Argomento
Da Scauro con l’armata a l’improviso
assalito il guerrier, non pur difende
l’armata ma l’inimica prende;
resta Odenato a tradimento ucciso.
Dopo un’invocazione agli dei del mare l’armata parte (1-17)
1Devendo l’altro dì con sì gran gente
passar sopra l’armata il cavaliero
contra l’empio Sipario in Oriente,
che d’Augusto prigion sen giva altero,
Taurante publicò che la seguente
mattina ogni soldato, ogni nocchiero
si trovi a la sua insegna, a la sua nave,
pria che il sol nasca, sotto pena grave.
2Varro, di tutta Acaia allor prefetto,
d’alta amicizia col guerrier congiunto,
e seco avvinto d’obligo sì stretto
che non potea restarne unqua disgiunto,
saputo il venir suo, per questo effetto
d’alcun di prima in Epidauro giunto,
sol tutto essendo ad onorarlo volto,
con gran superbia ivi l’avea raccolto.
3E perché senza fin tesoro e senza
fin d’ogni qualità ricchezze avea,
cose fe’ che avanzaro ogni credenza,
bastante essendo a far ciò ch’ei volea,
e di far poco ancor stava in temenza,
mentre cose incredibili facea;
a l’oste, ch’era cinque mila diece
volte, le spese d’ogni cosa fece.
4Poi d’archi ogni un fornì, d’elmi e di spade,
di corazze e di scudi e di saette,
che intorno ivi da tutte le contrade
n’avea raccolte in copia e tutte elette;
poi di viver per gli uomini e di biade
per quei destrier ch’avean, lor diede sette
navi da peso grandi e trenta barche
d’orzo e di carne e di frumento carche.
5Quanto a Costante con Vittoria poi
d’onor facesse, e come Aureliano
trattasse e Claudio e tutti gli altri eroi,
fora ogni sforzo in raccontarlo vano,
quei duci che da i celti a i liti eoi,
per ricovrar l’imperatori romano
venian sopra l’armata, ebber non meno
d’onor ch’avesse il gran duce Sereno.
6Di veste e di destrier, d’armi e di lino
ciascun fornito fu bianco e sottile,
né fatto in ciò da barbaro a latino
fu differenza, né da Roma a Tile;
la sera poi con ordine divino
tutti gli accolse l’ospite gentile
a ricca e lauta e sontuosa cena,
di vari cibi e delicati piena.
7Mentre durò la cena, e poi che tolta
quindi la mensa fu, con suoni e canti,
di bianca vesta una fanciulla involta
e due fanciulli di purpurei manti,
con molta leggiadria, con grazia molta
del sole e de la luna e de le erranti
stelle fatto il sentier diverso chiaro,
con gran dolcezza al fin così cantaro:
8«O dèi ch’avete di servar le navi
cura mentre sen vanno a vela piena,
gli Africhi e gli Austri procellosi e gravi
che fan torbida ognor l’aria serena
volgete in dolci Zefiri e soavi,
talché l’onda nel mar risorga a pena;
gran pegno e gran deposito da noi
commesso v’è di tanti alteri eroi.
9Col capo, o gran Nettuno, esci tu fuori,
e teco appaia ogni benigna stella;
stian su l’antenna d’Elena i migliori
fratelli, e lunge stia l’empia sorella;
voi figlie omai de la spumosa Dori,
lasciati gli antri, or questa cosa or quella
facendo, sia da voi per tutto scorta
l’armata che gli eroi d’Esperia porta.
10L’una le vele or quinci o quindi pieghi,
d’alga rivolta la cerulea chioma;
l’altra a man giunte il re de’ venti prieghi
che non offenda il difensori di Roma,
ma che la turba più sfrenata leghi,
la cui superbia sia battuta e doma;
parte l’insegna in alto adatti e parte
acconci remi, antenne, arbori e sarte.
11Qui venga Forco, e venga con Tritone
Proteo, lasciato il marin gregge alquanto,
e con la matre venga Palemone,
posto avendo in oblio l’antico pianto;
chi il battel leghi e chi regga il timone,
questi da l’uno e quei da l’altro canto
sostengan con le mani e con le spalle
le navi, e scorgan sempre il dritto calle.
12Non men Glauco e Nereo, sendo presenti,
questo accorto a i nocchier faccia la spia
col piombo avvinto ad una corda, e tenti
dove nel fondo o rupe o scoglio sia,
l’ancore scioglia quel; sian tutti intenti
al loro officio, e nullo in ozio stia.
Salva, o Nettuno, fa’ che in tempo corto
giunga l’armata al desiato porto».
13Tacque, ciò detto, la fanciulla onesta;
poi quella e i due fanciulli un nuovo ballo
fecero, avendo ogni un di loro in testa
pien d’acqua un vaso sparto di cristallo,
né col piegarsi, o in quella parte o in questa,
ballando alcun di lor mai fece fallo
di rovesciarne in terra pur un poco;
sen giro a letto poi fornito il gioco.
14Ma tosto vista in ciel vaga scoprirsi
l’aurora, e seco il matutino lume,
termine a lor prescritto indi a partirsi,
tutti lasciaron l’oziose piume;
e già Costante l’augure suo, Tirsi,
chiamato, come avea sempre costume,
fece condur di pelo bianco un toro
di fiori adorno ambo le corna e d’oro.
15Poi l’essercito a ciò tutto presente
quel di vin sparto e tocco al lor cospetto,
con la destra un altar che la sua gente
fatto sul lito avean per questo effetto,
stando rivolto ognor verso Oriente,
percosse il toro, e con suo gran diletto
sul destro lato cadde in terra quello,
senza mugghiar, qual manifesto agnello.
16E le viscere in man da Tirsi tolte,
che di venti ore almeno era digiuno,
ne l’onde salse le attuffò tre volte,
e le trovò senza diffetto alcuno;
poi su le navi ascesi e quelle sciolte
dal lito, visti con piacer d’ogni uno
dodeci avoltoi sopra di loro
che in bocca tutti avean rami d’alloro.
17L’ottimo augurio visto, al ciel levando
le man devoto il cavalier latino,
per gran dolcezza disse, lacrimando:
«Grazie ti rendo, o Giove alto e divino,
poi che il medesmo ancor mostrarsi quando
Roma fondata fu dal gran Quirino».
E detto ciò tal grido verso il cielo
ciascun mandò che udillo e Creta e Melo.
Giunone sprona Aureolo a ribellarsi a Costante: questi appronta una grande armata e viene a giornata navale, ma è sconfitto, con grande guadagno di navi e uomini per Costante (18-101)
18Dunque Giunon, dentro al cui petto siede
contra il seme roman la rabbia antica,
or che sicura in Oriente vede
la gente andar che a lei tanto è nemica,
colma d’alto dolor chiaro s’avvede
che indarno spende ogni opra, ogni fatica;
si dispone però voler con nuova
maniera, far de le sue forze prova.
19Ma perché sa che fia del re de l’acque
senza profitto alcun subito esclusa,
cui tanto Citerea pur dianzi piacque,
che nel petto gli avea gran fiamma infusa,
di gir fermo pensier nel cor le nacque
dove Aureolo ancor stava in Scotusa,
pensando come impero acquisti e gloria,
gonfio e superbo per la gran vittoria.
