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Il Costante

di Francesco Bolognetti

Libro XII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 10.09.15 19:01

Argomento
Mentre cerca Vittoria il suo Costante,
traffitto avendo Belo e Tosso, appende
Nardo e Nardin co i lor seguaci, e rende
Macrina col tesor al caro amante.

Costante fa riposare gli uomini, intanto chiede a Vittoria di narrargli cosa è accaduto in sua assenza: ha dovuto sedare un’insurrezione di Mario, autoproclamatosi imperatore (1-19,4)

1Tu pur morendo, o rio Cimara,
lasciasti il monte del tuo nome erede,
così per male oprar premio talora
s’acquista, e del fallir si dà mercede,
perciò che sol col nominar t’onora
l’altera Epiro, ove il gran monte siede,
e serba ancor quella memoria viva
di cui restar devea subito priva.

2Posto intanto il guerrier ch’egli abbia morte
Cimara, e fatto libero il paese,
e de l’aspre prigion rotte le porte,
che a liberar tutte le donne intese,
co’ suoi compagni e con la sua consorte
quivi per alcun dì riposo prese,
fin che in pare il vigor tornasse a quella
che tener prima non poteasi in sella.

3Narrò a Vittoria intanto il cavaliero
con agio tutto ciò che gli era occorso
dal dì che da Marsiglia il mostro fero
via lo portò con sì veloce corso,
in fino allor che in mezzo del sentiero
prese il ladron, porgendo a lei soccorso,
ond’ella or di pietate, or di timore
sentì più volte intenerirsi il core.

4Non men Costante or quel suo caso, or questo
ma non per ordin di Vittoria udio,
però le disse un giorno: «Se molesto
non vi è, regina, di saper desio
di parte in parte il tutto manifesto,
che avvenuto vi sia del partir mio,
fin che fu a tal rio ladron precisa
la strada», ond’ella incominciò in tal guisa:

5«Sappiate, o signor mio, che da quel giorno
che sul mostro spariste in un momento,
tal doglia sempre al cor portai d’intorno
ch’anco a pensarvi quel roder mi sento,
onde confusa, e per l’avuto scorno
colma d’ira e di rabbia e di tormento,
poscia che indarno corsa molte miglia
dietro vi fui, tornai verso Marsiglia.

6Fra quanti vi seguìr l’ultima fui
che ritornasse, e mandai tosto un messo
al buon Seren, con gli altri vostri a cui
de l’armata il governo era commesso,
facendo lor saper ciò che di vui
fosse, dapoi che vi lasciàr, successo,
e che in viaggio avea conchiuso porme
l’altro dì, per seguir del mostro l’orme.

7E che tosto che a lor fosse arrivata,
che saria in breve, tutta l’altra gente,
devesser senza me muover l’armata,
drizzando il camin lor verso Oriente;
perché d’ogni successo a la giornata
sarei nel dar lor nuova diligente,
commisi poi che a la diurna luce
devesse al porto gir tosto ogni duce.

8E in vece mia governo d’ogni loco
dato avendo a Toringe, l’empia sorte,
che di me si prendea trastullo e gioco,
fe’ sì ch’ei giunse a l’improviso a morte:
lo scettro in man gli diedi e quindi a poco,
sano apparendo e per l’età sua forte,
da me partito, e giunto a le sue case
in braccio a i figli suoi morto rimase.

9Altro a me ciò non fu che al gran dolore
crescer dolore e giunger scorno a scorno,
ch’oltra che d’alta fé, d’alto valore
e d’ogni altra virtù fu sempre adorno,
di seguir m’impedia voi, mio signore,
quivi essendo sforzata a far soggiorno,
tanto che d’altri proveduto avessi
a cui sicura un tal governo io dessi.

10E dopo assai pensarvi, elessi a questo
Tetrico, di Toringe il maggior figlio,
qual già più volte ha mostro manifesto
quanto vaglia e di forza e di consiglio,
ma quel, non men che saggio ancor modesto,
con bassa voce e con severo ciglio
rispose ch’era ad obbedirmi inteso,
se ben devesse entrar nel foco acceso,

11ma ch’egli a regger sì sfrenato stuolo,
trovandosi canuto e barba e chiome,
atto non fora, perché vecchio e solo
non potria sostener sì gravi some.
Seco in somma restar feci il figliuolo,
giovene esperto, c’ha il medesmo nome,
d’altro duce provisto a la lor gente
ferma di seguir voi pur sempre in mente.

12Ma nuovo impedimento sopravenne,
che mi apportò nuovo travaglio e scorno,
talché dentro a Marsiglia mi convenne,
a mal mio grado, far nuovo soggiorno:
Mario, che duce de i Ruteni venne,
tutta la notte bisbigliando intorno
in guisa andò che l’altro dì seguente
fu detto Augusto da la più vil gente.

13Da Vasconio costui fu col fratello
dato per duce a gli Aquitani, tanto
brutto di viso quanto Arminio bello,
ma ben tra gli altri avea di forza il vanto;
d’oprar l’incude, i mantici e il martello
questi solea già dilettarsi alquanto,
non già per povertà, né perché vile
fosse, ch’era di stirpe alta e gentile.

14Di Tetrico costui dunque, per sdegno,
come per tutto e quasi sempre accade,
che del compagno e del vicin più degno
e di più merto ogni un si persuade,
pensò con fraude d’usurpar quel regno;
ma raro avvien che per sì fatte strade
caminando l’uom possa lungamente
vantarsi, perché Iddio ciò non consente.

15Fattosi Mario imperator, vestito
subito apparve di purpurea vesta,
e, sopra un alto tribunal salito,
parlò a i soldati con la mitra in testa;
e perch’egli era a meraviglia ardito,
finto esser mosso da cagione onesta
disse: – O compagni, in questo giorno a punto
a fin per me l’obbrobrio vostro è giunto;

16ché stati in fino ad or sète soggetti
d’una vil donna, ma ringrazio Dio
che al fin pur suscitato abbia ne i petti
vostri gran parte del valor natio;
or ben vedranno i barbari gli effetti,
e ben vedrà ciascun tiranno ch’io
la spada a lato e non la rocca o il fuso
porto, e che il ferro a maneggiar son uso -.

17Seguì più cose, onde con lieto grido
di nuovo fu da quelle genti accolto;
Vasconio allor, via più d’ogni atro fido,
sen venne a me tutto infiammato in volto,
dicendo: – Se costui qui non vi guido
prigione o morto, abbiatemi per stolto,
e come a traditor contra me solo
sfogate l’ira e rallentate il duolo -.

18E così detto arrivò quivi a punto
Sereno, avendo il vostro caso inteso,
per cui restò più di dolor compunto
che allor non fu che vide Augusto preso.
Io subito sentì, visto lui giunto,
tormisi da le spalle un grave peso;
quegli, in somma, e Vasconio opraro in guisa
che fu la strada al traditor precisa.

19Onde sforzato fu solo e negletto
fuggir; ma al fin, mercé chiamando in vano,
gli fu con un coltel traffitto il petto,
ch’ei fabricato avea già di sua mano.
Morto lui dunque, e noi fuor di sospetto,Dopo aver vinto Mario ha invano proseguito la ricerca di Costante nei dintorni di Marsiglia, e quindi ha poi ucciso i due predoni Tosso e Belo (19,5-80)
tornò subito al porto in buon romano;
ma pria di quei compagni ch’eran seco
quattro lasciò perché venisser meco.

