Argomento
Costante uccide Lammia, uccide il reo
Tolmandro, Mena, Ladon, Crano e Nerva;
purga di mostri scorto da Minerva
da i gran monti d’Epiro al mare Egeo.
Giunone sprona Lammia, re dell’Epiro, a muovere guerra a Costante: viene vinto facilmente, in sua vece è lasciato Nerone come amministratore del regno (1-26)
1Vittoria preso avendo omai bastante
ristori al gran disagio che sofferse,
l’ottavo giorno parve al pio Costante
tempo da gir contra le genti perse;
onde, tosto che in letto il vecchio amante
lasciò l’Aurora, e il crin d’oro scoperse
al balcon d’Oriente, il lor viaggio
preser, non sorto ancor d’Apollo il raggio.
2E volsero a Corinto in fretta i passi,
che per terra arrivar volendo al Pelo-
poneso quindi ogni un convien che passi;
ma perché il verno s’appressava e il gielo,
sì per fuggir le rupi e i balzi e i sassi,
come ancor per aver men freddo il cielo,
lungo il mar s’appigliaro al sentier piano
lasciando i monti a la sinistra mano.
3E così quattro giorno o cinque andaro,
mattina e sera al lor viaggio intenti,
che impedimento alcun mai non trovaro,
con risi e motto ognor lieti e contenti;
e, giunti a Tamia, un giorno si fermaro,
dove per tutto sol si udian lamenti;
ma più d’ogni altro avea doglia e martiro
Lammia, che allor reggea l’Epiro.
4Lammia un sol figlio avea, dal crespo e biondo
crine da tutti Cincinnato detto,
che di sé dava gran speranza al mondo,
prudente, accorto e di gentile aspetto;
questo il padre rendea lieto e giocondo,
suo tesoro, sua gioia e suo diletto;
ma nel mezzo d’un bosco a l’improviso
quel dì stat’era, essendo a caccia, ucciso.
5Come avvenir veggiam sovente a caccia,
trovandosi lontan da gli altri molto,
d’un cervo intento a seguitar la traccia
nel mezzo fu da quattro armati colto,
che, feritol nel petto e ne la faccia,
morto rimase, e da i compagni tolto
fu, gridando e piangendo il popol tutto,
dinanzi al padre, a la città condutto.
6Più d’un giorno penossi e più d’un mese,
prima che fosser gli omicidi noti,
ben Lammia a ciò con ogni studio attese,
ma fur gli offici ognor d’effetto vòti;
per vero indicio poi chiaro s’intese
che questo fatto avean tre suoi nepoti,
perché venìa, già vecchio essendo, a loro
tutta l’entrata sua, tutto il tesoro.
7Quel miser patre, doloroso quanto
pensar si può, tre giorno il corpo tenne,
molta provision facendo in tanto
per sepelirlo con pompa solenne;
e stando quel sempre in continuo pianto,
spiegar Giunon fe’ le dorate penne,
a gli augei suoi così veloce e presta
che tosto in Argo fu, dolente e mesta.
8E quivi per la figlia di Taumante
subito a sé chiamar fatta Megera:
tosto che a lei giunse la Furia inante,
minacciolla implacabile e severa,
ché, a mal suo grado, ancor fosse Costante
vivo non pur, ma con sì grossa schiera,
tolta di Gallia la più franca gente
dissegnasse di gir verso Oriente.
9E le commise ch’ella usar devesse
quel modo ch’esser le parea migliore
onde Costante in tutto rimanesse
senz’aver, senza vita e senza onore,
facendo sì che morto ancor s’avesse
nel mondo per infame e traditore,
ch’altrimenti opraria sì che in eterno
non tornerebbe a riveder l’Inferno.
10Per timor quindi allor Megera, tosto
partita, andò là dove Cincinnato,
già cadavero, in alto era riposto,
come a la pira esser devea portato;
e, il volto oscuro e il crin d’idre nascosto,
sen gio la notte al padre sconsolato,
qual ben sa che impossibil fia che dorma,
d’un suo liberto già presa la forma.
11A Lammia fu questo liberto, detto
Seran, via più d’ogni altro fido e caro,
e col figlio il mandò quando soletto
morto nel bosco i suoi poscia il trovaro;
e fosse la cagion ch’egli avea il petto
colmo di doglia e di tormento amaro,
o che d’appresentarsi al suo signore
per tal successo rio stesse in timore,
12comparso inanzi a lui non era ancora,
se ben chiesto l’avea più d’una volta.
Megera adunque attesa in prima l’ora,
l’effigie sua ne la costui rivolta,
di Lammia al letto andò che ancor l’aurora
non avea l’ombra da la terra tolta,
cui lacrimando e con voce precisa
spesso dal sospirar, parlò in tal guisa:
13«Sappi, o signor, com’io primier trovai
tuo figlio morto, cui seguia primiero,
e tosto dietro a i traditori andai,
ché impresse apparian l’orme nel sentiero,
e sì spronato dal desio spronai
a sciolto freno anch’io sempre il destriero,
che a punto nell’uscir del bosco fuori
scorsi fuggir da lunge i malfattori.
14Diece, tutti a destrier, son questi, armati,
li quai da lontan, con gran desiro
di conoscerli, sempre ho seguitati,
e visti gli ho, quando del bosco usciro,
per la contraria porta esser entrati
ne la città, ma dopo un lungo giro,
e smontaro a l’ostier tutti costoro,
che per insegna tien la Sfinge d’oro».
15E così detto la crudel Megera,
stando ancor Lammia involto ne la piuma,
spruzzolio d’un liquor che in gran part’era
del Cerbero infernal rabbiosa spuma,
onde a guisa di tigre o d’altra fera,
cui fame dentro macera e consuma,
tosto con gran furor saltò dal letto
gridando, e molto orribile d’aspetto.
16«Servi e soldati ogni un corra, ogni un s’arme,
e l’ostier si getti da la Sfinge a terra,»
gridava, e si vestì con fretta l’arme,
come se i Persi gli movesser guerra.
«Del Ciel mal grado, oggi potrò sfogarme»
dicea, poscia gridava: «Serra, serra,
serra le porte, acciò che i traditori
de la città scampar non possan fuori».
17Ma non però con tanto suo furore
poté i compagni offender, né Costante,
ché a par Minerva avendo a tutte l’ore,
avvertiti gli avea d’un pezzo inante,
talché salvi di Tamia usciti fuore,
verso il fiume vicin volser le piante,
e quivi giunti ascose ogni un la diva
tra i dumi, ove alta e torta era la riva.
18Dal furor Lammia intanto e da la rabbia
spinto, nessun trovato ne l’ostello,
sì come l’oste il figlio ucciso gli abbia
fe’ d’esso e de gli suoi crudel macello;
poi, corso al fiume, ov’alta era la sabbia,
con più di cento armati in un drapello,
mentr’era intento e di passar disposto,
Costante e gli altri l’assaliron tosto.
19Minerva, che a la zuffa era presente,
diede a Costante e diede a i suoi tal voce
che tutti alzando il grido orribilmente
non s’udì cosa mai tanto feroce;
diece e più volte tanto esser la gente
credendo, ogni un fuggir volea veloce,
ma i destrieri fitti un braccio ne la rena
non erano a trottar bastanti a pena.