20L’abito preso e la sembianza vera
del suo duce primier, Domiziano,
Giunon, senza voler più di Megera
l’aiuto, già da lei provato in vano,
dal sommo Olimpo andò subito ov’era
costui, che vinto avendo Macriano
tra se stesso pensoso tuttavia
stava aspirando a l’alta monarchia.
21Né risolversi ancor tra sé potea
qual fosse de gli due miglior partito,
o di gir tosto a Roma, ove intendea
starsi Galeno timido e smarrito,
over contra Epidauro, che sapea
ciò ch’era dopo il suo partir seguito;
Giunon gli giunse in questo dubbio inante
co i panni del suo duce e col sembiante,
22dicendo: «S’egli è in te, signor, desio
d’esser monarca del romano Impero,
l’occasion ti s’appresenta e Dio
ti scorge largo e facile sentiero;
tu segui adunque il buon consiglio mio,
ch’avendo per fido e per sincero
ne l’alte imprese tue sempre trovato,
tel vengo a dar, bench’io non sia chiamato.
23Sappi, o signor, (soggiunse) che opportuno
non è l’andar con l’oste a Roma adesso,
che di restar monarca avendo ogni uno
il medesmo pensier ne l’alma impresso,
tutti fian contra te, perché nessuno
vorrà che sia d’altrui Galeno oppresso;
ma chiamata la tua sendo perfidia,
d’ogni un t’irriterai contra l’invidia.
24Qui bisogna adoprar l’ingegno e l’arte,
ché più di te non levi alcun la testa,
cercando ognor d’opprimer quella parte
di cui la forza appar più manifesta;
Costante, che di Grecia ora si parte,
di gir mostrando per cagione onesta,
sappi che al farsi anch’ei monarca aspira
e questo è il suo dissegno e la sua mira.
25E gli succederà se in Oriente
condur salva potrà la galla armata,
e congiunger la sua con quella gente
che l’aspetta in Palmira apparecchiata;
convienti assalir questo arditamente,
c’hai più sicura e maggior d’esso armata;
benché in esser di numero maggiore
la vittoria non stia, ma nel valore.
26Quella da la concordia de i soldati
e da l’obedienza ancor depende:
Galli, Iberni, Britanni ragunati
Costante, e seco tanta impresa prende,
che inesperti son tutti e male armati,
né l’idioma l’un de l’altro intende;
e seguir d’una femina si sdegna
gran parte e d’uno adultero l’insegna.
27Ciascuna pensa tra sé come ritorno
far possa indietro, e tosto lasceranno
quei barbari fuggendo il primo giorno,
vista l’armata tua, solo il tiranno;
over ch’egli e Vittoria con gran scorno
primi a fuggir d’ogni altro ambi saranno,
sì come Antonio e Cleopatra in vece
di guerreggiar, ciascun pauroso fece.
28Fin che in mar sono e in fin che a lor vien data
potestà di fuggir, son freddi e lenti,
ma quando in Siria, lunge da l’armata,
saran congiunti con quell’altre genti,
e che la fuga lor poi sia negata,
vedransi più che fiamma in guerra ardenti,
scorgendo chiaro ch’ogni lor salute
fia sol riposta allor ne la virtute.
29Che d’Epidauro ancor facci l’impresa
non mi par, che se resti vincitore
e che Costante fia de la contesa
in Persia, ov’or sen va, superiore,
sarà di nuovo subito ripresa
da i suoi, ch’ogni un scolpito l’ha nel core;
ma tutta Europa in una sol giornata
fia tua se vincitor sei de l’armata».
30Così detto la dea, non si diffuse
più oltra, poi che star pensoso il vide;
ma di gloria desio maggior gli infuse
nel cor, come ancor già fece ad Alcide.
Quel, partita Giunon, solo si chiuse
ne la sua stanza, e scorte ognor sì fide
l’opre del duce suo gran pezzo volse;
quel consiglio fra sé poi si risolse.
31Si risolse, tardando ogni altra impresa,
con l’armata di gir contra Costante,
da cui non ebbe mai punto d’offesa,
anzi ognor gli era stato amico inante;
onde uscì fuori, e con la mente accesa,
d’animo assai cangiato e di sembiante,
Domizian chiamar fattosi tosto
gli disse quanto avea di far disposto.
32E di Giunon tal forza ebber le false
parole che a Cassandria immantinente
l’oste inviò, dove ne l’onde salse
più ch’altri armata avea grande e potente;
co i duci anch’ei quel giorno il destrier salse,
co i cavalierieri e con molt’altra gente;
e quivi giunti, e prospera e soave
l’aura spirando, entrò subito in nave.
33Tra la Beozia e tra l’Eubea con cento
navi tre volte a gir ciascun nocchiero
pronto si mosse avendo in poppa il vento,
né d’Aureolo alcun sapea il pensiero;
Domizian solo il sapea, che intento
sempre a servirlo, in un dolce e severo,
d’intorno or questo or quel solecitando
sen giva, ad esser quei forti essortando.
34Sciato a man sinistra e Pepareto
riman, Scopelo e Sciro più lontano,
Pelio, con Ossa, Iolco e Cicineto
corron veloci indietro a destra mano;
giunti a Calcide Aureolo il secreto,
con parlar grato e con sembiante umano,
a ciascun duce in guisa fe’ palese,
ch’ogni un d’alto desir di guerra accese.
35E giunti finalmente una mattina,
sendo alto il giorno e il ciel per tutto chiaro,
tra Melo e l’isoletta più vicina,
quivi come in aguato si fermaro;
Costante in tanto da sinistra Egina,
e da man destra insieme a paro a paro
lasciata indietro avendo già Trezene,
venìa lor proprio al dritto a vele piene.
36Ma su le gabbie, da chi stava in alto
già di lontan sendo il nemico scorto,
sicuro omai d’aver Costante assalto,
e che il termine ancor debba esser corto,
de la pretoria entrò tosto d’un salto,
giù nel battello, e come duce accorto
scorrendo ivi acconciò l’armata in guisa
ch’esser né rotta né potea divisa.
37Sapea nessun poterlo, eccetto Scauro,
con l’armata assalir, sì tosto almeno
ch’ei tolse a Macriano oltra il tesoro
le navi ch’eran nel termaico seno;
e seppe, fin quand’era in Epidauro,
ch’ei se n’andò correndo a sciolto freno
con l’essercito verso Potidea,
dove le navi apparecchiate avea.
38Sendo quel dunque Scauro, egli sapeva
che in terra e in acqua prattico era molto,
e che le navi più veloci aveva;
talché, ogni studio al suo vantaggio volto,
la pretoria fermò sì, che volgeva
prima d’ogni altra a gli inimici il volto;
sett’ordini di remi erano in questa,
ma non molto però leggiera o presta.
39Pose ogni gallo nel sinistro corno,
volti là dove in ciel prende Calisto;
risguarda il destro verso il mezzogiorno,
d’Iberni, di Britanni e d’altri misto;
e, perché n’abbian gli avversari scorno,
Costante accorto avea di far provisto
che in lungo equidistante ogni un di loco
s’allargasser più sempre a poco a poco.
40Talché più divenia, lo spazio ch’era
tra questo corno e quel, sempre maggiore;
quinci e quindi le navi in tal maniera
stavan co i rostri volti ogni una in fuore;
d’un triangolo poi per far l’intera
figura, Claudio, avendo seco il fiore
di Grecia, indietro da costor rimase,
e fece a quel triangolo la base.