20E Vasconio gentil, che m’ha finora
fatta sì dolce e grata compagnia,
volse venir contra mia voglia ancora:
così con diece sol mi posi in via.
E l’orme che stampate e fresche allora
si vedean anco de la fera ria,
tutti vestiti ad una sola maniera,
ci ponemmo a seguir l’istessa sera.

21E giunti a la profonda grotta oscura
dove il mostro caduto era pur dianzi,
m’assalse oltra il dolor nova paura,
visto più non seguir quell’orme innanzi;
e posi ogni mio studio, ogni mia cura
per saper s’ivi un tanto mostro stanzi,
o se per sorte, il veder già perduto,
cieco vi fosse nel passar caduto.

22Ma poi che ogni un di noi più volte in vano
col piè ben fermo su l’estrema sponda,
preso alcun ramo pria tenace in mano,
di cui la bocca d’ogn’intorno abonda,
si fe’ con gli occhi a risguardar pian piano
per veder giù la parte più profonda,
nulla scorger potendosi, conchiuso
fu ch’era uopo a calarsi alcun là giuso.

23Ond’io volendo esser colei, ché in fretta
questo facessi per saper di voi,
con prieghi a rimenarmi fui costretta
dal buon Vasconio e da i latini eroi,
ché tutti uniti contra me soletta,
dicendo – Questa impresa tocca a noi -,
e dimostrando aver di me gran doglia,
ceder convenni al fin contra mia voglia.

24Ma, non per questo, insieme si accordaro,
volendo ogni un che sua fosse l’impresa,
sì di morir per voi tutti avean caro,
e quasi ancor tra quei nacque contesa;
ma sei che in foglia il nome lor notaro,
da voi pur dianzi tal maniera presa,
e che fosse calato a la part’ima
quel ch’usciria d’un elmo a sorte in prima.

25Crollato l’elmo adunque ove il suo nome
in foglia scritto avea ciascun di loro,
e quel fermato in terra, proprio come
chi n’uscia guadagnasse un gran tesoro,
Neron, che già canute avea le chiome,
e quelle cinte d’onorato alloro,
sol con due dita de la destra, a caso
io medesima fuor trassi del vaso.

26Neron, come devesse ad un convito
di nozze andar, non fu mai sì giocondo,
qual con la spada in man d’arme guarnito
gli altri calaro giù ne l’antro fondo
sopra un cerchio ch’avean di rami ordito,
verdi e tenaci, e poscia a quel secondo
che meglio far quivi si poté intorno
poser pertiche lunghe, e d’elce e d’orno.

27Et altre a quelle, et altre ancor legaro,
in fin che tutte fur lunghe a bastanza.
Così pian pian Neron fedel calaro
in sì rinchiusa e sì profonda stanza;
ma quando poi di sopra anco il tiraro,
io, da tema assalita e da speranza,
tosto che ad apparir cominciò, fiso
l’uno e l’altr’occhio gli fermai nel viso,

28per far giudicio dal suo lieto o mesto
volto quel che di voi fosse là giuso,
perché sovente in fronte manifesto
l’affetto appar che s’ha nel cor rinchiuso.
Fisso adunque il mirai, ma non per questo
men rimase il mio cor dubbio o confuso,
fin ch’ei né lieto in faccia né turbato
solo, disse, il mostro aver là giù trovato,

29che giacea steso in un de i lati morto,
di squarci e petto e gambe e fianchi pieno,
e ch’altro non avea mai quivi scorto,
fuor che d’intorno a quel pesto il terreno.
Se ciò mi porse allor noia o conforto
già non potrei, signor, contrarlo a pieno;
ben so che in cor mille pensier diversi
mi venner, ch’io tra me chiusi e copersi.

30L’un di questi volea che da voi stato
fosse con quel coltello il mostro ucciso
che vi trovaste allor dal destro lato
che via sopra di lui portovvi assisi;
e che l’aveste poi quivi gettato
per qualche vostro ben pensato avviso.
Ma poi l’altro pensier volea che seco
foste caduto nel profondo speco,

31e che inghiottito pria l’empio vi avesse
ch’ei fosse colà giù rimaso estinto.
Non men temei correndo per le spesse
piante che in qualche quercia urtato e spinto
di voi lasciate aveste l’orme impresse,
e di sangue il terren bagnato e tinti,
calpestato dal mostro, e in cotal guisa
mia mente in varie parti era divisa.

32Dal mio star cheta e mesta al lor cospetto,
Vasconio e gli altri, il grave duol mio scorto,
tutti cercavan con pietoso affetto
di far sì ch’io prendessi alcun conforto;
ma come gioia entrar mi potea in petto,
che a desperar già cominciai del porto
qual nave in preda a venti aspri e contrari,
tra gli scogli, al buio e per ignoti mari?

33Poi, discorrendo ciò che devea farsi,
con menti dubbie tutti, afflitte e meste,
l’un dicea ch’era indietro da tornarsi,
perché il medesmo ancor voi fatto avreste,
l’altro ch’or qua, or là, divisi e sparsi
gir si devesse in quelle parti e in queste,
perché in più lochi andando si potria
meglio trovarvi o meglio averne spia.

34Ma di gir tutti insieme al fin si prese
per più sicuro e per miglior partito,
ché di ladroni pien sendo il paese
fra terra, e di corsari appresso il lito
troppo il periglio nostro era palese,
e il pensier rimarria vano e schernito
soli andando in quei lochi, ov’è gran sorte
non esser preso e posto a crudel morte.

35Dunque di voi tutti cercando e spesso
chiamandovi andavam congiunti ognora,
già mandato a Marsiglia avendo un messo
di quegli miei che mi seguiro allora,
e con istanza grande a quel commesso
che mi tornasse a dir senza dimora
se quivi foste o no, che sette giorni
con lento passo andrei per quei contorni.

36Ma che mandasse prima un altro in fretta
per far noto a Seren ciò ch’era occorso;
quel veloce da me come saetta
partissi, andando sempre a tutto corso,
né mai più il vidi fin che far vendetta
sol ne potei, ma non dargli soccorso,
ché ad una quercia l’infelice appeso
trovai, col destrier suo morto disteso.

37Dunque due volte sette giorni in vano
pur l’aspettammo, andando a passi lenti,
cercando intorno a l’antro, ma lontano
giamai non più che diece miglia o venti;
ma tanto era il paese incolto e strano
che tetto mai, né si trovaron genti
per riposarci o per chieder di voi,
talché i destrieri assai patiro e noi.

38Che sol per lochi sterili e distrutti
e sol per balzi e dirupate sponde
passando, e d’erba e di selvaggi frutti
noi sol vivendo, e quei d’erba e di fronde,
restammo afflitti e stanchi in guisa tutti
ch’entrati in certe valli aspre e profonde
de’ nostri alcuni vi moriron quasi,
a piè, senza destrier quivi rimasi.

39Però sì come far meglio si pote,
fuor di speranza di trovarvi omai,
pur seguimmo il camin per strade ignote,
che non si riscontrò persona mai;
talché le membra di vigor già vote
sostenendo a fatica, un giorno alzai
la fronte e scorsi un tetto di lontano
d’un monte in cima, a la sinistra mano.

