Argomento
Contra ogni duce d’Asia, e persuaso
d’Almero, guida i suoi Costante a Iera,
dove già rotta ogni contraria schiera
d’un padre avviene e di due figli un caso.
Dopo aver raggiunto le sponde asiatiche Costante brucia la flotta, poi si raggiunge Zenobia a Palmira (1-21)
1Subito in Miriandro il guerrier giunto,
mandò a Zenobia Argeo correndo un messo,
come da lei nel dipartirsi a punto
con diligenza a far gli fu commesso;
poi, da religion vera compunto,
per voto avendo allor così promesso
che al mar se stesso e tanti eroi commise,
cento buoi di sua man Costante uccise.
2E senza duce ancor sendo i Roman
che già fuggito Scauro lui seguiro,
tribuni a questi, alfieri e capitani
diede, che a l’altro essercito gli uniro,
e perché riuscir veggia ogni un vani
de la fuga i pensier, tosto che usciro
le ciurme in terra, fece ogni loco
por de l’armata a l’improviso foco.
3E mentre de l’essercito al cospetto
nel porto l’alte fiamme erano scorte,
disse il guerrier: «Viltà fuor del suo petto
convien che ogni un discacci ardito e forte,
d’acquistar qui vittoria al fin costretto
s’aver da i Persi non vorria la morte;
ciascun già vede che apportar salute
la fuga non gli può ma la virtute».
4Poi che l’armata in breve da l’acceso
foco fu consumata in mezzo l’acque,
che barche sol da merci e da gran peso,
per bisogno, al guerrier di salvar piacque,
tutto al viaggio di Palmira inteso
la notte mai non riposò né giacque,
per far che a l’alba in ordinanza tutta
sotto l’insegne fosse l’oste istrutta.
5E d’ogni suo bisogno interamente
poi che fornita già l’ebbe veduta,
lasciatone la cura al diligente
Sereno, e nuova intanto avendo avuta
che ad incontrarlo uscir devea gran gente,
e che in Palmira per la sua venuta
era Zenobia intenta a far gran cose,
di gir correndo in fretta si dispose,
6di prevenirla già tra sé disposto;
e con Vittoria e co i Roman guerrieri
ciò conferito, ritrovar fe’ tosto
per gir correndo a lei diece destrieri,
e perché al fido Argeo non sia nascosto
l’animo lor qual fosse e i lor pensieri,
quanto conchiuso avean gli fèr palese:
cosa che assai turbollo, assai l’offese.
7E tutto a far sì ch’ei non vada intento
con grande istanza voltosi a pregarlo,
da quel già fermo suo proponimento
non fu possibil mai poter ritrarlo;
ma sul destrier salito in un momento,
deliberossi Argeo d’accompagnarlo;
così Vittoria, Claudio, Aureliano
pronti seguiro il gran guerrier romano.
8Per lor servigio tutti (ch’eran diece
tanti eroi) solo avean Ieron liberto;
Argeo supplì fino a Palmira in vece
di scorta, che il camin molto è deserto.
Quel viaggio in tre dì Costante fece,
e giunto il tutto già trovò coperto
dal palagio regal pomposamente
fino a la porta ch’esce a l’Occidente.
9Determinato avea Zenobia ancora
che i capitani e i duci de i soldati
gli uscisser contra una giornata fuora,
su la porta aspettando i magistrati,
e che al passar nel tempio de l’aurora
da i sacerdoti già quivi adunati
con pompa grande fosse in mezzo accolto,
ciascun di mitra e d’aurea stola involto.
10Molte altre cose avea quella ordinate
di gran superbia e d’infinita spesa,
che per l’adietro mai non fur pensate,
sendo ognor tutta ad onorarlo intesa;
sapea che per camin diece giornate
dovea almen star, venendo a la distesa
(né riposando ancor la notte tutta),
per la gran gente ch’egli avea condutta.
11Ma fuor d’ogni credenza sua Costante
giunto a l’improviso, ruppe ogni dissegno:
corse a Zenobia Argeo d’ogni altro inante,
temendo in lei non ritrovar disdegno;
ma depose il timor visto il sembiante
che d’alterarsi pur non mostrò segno,
e tosto uscita fuor de l’ampie sale
scontrò Costante che salia le scale.
