sponda,
che di mente giamai non mi si parte,
sento il misero cor tutto cangiarsi,
e foco e ghiaccio ognor più volte farsi.

119Sappiate, o signor mio, che la consorte
vostra» soggiunse «è posta in gran periglio,
e voglia Dio che non sia giunta a morte,
ché s’ella è in vita assai mi meraviglia;
ma se pur vive, ahi fato, ahi stella, ahi sorte!,
qual pietà mai, qual forza o qual consiglio
potrà di man del rio Cimara trarla,
de la cui crudeltà sol qui si parla?

120Costui, che a nominarlo sol le chiome
sento arricciarmi e tutto addosso il pelo,
sul monte che da i folgori tien nome,
ché sì sovente in lui cadon dal cielo,
d’una rocca è signor; né so dir come,
sendo ella fatta già per giusto zelo
d’assicurar quei tutti ch’indi vanno
s’usi a i dì nostri in lor pernicie e danno.

121Di voi dunque cercando ognor dolente,
da tre romani e da me sol seguita
Vittoria, stati siam tutti sovente
per strada in gran periglio de la vita;
ma, saggia essendo e forte ella ugualmente,
sempre a noi diè, non che a se stessa aita,
fin che presa restò dal rio Cimara
con nuovo inganno e con astuzia rara.

122L’empio ha la rocca in cima d’un gran sasso,
dove per volta non può gir più d’uno,
et in tal sito posta che a quel passo
convien per forza capitar ciascuno;
la cinge un bosco d’ogn’intorno a basso
ch’è al crudo e rio ladron molto opportuno;
guida a la rocca per stretti sentier
quanti ognor quindi van donne e guerrieri.

123E fatte per quei calli ampie e profonde
fosse, a lui solo e non ad altri note,
quelle con arti tal copre e nasconde
ch’indi nullo al passar scorger le pote;
di rami e di terren, d’erba e di fronde
coperte son di fuori, e dentro vòte,
talché a fatica augel per quella strada,
non ch’uomo alcun può gir che al fin non cada.

124Or quindi andando noi verso Corinto,
che da duo mari è chiuso e da duo porti,
Vittoria prima, i vostri dopo, io quinto
con fretta passavamo e male accorti,
che a guisa d’intricato labirinto,
confusi essendo quei sentier e torti,
caddero a l’improviso in un voltarse
dentro a tai fossi quivi in copia sparse.

125Di Vittoria e de gli altri adunque udita
la voce, ché al cader tutti gridaro,
spinsi il destrier per dar lor tosto aita,
ma ritrovai non esservi riparo;
gran turba intanto della rocca uscita
vi corse, e seco il rio Cimara a paro,
giù dal sasso discesi con tal fretta
che men veloce va dardo e saetta.

126Io sì rimasi di me stesso fuore
ch’io non sapea s’io fossi o vivo o morto,
e sì da l’ira vinto e dal dolore,
tosto che il rio spettacolo ebbi scorto,
che da la rabbia spinto e dal furore,
privo di speme e sbigottito e smorto,
gettar mi volsi anch’io nel cavo speco
dov’era la regina, e morir seco.

127Se non che, o signor mio, pur mi sovvenne
di quel c’ho già da voi più volte inteso,
che dal voler morir sol vi ritenne,
allor che fu da i Persi Augusto preso,
non di vita desio, che sì vi venne
in odio, e la chiamate inutil peso
quando al re vostro aiuto non apporte,
ma speme sol di scampar lui da morte.

128Con tal speranza anch’io dunque deposi
quel sì folle pensier con furor misto,
e quindi allontanato io mi nascosi
dove il tutto vedea senza esser visto;
e vidi trar quei perfidi e rabbiosi
ladroni, ond’io n’avrò sempre il cor tristo,
Vittoria e gli altri in poco spazio d’ora
con certe ruote agevolmente fuora.