20Lammia, che del disordine s’accorse,
come quel ch mostrò sempre gran core,
tosto contra costor la faccia torse,
e Costante ferì, pien di furore;
ma quel, che se medesmo ognor soccorse
di par con la prudenza e col valore,
porto lo scudo, a tempo si coperse,
e con la spada il petto a Lammia aperse.
21Vittoria e gli altri, qual Costante arditi
quivi apparir tutti volendo e forti,
fèron tosto giacer non pur feriti
ma quasi tutti quei di Lammia morti.
Pochissimi di lor, quindi fuggiti
giunsero a la città; ma, poco accorti,
del duce lor fatta saper la morte,
chiuse in faccia lor fur tosto le porte.
22Quanto per la bontà sua Cincinnato,
e per la speme ch’ogni un d’esso avea,
era da tutta la provincia amato,
tanto per quel che il padre ognor facea
per contrario da tutti era odiato;
e il popol, ch’esser quel morto sapea,
pensò dopo maturo e gran discorso,
di chiamar quel guerrier che l’ha soccorso,
23e in suo governo darsi, onde mandaro
diece, che a questo effetto elesser tosto.
Fatta l’offerta, quei molto il pregaro
ch’esser volesse ad accettar disposto;
non era il perder tempo al guerrier caro,
ma perché si trovò poco discosto
ritornò in Tamia, e come a re d’Epiro
gran pezzo incontro i cittadin gli usciro.
24De la gran fede che in ciascun sorgea
verso di lui ringraziò Costante,
ma che accettar l’offerta non potea,
disse, sforzato a gir tosto in levante,
e di fermarsi alcun giorno in Nemea,
per cosa da trattar molto importante;
ma sì pregollo il popolo e il Senato
che a lasciar fu Neron quivi sforzato,
25dicendo: «In ricompensa de l’onore
ricevuto da voi con tanto affetto,
lasciandovi Neron mi svello il core
da le viscere mie, fuor del mio petto:
tal prudenza in lui regna e tal valore,
che al par d’ogni altro m’è caro e diletto».
Poi fe’ sì che a Neron pur persuase
ch’ivi (ma volentier non già) rimase.
26Tra l’altre cose che allor dette furo
da Costante a Neron, questo gli impresse:
non esser per l’impresa lor sicuro,
che in governo quel regno altri tenesse,
onde benché a lasciar Costante duro
via più d’ogni altra cosa gli paresse,
pur Neron sottopose al giogo il collo,
e per necessità, tristo, accettollo.
Costante vince e uccide il ladrone Tolmandro (27-61)
27Volendosi partir poi da quel loco,
con prieghi fu Costante ritenuto,
e fu costretto di fermarsi un poco
da i cittadini, sol per loro aiuto:
«D’intorno era il paese in fiamma e in foco
da Tolmandro ladron sempre tenuto;
Tolmandro ch’altri più d’ingorde brame
non si ritrova, né più d’esso infame.
28Questo in Roma died’opra a leggi, e valse
poco in saper, ma temerario tanto,
con testimoni e con scritture false
pur fe’, di questo riportando il vanto,
che a qualche grado senza merto salse
e di toga comparve adorno intanto,
ma più delitti fe’, che il meno atroce
degno il rendea del remo e de la croce.
29E perciò fu di Roma fuor cacciato
l’empio, di falsità seme e radice,
che sol per male al mondo essendo nato
mal fa, mal pensa e mal d’ogni altro dice;
onde col volto il traditor sfregiato
sen va d’ampia e profonda cicatrice;
ma come sia d’onor tal cosa insegna,
più sempre in lui maggior l’audacia regna.
30Scacciato fuor di Roma l’empio e fello
Tolmandro appresso a Tamia trenta miglia
se ne sta, sopra il monte, in un castello
di sito e d’arte forte a meraviglia;
gran gente ognor dimora ivi con quello,
ch’ogni un ne i vizi a lui ben si assimiglia,
e con costor sen va la notte e il giorno
scorrendo il monte e il pian tutto d’intorno.
31Non solo i viandanti e i peregrini
restan privi d’aver, privi di vita,
ma ne i lochi lontani e ne i vicini,
con fraude occulta, e non altrove udita,
a i ladri, a i masnadieri, a gli assassini
porge fomento, e di nascosto aita,
talché delitto alcun presso o lontano
non si commette ch’ei non v’abbia mano.
32S’avvien ch’alcuna giovane si scopra
ricca o vaga di forma in questo regno,
inganni e fraude in tante guisa adopra
ch’egli arrivar la fa dove ha disegno.
Falsità pone e violenza in opra,
che in questo solo è ben sottil d’ingegno:
la parte sua riceve poi d’ascoso,
né lascia mai che alcun viva in riposo.
33L’istesso a ciascun vecchio ricco avviene,
nel farsi dopo morte alcuno erede,
che al fin come egli vuol far si conviene,
se non che in pace il suo mai non possede;
poi, fatto il testamento, non sostiene
che viva, e fallo uccider per mercede.
Tutto il gran regno ei, in somma, tiene in filo,
e il suo castello è d’ogni vizio asilo.
34Volendo proveder Lammia prefetto
d’Epiro il gran disordine, venuto
se n’era in Tamia solo a questo effetto,
per darci a tempo al gran bisogno aiuto;
ma poi ch’oggi traffitto in mezzo il petto
per la man vostra il misero è caduto;
di trar noi tutti al mostro rio di bocca
a voi, signor, più che ad ogni altro tocca».
35Così di Tamia i cittadin dolenti
diceano al cavalier, pregando quello
a volersi trovar con le lor genti
di Tolmandro a l’impresa del castello;
perch’egli e i suoi trovandosi presenti,
per l’autorità lor, l’empio e rubello
di riputazion perderia molto,
e più tosto il castel gli saria tolto.
36Costante, udito i tanti vizi e tanto
sporchi del rio Tolmandro, si risolse
quivi di star co i suoi compagni alquanto,
ché ogni un del danno universal si dolse;
ma la gran figlia del gran Padre intanto,
che senza lei lasciarlo gir non volse,
tosto che l’orizzonte l’ombra nera
tutto imbruni, gli disse in tal maniera:
37«Costante, se tu sol vuoi con Vittoria
e co i compagni tuoi di questa impresa
l’onor tutto acquistar, tutta la gloria,
dietro al fiume la via da te sia presa,
che di Tolmandro la total vittoria
porrò ne le tue man senza contesa;
prima che la gran schiera che si vede
per ciò raccolta, abbia ancor mosso il piede».
38Così detto Minerva, a sé chiamata
una sua donna, di cui Singa è il nome,
e la primiera forma in lei cangiata,
d’altri panni acconciolla e d’altre chiome,
talché in un servo del ladron mutata,
prima instruttala ben qual cosa e come
dir gli devesse, a lui mandolla tosto,
che per dormir già s’era in letto posto.
39Di questo servo il nome era Dimarco,
che a Tolmandro facea dì e notte spia,
picciol di corpo, tutto snello e scarco,
gir per tutto e sapea per ogni via,
soletto ognor, fuor che gli strali e l’arco
non volse altrui mai seco in compagnia.