12Chi de l’alta regina e del romano
guerrier direbbe le accoglienze a pieno?
Costante a quella di basciar la mano
si sforza, e la regina a lui non meno,
ma l’uno e l’altro si affatica in vano,
di vero affetto e l’uno e l’altro pieno,
cortesi furo in atti ed in parole,
mentre a l’un l’altro in ciò ceder non vole.
13Quel sì gentil contrasto e sì cortese
poi ch’ebbe tra Zenobia e il guerrier fine,
ritornò a farsi tra quell’alme accese
d’alta virtù, tra quelle due regine,
che insieme a braccio finalmente prese,
con gravità leggiadre e pellegrine,
seco avendo Costante sempre a paro
l’ampie scale salite in sala entraro.
14Dove sopr’alti seggi i chiari eroi
ascesi, ogni un d’oscuro drappo involto,
con la regina de gli affanni suoi
il pio Costante si condolse molto;
poi disse in breve: «A Dio prometto e a voi,
se di goder non m’ quest’aura tolto,
di farne tal vendetta e tanto atroce
che il mondo tutto n’udirà la voce».
15Con giuramento ancor Vittoria tosto
questo affermò, così ciascun di loro;
cui da Zenobia afflitta fu risposto
cortesemente e con regal decoro
che il trovar tanto ogni un pronto e disposto
molto a la doglia sua porgea ristoro,
e che rendea lor grazie di sì aperta
lor buona mente e di sì gran proferta.
16Poi disse, dopo alcun breve discorso:
«Facil sarà che sia colto a la rete
Meonio, spesso contra noi già scorso,
ché le sue trame più non son secrete;
ma perch’io so che per sì lungo corso
bisogno tutti di ristoro avrete,
per far provision dov’è periglio
diman sarem di nuovo a far consiglio».
17E giù dal seggio, detto ciò, discesa,
così fèr gli altri, e subito per mano
cortesemente la compagna presa,
volse a par sempre il gran guerrier romano,
perché, d’Ammonio la risposta intesa,
lo giudicava più divin che umano;
dunque perché posar potesser tutti,
furo a le stanze lor da lei condutti.
18Quivi da duci e principi serviti
con diligenza, e da più ricchi manti
però lugubri subito vestiti,
non pur quei primi fur ma tutti quanti.
Poi d’un giardin sopra una loggia usciti
di Zenobia i due figli, ancora infanti,
Timolao l’uno e l’altro Erenniano,
portati furo al cavalier romano.
19Non fur prima né poi di quella etade
visti fanciulli di sì bel sembiante;
destossi tosto in quegli eroi pietade
che arrivàr loro in tal maniera inante;
Vittoria, presa da sì gran beltade,
gli tolse in braccio, e così fe’ Costante,
e l’uno e l’altro gli basciò con molto
piacer via più di mille volte in volto.
20Questo ogni altro ancor fe’ con infinita
dolcezza, e finalmente Aureliano,
stando chino a basciar la colorita
faccia del maggior d’essi, Erenniano,
la spada fuor del fodro a caso uscita
ferillo alquanto ne la destra mano;
cominciò quel con strida a lamentarsi
piangendo, e molti dì stette a sanarsi.
21Ma da lo scalco poi sendo lor detto
che il tempo già di cena era passato,
Costante domandò con molto affetto
d’Erode, il maggior figlio d’Odenato;
e fatto consapevole che in letto
giacea, del corpo infermo e sconsolato,
pria che cenasse visitar lo volse
cortesemente, e seco si condolse.
Rassegna dell’esercito di Zenobia, cui segue quello di Costante e i generali (22-59,2)
22L’altra mattina, in publico il guerriero
comparso, i duci tutti e i capitani
de l’essercito, ogni un vestito a nero,
con riverenza gli basciàr le mani;
de i magistrati poi l’ordine intero
fece non men, da cui poco lontani
d’abito sacro adorni, ecco devoti
seguir con maggior pompa i sacerdoti.
23Costante, con parar cortese e grato,
fatta di se medesmo a tutti offerta,
pregò che si devesse ogni soldato
l’altro giorno (e prescrisse l’ora certa)
appresentar fuor di Palmira armato,
vers’Austro, ov’era gran pianura aperta;
chi non si trova piastra o maglia vada
provisto almen di un’asta e d’una spada.