40Lieto ciascun di noi subito verso
quel monte prese il più dritto sentiero,
et ecco intanto correr da traverso
un uom, sopra un veloce e gran destriero,
ma nel calar d’un balzo andò riverso
sottosopra il cavallo e il cavaliero,
e se da noi non avea tosto aiuto
Dio sa quel che di lui fosse avvenuto.

41Io corsi, e meco gli altri corser anco,
come la vera carità richiede,
e giunti lo trovammo, afflitto e stanco,
non poter mover de la staffa un piede,
e sopra un sasso in guisa il destro fianco
percosso aver ch’aiuto, per mercede,
chiedea gridando, e del periglio uscito
spaventato parea, non che smarrito.

42Guardavasi d’intorno e sempre in atto
di fuggir stava, a tal che fu il meschino,
se non del tutto giudicato matto,
almen che fosse ad impazzir vicino;
ma poi ch’ei cominciò: – Del ben che fatto
m’avete io prego il gran Padre divino
che a premiarvi tutti non sia lento -,
ciascun fermossi ad ascoltarlo intento.

43- E s’io non posso, come son tenuto,
d’avermi liberato dal periglio, –
soggiunse quel – darvi al bisogno aiuto,
non vi sia grave ch’io vi dia consiglio,
sperando che da voi mi sia creduto,
per veder che al medesmo anch’io m’appiglio,
ch’ogni un di voi meco sen fugga essorto
se non vuol rimaner subito morto.

44Bench’io stimo il morir semplice un gioco,
ch’è natural, ch’esser non può fuggito,
e più diece anni o men giudico poco
o nulla a paragon de l’infinito;
ma questo ora col ferro, ora col foco
lo spirto separar col corpo unito,
con strazio rio, con violenza dura
debbiam sempre fuggir con ogni cura.

45E questo io dico per vedervi intenti
a gir verso quel tetto anzi a la morte,
dove s’odono ognor gridi e lamenti,
di chi vi guida sua contraria sorte;
due gran ladroni a le smarrite genti
ch’arrivan dentro a sì spietate porte,
da lunge il cor traffiggon con saette,
legate a i tronchi e a grossi pali strette.

46Fratelli sono i due ladroni e Tosso
l’un d’essi ha nome, e l’altro ha nome Belo.
Quel più d’uom giusto un palmo è grande e grosso,
e sol vestito va d’un sottil velo,
ma però sempre suda e sempre è rosso,
e sempre dorme al discoperto cielo;
il naso ha tronco e d’un de gli occhi è scemo,
talché sembra un ciclope, un Polifemo.

47Di statura il fratel Belo non sembra,
sendo maggior di lui forse una spanna,
ma le braccia e le gambe e l’altre membra
magre e sottili son come una canna;
che digiun fosse mai non si rimembra
persona: ognor divora, ognor tracanna;
benché a vederlo poi sì magro fuori
par che lui dentro il divorar divori.

48Ma ben l’un l’altro sembra in questa parte,
e l’uno a l’altro ben si mostra eguale,
l’uso avendo e sapendo ambedue l’arte
d’avventar sempre ove desian lo strale,
talché mentre il falcon ratto si parte
battendo in aria più veloce l’ale,
benché il traffiggan, non gli aprendo il core
tra lor si accusan di commesso errore.

49E mentre o lepre o capro al bosco in fretta
va cacciato a gran corso, se dissegno
fan ch’entri nel destr’occhio saetta
e ch’entri lunge un quarto d’oncia al segno,
tal colpo ad alcun d’essi non diletta,
anzi tra lor n’han colera e disdegno,
né per quant’oro un dromedario porta
mangiarian fera in tal maniera morta.

50Ma, come spesso avvien che l’uom l’ingegno
infusogli da Dio rivolge al male,
e quando il fallir suo trapassa il segno
per se stesso a ritrarsi poi non vale,
costor, visto cader senza ritegno
l’impero e portar mitra e scettro tale
che di salir sopra il destrier non merta,
l’impietà lor palese hanno scoperta.

51E d’esser qui parendo a lor sicuri,
visto che al mondo sol la forza regna,
né v’esser più chi d’osservar procuri
la legge, o chi il dever servi e mantegna,
cinti intorno da monti alpestri e duri,
di bene oprar ciascun sprezza e si sdegna,
ma rubano e con strazio uccidon quanti
giungono a lor donne e guerrieri erranti.

52L’un quattro figli ha maschi, e l’altro sette,
questi, che il minor già passa i venti anni,
con genti che a lor gusto s’hanno elette,
parte con forza e parte con inganni,
posti a certe vie coperte e strette
a i passeggieri fanno oltraggi e danni,
talché non escon mai del tetto in vano
che non dia lor qualche infelice in mano.

53E in questi, come ho detto, a forti pali
di stretti lacci e di catene avvinti,
aventano da lunge e dardi e strali
fin che rimangon totalmente estinti;
tutti sen van, signori e servi uguali,
tosto che son da quei malvagi vinti,
e s’avvien ch’uno al primo colpo uccida
riporta il premio, e vincitor si grida.

54De i figli loro han più nepoti, e stanno
quei vecchi ad instruirgli, onde s’un tira
lontan troppo dal segno non gli danno
mangiar, ma lo discacciano con ira;
n’acquistan, per contrario, quei che vanno
proprio a ferir dove affissàr la mira,
dopo mille carezze e mille feste,
frutti e ghirlande e puerili veste.

55Andando io dunque con tre servi e dui
compagni, sempre a’ miei negozi inteso,
ad un coperto e stretto passo fui
da queste genti a l’improviso preso,
e però quel c’ho raccontato a vui
sappiate ch’io non l’ho per fama inteso,
ma diece dì l’ho visto ognor presente,
talché sempre l’avrò scolpito in mente.

56Non vi saprei già dir per qual cagione
me come gli altri allor non saettaro,
ma dentro un’ampia e lucida prigione
posero, e quivi poi sempre lasciaro;
questa, eminente a guisa d’un balcone,
le grate intorno avea di fino acciaro,
talché uscir non potea ma d’ogn’intorno
chiaro veder ciò che faceano il giorno.

57Iersera poser meco un poverello,
pur dianzi d’altri preso in compagnia,
né so come al partir chiuso il portello
restò che facilmente un sol l’apria;
io, che d’ascoso avea sotto un coltello,
sendogli stato intorno tuttavia
più notti indarno, allor senza fatica
l’apersi: tanto ebbi la sorte amica.

58E pian pian brancolando e cheto cheto
scesi dal monte, e mi nascosi alquanto,
di timor colmo e d’animo inquieto;
ma, scoperto il suo lume Cinzia intanto,
scorsi questo destrier, sopra cui lieto
subito ascesi, e l’ho cacciato quanto
senza sproni cacciar sempre ho potuto,
fin ch’io son nel calar qui giù caduto.

59Voi dunque mentre che lontani sète
da loro, e che veduti ancor non v’hanno,
sentier contrario a questo omai prendete,
che fuor del bosco usciti vi vedranno;
s’altri a bel studio incappa ne la rete
ciascun poi dice: “Ben gli sta, suo danno”,
ma quando alcun per non saper vi cade,
over per forza, s’ha di lui pietade -.