Singa, fatta a costui simil d’aspetto,
così disse al ladron mentr’era in letto:
40«Signor, mai non ti venne occasione
di far più ricca preda e più onorata
di quella che pur dianzi di Giunone
verso il Tiami a l’oste è capitata:
diece soldati e certe altre persone,
da cui pregato or lor la via ho mostrata,
quivi aspettando stan co i muli carchi
che il fiume cali e che di là si varchi.
41Vecchio e infermo sen viene il duce loro
sempre in lettica, e s’ho spiato il vero
sopra quei carriaggi hanno il tesoro
de la bella Macrina tutto intero;
più giorni essendo stata ella con Floro
in Delfo, or d’Eribea preso il sentiero
d’una giornata innanzi mandan Sura
col tesoro commesso a la sua cura.
42Ma Sura, essendo omai vecchio e mal sano,
la febbre l’assalì dianzi per strada,
talché in lettica il misero pian piano
convien che a mal suo grado se ne vada;
sei miglia di Giunon quinci è lontano
l’ostier, però non star, Tolmandro, a bada,
perché se Floro co i soldati arriva
n’andran salvi e sicuri a l’altra riva.
43Non tardar, signor mio, lascia le piume,
ch’io ti farò, come ognor fo, la scorta,
e condurotti salvo insino al fiume,
per strada piana, senza fango e corta;
ma se del nuovo giorno aspetti il lume
potria la gente tua rimaner morta,
perciò che a Floro tosto quei dier nuova
del duce lor che infermo si ritrova.
44Talché molto indugiar più di ragione
non può nuovo presidio e nuovo duce,
e forse Floro ancor con le persone
tutte, che seco in compagnia conduce,
con Sura s’unirà, che n’ha cagione,
né forse aspettarà la nuova luce;
seguimi adunque omai, ch’io sol costoro
pongo in man tua con tutto il lor tesoro».
45Tolmandro, ch’uopo avea sempre di briglia
ma non di sproni mai, levossi, e tosto
corse veloce con la sua famiglia,
d’aver sì gran tesoro in man disposto;
da Singa, che a Dimarco si assimiglia,
nel gir non stava un passo mai discosto,
tanta ingordigia avea l’empio e tal sete
d’incappar tosto ne la tesa rete.
46Perché Minerva col guerrier suo v’era
già prima giunta, e quel nobil drapello
per tutto avea nascosto in tal maniera,
chi di qua, chi di là dentro a l’ostello;
che poi giunto il ladron con la sua schiera,
si fe’ di tutti lor facil macello;
sol rimase prigion Tolmandro e tosto
fu sul destrier sopra cui venne posto.
47Poscia le veste lor tutti mutaro
con quelle di color che morti furo.
Già Febo avea col nuovo raggio chiaro
tolto da l’orizzonte il manto oscuro
quando Tolmandro al suo castel guidaro;
il qual, benché gli fosse acerbo e duro,
pur diede il nome, onde a ciascun, coperto
di falsa spoglia, fu subito aperto.
48Ma poi che furon ne la terra entrati,
gettaron via quei vestimenti finti,
talché si nascondean servi e soldati
del rio tiranno di pallor depinti;
ma tosto e facilmente ritrovati
fur da Costante e da i compagni estinti;
tenner vivo Tolmandro in gravi pene
d’aspri nodi legato e di catene.
49A Neron poscia un messo diligente
mandaro a dargli nuova del successo,
il qual, raccolta avendo molta gente
per questo effetto, quando giunse il messo,
partir volendo l’altro dì seguente,
severo avea pur dianzi a quei commesso
che a l’alba ogni un sotto l’insegna unirsi
devesse che volea quindi partirsi.
50Ma poi subito a quei diede licenza,
con dir cortese e con gentil sembiante;
di questo prima fatta salva e senza
dimora andò là dove era Costante,
il qual tosto Tolmandro in sua presenza
condur gli fece pallido e tremante,
d’aspre catene e mani e piedi e collo
stretto legato, e così a lui chiamollo.
51Rotto il carcere poi, quivi trovaro
due grandi e venerabili d’aspetto,
sì che d’ogni altro star poteano al paro,
e di Costante giunti ambi al cospetto
lor corse incontro, e stretti si abbracciaro,
colmi di meraviglia e di diletto;
così Vittoria fe’, così Berone,
ch’ogni un ben d’allegrarsi avea cagione.
52Ch’era l’un Claudio e l’altro Aureliano,
per opre illustri e in tutto il mondo noti;
del gran seme di Dardano Troiano
gran padri ebbe quel primo e gran nepoti;
da Roma nacque assai l’altro lontano,
e i suoi parenti e vati e sacerdoti
fur di quel dio ch’ognor scorrendo intorno
fuggir fa l’ombra e riconduce il giorno.
53Costante gli pregò per cortesia
che di narrargli fossero contenti
quanto avea che fur presi, e per qual via
capitassero in man di quelle genti.
«Visto» risposer quei «la monarchia
(già Macrian rimaso e i figli spenti)
Scauro d’aver bastante in tempo corto,
e de l’Impero il gran periglio scorto,
54volendovi questo far provisione
qual si potea, con pochi e sconosciuti,
ne le città parlando a le persone
che vi han governo, siam sempre venuti,
fuor che ad alcun che per giusta cagione
questi secreti non gli avriam creduti,
fin che in ripa del fiume in uno ostello
noi preser questi, e chiuser nel castello.
55Dove ogni nostro servo ebbe la morte,
mercé chiedendo al rio Tolmandro in vano,
che in carcer noi profondo, oscuro e forte
l’un da l’altro più dì tenne lontano;
per volar forse fuor di queste porte
mandàrci al vincitor nemico in mano,
e in tal guisa i lor modi abbiam scoperti
che quasi siam di questa trama certi».
56E così avendo i due romani detto,
ciascun tre giorni a riposarsi attese;
chiesto in tanto il ladron per qual rispetto
fu de la vita a questi due cortese,
stando che ogni altro sempre con diletto
subito ucciso avea, da lui s’intese
ch’ei più volte mandò varie persone
per dar morte anco a lor ne la prigione,
57ma che indietro quei tali ognor tornaro,
senz’altro effetto e colmi di paura,
perché nel carcer, subito ch’entraro
(ch’è senza luce, oscuro oltra misura),
da gli occhi loro uscia raggio sì chiaro
che rendea illustre la prigione oscura,
e che tre volte o quattro ciò gli avvenne,
talché d’uccider lor poi si ritenne.
58Fu chiesto ancor ch’essendo stato intento
a tòr la robba altrui molti anni e molti,
dove riposto avea l’oro e l’argento,
le gemme e i panni a i peregrini tolti;
il che lor disse a forza di tormento,
e dimostrò che insieme avea raccolti
danari e gioie in una cella forte,
che in sette doppie avea d’acciaio porte.
59Le gemme e i vasi e l’or tutto a Nerone
cortesemente il pio Costante diede,
onde potesse far provisione
per mantener sì gran provincia in fede.
Poi verso il fiume ogni un, dove prigione
fatto Tolmandro fu, volsero il piede,
e quivi giunti videro con molto
piacer come a la trappola fu colto.