24E questo acciò che mentre a lor Sereno
con l’essercito vien, quei diece giorni
ch’ei tardarìa, più tosto, più che meno,
ne l’ozio inutilmente non soggiorni.
Come ordinato gli avea dunque a pieno,
prima di ricche vesti i duci adorni
comparver con gran pompa, ancor che ogni uno
scoprisse il chiuso duol con vestir bruno.
25Dinanzi al guerrier questi appresentati
ciascun avea lasciato un capitano,
che in lor vece con ordine i soldati
guidava, e già venian tutti pian piano;
ma poi che insieme fur quivi adunati,
fatto lor cenno il cavalier romano,
primier Tifarte, duce ardito e pronto,
mostrò quei di Bitinia e quei di Ponto.
26D’oro un aratro avea ne lo stendardo,
e, del suo natural color depinti,
tiravan quel del pari un bove e un pardo,
sotto il medesmo giogo insieme avvinti;
seguia poi Battro, cavalier vegliardo,
co i Gallogreci, rare volte vinti.
Quei di Tifarte sette mila, e quattro
sol ma più feri questi eran di Battro.
27Di costui ne l’insegna si vedea
d’aureo monile un cervo il collo adorno
che rotto un laccio che al piè manco avea,
gli avvinse un altro laccio il destro corno.
Tarno ecco poi, che i Frigi conducea,
quasi rinchiusi da tre fiumi intorno:
sei mila sono e porta il duce un bianco
tauro traffitto di saetta il fianco.
28Con la bilancia poi rotta Mirleo,
e con tre mila Misi armati viene,
che tra il fiume Caico e il mare Egeo
nacquero parte, e parte in Mitilene.
Porta una man col braccio d’oro Anteo,
che la falce e le spiche insieme tiene;
d’aver morte o vittoria Anteo già fermo,
colse altrettanti tra il Caico e l’Ermo.
29Sei mila Cari poi guidava Oronte,
del gran seme di Mausolo disceso;
ne l’alta insegna sua vedeasi un monte
di vive fiamme d’ogn’intorno acceso.
Con quei poi di Panfila ecco Ermofonte
venir superbo, a la vittoria inteso;
sono altrettanti, e il duce un guffo porta,
che stringe un serpe fier tra l’unghia torta.
30Quattro migliaia i Cappadoci sono,
ciascun malvagio e di perfidia pieno;
Varise il duce sembra al parlar buono
ma dentro al petto sol chiude veneno;
due destrieri, che l’uno in abbandono
correndo rotto ha via gettato il freno,
l’altro una rota senza fren conduce
pian pin d’intorno, spiega in aria il duce.
31Tre mila Paflagoni ecco Farnace
condur, Farnace che in Amasia nacque;
costui ne lo stendardo avea una face
che maggiormente s’accendea ne l’acque.
Di Licaonia il duce, a cui la pace
fu sempre in odio e sì la guerra piacque,
con quattro mila vien, chiamato Abbarro;
l’insegna è duo leon giunti ad un carro.
32Timante, il duce de i guerrier di Licia,
ne lo stendardo porta un sprone e un freno;
e Policarmo, c’ha quei di Fenicia,
un fulmine che vien dal ciel sereno;
Tamirro poi, rettor de la Cilicia,
spiega al vento un fanciul c’ha un aspe in seno;
ciascun tre mila armati in Persia mena,
perfida gente e d’ogni vizio piena.
33Sono altrettanti quei de la minore
Armenia, e Stasimirto il duce saggio
l’aquila porta c’ha nel becco un fiore,
e fisso il guardo tien nel febeo raggio.
Con quei di Cipro Panto alza un pastore
che dormendosi a piè d’un secco faggio
gli entra una serpe in bocca, e i suoi soldati
due mila son, tutti di ferro armati.
34Vengon poi quei di Siria: ecco Andrimarte
con sei mila guerrier d’alto ardimento.
L’insegna è piena di misterio e d’arte,
sì che ogni un trasse a riguardarla intento:
una nave che remi, antenne e sarte
rotte fra scogli, avea contrario il vento,
e col dito il nocchier mostrando il polo
con lettre d’or dicea: Spero in te solo.