60Da noi cortesemente del consiglio
resogli prima grazie, poi risposto
gli fu che a sottoporsi al gran periglio
era ciascun di noi pronto e disposto,
ch’essendo il tetto poco più d’un miglio
(per quanto scorger si potea) discosto,
s’avrebbe indietro a ritornar vergogna,
ch’ogni uom d’onor fuggir sempre bisogna.

61Ma ch’egli pur volendo gire altrove,
per piacer, per bisogno o per paura,
n’andasse, che per tutto avria le nuove
de i lor successi dentro a quelle mura.
– Non piaccia – quei riprese – al sommo Giove
che d’un poco di vita abbia tal cura
ch’io voglia in tutto abbandonar l’onore;
sol colui vive ch’onorato more.

62Mentre al passo vorran prendermi, o ch’io
rimarrò morto da quell’empia setta,
o che farò de l’uno e l’altro mio
compagno, dando morte a lor, vendetta;
e questo, che sol bramo e sol desio
di far, par che al sicuro io mi prometta,
quando indegno stimato anch’io non sia
di sì onorata e nobil compagnia -.

63Gli fu risposto allor che di buon core
non pur saria da noi sempre accettato,
ma che cel recariam tutti a favore,
ché essendo tanto in questo loco stato
non pur con l’armi aiuto e col valore
ma ne saria da lui consiglio dato,
per ciò che di ragion prattico in diece
giorni del sito e de i ladron si fece.

64E così discorrendo tutti insieme
come deveansi castigar costoro,
giunti del monte a le radici estreme
vidi una donna a piè d’un grande alloro,
ch’un elmo in capo avea, le cui supreme
parti ergendosi al ciel splendeano d’oro;
ne la man destra un’asta e tenea uno scudo,
ne l’altra, e in quel, scolpito un mostro crudo.

65Era il mostro una testa orribil molto
da risguardar; questa la lingua e i denti
mostrava, e spaventar potea col volto
da presso e da lontan tutte le genti;
tenea la bocca aperta, e il crine involto
orribilmente avea d’atri serpenti,
di sangue il collo, ov’era tronco, tinto,
gocciando, vero più parea che finto.

66Questa proprio a l’uscir fuori d’un bosco
mi venne incontro, essendo chiaro il giorno,
ma si fe’ tosto e nubiloso e fosco,
talché non si scorgea due braccia intorno;
per man quella mi prese, e disse: – Vosco
rimaner voglio, e far tanto soggiorno
che da voi sian questi ladroni vinti,
e con le proprie lor saette estinti -.

67Ciò detto, e circondando intorno il monte,
ne guidò tutti ad un profondo, e quivi
de i miei cinque nascose ove d’un fonte
quinci e quindi nascean due chiari rivi;
poi mi tornò, con gli altri cinque, a fronte
del tetto infame, ove quei ladri privi
non men che di pietà di forze ancora
tendeano insidie a i viandanti ognora.

68E giunti tutti sette ad un sentiero
che l’alto sasso e qua e là partiva,
profondo e stretto sì ch’un sol guerriero
per volta a pena de l’aguato usciva,
io seguia sempre intenta col pensiero
in fin che ci guidò la scorta diva,
che da noi sempre andava innanzi un poco
dove stavan quei ladri in festa e in gioco.

69Per quella nebbia così folta, addosso
tutti quanti lor fummo a l’improviso,
mandando i gridi al ciel; quivi di Tosso
il maggior figlio, che rivolse il viso,
ferito sopra il capo e rotto l’osso,
fin su le ciglia in terra andò diviso;
furo i nostri in tal modo arditi e forti
ch’indi o fuggiron gli empi o furon morti.

70Quegli altri cinque da la donna intanto
ebbero aiuto, e sopra il monte ascesi
fèr doppia strage e, rinovando il pianto,
quei che prima fuggian fur morti o presi;
del romor Tosso e Belo udito alquanto,
cheti per ascoltar stavano intesi,
ma tosto ardito ogni un giunse e la scorta
con l’asta ch’avea in man ruppe la porta.

71L’oscura nebbia intanto, che d’intorno
l’orizzonte copria, subito sparve,
e più che fosse mai lucido il giorno
e chiaro, Apollo in un momento apparve;
questa cagione ancor fu di più scorno
a quei due mostri, che parean due larve,
sì difformi e sì l’un da l’altro vario,
quel troppo questo e questo era al contrario.

72Belo volse fuggir ma cadde tosto,
che a pena dritto mai potea tenersi;
poscia un nodo al piè destro gli fu posto,
ond’altro non facea che ognor dolersi;
non fuggì Tosso ancor troppo discosto
che restò preso, e fur d’ambi diversi
scherni da questi miei con piacer fatti,
vedendogli sì brutti e contrafatti.

73A due colonne quei poscia legaro
e, per pigliarsi più trastullo ancora,
con prieghi e con minaccie ivi guidaro
quei piccioli fanciulli allora allora,
e poi che a quei su gli archi essi acconciaro
gli strali, imposer lor senza dimora
che saettar quei, come prigioni
far solean, che n’avrian più ricchi doni.

74Ma ciascun sempre si mostrò restio,
negando arditamente ognor di farlo,
e d’essi un, certo in vista oscuro, ch’io
spingea, l’avo mostrando a saettarlo,
mi disse: – Adunque al caro avolo mio,
ch’ognor mi insegna, in vece d’onorarlo
vuoi ch’io dia morte con mio gran cordoglio?
Non me ne parlar più, ché far nol voglio -.

75Presente a questo essendo il cavaliero,
a cui di staffa s’era tolto il piede,
e d’adosso levato il suo destriero
sul capo alquanto con la man gli diede,
dicendogli sdegnoso e in vista altero:
– Quanta arroganza in te, ghiotton, si vede?
Tu sei pur nato in questo infame nido;
traffiggi a Belo il petto o ch’io t’uccido -.

76Fatto allor quel fanciullo pallido in volto,
e colmo d’alto sdegno e di furore,
con l’arco in man contra di lui rivolto
scoccollo, e gli passò per mezzo il core.
Da questo un caso non diverso molto
avvenne a Montio ancor, ma fosse errore
o che la man tremasse a quel fanciullo,
nol colse, e riuscì tal colpo nullo.

77Onde tosto da noi tutti fur presi
e in prigion tutti posti, e non so come
fosser tutti ancor subito appesi
a i rami, o per li piedi o per le chiome;
poscia con gli archi lor medesmi tesi
quei duo capi non pur già noti al nome
ma gli altri da noi presi, ch’eran sette,
carchi furon di strali e di saette.

78Tolto del mondo il grave lezzo, e tosto
consultato da noi che devea farsi
de i tanti rei fanciulli, fu disposto
da tutti in Delo quei due dever mandarsi,
e ch’ivi a quanto poi saria risposto
da l’infallibil dio devesse starsi;
così conchiuso, a tre, che in gran paura
stando in prigion salvai, diedi tal cura.