41Fu, dopo i Greci, ogni destrier disposto
che molti nel partir n’avean levati;
egualmente quei legni, ogni un discosto
da i primi, con le funi eran tirati.
Sereno poi ne l’ultimo fu posto
co i suoi romani, ch’eran tutti armati;
e questa schiera, più de l’altra grande,
più fuori uscia da tutte due le bande.
42L’armata essendo in tal maniera istrutta,
d’esser divisa non avea più tema,
solida e ferma in ogni parte tutta,
ma più d’ogni altra ne la parte estrema;
poi che in tal guisa quella ebbe ridutta
Costante, se n’andò ne la suprema
nave, con l’altre in tal modo congiunta
che facea del triangolo la punta.
43Vittoria stava in questa e Cataledo,
Vasconio il fido e il forte Aureliano,
l’arco e gli strali avea quivi Langedo,
ch’ei mai non scocca e non avventa in vano;
gli altri, armati chi d’asta e chi di spiedo,
chi tenea la lancia o spada o dardo in mano,
di tutte le sue genti avendo tolto
Costante il fior l’avea quivi raccolto.
44Scauro e Domizian veduto intanto
gli avversari venir, lor si accostaro,
e fattisi vicini a quei già tanto
che de l’armata l’ordine miraro,
poi che, non senza meraviglia, alquanto
considerando quei fermi restaro,
le navi loro essi acconciaro ancora
che a i nemici volgean tutte la prora.
45Con due parti poi Scauro, e seco Adorno,
suo duce esperto, volti a destra mano,
non senz’arte ordinò che il destro corno
si dilattasse in lungo ognor pian piano,
come devesser circondar d’intorno
la stretta armata del guerrier romano,
Domizian la terza parte tolse,
e verso il mezzodì ratto si volse.
46Costante intanto al suo viaggio intento,
nel cor standogli fisso Augusto ognora,
sen gìa veloce avendo in poppa il vento
dritto a l’Issico sen volta la prora;
ma quei scontrati, colmi d’ardimento,
per tempo un giorno al nascer de l’aurora,
gli assalse audace anch’ei, visto in quel loco
tener le navi di larghezza poco.
47Sendo angusta l’armata di larghezza
l’assalse il pio Costante, ond’ecco tosto,
come Scauro ordinò, con gran prestezza
gli avversari fuggir tutti discosto.
Scauro quella union, quella fermezza
de gli inimici di spezzar disposto,
commise a i duci suoi con somma cura
che mostrasser fuggendo aver paura.
48Galli, Iberni e Britanni arditamente
tosto che quei d’Aureolo fuggiro,
volenterosi, troppo immantinente,
con impeto, veloci gli seguiro;
perciò da Claudio e da la greca gente
che la base facea, si disuniro;
talché i Romani ch’eran seco a paro,
gran spazio indietro ancor quivi lasciaro.
49Scauro, sì come avea prima ordinato,
tanto oltra visto i barbari condutti
quanto gli era bastante, il segno dato
subito a i suoi, si rivoltaron tutti,
e in un momento e dietro e da ogni lato
contra chi prima gli seguia ridutti;
e, mostrandosi ogni un destro e feroce,
incominciossi una battaglia atroce.
50Mentre col destro e col sinistro corno
Scauro fa sanguinosa aspra battaglia,
tosto fa gir con cento navi Adorno,
prudente e cauto, acciò che i Greci assaglia;
Domizian, che verso il mezzogiorno
di numero di navi Adorno agguaglia,
girò destro e leggier per l’onde salse
talché i romani a l’improviso assalse.
51In tre diversi lochi, ogni un lontano
da l’altro, fansi tre battaglie gravi:
Adorno con gran cor, forte di mano,
di Grecia ardito va contra le navi;
contra i Latini va Domiziano,
cui solo par che il troppo indugio aggravi;
Scauro va contra i barbari feroci,
talché fin sopra il ciel s’odon le voci.
52Ne l’aver piè veloci e più leggieri
legni, e maggior nel governargli l’arte
più vaglion quei di Scauro, e i suoi nocchieri
maneggian meglio remi, antenne e sarte;
ma son quei di Costante assai più feri,
e meglio esperiti nel mestier di Marte;
tanto più che già i corvi hanno e gli uncini
gettati, a fronte standosi e vicini.
53Costante in guisa i legni stretti serra
e fa co i remi o in altro modo ponte
che non battaglia in mar ma fatta in terra
sembra, e i guerrier tutti si stanno a fronte;
quel sol conflitto dà tutta la guerra
perduta o vinta, onde con forze pronte,
conoscendol ciascuno ardito e forte,
pensando al vincer sol sprezza la morte.
54Gran pezzo la battaglia fu dubbiosa,
senza che qua né là fosse vantaggio;
ma sì provide accorto ad ogni cosa
di par sempre Costante, ardito e saggio,
che n’acquistò vittoria gloriosa,
e ben che Scauro anch’ei forza e coraggio
mostrasse, al fin però ceder convenne
cosa che infino allor mai non gli avvenne.
55L’armata sua, mentre a la fuga intende,
e che seguendo con vittrice mano
Costante or questa, or quella nave prende,
commette al forte duce Aureliano
che dove Adorno vincitor contende
veloce vada, poco indi lontano,
e che soccorra Claudio e ciascun greco,
guidando i Galli a questo effetto seco.
56Non pur fu salutifero il consiglio
ma necessario ancor, poi che trovaro
l’armata greca posta in tal periglio
che a pena i Galli a tempo anco arrivaro;
visto soprastar tanto periglio
le corde immantinente andar lasciaro,
le corde onde tiravano i destrieri,
e si mostràr tutti animosi e feri.
57Ma tanto esperti quegli eran d’Adorno
del mar ne le battaglie, e destri tanto
nel finger di fuggir, nel far ritorno,
che riportaron de la pugna il vanto;
e maggior danno i Greci avrian quel giorno
sofferto ancor se, da Costante in tanto
mandato, Aurelian non fosse giunto
mentre n’avean maggior bisogno a punto.
58Ripreso i Greci adunque animo e forza
per l’improviso e non sperato aiuto,
ciascun di ricovrar pronto si sforza
l’onor che lor parea d’aver perduto;
l’ardor che Adorno pria mostrò s’ammorza,
vistosi contra Aurelian venuto,
e poi che un pezzo indarno si difese,
con gran celerità la fuga prese.
59Fuggito essendo Adorno, Aureliano
con Claudio e i Galli e i Greci, e con due volte
cento navi assalì Domiziano,
che già le forze sue tutte raccolte
contra Sereno e contra ogni romano,
tre navi a viva forza avea lor tolte;
ma da ogni parte già sendo assalito,
da la fortuna si trovò schernito.
60Da quella si trovò schernito in guisa
che in vece d’acquistar l’intera palma
sendogli del fuggir la via precisa,
quasi lasciò nel fier conflitto l’alma:
visto la nave sua rotta e divisa,
gettossi a nuoto, e l’una e l’altra palma
battendo salir volse un’altra nave,
ma non poté, ferito e d’armi grave.
61Veduto quel nuotar ne l’onde un Gallo
d’appresso un dardo gli avventò pien d’ira,
ma tanto s’affrettò che fece fallo,
né colse il colpo ove affissò la mira,
tosto un altro ferì senza intervallo,
mentre il misero stanco a pena spira;
che allor morisse al gran Rettor non piacque,
ma ben del sangue suo fe’ rosse l’acque.