35Un’altra nave poi, che a vele piene
dal vento spinta percotea uno scoglio,
con sei mila guerrier di Comagene
portava il fido Argeo pien di cordoglio.
Un fanciul ch’una serpe in gabbia tiene
di venen colma e di rabbioso orgoglio,
con altri tanti almen che de la Cava
Siria trasse, Aminandro illustre alzava.
36Tre mila ebrei di Palestina Ircano,
giovene ardito e forte conducea;
di costui l’alta insegna era una mano
ch’una già rotta spera ancor stringea.
Guidava Antipa, suo cugin germano,
quattro mila guerrier de l’Idumea,
di cui ne lo stendardo era depinta
da picciol vento una gran fiamma estinta.
37Di sei mila guerrier de la maggiore
Armenia Tiridate altero duce
tien per impresa un sol, cui lo splendore
gran nube offusca ond’ei più non riluce.
D’Arabia il duce Areta porta un core
la cui radice un bianco fior produce;
son quattro mila, e tutti gente eletta,
di quella Arabia che Felice è detta.
38Cinqu’altre ancor fra il Tigre e fra l’Eufrate
raccolte avendo, ivi conduce Ilerta;
due tortorelle di star chiuse usate
tien per insegna in una gabbia aperta,
con tal motto: L’amara libertate
che vien novellamente ad ambe offerta,
nuovo dolor n’apporta, e sol n’è grata
la solce servitù ch’abbiam provata.
39Questa, che al passar fu l’ultima schiera,
cento mila facea, né più né meno,
con ordine sì bel che in tutte v’era
la terza parte cavalieri almeno.
Dentro a Palmira ritornò la sera
d’infinito piacer Costante pieno,
visto sì bella e sì gran gente insieme
colmo tutto restò di nuova speme.
40Così Vittoria e così gli altri eroi
d’Esperia fèro, onde, a Zenobia volto,
ciascun si rallegrò de i duci suoi,
ch’avean sì bello essercito raccolto.
Ma l’undecimo giorno essendo poi
giunto Seren fu con benigno volto
raccolto e seco tutta la sua gente
da i capi delle schiere d’Oriente.
41Nel loco istesso ancor poi l’altro giorno
dove le genti d’Asia fur condutte,
Zenobia e gli altri eroi fatto ritorno,
Seren guidò quelle d’Europa tutte,
d’oscuri panni ciascun duce adorno,
le genti avendo con gran studio istrutte
tal mostra di quei fecer di Costante
che l’altra superò del giorno inante.
42Più genti eran quei d’Asia, che settanta
mila fur quei d’Europa solamente,
ma tanto cor non si scorgea, né tanta
prontezza ne i soldati d’Oriente;
guardando i nostri antivedeasi quanta
strage farian de la nemica gente.
Colmo di speme ogni un, ma più l’altera
Zenobia, dentro ritornò la sera.
43L’altra mattina il cavalier romano
tra quelle illustri due regine altere,
Sereno e Claudio e il forte Aureliano
co i duci tutti de l’armate schiere,
chi tenendosi a braccio e chi per mano,
con ricche veste sopra l’armi nere,
scesi le scale in una chiusa chiostra
fecer quivi di lor secreta mostra.
44Di tutti gli altri eroi salse primiero
Costante, più d’ogni altro ardito e franco,
sopra Leucippo, il suo vago destriero,
tutto via più che latte o neve bianco;
tosto salito in sella il cavaliero,
ora dal destro ora dal manco lato
con sì gran leggiadria, con sì grand’arte
girollo che a veder sembrava Marte.
45Montò poi sopra il suo Vittoria, ch’era
rosso di color sì che parea foco,
con neri piedi e crine e coda nera,
sì presto che trovar non potea loco;
già quel più volte la regina altera
con gran destrezza or quinci or quindi, in poco
spazio rimesso avendo, tutto il campo
tenea superbo e detto era Melampo.
46Salse poi Claudio il suo destrier leardo,
tutto da spesse e nere mosche pieno,
per ciò da tutti detto era Miardo,
sì leggier che capir nol può il terreno;
non men d’ogni altro appar questo gagliardo,
non men d’ogni altro obediente al freno.
Poi sopra il suo comparve Aureliano,
vago, animoso e presto ad ogni mano.