79Poi quindi usciti un tirar d’arco appresso
quel tetto, a caso nel levar le ciglia
io scorsi appeso ad una quercia il messo
che indietro rimandai verso Marsiglia;
di tornar presto avendo quei promesso,
partì da noi spronando a sciolta briglia;
da mille strale ancor sopra il sentiero
giacea traffitto e morto il suo destriero.

80Tornai subito indietro e d’ira accesa
contra quell’empio e scelerato loco,
una facella io stessa in man già presa
posi per tutto immantinente il foco;
e mentre io stava a tal vendetta intesa,
con festa i miei compagni in riso e in gioco,
quei cadaveri appesi a gli olmi, a i sorbi
lasciaro in preda a gli avoltori, a i corbi.

Ha soccorso la figlia di Macriano, Macrina, fuggita dalle mani del traditore Macro e incappata in varie avventure (81-159)

81Poi volte in fretta a quel monte le spalle,
nessun per quattro dì s’incontrò mai,
passando or bosco or campo or monte or valle,
e quanto il dolor possa allor provai;
il quinto giorno in uno angusto calle,
a lo spuntar de i matutini rai
trovai, send’io la prima, una donzella
con rozzi panni ma leggiadra e bella.

82Sospirando e piangendo afflitta e smorta
tenea sì fisso il guardo in terra e basso,
che del nostro venir non s’era accorta,
saliti ad un ad un sopra quel sasso;
tosto ch’io l’ebbi a l’improviso scorta,
fermai rivolta indietro a gli altri, il passo,
e che tacesser fei cenno con mano,
ma riuscì tutto il pensier mio vano.

83Pensato avea ch’ogni un tacito intento
restasse, senza pur darle il saluto,
per veder se, prorotta ella in lamento,
si comprendea ch’avesse uopo d’aiuto;
ma tra lor sendo in gran ragionamento,
e non avendo gli ultimi veduto
quando indietro mi volsi a far lor cenno,
col dir troppo alto a noi voltar la fenno.

84Ma volta, e sopragiunti a l’improviso
noi visti, per la subita paura
s’impallidì via più che prima in viso,
talché di donna a pena avea figura;
fuggir volea, ma fermo a caso
lo sguardo in Montio, e già fatta sicura,
tosto alquanto cangiossi nel sembiante,
e si gettò prostrata a noi davante.

85Dal destrier tosto in terra io mi gettai,
gli altri fèro non men, questo veduto;
e da giacer la misera levai,
da Montio avendo e da Cecinna aiuto;
– Non so, – diss’ella – o Montio, allor se i guai,
l’avermi in queste parti oggi veduto,
m’accresca o scemi il grave affanno e il duolo,
onde ognor piango e mai non mi consolo -.

86Montio, che vista la fanciulla intanto
pallida, afflitta e per quei monti sola,
non l’avea conosciuta, oltra il vil manto:
la riconobbe tosto a la parola;
e per pietade anch’ei prorotto in piano
gridò: – Che fai, di Macrian figliola,
tra selve e scogli errante, avvolta in questa
gonna sì vil, sì lagrimosa e mesta? -.

87Ma da la doglia in tal maniera vinta
restò la donna, e in tanta angustia posta
che cadde in guisa che sembrava estinta,
non che potesse a Montio dar risposta.
Io, per pietà d’alto pallor dipinta,
la presi in braccio, e sopra un’ampia costa
la posi appresso un fresco e chiaro fonte
che fuor cadea d’un sasso a mezzo il monte.

88E tutti stando intorno a la meschina,
chi le stringea or l’una or l’altra mano,
chi la spruzzava d’acqua cristallina,
chi le tirava il crin così pian piano.
Già n’avea Montio detto che Macrina,
la figlia era costei di Macriano;
nessun giamai restò, sempre diverse
cose tentando, in fin che gli occhi aperse.

89E sospirando disse: – O Montio mio,
non vi meravigliate di vedermi
con sì ruvido manto afflitta, e ch’io
vada sola per monti e alpestri et ermi?
Ben so ch’esser convien quanto vuol Dio,
ma star non posso già senza dolermi;
forse posta vi sembro a quella sorte
che di mio padre mi vedeste in corte?

90E se nel petto avrò spirto a bastanza
per farvi noto il mio duro accidente,
ond’io son fuor de la paterna stanza
abbandonata da tutta la gente,
racconterollo a pien, perc’ho speranza
che v’ingombri pietà di me la mente;
facendo dal mio stato congiettura
che in terra mai felicità non dura.

91Mio patre, o gentil Montio (a voi mi volto,
ché v’amò tanto e v’ama ancor, se vive),
stava con grande essercito raccolto
del gran fiume Strimon sopra le rive
per gir contra un tiranno audace molto,
che temerario Augusto anch’ei si scrive;
di Scauro intender vuo’, che da le chiome
di color d’oro s’ha cangiato il nome.

92Ma pria che si movesse arditamente
contra costui, già tutto al sacco inteso,
d’Epidauro in Illiria crudelmente
da lui con fraude a tradimento preso,
mandommi accompagnata da gran gente
in Delfo, d’alto desiderio acceso,
che il fin gli fosse de l’impresa noto
oltra ch’io far questo devea per voto.

93A tutti quei che venner meco, diede
per duce Macro, mio cugin germano,
di cui più volte avea l’intera fede
scorta col porgli grand’imprese in mano;
ma perché tutto il dì chiaro si vede
che lealtà non regna in petto umano,
costui quel cor che in tante e sì diverse
cose celò contra di me scoperse.

94Una giornata essendo a Delfo appresso
ne l’uscir proprio d’un boschetto folto
chiuso da monti, ecco spronando un messo
venir verso noi sempre a freno sciolto,
che giunto a Macro ragionò con esso
pian pian, tutto smarrito e mesto in volto.
Non seppi già quel che gli avesse detto
ma presi ben tra me di mal sospetto.

95Macro, poi che parlato ebbe a costui,
fe’ che un nepote suo, chiamato Festo,
guidò i soldati altrove, e disse a nui
ch’era commesso da mio patre questo;
ben ne ritenne alcun, che sol da lui
dipendean tutti, e gli era manifesto
che a quegli parso ancor sarebbe poco
quando entrati per lui fosser nel foco.

96Già del tutto signor Macro rimaso
rubò subito l’or tutto e l’argento,
e quivi essendo un castel forte a caso,
non ben guardato, il prese a tradimento,
dove ogni soma, ogni gemma, ogni vaso
ripose, a conservar la preda intento,
ch’ei ben, senza che ad altri ne dimande,
sapea quell’esser preziosa e grande.

97Ch’Augusta il padre avendomi chiamata,
e mandatomi al dio cui tanto onora,
da tanta e da tal gente accompagnata,
meco mandò molte ricchezze ancora,
di cui gran parte esser devea lasciata
nel tempio a dio, come fei voto allora
che inferma da fanciulla e morta quasi
per miracolo suo viva rimasi.

98Né sazio ancor di ciò costui, corona
d’ogni più crudo e falso traditore,
pensò di violar la mia persona,
mostrando esser cagion del tutto amore;
ma perché Iddio giamai non abandona
chi chiama lui con purità di core,
supplichevole a quel send’io ricorsa,
fuor di speranza a tempo fui soccorsa.