129Non so come al cader restasse involto
ciascun di lor dentro a sì stretto laccio,
che, in guisa d’arco, a i piè legato il volto
lor vidi, e dietro l’uno e l’altro braccio;
poi che ogni un dunque fu da gli empi sciolto,
mi senti’ dentro far tutto di ghiaccio,
visti quei trar per forza in cima al sasso,
poi con furor precipitargli al basso.

130Salvio, Cecinna e Montio da la cima
de l’alta pietra giù precipitaro,
talché giunti non furo a la part’ima
che rotti e in pezzi gli infelici andaro,
Vittoria, che arrivò di sopra in prima,
non so dir s’ancor lei quindi gettaro,
che visto l’empie e scelerate prove
gli occhi per gran pietà rivolsi altrove.

131Ma che mi valse, ohimè, poi che presente
miro tal caso ognor con l’occhio interno,
e fissa porto ovunque io vado in mente
l’acerba strage, e porterò in eterno?
Tosto per voi trovar verso Occidente
presi la via del giogo più superno,
qual, perché rari o nessun mai v’arriva,
esser pensai di quelle insidie priva.

132Ma pria, disceso in terra dal destriero,
mel traea dietro per la briglia a mano;
portando intenti ognor gli occhi al sentiero
men giva accorto a passo lento e piano
e nel fermare il piè destro e leggiero,
per non possarlo in alcun loco vano,
che in fino adesso, ancor sì lunge essendo
dal rio ladron, quasi timor ne prendo.

133E di voi nuova a tutte le persone
quante ho scontrate in fino ad ora chiesi,
talché del re che por vi fe’ in prigione,
e che poi morte ancor vi diede intesi:
ciò creduto da me fu sol cagione
che il ferro ignudo in man subito presi,
e se non foste voi giunto per sorte
dato m’avrei senza alcun dubbio morte».

Costante salva Vittoria e uccide il brigante Cimara (134-161)

134Volea dir altro ancor, ma il pio Costante,
cui del periglio di sua donna calse,
patir non poté d’ascoltar più avante,
tal tema e passion dentro l’assalse,
ma, pallido e turbato nel sembiante,
fe’ che Vasconio il destrier tosto salse,
e per la strada ch’ei pur dianzi fece
del monte lo seguì con gli altri diece.

135E si affrettaro in tal guisa i guerrieri
due notti e un dì che meraviglia è come
senza mai prender posa i lor destrieri
durasser sotto a sì continue some.
Presso a la rocca al fin tra duo sentieri
l’altera diva, ond’ebbe Atene il nome,
si discoperse armata, e fu lor scorta
per quel sentier che gìa dritto a la porta.

136Poi tutti, eccetto un sol, lontani pose
quanto buon arco trar può in una volta,
e quei fuor del sentier quivi nascose
tra i rami, ove la selva era più folta;
l’aurora in tanto il crin d’oro e di rose
scoperto, e l’ombra d’ogn’intorno tolta,
gettossi in una tomba, e finse a caso
cader l’altro guerrier ch’era rimaso.

137Così ordinò la dea, così per sorte
avvenne a lui di far; questo Cimara
visto, con gli altri suoi correndo forte
esser primo volea ciascuno a gara.
Oh giustizia di Dio, come a la morte
guidi veloce la vil gente avara!
Ecco a la tomba in tanto ogni un venuto
dove a bel studio era il guerrier caduto.

138E mentre l’un la rota, e l’altro prende
la corda, e giuso vuol calar l’uncino,
e che Cimara a questo sol attende,
né scorge il danno suo già sì vicino,
giunto Vasconio ad un la testa fende;
ma di lui prima il gran guerrier latino,
dal cui lato la dea mai non si muove,
fatto avea già meravigliose prove.

139Due lasciò morti, il petto a l’uno e il fianco
traffitto a l’altro, il che visto i guerrieri
d’Illiria, per parer ciascun più franco,
si mostràr tutti in arme arditi e fieri;
dunque Cimara, isbigottito e bianco,
poi che non sa donde soccorso speri,
dentro il bosco a fuggir tosto si diede,
così com’era, disarmato a piede.