62Gridando Aureliano e Claudio intanto
«Ferma!, ferma!, non sia di vita privo»,
s’affaticaron con gran studio intanto,
che pur fu preso essendo a pena vinto;
tutte già l’armi rosse e rosso il manto
da tre piaghe spargea di sangue un rivo,
con diligenza medicato e tosto
sopra un letto a posar fu quivi posto.
63Quei di Domiziano arditi e forti
l’un più de l’altro allor si dimostraro,
ma lor non valse, ché feriti o morti
la maggior parte al fin quivi restaro.
Sereno intanto e gli altri duci accorti,
tornati al pio Costante, il ritrovaro
con ogni sforzo a prender Scauro inteso,
colmo di sdegno e di giust’ira acceso.
64Quel sopra un legno stava in cui sei cento
remi battean senza riposo l’onda,
spiegando altero l’ampie vele al vento
allor che in poppa avea l’aura seconda;
mille soldati, ogni un pien d’ardimento,
in prora e in poppa, e in questa e in quella sponda
stavan con mente sì ferma e sicura
che di tre tanto non avean paura.
65Costante co i Britanni e con quei tutti
che tra l’Esperia, tra Boote e l’Orse
da quell’isole seco avea condutti
gli era d’intorno e l’avria preso forse;
ma co’ suoi che in sicuro avea ridutti
fuggendo, Adorno subito il soccorse,
onde a Costante riuscì l’impresa
difficil molto, e dubbia la contesa.
66Ma giunto Claudio e giunto Aureliano,
Sereno e tanti duci altri e guerrieri,
che di consiglio accorti e che di mano
tutti eran pronti, e ne i perigli feri,
ripresa forza il gran guerrier romano,
Adorno e Scauro, che pur dianzi alteri
d’aver lui ne le man tosto pensaro
ristretti già condizion mutaro.
67Quel che il nemico avea di prender speme
e quel che d’esser preso avea timore
stato e condizion mutano insieme,
giunti tanti guerrier d’alto valore:
di restar preso Scauro adesso teme,
spera Costante d’acquistar l’onore,
talché per vincer l’un l’arte e la forza
vi mette, e l’altro di fuggir si sforza.
68La maggior pugna e il più crudel conflitto,
mentre s’andaron con tal rabbia addosso
mai non si vide, né si trova scritto;
di sangue il mar d’intorno era già rosso.
De l’alto legno ov’era Scauro, al dritto
per gir Seren veloce ecco già mosso,
con tutti quei gran duci, et avean seco
l’essercito romano e il gallo e il greco.
69Le trombe quinci e quindi orribilmente
su nel ciel alto e giù nel mar profondo
mandando il suon, smarrito immantinente
fuggì Triton giù nel più cavo fondo;
non si ricorda questa o quella gente
che in mar combatta, ma ciascun secondo
c’ha fisso l’occhio va leggier, né vede
per la gran fretta ov’egli ponga il piede.
70Talché già dentro a l’onde cadean molti
de i barbari, de i Greci e de i Romani,
che poi per l’ampio mar le teste e i volti
mostrar vedeansi, e sol batter le mani;
più che grandine ancor gli strali folti,
che pochi de i lor colpi erano vani,
e che facean di chiaro oscuro il giorno,
coprian già tutto il mar quindi d’intorno.
71Ogni un che i remi adopra anelo e stanco
s’affretta sì che il mar percosso geme,
e divenuto già spumoso e bianco,
Dori, Vertuno e Melicerta teme.
Le navi ora per dritto, ora per fianco
s’urtano a viva forza e miste insieme;
stan ferme e, l’una già con l’altra strette,
poco adoprar si puon dardi e saette.
72Qui si richiede più di porre in opra
gli uncini e i corbi e le più corte spade;
nessun prezza lo scudo onde si copra,
c’ha di sé poco e men d’altrui pietade;
sì grande appar l’altera nave sopra
cui Scauro sta che infinito a quella etade
né duce né romano imperatore
condusse in guerra mai nave maggiore.
73Bench’abbia questa tanti remi e tante
vele, grave però tardi vien mossa.
Per sua difesa o danno ardito inante
ciascun fa qui l’estremo di sua possa;
cadendo al ciel qui molti alzan le piante,
qui più ch’altrove appar di sangue rossa
l’acqua, e di strida risonando l’onde
qui da i vicini scogli Eco risponde.
74Per la gran gente, molti che accostarsi
non puon fan sì con gli archi di lontano
ch’or questo or quello è udito lamentarsi,
chi traffitto nel piè, chi ne la mano;
nullo indarno può dir d’affaticarsi,
nullo avventa lo stral da lunge e in vano,
tanta insieme è la turba e folta e stretta
che in van cader non può strale o saetta.
75Mai dardo indarno non cadea né strale,
ma ben si vide un colpo sol più volte
essere a più d’un uom stato mortale,
così strette le genti eran raccolte.
Bisbigliando pian pian Panermo e Tale
le faccie appresso avean l’un l’altro volte,
quando avventò da lunge un stral Tieste
e insieme conficcò d’ambi le teste.
76Su la cocca lo stral posto Tirone,
Tiron già d’anni e di gran corpo grave,
la destra conficcò dentro al timone
ad un nocchier mentre reggea la nave;
subito l’arco teso anco Arione,
ch’esser vinto da quel par che gli aggrave,
l’altra man, che il nocchiero al timon porse,
traffisse, ond’ei di rabbia il legno morse.
77Su la prora un suo figlio essendo, tanto
gran doglia e gran pietà del padre il tocca
che grida e corre in un momento, e in tanto
lo stral di nuovo e l’uno e l’altro scocca,
e quel trovato per soverchio pianto
aperta sopra il padre aver la bocca,
nel palato in un punto ambi gli entraro
gli strali, e dente o lingua non toccaro.
78Visto sì gran ruina e sì gran danno
sopra i soldato suoi cader Costante,
per quei che in alto sopra i legni stanno
di Scauro, per timor fioco e tremante,
ch’ora un Gallo, ora un Greco, ora un Britanno
cadea traffitto a gli occhi suoi davante,
disperato facendo ogni un gran cose
d’usar rimedio tal pur si dispose.
79Seren, Vittoria, Claudio, Aureliano
chiamando e gli altri tal consiglio prese:
di Scauro la gran nave ch’avea Giano
per insegna, assalir con fiamme accese.
Ciascun vasi di creta adunque in mano
tolti pieni di foco il tempo attese,
poi quei gettaron sopra l’alto legno
tutti ad un tempo, avuto in prima il segno.
80Rotti restando in un momento diece
mila e più vasi, tosto e fiamma e foco,
sendo per tutto il legno unto di pece,
s’accese e si fe’ grande a poco a poco
e tal spavento diè, tal danno fece,
serpendo con gran furia in ciascun loco
che pochi eccetto che fuggiron, tutti
dal foco in cener fur gli altri ridutti.
81La fiamma si facea sempre maggiore
prendendo forza dal soffiar de’ venti,
molti che uscir credean del foco fuore,
ne l’acque rimanean, cadendo, spenti.
Di gran forza non men che di gran core
Scauro, per mezzo de le fiamme ardenti,
perduta già d’estinguerle ogni speme,
d’un salto andò sopra una sua trireme.