99Fuor che i soldati, m’avea in governo
e le mie donne e tutta la famiglia
di mio padre un liberto, Aulo Materno,
che nosco avea duo figli et una figlia;
fatto a Macro costui nemico eterno,
pronto mostrossi a far l’erba vermiglia
del proprio sangue, overo a tinger l’erba
di quel di Macro con vendetta acerba.

100L’amava in prima assai, ch’essendo ei fido,
lui più volte anco avea per fido esperto;
poi, visto non pur quel già fatto infido,
ma contra il suo signor nemico aperto,
tra sé pensò di far sentirne il grido;
ma tenne a gli altri il suo pensier coperto,
sol fe’ palese a me co i figli suoi
l’intento suo, ch’effetto ebbe ancor poi.

101Già s’era il vecchio diligente accorto
più volte avermi quel pregata in vano,
e ben sapea che il traditor di corto
m’assaliria con violenta mano,
però mi disse: “O ch’io rimarrò morto
co i figli, o che da presso e da lontano,
con vendetta giustissima, per tutto
farò sentir di tanta fraude il frutto”.

102Poi m’essortò ch’io dessi a quel speranza
di consolarlo ad ogni modo e tosto.
Ma con l’audacia sua, ch’ogni altra avanza,
di farmi forza il traditor disposto,
temerario sen venne a la mia stanza,
dov’era il vecchio già co i figli ascosto;
cui subito dier morte arditamente,
né se n’accorse alcun de la sua gente.

103Poi Macro, d’alma in tal maniera privo,
copriro sopra il letto ben disteso,
talché parea ne l’entrar dentro vivo
per gran fatica da gran sonno preso;
ma pensando a me stessa io mi sentivo
sopra le spalle aver troppo gran peso,
e mi parea ciascun rimedio vano
per fuggir salva da que’ suoi di mano.

104Ma già Materno a quel tolto l’anello,
mentr’io mesta piangea con faccia smorta,
scrisse una carta e la segnò con quello,
onde lasciata uscir fui de la porta;
con questo manto e con questo capello,
facendomi per via sempre la scorta
Materno e i figli, e meco una sua figlia
venìa bella e prudente a meraviglia,

105e fuor di strada al mezzodì le spalle,
e contra l’Orse ognor la faccia volta,
gìam cercando il più torto e stretto calle
per gir dove la selva era più folta.
Il quarto giorno in una ombrosa valle
calati essendo, con fatica molta,
mentre in un tetto ivi credea posarmi
fortuna m’assalì con più crud’armi.

106Per dumi essendo e per vie torte e rotte
andati ognor, per la più densa frasca,
che in tetto mai non si posò la notte,
vivendo sol di quel che s’avea in tasca,
ne le caverne al buio e ne le grotte
sempre aspettando in fin che il giorno nasca,
pensate poi che al veder tetti e case
sopra modo ciascun lieto rimase.

107E giunti a quelle ogni un digiuno e stanco,
in vece di trovar cibo e riposo
dinanzi e dietro e l’uno e l’altro fianco
n’assalse un stuol quivi di gente ascoso;
eran quei diece, e ciascun d’essi franco,
e qual percosso drago empio e rabbioso,
talché senza far punto allor difesa
restaro, e seco anch’io subito presa.

108E ne condusser tutti, essendo il giorno
quasi sparito, a la crudel lor stanza,
dov’uom che arriva indietro far ritorno
per tempo alcun non prenda mai speranza.
Materno e i figli suoi quivi ad un orno
con certi acuti uncini, a lor usanza,
dietro avvinti le man, traffitti il mento
lasciaro appesi in fin ch’ogni un fu spento.

109Di me parea, né dir so la cagione,
che alcun di lor non si prendesse cura;
non mi chiusero mai ne la prigione,
chiusa stando però tra l’ampie mura,
mentre a far preda uscian d’altre persone,
benché in sospetto ognor stessi e in paura,
pur davo al debil mio corpo ristoro
col cibo sempre che avanzava a loro.

110Per tempo una mattina che l’aurora
non facea a Febo ancor l’usata scorta,
soletta uscì di quel serraglio fuora,
che a caso aperta ritrovai la porta;
e dopo il mio partir l’undecim’ora,
andando ognor per via solinga e torta,
mi ritrovai tre miglia solamente
lunge da sì spietata e cruda gente.

111E giunta ad una picciola casetta
la notte in quella mi rimasi ascosa,
con una vecchia ch’ivi sta soletta,
e che tutta di me restò pietosa;
per povertà, da quella iniqua setta
sicura, anco a fatica, ivi si posa;
lupini avendo e noci avute a cena,
trovai per bere acqua bastante a pena.

112Mostrommi al partir poi l’altra mattina
una strada per me coperta e piana,
che indi va dritta verso la marina,
né per quella incontrai persona umana.
La sera un’altra casa, a cui vicina
stava una fresca e limpida fontana
scorsi da lunge, e tosto ch’io v’andai
d’anni carco un pastor quivi trovai.

113Ma così mesto e sconsolato in vista
m’apparve, ch’oltra il pallido colore,
con faccia sempre lagrimosa e triste
potea chiaro mostrar qual fosse il core;
tosto ch’io giunsi al suo cospetto, avvista
per tanto sospirar del suo dolore
dissi tra me, senza che alcun mi informe
del loco: “A l’esser mio parmi conforme”.

114Conforme il loco è ben proprio al mio stato,
ma non conforme al gran bisogno mio:
il debito vorria che ritrovato
avendol colmo di dolor sì rio
da me conforto almen gli fosse dato,
con dir cortese e pien d’affetto pio;
ma di conforto avendo io più da lui
bisogno, come dar ne posso altrui?

115Per me pareami spezie di conforto
l’aver compagno in tanta doglia mia.
S’afflige quel, ch’è sol lunge dal porto,
sbattuto in mar da la fortuna ria,
ma quel s’acqueta poi se chiaro ha scorto
che ne l’istessa nave altri ancor sia;
per prova omai son certa che fra cento,
anzi fra mille, un sol non è contento.

116Ma poi che il vecchio in quella stanza, piena
di latte acconcio in vari modi fresco,
m’ebbe raccolta, e datomi da cena,
stando soletta così seco a desco
gli dissi: “O padre, se l’acerba pena
ch’io scorgo in voi col dir mio non v’accresco,
dite qual sia tanta cagion che solo
si veggia in voi pianto, singulto e duolo”.

117Rispose il vecchio allor piangendo forte:
“Sappi che a i dì passati Macriano,
con due figli ambi Augusto ebbe la morte,
raccolta sì grand’oste avendo in vano.
A Delfo una sua figlia allor per sorte
sen gìa con Macro, suo cugin germano,
a questo un mio figlio fe’ noto il caso,
di tre sol vivo in quel campo rimaso.

118Duo figli mi moriro in quel conflitto,
me ne rimase un sol vivo, e fu questo
che scampato veloce andò diritto
per far tal caso a Macro manifesto;
bastar questo potria per farmi afflitto,
e farmi sempre doloroso e mesto,
ma sappi esser però nulla a rispetto
di quanto io t’ho da dir, quel c’ho già detto.

119Costui, ch’unico figlio era rimaso
d’un miser vecchio, per più doglia mia,
notificato avendo a Macro il caso,
come errasse al tornar non so la via;
ben so che a le radici del Parnaso,
da certi che l’avean tenuto in spia
fu preso, e d’uno acuto uncin di ferro
traffitto il mento, appeso ivi ad un cerro.