140E per quei orti calli e stretti passi
via più destro che damma e più leggiero,
senza impedirgli il corso o spine o sassi,
gìa trovando ogni occulto aspro sentiero;
Costante fermo e ciascun altro stassi,
che impossibil gli par sopra il destriero
seguirlo, andando quel per l’aspra selva
come da i veltri va cacciata belva.

141Da l’altra parte ancor certo periglio
scenderne in terra parea lor che fosse,
poi che d’intorno intorno, più d’un miglio
girando, il bosco va sì pien di fosse
che non giova saper, non val consiglio,
né per quindi uscir mai terrene posse;
ma scesi o su i destrier n’avrebber scorno,
ch’egli era uso per quel la notte e il giorno.

142Ma chi si trova ognor destra e presente
l’altera diva, illustre e gloriosa,
onde ha forza e saper l’umana gente,
facil ritorna ogni difficil cosa.
Dunque pose la dea subito in mente
di quello il cui pensier mai non riposa,
dove al fin capitar Cimara puote,
benché a lui fosser pria le strade ignote.

143Pur visto che in due parti il bosco fende
un ampio calle che va dritto e piano,
ch’ivi l’empio arrivar debba comprende
e ch’omai più non possa esser lontano,
preso adunque il vantaggio i suoi distende
per quel Costante, né ciò fece in vano,
che, il ladro attraversar volendo il calle,
Vasconio gli arrivò dietro a le spalle.

144Sì come accorto cacciator che al varco
cervo o capro talor nascosto attende,
che mentre quel sen va leggiero e scarco
né macchia o rupe al correr suo contende,
se gli fa incontro a l’improviso e l’arco
subito scocca, o che a la rete il prende,
così Vasconio allor subito assalse
Cimara, che a scampar nulla gli valse.

145Ma con più nodi subito legollo
talché fuggir per nessun modo puote,
e sì stretto gli avvinse e mani e collo
che in van si torce, in van s’aggira e scuote;
e in questa guisa al suo signor guidollo,
qual tratto in tanto avea con quelle ruote
(non men sottil che iniqua e crudel opra)
l’altro guerrier, ch’ivi caddeo di sopra.

146E quel da i lacci immantinente sciolto
dove nel cader giù rimansi avvinto,
verso l’empio ladron subito volto
gli disse, tutto di rossor dipinto:
«Or vedi che a la trappola sei colto,
volpe mal nata, dal peccato spinto,
che del gran strazio c’hai fatto di tanti,
crudel, non piace a Dio che più ti vanti.

147Non sai, perfido, omai ch’egli è promessa
da Dio tal legge, e che per tutto s’usa
punir la fraude con la fraude istessa,
e che da l’arte vien l’arte delusa?».
Visto Cimara che il suo fin s’appressa,
anzi ch’è giunto, tien la bocca chiusa,
che ben si accorge i vizi suoi del tutto
esser cagion che a questo sia condutto.

148Chiese Costante poi se giù dal sasso
gettato avea una donna, di sei giorni
prima arrivata a l’infelice passo
con tre guerrieri, e tutti d’arme adorni;
l’empio rispose allor col ciglio basso:
«Benché di strazi e d’infiniti scorni
mi sia pasciuto contra i guerrier presi,
mai però donna in nessun modo offesi.

149Quelle serbo in prigion dentro una torre,
per venderle a’ suoi sposi, a’ suoi parenti,
non men quivi, signor, fei quella porre,
ch’or dite voi, ma fur gli uomini spenti;
mentre le volsi le bell’armi sciorre,
per farne poi come de l’altre genti,
m’accorsi al trar de l’elmo esser lei donna,
che d’armi cinta in cambio era di gonna.

150E nulla o poco vi mancò che armata
con l’elmo e con l’usbergo e con l’arnese
giuso non fosse dal petron gettata
così mi disdegnò, così mi offese;
tosto che in cima al sasso fu guidata,
da noi fuggita, in man la spada prese
e tre de’ miei più cari e fidi a morte
pos’ella, destra a meraviglia e forte.