47Era questo destrier tutto morello,
leggier sì che il terren toccava a pena,
d’ogni altro molto a risguardar più bello,
di gran cor, di gran nerbo e di gran lena;
parea da dotta man fatto a pennello,
di bianca spuma con la bocca piena,
e detto Antrace fu dal color nero
questo sì vago e sì gentil destriero.
48Questi eran quei destrier che già pasciuti
d’ospiti uccisi fur da Diomende,
e che di Mena in man poscia venuti
carne umana per cibo anch’ei lor diede,
e che poi finalmente fur tenuti
dal cavalier, che ne divenne erede,
come gli altri destrieri a biada e a fèno,
e fatti esperti a portar sella e freno.
49Dopo sì bel principio ancora poi
gli altri che in questo loco eran ridutti,
così gli esperi come i duci eoi
sopra i destrier si appresentaron tutti;
sola Zenobia fra quei tanti eroi,
con più lugubre manto i gravi lutti
scoprendo, e il duol che al cor chiudea d’intorno
far di sé mostra non volea quel giorno.
50La cagion fu ch’avendo ella un destriero
d’Asia cercato già per ogni terra
tutto di pel senz’alcun segno nero,
sì grande che a servir fosse atto in guerra,
né fra quanto l’Eufrate il fiume altero,
l’Egeo, l’Eussino e il mar di Licia serra,
dentro a la Siria o d’ogni ’ntorno fuora
trovato avea chi le piacesse ancora.
51Ma visto quel d’Aureliano Antrace
sì bel, sì grande, sì leggier, sì bruno,
tanto al gusto le va, tanto le piace
ch’altro mai tanto non le piacque alcuno;
fisso con gran piacer lo guarda e tace,
ma di questo però si accorge ogni uno;
s’accorge ogni un dal troppo star pensosa
che d’averlo desia più ch’altra cosa.
52Onde il guerrier, che anch’ei di ciò s’accorse,
tratto da parte Aurelian, con tante
maniere il chiese in don, che stato in forse
gran pezzo quel, cangiato nel sembiante,
poi che più volte in dubbio si contorse,
negar nol poté al suo signor Costante,
che a lui cento, ch’avea tutti eletti,
ne diè quattro a l’incontro i più perfetti.
53Fuor che Leucippo, d’ogni suo destriero
scelto il fior l’ebbe in dono Aureliano;
poscia Antrace a Zenobia il cavaliero
tenendol per la briglia di sua mano
rappresentò, mentr’ei vago e leggiero,
mordendo il freno e calpestrando piano,
di bianca spuma avea la bocca piena,
né vestigio facea sopra l’arena.
54Benché Zenobia a quel gran resistenza
facesse, a ricusar però non valse,
onde, armata ella ancor leggiadra, senza
dimora sul destrier d’un salto salse,
e di quei duci tutti a la presenza
fe’ sì che Aurelian gran doglia assalse,
e dimostrossi già pentito affatto
d’aver sì raro dono al guerrier fatto.
55E poi che stando a lei ciascun rivolto
senza mai volger occhi o batter ciglia,
gran pezzo or quinci or quindi volto
l’ebbe l’altera d’Aristarco figlia,
girollo in alto ancor, sempre con molto
piacer di tutti e molta meraviglia;
lo fece in aria poi far mille salti
a tempo, e fuor d’ogni uman creder alti.
56Finalmente lo spinse a sciolto freno,
che sì veloce non fu mai saetta:
toccar non si vedea l’erba o il terreno
mentre leggier correa con sì gran fretta;
poi di nuovo piacer stando ogni un pieno,
ne l’armi snella e tutta in sé ristretta,
d’un salto ancor giù dal destrier discese,
e Costante inchinò pronta e cortese.
57Mentre ogni un meraviglia ebbe e piacere
sol n’ebbe Aurelian colera e sdegno,
del pio Costante incominciò a temere
che del destrier nol giudicasse indegno;
ben si sforzò tra sé chiusa tenere
tal passion, né fuor mostrarne sdegno,
ma quella chiusa ognor dentro al suo petto
col tempo partorì pessimo effetto.
58Fatta mostra di sé quivi ogni duce
tutti a le stanze lor subito andaro.