120Quei che a i nemici armati volto il volto
grand’animo mostraro e gran valore
m’acquetan pur; ma il terzo, ohimè, che tolto
m’ha questo ladro infame e traditore,
oltra che più l’amai d’ogni altro molto,
e ch’era il mio destr’occhio, anzi il mio core,
sapendol morto in tanti strazi e guai
non fia possibil ch’io mi scordi mai”.

121Pensate allor qual fosse il mio conforto
avendo a caso da quel vecchio inteso
che m’erano i fratelli e il padre morto,
né pure in parte il lor nemico offeso.
Meraviglia non è s’ho il viso smorto
e sempre a sospirar l’animo inteso,
che al par di me giamai donzella alcuna
travagliata non fu da ria fortuna.

122Allor che il vecchio, non sapendo ch’io
la figlia fossi, ahimè, di Macriano,
venne a dir ch’era morto il padre mio
con l’uno e l’altro mio fratel germano,
sì doglia in me crebbe, che se Iddio
non mi tenea per gran pietà la man
mi sarei disperata allora allora,
tratta con un coltel di vita fuora.

123Ma quel che allor non fei sarò sforzata
tosto di far, meschina, me dolente,
ché de i parenti priva, abbandonata
son da gli amici e da tutta la gente.
Io, che nutrita fra i tesori, nata
ne i gran palazzi son sì nobilmente,
non ho capanna pur che mi rinchiuda,
muoio di fame, e vo mendica e nuda -.

124Quest’ultime parole udite a pena
fur da tutti noi, poi ch’ella molta
doglia e per grave, anzi soverchia pena
restò priva di senso un’altra volta,
io, di pietà più che mai fossi piena,
tra le mie braccia avendola raccolta;
nuovi rimedi ancor far ci convenne,
talché pur finalmente in sé rivenne.

125Montio allor con parlar saggio e cortese
cominciò dolcemente a consolarla,
dicendole che Iddio, che ognor difese
l’innocenza, vorrebbe anco aiutarla,
e che tornar volendo al suo paese
s’offeria pronto ognor d’accompagnarla,
e che al primo castel da gran madonna
saria vestita con lugubre gonna.

126E ch’ei sapea d’Ingenuo, c’ha l’impero
di Macedonia, il figlio aver le voglie
tutte disposte e tutto il suo pensiero,
volto a far sì che al fin l’abbia per moglie,
e perché un stretto laccio d’amor vero
per accidente rio mai non si scioglie,
certo credea, per quanto intese in corte
del padre suo, che gli saria consorte.

127Con queste e con parole altre diverse
Montio non pur, che dal fanciullo crebbe
del suo padre a i servigi, ma s’offerse
ciascun d’accompagnarla ov’ella andrebbe,
di tanto mal che in pochi dì sofferse
senza alcuna sua colpa a tutti increbbe;
ma pria che seco in loco alcun si vada
conchiuso fu d’assicurar la strada.

128Conchiuso fu di por quegli empi a morte,
che strazio almen d’un uom fanno ogni giorno,
per far sicuro il passo a chi per sorte
vi arriva da le terre ivi d’intorno.
Andammo adunque, e là giunti a le porte
de la capanna ov’ha il pastor soggiorno,
qualche informazion da lui si prese
del loco e il nome di color s’intese.

129De i ladri chiamato il capo Nardo,
che un figlio avea detto Nardin, sì presti
nel corso e sì veloci ambi che tardo
fora ogni cervo al paragon di questi;
vincean correndo or lepre, or damma, or pardo,
ne gli altrui danni ognor gli occhi avean desti.
Ma giunti appresso al crudo albergo un miglio
Vasconio andò con Montio a gran periglio,

130ché liberar volendo il passo e tosto
far di tanti innocenti aspra vendetta,
dinanzi a tutti gli altri eran discosto
quanto buon arco può cacciar saetta,
quando ecco Nardo, ch’ivi era nascosto
fra certe macchie, uscìr col figlio in fretta,
e con quegli altri suoi, nel tender tutti
insidie dotti e d’ogni fraude instrutti.

131Prima i due nostri avendo un di quei morto
e tre feriti, al fin rimaser presi,
e sarian stati anch’essi in spazio corto
con quegli uncini a qualche cerro appesi,
se non ch’avendo il gran periglio scorto
colei, che dianzi ancor n’avea difesi,
si dimostrò con l’abito di prima,
d’un picciol colle da man destra in cima.

132E gettata una pietra immantinente,
dinanzi a i ladri quella cadde un poco,
e subito divenne un gran serpente,
che gli occhi e il fiato aver parea di foco;
pensar devete allor che quella gente
non ritrovava per paura loco:
chi qua, chi là correndo in fretta andaro
e i due prigioni in libertà restaro.

133Gettata un’altra pietra allor la diva,
quel ritornò, com’era, un sasso inante.
Guidocci al loco poi dove chi arriva
da la morte a scampar non è bastante;
quivi colei, d’ogni aspetto priva,
rotte le porte, irata nel sembiante,
noi tutti poscia in varie parti ascose,
e quel che far devea ciascuno impose.

134Nardo intanto e Nardin co i lor seguaci
gran pezzo essendo or qua, or là fuggiti,
ch’ognor ne gli occhi quelle accese faci
lor parea aver, che sì gli avean smarriti,
senza che insieme i ladri empi e rapaci
mai più potesser ritrovarsi uniti,
scorsi per boschi essendo tutto il giorno
la sera a casa ogni un facea ritorno.

135E così come sparsi ad uno ad uno
stanchi giungeano, a l’improviso presi
subito anch’essi a qualche cerro o pruno
con quegli uncini al mento erano appesi.
Nardo arrivò che il cielo era già bruno,
onde con torchi et altri lumi accesi
gli uscimmo incontro, di quei manti cinti
che fur del figlio e de i compagni estinti.

136Talché mentr’era il misero lontano
e che fuggir potea, non se n’accorse,
ma quando poi fu giunto in nostra mano,
né più rimedio avea, l’inganno scorse;
mercé chiese per Dio più volte, in vano,
de i suoi compagni non sapendo forse,
che il figlio visto e gli altri poi con stento
morti, mostrossi di morir contento.

137Rotte fur le prigioni e n’uscì fuora
del buon Materno la cortese figlia,
che subito abbracciò la sua signora
colma d’alto piacer, di meraviglia,
mentre quegli altri, acciò che Nardo mora
solennemente tra la sua famiglia,
chi de l’arbore i rami a terra piega,
e chi dietro le man strette gli lega.

138Montio il traffisse con l’acuto uncino,
Materno a vendicar co i figli inteso,
poi sopra un cerro a lato al suo Nardino,
ch’anco in pena vivea, lasciollo appeso.
L’altra mattina il più dritto camino
avendo verso il mezzogiorno preso,
si vide una gran gente di lontano
calar d’un monte ov’era un largo piano.

139Parte a piede venian, parte a destriero,
ma vistosi costor subito dui
d’essi, spronando ogni un presto e leggiero,
volsero al dritto sempre il corso a nui;
io, vistogli venir, dentro al pensiero
tra la speme e il timor sospesa fui,
finch’essi giunti a noi chieser per quella
strada s’era passata una donzella.