60Quindi a Sibota, e poi quindi a Torona
giunsero il terzo dì, dove gran gente,
sendo quella città fertile e buona,
ad incontrargli andò solennemente;
quivi, oltra i magistrati, ogni persona
di qualità giurò che obediente
saria sempre a Neron, discreto e giusto,
come a prefetto del Romano Augusto.
61L’altro dì tutti di Torona usciro
per tempo, e giunti ov’ha foce Acheronte,
da Neron gli altri mesti si partiro,
con mille abbracciamenti e basci in fronte.
Quel tornò indietro a visitar l’Epiro,
cui le città tutte accettaron pronte;
e, conoscendol giusto e saggio, eletto
fu di consenso universal prefetto.
Costante trova il corpo di Valeriano, ucciso a tradimento da Galeno e gettato tra gli sterpi insepolto (62-83,4)
62Costante e gli altri ognor dietro a la riva
del mar sen gian rivolti a l’Oriente,
scorti da quella illustre altera diva
ch’esser vuol sempre al suo guerrier presente;
al suo guerrier cui mai non si partiva
Cesar, che in Persia era prigion, di mente:
tollerar non potea che stesse in mano
de l’empio re l’imperator romano.
63E stando in tal pensier, di generoso
guerrier (com’era il pio Costante) degno,
mai cibo non prendea né mai riposo,
che al viver suo bastasse a dar sostegno;
giunto in Ambracia, al solito pensoso,
e dato in preda al duol senza ritegno,
la notte il sonno pur tanto gli infuse
d’umor che gli occhi a pena un poco chiuse.
64E gli parea, mentre dormia, che pieno
tutto d’affanno essendo e di cordoglio,
si ritrovasse in mezzo il mar Tirreno
cinto da l’onde, e sol sopra uno scoglio,
e che veloce a guisa di baleno
fu quindi tolto e posto in Campidoglio,
dov’era Claudio, quel che, ritrovato
prigion pur dianzi, fu da lui salvato.
65Parea che Claudio sopra una alto trono
sedendo, di regal diadema cinto,
prostrato a quel chiedesse umil perdono,
Galeno fuor del regal seggio spinto;
parea, se ben la vita ottenne in dono,
ch’ei però tosto rimanesse estinto,
e che Costante poi si vide, mentre
sedea quivi, una vite uscir dal ventre.
66Parea che un’altra vite, similmente
da Claudio uscita, ch’era in alto posto,
dilatandosi ognor verso Oriente
che strette insieme ambe s’unisser tosto;
e che in tal guisa unite alteramente
facessero sentir, presso e discosto,
con dolci e spessi frutti e di colori
purpurei, vaghi i lor soavi odori.
67Desto il guerrier che fu, se in grand’onore
avuto sempre avea Claudio e in gran stima,
per questa vision par che in maggiore
l’avesse poi per l’avvenir di prima;
né tanto più l’interna doglia il core
gli rose, né con tanto acuta lima:
l’animo avea ben sempre al suo re volto,
ma si vedea però men triste in volto.
68Quivi una notte sol fatto soggiorno,
sen giro al fiume che dal grande Alcide,
vinto in forma di tauro, dal suo corno
farsi gran copia d’ogni frutto vide;
questo scorrendo verso il mezzogiorno,
da gli Arcanani gli Etoli divide.
Con fatica passaro a l’altra sponda,
ch’alta e spumosa avea quel giorno l’onda.
69Passato poi che tutti ebbero il fiume,
bisogno avendo ogni un già di ristoro,
sì come spesso avean di far costume,
la cena ivi apprestàr sotto un alloro,
e già vicino a sparir sendo il lume,
pronto a qualch’opra era ciascun di loro:
chi scarca le some, e chi la mensa
stende per terra, e il cibo altri dispensa.
70Costante, anch’ei lontan da gli altri un poco,
stando a tagliar pruni e virgulti intento,
onde potesse quivi accender foco,
freddo soffiando da quei monti il vento,
cosa vide incredibile in quel loco,
che d’orror tutto empillo e di spavento:
quei sterpi tronchi aver pareano vene,
d’oscuro sangue orribilmente piene.
71Come l’orto veggiam talor villano
diligente purgar d’inutil erba,
che l’erba da lui posta, e che pian piano
sorge, adombra crescendo alta e superba,
si meraviglia mentre quella in mano,
quasi sdegnoso a risguardar si serba,
veder dal tronco gambo ch’ella spande
puro e candido latte in copia grande,
72così far si vede anco il pio Costante,
che l’arena restar vista vermiglia
del sangue sparto da le tronche piante
indietro pien si fa di meraviglia.
Ma poi che andato ancor di nuovo inante,
di tagliar novi rami si consiglia,
stupido indietro ancor più si ritira,
che uscirne sangue in maggior copia mira.
73E giunta insieme e l’una e l’altra mano,
gli dèi selvaggi e le selvaggie dive
chiamò, se v’era alcun Fauno o Silvano,
o Driade o Napea tra quelle rive;
e senza mai pensar che sangue umano
dentro a le piante d’ogni senso prive
si ritrovasse, un flebil strido intanto
sentì, misto con gemiti e con pianto.
74Come al soffiar d’impetuosi venti
selva o bosco sentiam strider talora,
con così spessi gemiti e lamenti
stridean quei rami orribilmente allora.
Poi voce umana, con più chiari accenti,
mandar s’udiro anco i medesmi fuora,
dicendo: »Sappi, o gran guerrier romano,
che il tuo signor già fui, Valeriano.
75Già fui Valerian giovene, figlio
del grande Augusto in Persia ancor prigione,
che posta pace e tratta di periglio
la Grecia, adorno il crin di più corone,
fèr del mio sangue i propri miei vermiglio
questo terren, né so dir la cagione,
se non che pien d’invidia e di veneno
contra di me s’incrudelì Galeno».
76Più non poté seguir la voce inante,
dal singulto interrotta e da i sospiri;
non fe’ tal cosa effetto altro in Costante
che rinovar la sua doglia e i suoi martiri;
e postosi a cercar tra quelle piante
co i suoi compagni, dopo brevi giri
trovaro il corpo ascoso tra i virgulti,
donde uscian proprio i gemiti e i singulti.
77Trovato adunque il corpo essangue, tosto,
come poteasi nel selvaggio loco,
per gran pietà ciascun pronto e disposto,
fatto un rogo lontan dal fiume poco,
cui sopra quel cadavero fu posto,
e con solennità messovi foco,
poi dentro un’urna il cener tutto chiuso
fu di mandarlo a Roma allor conchiuso.
78Dentro ad un’arca poscia di cipresso
riposta l’urna, a certi quella diede,
che di portarla a Roma avean promesso,
ricevuta da lui larga mercede;
quei, partiti con fretta il giorno istesso,
volsero sempre verso Esperia il piede,
depinto avendo sopra l’arca un crudo
serpe che divorava un fanciul nudo,
79per dimostrar che il traditor Galeno,
di tal scelerità già reso chiarito,
qual serpe colmo d’infernal veneno
tranguggiato l’avea non che inghiottito.
Ma quei perciò non adempiro a pieno
quanto promesso avean, perché assalito
passate l’Alpigia, da febbre ardente
Straton, capo, morì di quella gente.