82Non men scampato sopra un’altra Adorno,
con ogni studio era ciascuno intento
per fuggir la iattura e il grave scorno
che rimanesse tanto incendio spento;
però leggieri or qua, or là d’intorno
scorrendo eran per tutto in un momento,
ma nulla il tanto affaticar riesce
ch’ognor la fiamma più s’innalza e cresce.
83Già l’arbore, già i remi e già le vele
tutte son arse, e già per tutto è pianto,
singulti e strida e lagrime e querele
s’odono e veggion sol per ogni canto;
chi disperato Iddio chiama crudele,
chi, genuflesso, quel benigno e santo;
chi stende al ciel le man, chi corre e fugge,
e chi per gran dolor qual fera rugge.
84Chi Marte, chi Nettuno e chi Vulcano
chiama umilmente, e chi devoto aita
chiede al Dio proprio de la nave Giano,
la cui figura in marmo era scolpita;
ma visto un Trace ogni rimedio vano,
già disperato di salvar la vita,
con la man destra il petto si traffisse,
con l’altra tolto il sangue, a Giano disse;
85verso la statua il barbaro rivolto
disse a Giano, porgendo il proprio sangue:
«Crudel, che indarno il patrocinio hai tolto
di tanta gente, che in miseria langue!
Resta omai sazio» e poi che quel nel volto
gli ebbe gettato, a i piè gli cadde essangue;
restando a Giano tinto orribilmente
quel volto ch’ei volgea verso Oriente.
86Tal disperazion, tal furor porse
questo sì nuovo e miserabil caso
ch’un altro Trace contra un Gallo corse,
che pieno avea di foco e d’esca un vaso,
e tra le braccia quel stretto gli morse
con rabbia tal gli occhi, le orecchie e il naso
che roso a l’improviso ivi lasciollo
tutta la faccia tra la fronte e il collo.
87Vistosi alcun già di morir costretto,
poi che al scampar nessun rimedio valse,
prima abbracciato un de i nemici stretto,
si lasciava cader ne l’onde salse,
e fatto essendo ciò tutto al cospetto
del pio Costante, in guisa gli ne calse
che a salvar sempre or questo, or quello attese,
e da le man de i suoi molti difese.
88Ma tanto disperati si mostraro
che proprio lor parea la morte un gioco,
e, più che d’esser presi, tutti caro
d’entrar ne l’onde avea, d’entrar nel foco;
ma poi che a lui Greci e Latini andaro
i barbari stimò Costante poco,
che Scauro in molta copia avea seguaci
Dardani, Misi, Geti, Illiri e Traci.
89Di salvar quei la cura a Claudio diede,
che, andando in compagnia d’Aureliano,
di porre in libertà desser la fede
ciascun che preso a lor si desse in mano,
lor promettendo ancor larga mercede
se a ricovrar l’imperator romano
seguissero Costante, che per molta
pietate avea sì bella impresa tolta.
90Facendo i due come a Costante piacque,
già quei d’Italia e già visto i Romani
che nel foco morir tutti o ne l’acque
gli converria, si dier ne le lor mani;
ma chi sommerso e chi abbrusciato giacque
sì da ragion quei barbari lontani,
poco se ne curaro Aureliano
e Claudio, visto affaticarsi in vano.
91Provato indarno ogni rimedio, Adorno
tra gli altri a Claudio anch’ei prigion si diede;
d’ogni più rara e nobil dote adorno
servò poi sempre al guerrier questo fede.
La gran città che incontro al mezzogiorno
nel ligustico mar superba siede,
costui produsse, e chiara in lei dimora
la stirpe sua fino a i dì nostri ancora.
92Scauro, benché roman, però non volse
darsi prigion, ma pien d’ira e di sdegno,
più che far non sapendo, il tempo colse,
e fuggì ratto sopra un picciol legno;
del suo fuggir Costante assai si dolse,
che di condurlo in Persia avea dissegno,
conoscendol guerrier d’alto valore,
prudente, accorto e d’animoso core.
93Di dar morte a Costante un Geta e un Miso
risoluti, ne l’onde ambi saltaro,
e il timon del suo legno, a l’improviso,
nuotando, per fermarlo in man pigliaro,
ma con un colpo sol d’ambi reciso
l’un braccio e l’altro, quattro man restaro
che il timon forte ancor stringean co i diti,
come se al corpo fosser stati uniti.
94Un dardo acuto poi tolto Arpodetto,
che avventato giamai non avea in vano
fino a quel punto, l’avventò nel petto,
fra tanti eroi, del gran guerrier romano;
ma, cadutogli a piè senz’altro effetto,
chinossi, e preso quel Costante in mano
nel petto irato al barbaro lanciollo,
e dietro in fino a gli omeri passollo.
95Ciascun per questo attonito e smarrito,
visto colui che tanto innanzi sorse,
perché, se ben quel colpo andò fallito,
non andarebbe quel d’un altro forse,
dunque ogni duce, ogni soldato unito,
che di Costante il gran periglio scorse,
posto il rispetto e la pietà da parte
contra i barbari usàr la forza e l’arte.
96Con ferro e foco fur tutte le navi
loro assalite impetuosamente;
alcun non è cui di quegli empi aggravi
di far tutti li strazi crudelmente;
quei che fur presi e poi venduti schiavi
a i Medi, a i Siri e in tutto l’Oriente
per vil prezzo, o di merci altre a baratto,
n’ebbero assai miglior d’ogni altro il patto.
97Parte fur arsi e parte si annegaro
nel mar, che da lor stessi disperati,
mentre il foco fuggian vi si gettaro,
potendo co i Romani esser salvati;
quei che a mal grado lor poi vi cascaro,
fosse o disgrazia o fossero sforzati,
contar non si potrian, né quanti o quali
morti con le spade fur, con dardi o strali.
98Quivi per tutto d’infelice gente
si vedea pieno il mar, che a nuoto in vano
per l’onde se ne gìa miseramente,
di navi rotte i pezzi avendo in mano,
contra cui, sol per gioco, unitamente
Latini e Galli e Greci di lontano,
come in bersaglio, con maniera nuova
facean chi meglio saettasse prova.
99Di tre battaglie in mar fatte in un giorno
fu questo il fin, che essendo ne la parte
d’Aureolo tre duci, esso con scorno
fuggì, né gli giovò la forza o l’arte;
si diede in man del pio Costante Adorno,
de la pretoria visto arbori e sarte,
remi, nocchier, soldati e gli altri tutti
dal foco in cener già quasi ridutti.
100De la terza battaglia il terzo duce,
Domizian, prudente, ardito e forte,
quasi restò di questa eterea luce
privo, e quasi arrivò quel giorno a morte;
ma quel che ogni un conserva, ogni un produce,
salvollo, e benché poi fossero corte
l’ore sue, pur fe’ tanto in tempo breve
che l’Impero a lui molto e Roma deve.
101Diece navi di quelle di Costante
rimasero sommerse solamente,
de le contrarie sette volte tante
menò Scauro fuggendo in Occidente,
che salvo, poi che andò più giorni errante,
giunse a Lisbona, ma con poca gente;
tutte fur l’altre da Costante prese,
eccetto alcune che restaro accese.