L’altro dì, poi che il sol la nuova luce
mostrò, di nuovo armati si adunaro,
dove al gran padre ch’ogni ben produce
un altar di lor man devoti alzaro,
che l’essercito tutto ivi presente
potea vederlo tanto era eminente.
59E fatto un altro altar quivi anco a Marte,
a questo e a quel sacrificò Costante.
Zenobia intanto avendo in ogni parteCostante parte con l’esercito verso Iera, dove viene a battaglia con Meonio e lo vince, mettendolo in fuga (59,3-132)
mandate spie, le giunse Almero inante,
che più d’ogn’altro in questo avea grand’arte,
nel dir facondo e grato nel sembiante;
costui portò del rio Meonio ch’era
per capitar fra pochi giorni a Iera.
60Questo a Zenobia saper fece Almero
e l’affermò per vera nuova e certa,
che già di Iera avea preso il sentiero
Meonio suo nemico a la scoperta,
e che il re seco ancor mandò Cratero,
persona di gran cor, di guerra esperta;
e che venian con lor verso Occidente
cento migliaia di fiorita gente.
61E che dal monte Singara a l’Eufrate
rubando ognora e saccheggiando il tutto,
tante e sì ricche spoglie avean portate,
e seco tanto avea tesor condutto
che più che d’armi d’or vedeansi ornate
le genti, e che l’essercito destrutto
da pochi esser potea, ché solo intento
l’oro a salvar venìa pauroso e lento.
62E che per ciò Cratero avea dissegno,
passato il fiume, d’entrar tosto in Iera,
parte usando in ciò forza e parte ingegno,
corrotto il duce che a la guardia v’era,
con speme di trovar quel pien di sdegno,
ch’abbi tu nuovo duce e nuova schiera
destinata per guardia di tal loco,
stimando lui con la sua fede poco.
63Soggiunse che gli avean già più d’un messo
color mandato, e, se aprir lor le porte
volea, che gran tesor gli avean promesso,
ma ch’ei più tosto patiria la morte;
e che il tutto a lei dir gli avea commesso
che in Iera venne a capitar per sorte,
mentre ora in questo ora in quel loco gìa
per farle certa di Sipario spia.
64Zenobia fe’ che Almero al pio Costante
questo medesmo disse, ond’egli tosto
muover Sereno fe’, che a Iera, inante
che il Perso giunga, è d’arrivar disposto;
più verso Borea che verso Levante
cento e più miglia il loco era discosto,
che in men far non potea d’otto giornate
con tante genti a piè di ferro armate.
65D’Esperia con l’essercito quel giorno
Sereno si partì, ma il cavaliero
fe’ quattro giorni ancor quivi soggiorno,
seco tenendo per sua scorta Almero,
mentre ogni loco visitò d’intorno
stando la notte e il dì sopra il destriero,
e purgò l’oste tutta d’Oriente
di meretrici e d’altra inutil gente.
66Con prieghi al partir suo poi, la consorte
dispose a rimaner con la regina,
la qual per mitigar se dura sorte
già sopra lui fosse a cader vicina
gli donò quel monil che pria da morte
scampato e da vergogna avea Macrina:
trattosi quello al suo partir dal collo
porgendol pronta al suo signor basciollo.
67Costante grazie senza fin le rese
di così rara gemma e preziosa;
tosto di Iera poi la strada prese,
quivi lasciando lei mesta e pensosa,
e tanto a gir con diligenza intese,
già deposto il pensier d’ogni altra cosa
che Sereno arrivò la quarta sera,
non giunto ancor, ma ben vicino a Iera.
68Talché poscia, per tempo, il dì seguente
vi giunser tutti e il guerrier quindi tosto
spinse Almero a spiar se con la gente
di Persia il traditor fosse nascosto.
Tornato il quarto dì quel, diligente,
di Cratero apportò che ancor disposto
venìa d’occupar Iera a gran giornate
salvi passato avendo già l’Eufrate.
69Onde Costante ognor seguendo il fiume
per incontrarlo subito si mosse,
chiudendo sempre, come avea costume,
la sera il campo d’argini e di fosse.
Del sol già spento il terzo giorno il lume,
e verso Esperia rare nubi e rosse
mostrando ch’usciria l’altro dì chiaro,
l’un campo e l’altro insieme si scontraro.