80Da Pizia persuaso che non vada
per mare, anzi per fuggirlo, fu costretto
tre volte e più di raddoppiar la strada,
né di Galeno ancor giunse al cospetto;
ma de gli Insubri giunto a la contrada,
restò quivi sepolto il giovenetto,
che l’improvisa morte di Stratone
fu che il viaggio si troncò cagione.
81Se imbarcato d’Ambracia quei nel porto
si fosse, di gran lunga avuto avrebbe
viaggio assai più dritto, assai più corto
che a gir per terra, come fe’, non ebbe;
monti e fiumi varò, sì lungo e torto
camin trovando ch’ognor più gli increbbe;
vide Arcanani e Dalmati, e l’Epiro,
Liburnia, Illiria, e dopo un ampio giro,
82passate l’Alpi, a Roma era vicino,
quando restò d’acuta febre estinto,
già quattro mesi avendo in quel camino
con gran disagio posti, e mezzo il quinto.
Valerian non lunge dal Ticino
fu sepellito, e il fier serpe depinto
ch’avea in bocca il fanciul, restò poi degna
de i duci alteri de l’Insubria insegna.
83Straton partito, con pietoso affetto
Costante alcune cerimonie fatte,
l’ombra placò del morto giovenetto
puro sangue spargendo in copia e latte.
Ciò fatto, perché ognor dentro al suo pettoGiunto a Creusa, vince e uccide il tiranno Mena, custode dei cavalli di Diomede che sfama con sacrifici umani (83,5-142)
con la speme il timor giostra e combatte,
dopo la cena, ancor che spento il raggio
fosse del sol, seguir volse il viaggio.
84E di Minerva ognor seguendo l’orma
che apparia alquanto impressa nel terreno,
giunsero a quel torrente che Licorma
prima chiamato e poi fu detto Eveno;
questo, come Acheloo, con varia forma,
colmo di rabbia e colmo di veneno,
già non assalse Alcide, ma ben diece
volte più danno d’Acheloo gli fece.
85Su la ripa d’Eveno Aureliano
e Claudio, ambi dormendo a piè d’un orno,
mentre passavan gli altri, e che, lontano
sendo il vado, al sentier facean ritorno,
sopra i lor capi un’aquila pian piano
stava su l’ali, e ferma fe’ soggiorno,
tanto che desti si levaro in piede,
cosa che a tutti meraviglia diede.
86Giunsero in Cirra quella prima sera,
e l’altra giunser poscia in Anticira,
dove ciascun di risanarsi spera,
cui troppo adusto umor la mente aggira;
Costante, in somma, con sì nobil schiera,
rivolta al suo signor sempre la mira,
da mille acute cure i fianchi punto,
giunse in Creusa il quarto giorno a punto.
87Né fur sì tosto quei dentro a Creusa
che s’accorsero star tutta la gente
con gran mestizia, e tacita e confusa,
dal minimo al maggior ciascun dolente;
di ciò la cagion chiesta, come s’usa,
Costante, un sacerdote ivi presente
rispose: «Mena, al nostro danno inteso,
ne grava ognor d’insopportabil peso.
88Tra Lebada e Megara in una torre
detta Pirgo, sul monte Citerone,
l’empio ha stanza, e quindi intorno scorre,
facendo oltraggio a tutte le persone;
se vivo prende alcun tosto il fa porre
dentr’una oscura e ben chiusa prigione,
pasce dì e notte poi di quei guerrieri
che al prender morti son, quattro destrieri.
89E quando mancan questi, che son privi
di vita, acciò che possa a i destrier darne
pon gli altri a morte che fur presi vivi,
così gli pasce ognor d’umana carne;
se dato a lor fosse orzo o fèno quivi
non vorrian, né potrian punto gustarne;
di quei destrieri son cui Diomede
sempre a mangiar gli ospiti uccisi diede.
90Poi che il rio Diomede in Tracia morto
fu per le mani del figliuol di Giove,
già fatti mansueti in tempo corto
ad Euristeo mandonne Alcide nove;
gli altri d’Eno imbarcar fece nel porto,
e gli portò seco in Egitto, dove,
Busiri ucciso, poi sempre restaro,
fin che molti anni e molte età passaro.
91Questi d’Ammonio il figlio altero poi,
mentre scorrea già vincitor la terra,
tutti divise tra quei duci suoi
ch’esser perfetti gli trovaro in guerra;
poi fur, morendo i lor signori eroi,
seco arsi, e il cener posto sotterra;
dunque s’estinser quei per tal cagione,
gli altri Euristeo sacrò tutti a Giunone.
92Per questo adunque, a conservargli intenta,
Giunon volse che fossero immortali,
sol sottoposti a morte violenta
ma non a tanti e sì diversi mali;
né ben di questo ancor la dea contenta,
volse che in guerra lancie, spade o strali
in qual si voglia perigliosa impresa,
non facesser mai lor punto d’offesa.
93Ma d’Alessandro ancor dopo la morte
de i Satrapi quei preda e d’altre genti,
la maggior parte ebbe l’istessa sorte,
morti e sepolti co i signori spenti;
quattro d’Argo ne fur dentro a le porte
da i cittadini a questa cura intenti,
come gli altri destrieri a biada e a fèno
tenuti ognor, né mai lor posto freno.
94E quando tutta fu l’Acaia doma
da Mummio e il bel Corinto arso e distrutto,
e con sì ricca e sì gran preda in Roma
tanto e sì fin metallo fu condutto,
quel vincitor, che illustre ancor si noma,
ciò che nel tempio di Giunon ridutto
ritrovò in Argo conservar lo volse,
né per sé cosa pur minima tolse.
95Dunque in tal guisa gli salvaro allora
da sì grave ruina e perigliosa,
ma non a questa età, che in fino ad ora
si trova in più disordine ogni cosa;
e se ne va di male in peggio ognora,
che Astrea veggiam fuggita e star nascosa,
dal dì che imperator si fe’ Valente,
e morto fu da la sua propria gente.
96Pensate voi come le cose andaro,
e come furo i popoli trattati:
di salvar quei destrier non fu riparo,
che in fino a questa età s’eran salvati.
In Argo il tempio di Giunon rubaro
certi ladri vuo’ dir, non già soldati,
da cui poi gli comprò quel rio tiranno
ch’io dico esser cagion del nostro danno.
97Costui, che Mena è da ciascun chiamato,
lieto d’aver sì nobili destrieri,
da Diomede al cibo antiquo usato
tornolli, e più che mai divenner feri;
talché i presepi subito sforzato
di fargli tutti fu di ferro interi,
e con catene grosse e doppie al muro
legati stan di fino acciaio e duro.
98Un altro re di Tracia oggi si vede
far le medesme scelerate prove,
ma non si trova, né trovar si crede,
un altro figlio a questa età di Giove.
Mena, arricchito già di tante prede,
si fa più forte ognor di genti nuove:
se vien commesso in Grecia alcun delitto,
tosto l’autor tra la sua schiera è scritto.
99Talché d’empi e di rei la notte e il giorno
fuggendo a lui tal copia ognor concorre
che i borghi a Pirgo già fatti d’intorno
più forma di città tien che di torre,
e sì di spoglie altrui l’ha tutto adorno
che non vi è loco ov’altra cosa porre;
trovò sprovisti noi (già il nono mese
scorre), e la terra a l’improviso prese.