140Ma conosciuti da Macrina intanto,
fattasi quella innanzi: – Eccovi, ch’io
son qui – lor disse, – e tutto speso in pianto
ho dopo il partir vostro il tempo mio;
questa pallida faccia e questo manto
pon chiaro indizio darvi che desio
d’esser morta via più che d’esser viva,
d’ogni mio ben, d’ogni mia speme priva -.

141Saper devete insomma che costoro
venner con Macro, e quando partir Festo
fe’ co i soldati, e che rubò il tesoro,
fedeli per trovar rimedio a questo
corsero in Eribea subito a Floro,
per fargli il caso occorso manifesto;
Floro figlio d’Ingenuo, che mattina
e sera avea nel cor sempre Macrina.

142Inteso il giovenetto il gran periglio
de la sua donna, pien d’aspro dolore
pregò d’aiuto il padre e di consiglio,
tutto cambiato in viso di colore;
quel, ch’altro ben non ha che lui sol figlio,
gli diè mille soldati di valore,
ond’egli tosto ov’esser Macro intese
scorto da quei la via più dritta prese.

143Ma giunto a quel castello e ritrovato
da Materno e da i figli Macro ucciso,
de la donna cercando indarno andato
più giorni da se stesso era diviso.
Di Nardo udito poi, mesto e turbato
se ne venìa, dal duol tutto conquiso,
per timor che al fin giunta a l’empio in mano
fosse ogni sforzo, ogni rimedio vano.

144Ma trovatala poi dov’ebbe meno
di speme, viva almen, di ritrovarla,
nel cor di gioia e di letizia pieno,
senz’altro indugio corse ad abbracciarla;
poi sopra l’erba quivi al ciel sereno,
chiesta licenza pria, volse sposarla,
e tutto si chiamò per dote quello
che chiuso Macro avea dentro il castello.

145Sapendo che l’avrebbe e facilmente
con quei soldati scelti tosto in mano,
ché nel castello, essendo poca gente,
riuscirebbe ogni contrasto vano.
Volendo a ciò trovarmi anch’io presente,
che poco era il castel quindi lontano,
presi la strada in compagnia di Floro
co i miei, per gir là dove era il tesoro.

146Quando ecco da lontan per quel sentiero
che dritto un prato solo in due partiva,
con bianca sopravesta un cavaliero,
che a tutto corso in verso noi veniva,
giunto a Floro costui, giù del destriero
disceso, un ramo a quel porse d’oliva
dicendo: – A te, signor, mi manda Sura,
che del castello e del tesoro ha cura.

147Poi che Materno quasi in un momento
Macro uccise, e condusse via Macrina,
fosse o per forza o fosse a tradimento,
Sura più dì cercò la sua regina;
né la trovando si rimase intento
a salvar l’oro, acciò che a la meschina
tutto il rendesse tosto che di quella,
tardi o per tempo, udisse un dì novella.

148Ma per cosa poi certa avendo inteso
che in man di Nardo al fin giunta per sorte
co i figli seco ancor Materno preso,
tutti fur posti crudelmente a morte;
con l’animo restò dubbio e sospeso,
perché se ben la rocca alquanto è forte,
per difenderla seco ha poca gente,
e poco esperta e meno ubidiente.

149Talché in sospetto e sta sempre in timore
de i suoi propri soldati, e via più teme
di quei di dentro che di quei di fuore,
né di soccorso in alcun loco ha speme;
vegghia e tien l’arme in dosso a tutte l’ore,
ma questo più l’aggrava e più gli preme
che ognor ne l’oro, onde ogni ben deriva,
misero stenti e in gran disagio viva.

150Quando voi sète con la vostra schiera
passato del castel dietro a le mura,
tutto quel giorno e quella notte intera
si è stato in gran travaglio e in gran paura,
ché assai più temeraria fatta s’era
la squadra sua, più forse allor sicura
e minacciosa che, rotte le porte,
dentro voi chiamaria dando a lui morte.

151Pur salvo al fin con l’ottimo consiglio,
poi s’intese per bocca d’un corriero
ch’eravate voi Floro, unico figlio
d’Ingenuo, possessor di tanto impero;
onde per non star sempre in tal periglio
mandommi a voi, già fermo nel pensiero
non pura la rocca e l’or tutto ad un’ora
ma dar se stesso in poter vostro ancora -.

152Con gran piacer quel cavalier soldato
di Sura, fu dal gentil Floro udito,
quale accettò, con parlar saggio e grato,
di buona voglia sì cortese invito.
Soggiunse poi: – Sia Dio sempre lodato,
la cui somma pietà non ha patito
che sia Macrina, da i ladroni offesa,
per miracolo ognor da lui difesa -.

153A quel mostrolla poi, che conosciuta
mai non l’avrebbe a risguardar mill’anni,
poi che morta già l’avea tenuta,
oltra sì vili e sì negletti panni;
onde qual dea quivi dal ciel venuta
sol per ristoro de i sofferti affanni,
a i piedi suoi prostrato immantinente
umil tutto inchinolla e riverente.

154Poi tutti quanti in compagnia con loro
giunti al castel, di ricco vestimento
Macrina adorna, a lei diede il tesoro
Sura, di darlo a lei via più contento;
subito poi fu consegnato a Floro,
che per solenne e publico strumento,
presente il principal lor sacerdote,
con tutti noi se lo chiamò per dote.

155Macrina poi, magnanima e gentile,
scoprendo fuor l’interno alto diletto,
donommi un prezioso e bel monile,
che notte e dì porto nascoso al petto,
stimando ogni altro al par di questo vile,
e sempre sto di perderlo in sospetto:
scolpita d’Alessandro in quel l’altera
faccia si vede con sembianza vera.

156L’intaglio in gemma preziosa è raro
(da Pirgotele fatto) e cinto intorno
di ricche gemme, ond’è ragion che caro
l’abbia, sì vago essendo e tanto adorno;
de i Macriani il seme altero e chiaro,
per tutto ovunque adduce Apollo il giorno,
d’onorar sempre per suo proprio nume
l’alto figlio d’Ammonio ebbe costume.

157D’oro in vasi e d’argento e in gemme l’hanno
le donne come gli uomini scolpito.
Per quel Macrina grave scorno e danno
credea due volte già d’aver fuggito:
l’una fu quando a Macro empio tiranno
andò di violarla il pensier schernito,
poi l’altra allor che del serraglio uscita
da i due ladroni al fin salvò la vita.

158A lo spuntar del sol l’altra mattina
l’un da l’altro commiato avendo preso,
noi tutti e Sura, e Floro con Macrina
ciascun partissi al suo viaggio inteso;
fin che nel gir noi verso la marina,
sì come già più volte avete inteso,
ne la rete incappossi di Cimara,
ch’egli anco al fin gustò vivanda amara».

159Così narrò Vittoria, e queste cose
di saper molto al cavalier fur grate;
ma perch’essa molt’opre gloriose
fece, che per modestia avea lasciate,
acciò che non restassero nascose
fur da quegli altri a pien tutte narrate,
ch’ella non men che saggia ardita e forte
spesso lor tutti liberò da morte.