151E senza dubbio ancor saria fuggita
se di lei stessa si prendea sol cura,
che la mia gente timida e smarrita
fuggì tutta e si ascose per paura;
ma dar volendo a i suoi compagni aita,
sì come fa chi troppo si assicura,
di nuovo cadde in una tomba e presa
pur di nuovo restò senza contesa.

152Io, per grand’ira tutto acceso in volto,
né trovando altra via donde sfogarme,
per trarla giù dal sasso era già volto
quando mirai sì ricche e lucid’arme,
onde pria l’elmo per spogliarla sciolto,
non senza molta meraviglia darme,
scorsi la chioma ch’avea al capo involta,
lunga treccia apparir cadendo sciolta.

153E il dolce aspetto e i vaghi occhi lucenti,
la colorita faccia e il bel sembiante,
e con sospiri e con dogliosi accenti
il dir sovente: – O signor mio Costante! -,
potean dal corso i rapidi torrenti
fermare, e per pietà muover le piante;
ma non già me, sì d’ira acceso il core,
che né pietà né v’ebbe loco amore.

154Benché al fin poi da l’avarizia l’ira
vinta rimase, e la fei por nel loco
dove più d’una ognor piange e sospira,
poi che d’uscirne omai sperano poco».
Costante, pien di speme allor respira,
che udir quella in prigion gli sembra un gioco
rispetto a quanto gli avea fisso in mente
con chiodo acuto il rio timor sovente.

155E con gran fretta accelerando il passo
per liberar la cara sua consorte,
salito ch’ebbe a gran fatica il sasso
fe’ tosto aprir de la prigion le porte,
e de la torre giù nel fondo a basso
trovolla afflitta e con le guancie smorte,
che, di catene e d’aspri nodi avvinta,
fora rimasa in picciol tempo estinta.

156Chi dir potria l’alto piacer, la gioia
che, visto il cavalier, Vittoria sente?
Periglio a l’improviso è che non muoia
così scorser gli spirti immantinente.
Ma questo a Dio non piace, anzi la noia
passata in guisa uscir le fa di mente,
ch’altro non brama, ad altro più non pensa.
colma nel cor d’alta letizia immensa.

157Costante pazienza aver non puote
ch’ella sia fuor di ceppi e di catene,
ma l’abbraccia e le bascia ambe le gote,
e grave doglia per pietà sostiene,
doglia che il cor gli afflige e gli percuote,
che in tanti guai sia stata e in tante pene;
ma poi tal gioia il viver suo gli apporta,
che se l’afflige l’un, l’altro il conforta.

158Poi che restò da i lacci ond’era involta
Vittoria da Costante e dal cortese
Vasconio e da i guerrier d’Illiria sciolta,
col cibo alquanto ogni restauro prese;
talché in piacer l’alta mestizia volta,
per trar di servitù tutto il paese,
e per far d’ogni giusto al fin vendetta
contra il ladron cui l’avid’Orco aspetta,

159fatto quel strascinar su l’alto scoglio
giù Costante il gettò col capo avanti,
dicendo: «Ecco, malvagio, ch’io non voglio
che di straziare altrui mai più ti vanti,
così, pien di superbia e pien d’orgoglio,
tu crudo hai fatto per l’adietro a tanti».
Per cangiar poi tutto al contrario l’empio
costume in pio, fe’ de la rocca un tempio.

160Dove di Delfo e d’altri lochi intorno
fu gran frequenza d’uomini devoti,
che poi facendo in tal loco soggiorno
sempre abondante fu da i sacerdoti,
che Dio pregando ognor la notte e il giorno,
restàr per tutta Europa in breve noti,
e il tempio fu con cerimonie nuove
sacrato a sommo Acroceraunio Giove.

161Ai prieghi, al tempio, al nome suo rispetto
avuto adunque il gran figliuol di rea,
quivi cessò mandar dal divin tetto
fulmini tanti, come pria solea;
per questo al monte, poi, che da l’effetto
l’antico nome già sortito avea,
cessato essendo il nome ancor si tacque,
e dal morto ladron chiamarlo piacque.