100Come entrasse in Creusa e con qual modo
non vel dirò, che stato in fatto essendo,
contar diversamente in guisa l’odo
che quanto più l’ascolto men ne intendo.
Sol d’ogni altro ladron più Mena lodo
e più d’ogni altro traditor commendo
ne l’usar fraude, falsitade e inganno
con tutto ciò che altrui risulta in danno.
101La città pose crudelmente a sacco
tre volte o quattro, avendola trascorsa,
né ci giovò che d’Ercole e di Bacco
ne’ tempi gente assai fosse ricorsa,
talché essendo ciascun già domo e stracco
per l’empia strage a l’improviso occorsa,
sol per uscir di man del crudo e ingordo
tiranno al fin con lui si fece accordo.
102Ma fu l’accordo obbrobrioso e tanto
d’inestimabil danno a tutti noi,
che dopo alcuni giorni meglio a quanto
si fece allor considerando poi;
sol per rimedio si ricorre al pianto,
che Alcide né Teseo, né quegli eroi
si trovan più che possano a i dì nostri
purgar la terra da sì crudi mostri».
103E così detto il vecchio sacerdote
con la man destra si coperse il viso,
rigandogli le lagrime le gote,
così restò dal gran dolor conquiso.
«Deh,» soggiunse il guerrier «fatemi note
le qualità del patto, ond’io m’aviso
che nasca il grave duol che sì v’accora,
cui spero dar forse rimedio ancora».
104Rispose quel: «Dapoi ch’altre difese
non trovò la città contra il tiranno,
prima a far sì ch’ei se n’andasse attese,
credendo ogni altra cosa esser men danno,
onde obligossi dargli ciascun mese
un cittadin, che son dodeci l’anno;
di questi poi con tutti quei guerrieri
ch’ognor prigioni fa, pasce i destrieri.
105Dopo il patto partir però non volse
fin ch’ei non vide in rocca i suoi soldati,
e diece ostaggi oltra la rocca tolse,
quei che al popol comprese esser più grati;
con questi verso Pirgo in passi volse
lasciando noi dolenti e sconsigliati,
quanto il tributto a pagar più s’attende,
tanto più chiaro il danno si comprende.
106Già sendo il primo termine fornito,
con gran nostro cordoglio e con gran pena,
fece consiglio il popol tutto unito
come il tributo dar devesse a Mena;
e fatti assai discorsi, stabilito
fu, dopo quattro o cinque giorni a pena,
che questa elezion fosse a la sorte
commessa, di chi gir devesse a morte.
107Onde il più ricco e nobil cittadino
ch’abbia Creusa, e il più da tutti amato,
due figli ha soli e l’un d’essi meschino,
de l’urna estratto fu primier mandato;
l’altro, come lo sforza empio destino,
per l’ottavo sarà di gir sforzato,
poi ch’egli ancor pur dianzi tratto a caso
fu con solennità fuori del vaso.
108Quinci nascon le lagrime e i lamenti,
l’affanno universal, la doglia intensa,
perché non tanto a i mali, che i presenti
già son, quanto a i futuri ancor si pensa.
L’esser tanti de i nostri ogni anno spenti
con crudeltà nuova, inaudita, immensa,
non è cagion bastante onde la gente
si tacita, sia mesta e sia dolente?».
109Così parlò quel sacerdote, e molto
di doglia infuse al cavalier nel core,
con gli altri suoi compagni, a cui nel volto
chiar si scorgea qual dentro era il dolore;
ma l’animo però sempre rivolto
Costante avendo e fermo al suo signore,
gli apparve e disse in tal guisa l’accorta
diva che sempre gli facea la scorta:
110«Costante, io veggio c’hai la mente accesa
di liberar Creusa dal rio Mena,
ma che indugiar ti preme la difesa
d’Augusto, avvinto in tanto di catena;
perché ti par questa novella impresa
da non fornir pure in diece anni a pena,
essendo di danari e d’ogni sorte
provision Pirgo munita e forte.
111So che discorri ancor l’empio aver tante
genti colme di forza in guerra e d’arte,
che il suo sia sempre a mantener bastante,
con l’una, e a tòr l’altrui con l’altra parte;
ma non ti diffidar punto, o Costante,
che per tua scorta avrai Minerva e Marte:
qual dunque mai sarà schiera sì grossa
che a tanta forza e tal resister possa?
112Quel c’hai timor che in spazio di molt’anni
non abbia effetto, avrallo in pochi giorni,
e Creusa trarrai di tanti affanni,
che a morte i suoi mandar più non ritorni;
e quanti mostri, non dirò tiranni,
trovati avrai de l’altrui spoglie adorni
far sì gran danno al mondo, gli avrai tutti,
nuovo Ercole e Teseo, morti e distrutti.
113Prima che Febo appaia in Oriente,
quel che de l’urna uscì pur dianzi a sorte,
condutto in compagnia di molta gente
sarà de la città fuor de le porte,
perché di patto ad un picciol torrente
lontan da Pirgo quattro miglia corte,
condutti son, poi quivi dati a Mena,
di ceppi avvinti e di crudel catena.
114Ma gran ventura il ciel ti manda e rara,
ond’oggi il tuo desir succeda a pieno,
per far Mena quel proprio di Megara,
che ancor fe’ Creusa e d’Orcomeno,
di mandar la sua gente già prepara,
e già i destrieri stan con sella e freno,
né prima spuntarà d’Apollo il raggio
ch’avran fatto in gran parte il lor viaggio.
115Già trovarsi presente a questa nuova
impresa Mena in modo alcun non puote,
ché infermo con la febbre si ritrova,
ma cavalca in sua vece un suo nepote;
non fia ch’oggi di letto egli si muova,
e in Pirgo son tutte le stanze vote,
che a tanta impresa ogni un sen va contento
d’aver Megara certi a tradimento.
116Tu con la tua sì nobil compagnia,
come s’apra la porta, immantinente
uscito col prigion prendi la via,
con fretta, onde primier giunghi al torrente,
dove pochi di Mena tutta via
stanno aspettando il misero innocente,
senz’ordine, ché infermo il rio tiranno
lasciaro, e gli altri a quella impresa vanno.
117Io sarò sempre teco e sempre ancora
teco avrai Marte», e così detto tacque.
Già cominciava a rosseggiar l’aurora
quando il guerrier destossi e più non giacque,
ma, tosto uscito di Creusa fuora,
verso il torrente andò, colmo allor d’acque,
e sì dal desio punto il destrier punse
che assai del prigionier prima vi giunse.
118E quei di Pirgo star sopra la riva
trovò, ch’eran sei volte più di loro;
chi si grattava il capo e chi dormiva,
stanco, a l’ombra d’un elce o d’un alloro.
Visibil dimostrassi allor la diva,
e gli accennò che a i danni di coloro,
passati già, devesser trar la spada
tolta lor del castel prima la strada.
119Così Costante e l’alta sua consorte
fèr tosto, e Claudio e il forte Aureliano,
con tutti gli altri suoi, talché la morte
quei, cercando fuggir, fuggiano in vano,
che del torrente le profonde e torte
rive da l’una parte, e il gran romano
co’ suoi da l’altra, al lor vantaggio volti,
gli avean nel mezzo a l’improviso colti.