Dopo un mese di riposo l’armata passa in Asia, viene raggiunta dalla notizia della morte di Odenato, consorte di Zenobia (102-164)
102Con cinquecento navi adunque altero,
e con settanta e più mila persona
da guerra, seguì pronto il suo sentiero
Costante, spinto da l’antico sprone,
che di Roma riabbia il giusto impero
Valeriano, in Persia allor prigione;
e tutti nel passar con mente lieta,
cinque o sei giorni si fermaro in Creta.
103Dove ristoro ciascun d’essi prese
del tanto affaticar ne la battaglia,
e i feriti a curar quivi si attese,
perché ciascun più tosto si convaglia;
quivi l’armata in somma per un mese
di grano e d’ogni sorte vettovaglia
forniro, ancor che in tempo assai più corto
d’esser si speri a Miriandro in porto.
104Di Creta le città se gli mostraro
grate di fatti e grate di sembiante,
sapendo che a Zenobia saria caro
ciò che in servizio fesser di Costante;
con Zefiro poi quindi se n’andaro,
ch’ebbero in poppa ognor, verso Levante,
e in Cipro e in Asia fur per tutto accolti,
con ricchi doni e con benigni volti.
105Giunsero salvi a Miriandro senza
contrasto, prima assai del lor dissegno,
ma ritrovaron fuor d’ogni credenza
di dolor, di mestizia in tutti segno;
per far lor grata e nobile accoglienza,
ciascun più ricco e principal del regno
mandato avea Zenobia a questo effetto,
ma tutti eran turbati ne l’aspetto.
106Turbati ne l’aspetto e con la vesta
lugubre, incontro lor venian pian piano.
Costante «Ohimè,» gridò «che cosa è questa?»
quando venir gli scorse da lontano;
gli andò, vista la pompa esser funesta,
l’animo al suo signor Valeriano,
ma poi subito intese ch’era stato
da Meonio crudel morto Odenato.
107Diede a Costante gran dolor la morte
del suo diletto e suo verace amico,
sì saggio imperator, guerrier sì forte
ch’ugual può farsi a qual si voglia antico,
e giurò con Vittoria sua consorte
d’esser mai sempre al traditor nemico,
fin che di tanta sua perfidia e rabbia
tardi o per tempo vendicato s’abbia.
108Tra quei che ad incontrar venner Costante
più d’ogni altro era Argeo languido e smorto;
quel che a cercarlo andò più giorni errante,
fin che trovollo a Populonio in porto;
sopra un legno leggier questo in Levante
tornò fin da principio, in tempo corto,
con nuova che Costante in Siria tosto
d’arrivar con l’armata era disposto.
109Costante, che di far si persuase
gran cose in compagnia d’eroe sì degno,
fondando come in ferma e salda base
sopra Odenato l’ampio suo dissegno,
trovatol morto, attonito rimase,
di fondamento privo e di sostegno,
e confortar volendo Argeo, nel core
sentiasi aver di lui doglia maggiore.
110Ma pur voltosi a quel disse: «Poi
che così piacque al sommo eterno Iddio,
conviensi ancor che così piaccia a noi;
posto da parte ogni terren desio,
ben certi siam che fra i più degni eroi,
schernendo il mondo scelerato e rio,
quel goda in Ciel, mercé de l’infinita
sua virtù, vera e sempiterna vita.
111Ma non fia già ch’io non mi meravigli
ch’un principe sì grande e sì potente,
la cui gran forza e i cui saggi consigli
tenean d’Esperia a segno e l’Oriente,
padre di tanti e sì onorati figli
sia caduto per man di sì vil gente,
d’imperial diadema il capo adorno,
con tanti armati ch’egli avea d’intorno».
112Rispose allora Argeo: «Sappi, o signore,
che da nessun giamai saria creduto
quanto Meonio, il falso traditore,
sia più d’ogni altro stato sempre astuto:
tutto contrario a quanto serba in core
col parlar mostra, e bench’io conosciuto
l’abbia, come altra volta io vi contai,
nol conobbe il mio re però giamai.
113Manco a la mia regina mai fur note
l’arti del traditor come son ora,
che far provision non se gli puote,
sendo priva di ben, di speme fuora;
rivolto a me quel, già smorto le gote,
– Sul fior de gli anni miei convien ch’io mora, –
disse – ma spero che la mia consorte
farà vendetta di sì acerba morte -.
114Ma perché dal principio al fin sappiate
di Meonio la fraude e il tradimento:
il mio signor, con quelle genti armate
si stava, ch’eran mille volte cento,
e quello inverno tutto e quella state
stette in Palmira ad aspettarvi intento,
che in Libia, come allor vi dissi, a posta
mandommi, e tal d’Ammonio ebbi risposta.
115Meonio, visto adunque ogni dissegno
suo vano, e d’essequirlo essergli tolto,
come quel che applicò sempre l’ingegno
al male, e sempre al mal l’animo ha volto,
pur pensando usurpar di Siria il regno,
con fallace parlar, con finto volto
fe’ sì che fu del misero Odenato
sopra ogni altro fedel sempre stimato.
116E perch’io fui che a Giove in Libia andai,
donde risposta a lui contraria s’ebbe,
e in Occidente poscia voi trovai,
cosa che al falso maggiormente increbbe,
non pur di me non si fidò giamai
ma l’odio contra me sempre in lui crebbe,
spesso indarno cercò di por nel petto
del mio signor de la mia fé sospetto.
117Co i Persi fatto quel nuovo trattato,
poi che del primo sì resto schernito,
condusse un giorno innanzi ad Odenato
un che dal campo lor parea fuggito;
la faccia in quattro lochi era segnato,
le man, le braccia e il petto era ferito,
talché versando in queste parti e in quelle
gran sangue, a pena avea fessa la pelle.
118Chi sia, chi l’abbia offeso e la cagione,
di pietà colmo, il mio signor gli chiese.
Colui rispose allor: «Con più persone
fatta gran preda avea nel tuo paese,
ma nel partirla poi contra ragione
un de i compagni miei troppo m’offese,
talché dinanzi al re costui citato
di percuoterlo fui quivi sforzato.
119Co i fatti prima e poi con le parole
provocatomi già contra il devere,
con quel furor di colera, che suole
spesso avanzar tutto l’uman potere,
presente il re di Persia e la sua prole
co i primi duci de l’armate schiere
diedi, alzando la man quanto si possa,
sul volto al mio avversario una percossa.
120Tratte le spade ogni un senza dimora,
mi corser dietro infin fuor de le porte,
gridando ad alta voce “Mora!, mora!”;
non so come io fuggissi allor la morte,
che de le mani lor scampassi fuora,
più tosto attribuir debbo a la sorte
che ad altro, forse Iddio, cui di me prese
pietà, me per miracolo difese.
121Già notte essendo, a voi fuggito sono,
perch’io non sia da chi mi cerca preso,
sperando in voi di ritrovar perdono
d’avervi in tanto e in ogni guisa offeso.
Tutto ne la man vostra oggi mi dono,
e se fui sempre a farvi danno inteso,
per ricompensa darvi spero in mano
Sipario, ancor pur ch’io ritorni sano -.
122Più cose allor soggiunse il traditore
Meonio, che colui dir non devea,
de la prudenza sua, del suo valore
quanto perduto il re di Persia avea;
e che bastava, avendo sì gran core
a far ciò tutto ch’egli promettea,
e che in Persia non pur quel conosciuto
ma che da tutti amato era e temuto.
123Creder gli fece, in somma, ch’era Artace
per la gran fama in tutta Siria noto,
e sì gran forza ebbe quel dir fallace
che Odenato per lui fe’ più di un voto;
né mai trovò riposo né mai pace,
d’ogni altra cura totalmente vuoto,
fin ch’ei non vide, con suo gran diletto,
de le ferite salvo uscir del letto.
124Del letto uscito questo Artace finto,
non riposò l’empio Meonio mai,
per dar, poi che Odenato fosse estinto
co i figli, a tutti noi gli estremi guai;
come da vera fede adunque spinto
ne lo spuntar de i matutini rai,
gli addimandò tre mila fanti un giorno
promesso a lui di far tosto ritorno.
125Le genti avute il rio Meonio tosto,
con quel non vero Artace immantinente,
fuor di Palmira andò poco discosto
tra il mezzogiorno al dritto e l’Oriente,
e come ordito in prima di nascosto
co i Persi avea, non lunge ad un torrente
de i lor trovati ancor tre mila fanti
morti o presi da lui fur tutti quanti.
126Tornò vittorioso e trionfante
Meonio, carco d’onorate spogli,
e disse, giunto al mio signor davante,
mostrando in vista aver nel cor gran doglie:
– Questo aspettar sì lungo in van Costante
la vittoria di man certa vi toglie,
e chi ve ne consiglia o nol comprende,
o più che al vostro al ben de i Persi attende.
127Già son più mesi che aspettiamo in vano
quel che giamai non è per venir forse;
questo vostro sì gran campion romano
perché aiuto a se stesso allor non porse?
ché da Roma fuggì tanto lontano?
perché da i Persi Augusto non soccorre?
Che di Sipario andar prigion lasciollo,
qual fera, avvinto di catena il collo.
128A la più longa fra sei giorni o sette
contra de i Persi, per l’avuto sdegno,
cose maggiori Artace vi promette,
col saper, con la forza e con l’ingegno -.
L’infelice Odenato allor non stette
per gran piacer, che al cor gli nacque, al segno:
vuol che libero Artace e notte e giorno
a suo piacer gir possa e far ritorno.
129Talché Meonio, s’avea prima ordito
contra Odenato inganno e tradimento,
poi che non era più l’empio impedito
di far ciò che volea prese ardimento:
con diece mila cavalieri uscito
giunse, veloce andando più che il vento,
dove altrettanta gente da lui presa
senza contrasto fu, senza contesa.
130Mandò con fretta ad Odenato un messo
di così eroico fatto a dargli nuova;
la sera al tardi poi, quel giorno istesso,
giuns’egli, altero per sì nobil prova,
e il mio signor con la consorte appresso,
per gran letizia fatta usanza nuova,
ad incontrarlo andò, che in fino allora
non era uscito di Palmira ancora.
131Da poi che la risposta io gli portai
ch’ei non devesse uscir senza voi fuore,
non era uscito di Palmira mai,
come allor, per gir contra il traditore,
Giove nel ciel de i palmireni guai
prescritto avendo a punto i giorni e l’ore
come predisse Ammonio: a lui di morte
ciò fu cagion, tanto il destino è forte.
132Veduto il mio signor tanti prigioni
tutti onorati e nobili guerrieri,
d’Artace e di Meonio sol per buoni
prendea i consigli e i pessimi pensieri;
con certe colorate lor ragioni
quei lo disposer poi che volentieri
ripose in libertà tutti costoro
di poter gir ne le contrade loro.
133Ma ricusaron ciò, dicendo ch’era
pena in Persia la vita a quei soldati,
che si lascian pigliar ne la maniera
ch’essi fur presi, essendo in campo armati,
ma che tenuti a servir lui con vera
fede sarian di farlo apparecchiati;
Meonio esser ben fatto il persuase,
così ciascun nel campo suo rimase.
134Con queste genti appresso, più potente
fatto Meonio già tien ferma speme
d’esser monarca in breve d’Oriente,
né d’Odenato non che d’altri teme;
nel campo di Sipario la sua gente
come vuol manda a venti, a trenta insieme,
e notte e dì senza rispetto Artace
va innanzi e indietro, come far gli piace.
135Un giorno al mio signor – L’occasione –
disse – è venuta, onde al sicuro darte
Sipario posso in man vivo prigione,
con tutte le sue genti e rotte e sparte:
fra pochi giorni vuo’ con due corone
e di Persia e di Media coronarte;
tutti quei Persi ch’io prendei pur dianzi
sopra i destrieri ho già mandato innanzi.
136Costor vicini ov’egli alloggia andando
per far con gli occhi propri che il re veda
e campi e ville alteri saccheggiando,
e di biade e di buoi facendo preda,
han fatto sì che d’ira fulminando,
senza saper quel che di far si creda,
con poca gente egli medesmo in vano
gli segue, da l’essercito lontano.
137Quei, destri e accorti e pratichi del loco,
or fuggendo, or scorrendo a lui d’intorno
gli han fatto in guisa cautamente gioco
che, da i suoi più lontan di giorno in giorno,
dentr’una gran palude a poco a poco
è giunto, a tal che indietro far ritorno
né gir può innanzi, e senza modo alcuno
di vitto un giorno è già stato digiuno.
138Seco son venti mila cavalieri
lunge dal campo almen quattro giornate;
ne l’acqua e nel pantan stanno i destrieri
quasi sommersi, con le genti armate;
ma chi tardasse pur due giorni interi
giunger potria con gran velocitate
col campo Eumene, e quel ch’or tanto a noi
facil si mostra, far difficil poi.
139Con cinque mila cavalieri o sei,
ch’ogni un di loro in groppa un arcier pronti
di qua, di là quei Persi ch’io prendei,
nel mezzo gli torremmo arditi e forti,
talché senza contrasto alcuno i rei
saran da lunge con gli strali morti;
ma se per mio consiglio voi farete,
signor, presente a ciò vi troverete.
140Per me faria (soggiunse il traditore)
di girvi senza voi, che se presente
sarete vostro fia tutto l’onore,
tuta mia la fatica solamente;
ma perché a la grandezza vostra il core
sempre rivolgo, e l’animo e la mente,
come a servo fedel far si conviene,
dirovvi ognor quel ch’io giudico bene -.
141E tanto questo dir fallace pote
che, in persona Odenato a gir disposto,
la vittima e l’altar dal sacerdote
con gran prestezza in ordine fu posto;
ma trovate le fibre intorno vuote
di sangue, si smarrì l’augure tosto,
e rimase con mente trista et egra
vistone sanie uscir tabida e negra.
142Fegato, cor, polmon tutti conspersi
trovò di macchie e tumide le vene,
che da la parte stavano de i Persi
non d’atra sanie ma di sangue piene;
perciò i pareri fur vari e diversi,
pensando ogni un più tosto al mal che al bene;
ma troppo era il destin tenace e forte,
che Odenato guidò diritto a morte.
143Non si poté impedir che correr dritto
non volesse a la morte il mio signore,
per dubbio sol che non gli fosse ascritto
restando a viltà d’animo, a timore.
Tra gli altri allora io fui, miser, traffitto
d’invisibil coltel l’anima e il core,
quand’ei pregommi tanto in cortesia
di Zenobia a restar per compagnia.