120Molti uccisi fur tosto, e incontinente
molti, ch’altro rimedio non trovaro,
rivoltisi a fuggir verso il torrente,
smarriti, giù ne l’acque si gettaro;
molti vivi fur presi, ch’umilmente
chieser mercé prostrati, e quei legaro;
poscia, i guerrier quivi posati alquanto,
gli altri col prigionier giunsero intanto.
121E fatti consapevoli del tutto,
e sopra una barchetta già varcati,
volsero in riso il lor continuo lutto,
morti o presi color tutti trovati.
Disse Costante allor: «Perché distrutto
rimanga Mena, tutti essendo armati
di quei che morti son, co i panni sopra
ciascun l’armi di noi tosto si copra».
122Così tosto si fece, e quei di Mena
ch’avean legati subito slegaro,
e per la via che dritto al castel mena,
mandando innanzi quei, gli seguitaro;
giunti a Pirgo, e levata la catena,
le guardie il ponte subito abbassaro,
ma ch’error preso avean poi tardi accorte,
senza potersi aitar punto ebber morte.
123Tosto che morti color tutti furo,
che privi allor vivean d’ogni sospetto,
Mena, che intanto si credea sicuro
di riposar mentr’era infermo in letto,
fu preso e giù calato fuor del muro,
col destro piè di fune avvinto stretto;
e in tal maniera, appeso con gran scorno,
stette la notte e tutto l’altro giorno.
124L’altra sera Vittoria e il pio Costante
con gli altri lor sì nobili guerrieri
quel fatto in pezzi di lor man davante,
lo gettaron per cibo a i suoi destrieri,
e devorato quasi in uno istante,
presenti lor, fu da quei mostri feri,
che senza aver giamai levata o scossa
la testa, a pena vi lasciaron l’ossa.
125Tutti preser diletto e meraviglia
vedendo quei sì grandi e sì ben fatti,
cui di sua man ciascun posta la briglia,
parean mill’anni a questo assuefatti;
poi, cavalcati quei cinque o sei miglia,
ad ogni impresa gli trovaron atti:
pronti erano al maneggio, a i salti, al corso,
ma sopra tutto obedienti al morso.
126Gli tenner tutto un dì che non mangiaro,
parendogli ciascun troppo ripieno,
a poco a poco poi gli ritornaro
come gli altri a mangiar la biada e il fèno;
e in guisa mansueti diventaro
che avria lor posto ogni fanciullo il freno;
poi tanto riusciro in guerra franchi
che non si vider mai sudar né stanchi.
127Menandro intanto se ne stava intento
(così di Mena era il nepote detto)
che d’ora in ora avesse un tradimento
dentro a Megara il desiato effetto;
né del zio devorato, non che spento,
mai seppe, in guisa il passo avea ristretto
Costante che, di notte né di giorno.
né gir né far potea nessun ritorno.
128Minerva, che a la gloria è sempre intesa,
detto a Costante avea che star devesse
con gli altri fermo in Pirgo, in fin che presa
Megara il traditor Menandro avesse,
che in sua man lo darìa senza contesa,
perché tronca del tutto rimanesse
quell’empia stirpe, e quella face spenta,
ch’arde il tutto e maggior sempre diventa.
129E ch’egli a Claudio et al compagno, a cui
destinato avea il ciel perpetua gloria,
di quei quattro destrier ne desse dui,
che gli avessero ognor per sua memoria;
de gli altri poscia che l’un sol per lui
si ritenesse, e l’altro per Vittoria,
e ch’era in quella stanza che il Ristoro
Mena chiamar solea, gran copia d’oro.
130Costante allor allor quanto commise
Minerva di far, pronto si dispose:
fra quella coppia i due destrier divise,
subito innanzi a tutte l’altre cose.
Poi la fortuna in tal modo gli arrise
che l’oro e tutto ciò che Mena ascose
dentr’una stanza ritrovò per sorte,
che né finestre non avea né porte.
131Grosse due braccia intorno avea le mura
la stanza, ch’ei cercò gran pezzo in vano,
dove si potea sol per una oscura
strada sotterra gir, col lume in mano;
morto essendo ciascun, fu gran ventura
che si trovasse, ma per sorte un nano
(che per trastullo avea Mena, e per gioco)
vivo rimaso, appalesò quel loco.
132Verso i compagni suoi largo e cortese
Costante si mostrò d’oro e d’argento,
poscia a Megara andò con voglie accese,
che ad ubidir non fu Minerva lento;
e giunto il dì medesmo che la prese
Menandro con inganni a tradimento,
mentre i soldati sparti per le strade
gian rubando, fur posti a fil di spade.
133Chiuder poi fatte il guerrier tosto le porte
col popol, che in suo aiuto si converse,
senza contrasto alcun diede la morte
a quelle genti e qua e là disperse;
Menandro, ancor che fosse ardito e forte,
quel che altrui far volea l’empio sofferse:
in vece de la spada e de la lancia,
fu trovato a seder con la bilancia.
134Fu ritrovato in una stanza intento
fra i duci suoi, fra l’empia turba avara,
l’oro a peso partir tutto e l’argento,
le gemme e i vasi et ogni cosa rara,
mentre per tutto uscian strida e lamento,
e che in gran parte accesa era Megara;
subito il popol, non perciò satollo,
l’uccise, e il capo gli troncò dal collo.
135E, in cima d’una lancia avendol posto,
per la città d’intorno fu portato;
con quel di Mena poi quel capo tosto
fu in Orcomeno dal guerrier mandato,
che diece miglia o poco più discosto
per esser da Creusa, divulgato
si ritrovò quivi anco il giorno istesso
di Pirgo e del ladron tutto il successo.
136Talché tosto in Creusa e in Orcomeno
l’armi con furia il popol tutto prese,
e di forza e d’ardir sendo ogni un pieno,
di quei di Mena alcun non si difese;
ma del lor sangue tinsero il terreno,
e liberò restò tutto il paese,
cui d’ogni tempo ancor per far sicuro
gettate in terra ambe le rocche furo.
137Poi d’ogni terra e d’ogni loco intorno
di Pago, di Lebadia e di Nisea,
gran concorso di gente era ogni giorno
che il pio Costante ogni un veder volea;
quel, fatto intanto a Pirgo già ritorno,
l’animo al suo signor sempre volgea;
benigno e grato ogni un quivi raccolse,
e di non poter star seco si dolse.
138Molti di gran lignaggio e d’alta stima
volsero in Persia gir col pio Costante,
qual per forza di mine in terra, prima
ch’ei tornasse al camin suo di Levante,
veder volse dal piè fino a la cima
ruinar Pirgo a gli occhi suoi davante;
quella, che rendea serva e tenea in guerra
la Grecia, cadde in un momento a terra.
139Come tal volta per molt’anni antica
quercia si vede, o cerro antico od orno
sopra un gran monte o in una piaggia aprica,
cui molti con securi acute intorno
tronche abbian le radici, e con fatica,
statovi dietro tutto intero il giorno,
tien gli occhi alzati ogni un dubbio e sospeso
dove machina tal minaccia inteso;
140scuote ella i rami altera, e orribilmente,
quinci e quindi, più volte e strida e geme
ma vinta in terra cade e finalmente,
svelta gran parte del gran monte insieme,
ne rimbomba da basso ogni torrente,
rimbomban l’alte sommità supreme,
il gregge, ch’era a pascer l’erba intento,
fugge smarrito, e col pastor l’armento,
141così fe’ Pirgo, poi che molte genti
state d’intorno furo a l’infelice
con ferri avuti e con vari stromenti
per troncarle sotterra ogni radice;
con machine, con fochi e con tormenti
gettata in terra, ogni antro, ogni pendice
risonò d’ogn’intorno, e molte miglia
timor n’ebber le genti e meraviglia.
142De le Ninfe il guerrier poscia lo speco
d’edera vide in ogni parte adorno,
con quei compagni poi non pur che seco
vennero al camin suo fece ritorno
ma di Tessaglia e del paese greco,
gran schiera e nobil sempre avea d’intorno,
che per vederlo sol, chi per soccorso
chieder, per tutto a lui s’avea ricorso.
Giunge a Corinto, vi uccide il ladro e tiranno Ladone, poi a Cencrea, dove impera Nerva, infine a Epidauro, dove si incontra con Sereno e l’esercito (143-159)
143Prima che in tutto al monte Citerone
volgesse il tergo, fe’ quindi di Giove
nel tempio sacrificio, e di Giunone,
di Bacco e di Diana, e giunse dove
Tiresia ucciso il serpe con bastone
si ritrovò cangiato in forme nuove,
per ciò sì tardo fu, che a pena il quinto
giorno si trovò dentro a Corinto.
144Quivi uccise Ladon, che più d’un anno
malvagio, traditor, falso e crudele
de la città già fattosi tiranno
l’avea tenuta in lagrime e in querele;
sotto dolce parlar costui l’inganno
copriva, e sotto i fior l’assenzio e il fele,
col dimostrarsi ognor largo e cortese
le reti avea per tutto e sempre tese.
145Tra gli altri modi ch’avea l’empio usanza
di tener dando a i cittadini morte,
una statua di veste e di sembianza
simile in tutto a Pirra, sua consorte,
del suo palazzo avea dentro una stanza,
dove si entrava per secrete porte;
chinar questa e levar potea la faccia,
potea mover le man, stringer le braccia;
146molti tratti per forza a quel cospetto,
e di lor voglia ancor molti venuti,
abbracciando ciascun subito stretto,
gli traffiggea con lunghi chiodi acuti
che ne le braccia e spessi avea nel petto,
sì ch’esser da nessun potean veduti,
di tal maniera e conficcati e posti
che sotto i panni tutti eran nascosti.
147E quando il rio ladron citar facea
qualcun per trarne alcuna somma d’oro,
con parlar dolce in prima gli dicea
che per salute e per difesa loro
molti soldati e genti assai tenea,
nel cui stipendio entrava un gran tesoro,
e ch’egli in sacrifici era ogni mese
costretto a far gravi e continue spese.
148Oltra che intorno a cose appertinenti
a la città facea spese ognor gravi,
costretto di condur straniere genti,
e due porti fornir sempre di navi;
per ciò che voglian tutti esser contenti
d’aiutar lor medesmi e non gli aggravi
sì poca somma al molto lor potere,
ch’oltra il giusto anco a lui farian piacere.
149Con queste, e più con qualche altra ragione,
quei che potea disporre a le sue voglie
gir lasciava, ma spesso le persone
stan dure s’altri a torto il suo gli toglie:
con parole a costor cortesi e buone
dicea: «Meglio potrà forse mia moglie
disporvi a quel che di ragione devete,
risultandone a voi posa e quiete».
150E così detto, a quella stanza ov’era
la statua, tosto i miseri guidava,
e fattigli accostar con tal maniera
di dietro alcuni ferri egli voltava,
che subito la moglie sua non vera
con tutte e due le man quegli abbracciava,
e traffigga ciascun tenendol stretto
con quelle punte ch’ella avea nel petto.
151Con quei sì acuti e spessi chiodi ch’ella
per tutto ascosti sotto il manto avea,
al seno, a l’una e a l’altra sua mammella
quel stringendosi tanto il traffiggea;
che vinto con la sua propria favella
l’addimandata somma promettea;
molti che stero al gran tormento forti,
così traffitti al fin rimaser morti.
152Morto Ladon, Costante immantinente
fuor di Corinto e del suo stretto uscito,
a la sinistra man, verso Oriente
si volse, e sempre costeggiando il lito
giunse a Cencrea per tempo il dì seguente,
dove per strada avea di Nerva udito
che fattosi tiranno a quelle genti
dava morte con nuovi aspri tormenti.
153Tra gli altri un vaso avea capace fatto
di rame, e sparto in un secreto loco,
dove per forza alcun misero tratto
poner facea sotto quel vaso il foco,
e in fin che in cener l’uom fosse disfatto
facea giunger le legna a poco a poco,
prendendo il piacer mentre si cuoce
di mirar gli atti e d’ascoltar la voce.
154Costante, scorto da la sua Minerva,
che d’aiuto il soccorse e di consiglio,
diè morte a l’empio e scelerato Nerva,
con Crano, suo malvagio unico figlio;
e perché in tutto libera, di serva,
restasse la città, mandò in essiglio
servi, amici e parenti al tiranno,
cagion del grave inestimabil danno.
155Onde subito sparto di Costante
per tutta la Grecia il glorioso grido,
nessun potrebbe imaginarsi quante
genti or da questo or da quell’altro lido
giungea per strada a lui dietro e davante,
come de’ Greci a vero nume e fido,
e così accompagnato in tal maniera
giunse a Spireo quella medesma sera.
156Questo in parte al guerrier porgea restauro
del grave duol, de la soverchia pena:
non solo i magistrati d’Epidauro,
ma d’Argo e di Cleona e di Trezena
venner con rami a lui di verde lauro,
talché per tutto era la strada piena.
Per tempo in Epidauro il dì sequente
giunse, incontrato da infinita gente.
157Mandò quindi a Sereno in fretta un messo,
de la venuta sua per dargli nuova,
e per dirgli ch’avea di star promesso
tre dì dentro Epidauro, ov’ei si trova;
onde se tempo avrà quel giorno istesso
da Nauplio con l’armata egli si muova,
se non che almen l’altra mattina in fretta
venir sen debba a lui, ch’ivi l’aspetta.
158Giunse a Nauplio il corrier non pur quel giorno,
quattro volte lontan dodeci miglia,
ma fra sett’ore ancor fece ritorno,
colmo avendo ciascun di meraviglia.
Sereno andando a quella terra intorno
che ad una foglia d’elce s’assimiglia,
con gran prestezza al suo viaggio intento
sempr’ebbe in favor l’onda e sempre il vento.
159Talché arrivò forse d’un giorno inante
da quel ch’ei d’arrivar prim’ebbe speme,
e trovato nel porto il suo Costante,
subito stretti si abbracciaro insieme;
nel cor lieto ciascun qual nel sembiante,
né i Persi più, né più gli Ircani teme,
né punto alcun di risguardar si sazia
sì bella armata, e Dio loda e ringrazia.