144La cagion per cui volse ch’io restassi
e il modo, che potendo comandarmi,
come da i re, da i gran principi fassi,
degnossi con modestia di pregarmi,
fèr sì ch’io volsi indietro i passi,
e giù discesi dal destrier, ma l’armi
ch’aver mi ritrovai tutte d’intorno,
non mi volsi spogliar mai notte o giorno.
145Questo medesmo fe’ Zenobia ancora,
che in bocca sempre avendo il suo consorte
parea con tristo augurio d’ora in ora
ch’ella aspettasse il messo de la morte.
L’ottavo giorno, al nascer de l’aurora,
un camerier del re, spronando forte,
portò che essendo quel stato assalito
visto a morte l’avea giacer ferito.
146Dir non seppe altro quel, se non che in vece
d’aver Sipario in man preso e legato,
fu colto a l’improviso egli da diece
volte più genti in mezzo, e circondato;
e che il nostro signor gran prova fece,
ma che dinanzi e dietro a da ogni lato,
ferito ognor per dritto e per traverso
tutto di sangue al fin cadde cosperso.
147E che in tal guisa il suo signor veduto,
subito con gran doglia a lento morso,
senza mai prender posa era venuto
per far noto a Zenobia il caso occorso.
Quella, bench’esser tardo ogni aiuto
credesse, pur mi spinse a tutto corso,
scorto dal messo, con sei mila arcieri,
in groppa d’altrettanti cavalieri,
148e mentre quella, intrepida e costante,
benché afflitta, virile, audace e forte,
ciascun duce venir fattosi avante
raddoppiò guardie a rocche, a piazze, a porte.
Da colui scorto andai verso Levante
dov’era il campo, per le vie più corte,
battendomi per doglia sempre il core,
e riscontrai per strada il traditore.
149Meonio, come poi si è chiaro inteso,
che allor n’avea sol tema e sospetto,
verso Palmira sen venìa disteso,
visto il dissegno suo giunto ad effetto,
sperando, se Zenobia il caso inteso
non avess’anco, e fuor d’ogni sospetto,
trovandola oziosa, al primo tratto
d’impatronirsi d’ogni cosa affatto.
150Credea, senza contrasto avuto in mano
Zenobia e i figli tutti d’Odenato,
non molto il re di Persia indi lontano
chiamar, che per ciò stava intento armato;
ma ciò veduto riuscirgli vano,
e che a Palmira il nunzio era già stato,
finse che sol venìa per dir che Artace
s’era scoperto perfido e fallace.
151E che l’inganno doppio avendo usato,
fuor d’una selva a l’improviso uscito
l’empio Sipario, in mezzo d’un gran prato
l’essercito di Siria ave’assalito;
e che caduto e morto ivi Odenato
e ciascun altro or qua or là fuggito,
gran parte de l’essercito raccolto,
verso Zenobia in fretta s’era volto,
152per tema che Sipario de l’impresa
vincitor non venisse immantinente,
con speme d’occupar senza contesa
Palmira, e di trovarvi poca gente,
e quella poca, per la nuova intesa,
confusa e poco a i duci obediente,
ma che tornaria indietro poi che intera-
mente al bisogno già provisto s’era.
153E tornò meco là dove Aricorte,
duce del mio signor, l’avea difeso
con una schiera, valoroso e forte,
che da i barbari al fin non restò preso;
debil già lo trovai, vicino a morte,
che sopra il manto suo giacea disteso.
E, vistomi, prorotto in pianto, e fisse
le luci alquanto in me tenute, disse:
154- Argeo, non posso far, sendo nel fiore
de gli anni miei, che non m’incresca alquanto
d’uscir sì acerbo ancor di vita fuore,
lasciando a voi tanti nemici a canto;
ma poi che al sempiterno alto Fattore
piace così, lasciato indietro il pianto,
convien che il voler nostro si confaccia
col suo, né quanto piace a lui ci spiaccia.
155Torna in Palmira, o caro amico, in fretta,
e fa questa ambasciata a la mia moglie:
che de la morte mia faccia vendetta
non consumando li tempo in pianto e in doglie;
col gran campion di Roma, che s’aspetta,
cerchi pur d’acquistar trionfi e spoglie,
sia da te sempre, o caro Argeo, seguita -,
e così detto abbandonò la vita.
156Non s’udìr mai, poi che il mio re fu morto,
tanti sospir, tante querele o pianto;
tra gli altri il rio Meonio afflitto e smorto
mostrossi, e in volto addolorato tanto,
ch’aver parea grand’uopo di conforto
stracciandosi la barba e i crini e il manto.
Fu portato il cadavero in Palmira,
e posto sopra una superba pira.
157E mentre afflitta e intenta a lamentarsi
Zenobia stassi, e non ritrova pace,
col manto oscuro e co i capelli sparsi
chiamando il suo destin crudo e fallace,
quel traditor, pur dianzi che chiamarsi
fintamente facea da tutti Artace,
ritornò indietro, il misero, pentito
ch’abbia il suo re senza cagion tradito.
158E quivi, tutto il popolo presente,
mandando per dolor più d’un sospiro,
vicino al rogo già tutt’ora ardente,
palese fe’ ch’egli era Amantio Siro,
che stato era tra i Persi lungamente,
e quando quei contra i romani usciro,
nel campo lor già stato il settim’anno
fatto avea in Siria più d’ogni altro danno.
159Soggiunse poi, già visto ogni soldato
co i palmireni ad ascoltarlo intento,
che da Meonio in Siria fu chiamato
con premio, e spinto a far quel tradimento;
e che sol per Meonio era Odenato
rimaso in Persia con tal fraude spento,
mai non cessando ognor per vie secrete
fin ch’ei nol vide al fin colto a la rete.
160Poi, con man giunte al ciel, gli occhi levando,
disse: – Tardi, o signor, pentito sono,
però devotamente io ti domando,
per la bontà che in te regnò, perdono -.
Poi, con singulti spessi lagrimando,
– Ti fo – soggiunse – di quest’alma un dono,
purch’ella fuor del mio vil corpo uscita
render potesse a te sì nobil vita -.
161Così detto, e più lettre ivi gettate
d’intorno al rogo a quelle turbe folte,
da Meonio a lui scritte, a lui mandate
ne l’essercito perso in varie volte,
tutte a Zenobia fur quelle portate,
con diligenza da color raccolte;
così del traditor Meonio aperta
restò la fraude e tutta allor scoperta.
162Poi che ogni cosa Amantio fe’ palese,
de i soldati e del popol al cospetto,
sopra la pira a l’improviso ascese,
e, traffitto a se stesso in fretta il petto,
cader lasciossi ne le fiamme accese,
mostrando aver gran gioia e gran diletto
per penitenza del commesso errore
sopra il rogo abbrusciar del suo signore.
163La fraude aperta di Meonio intesa
Zenobia, poi che alquanto con diverso
pensier tra sé restò dubbia e sospesa,
mandò per far prigion tosto il perverso;
ma quei, la fuga a tempo avendo presa,
giunse veloce al campo del re perso,
donde con gente armata e notte e giorno
scorrendo va tutta la Siria intorno.
164Poi che tra sé la mia regina volse
più cose, ardita e con mente sicura
di por da parte il pianto si risolse,
del regno avendo e de’ suoi figli cura;
ma pria l’ira celeste placar volse,
talché di cor tutta contrita e pura,
nove giorni fe’ sempre il consueto
sacrificio nel tempio di Derceto».