70Di stupor colmo, attonito e smarrito
restar Meonio videsi e Cratero,
prima d’al’or mai non avendo udito
che in Siria giunto ancor fosse il guerriero;
ma per nasconder con sembiante ardito
quel timor che chiudean dentro al pensiero,
di far volenterosi si mostraro
con quel battaglia, e tosto si fermaro.
71Tutta la notte armato e vigilante
stette Cratero, e tutta la sua gente,
dormir fe’ per contrario i suoi Costante
fin che l’aurora apparve in Oriente:
da i lati posto pria dietro e davante
le guardie il duce avea, cauto e prudente,
e cinto il campo d’ampia fossa e d’alto
vallo, sprezzava ogni improviso assalto.
72Volse che il cibo ancor ciascun prendesse
tosto che in India rosseggiò l’aurora,
e ch’indi l’armi tosto si mettesse;
poi tutti uscir fe’ de i ripari fuora,
perché Cratero ben chiaro intendesse
che il fatto d’arme far deveasi allora;
sul destrier poi, con sopravesta nera,
Costante i suoi dispose in tal maniera.
73Prima i Romani co i Latini insieme
nel mezzo pose, e nel sinistro corno
gli Iberni e i Galli, e fe’ le parti estreme
da i destrier tutte circondar d’intorno;
nel destro, perché tanto ivi non teme,
che da la parte donde nasce il giorno
l’Eufrate con le sponde altero il chiude,
pose i Britanni, genti d’armi ignude.
74Pose anco fuor di quest’ordine, ch’era
di giusto campo e intero in ogni parte,
dopo i guerrier di Gallia, in una schiera
sei mila Siri e il lor duce Andrimarte;
con quei di Ponto in mezzo, ardita e fera
gente, star fece il giovene Tifarte;
di tante che mandar Zenobia volse
col roman duce, sol tre schiere tolse.
75Quei di Siria e di Ponto, e con Timante
gir seco i Lici a pena ancor permise,
con più Romani a guardia quei Costante
del campo pien d’impedimento mise.
Trenta elefanti avendo poi, che avante
stessero al campo a i loro Indi commise,
questi sapendo già non esser tanti
de i Persi oppor non volse a gli elefanti.
76Questo veduto ancor tutto de’ Persi,
l’essercito ordinò Cratero tosto,
ma, sendo quel di popoli diversi,
potea difficilmente esser disposto,
tanto più che ne l’ozio al tutto immersi
non fur mai da le patrie lor discosto;
ma pur Cratero al fin tutte le cose
tra sé rivolte, in mezzo i Persi pose.
77Nel manco lato i Medi con gli Ircani,
c’han del mar Caspio per confino i liti;
nel destro pose i Parti e i Battriani,
con quei d’Arabia de i destrieri usciti
v’eran tre mila Iberi e Margiani,
con altrettanti tra Carmani e Sciti;
da cavalieri poi vari d’intorno
circondar fece e l’uno e l’altro corno.
78Pose in soccorso poi d’Elimei
sagitari e Cretensi un’ampia schiera,
e da ogni lato un’altra di Saccei
e d’Arri, tutti armati a la leggiera;
tra questi eran molti Arani Petrei,
tutti guerniti d’arme in tal maniera;
mille carri falcati e dromedari
vi mise ancor, di numero a quei pari.
79Pose una schiera poi d’Indi elefanti
che il mezzo campo copria tutto e i lati,
grandi apparendo a ciascun altro avanti
di ricche spoglie alteramente ornati;
oltra il rettor con orridi sembianti
quattro guerrier dentr’una torre armati
stavan sopra ciascun feroci tanto
ch’ogni un d’uccider sei davasi vanto.
80Poi che in tal guisa il campo ebbe ordinato,
capi nel mezzo Neocrete e Poro
Cratero pose, e nel sinistro lato
Meonio, adorno d’un bel manto d’oro,
che, imperator di Roma anch’ei gridato,
cinto avea il crin di trionfale alloro;
sopra un veloce e candido destriero
nel destro lato si fermò Cratero.
81Visto Costante già Cratero uscito
fuor de i ripari e il campo aver disposto,
e d’or Meonio il traditor vestito,
che mostrato gli fu poco discosto,
cambiar si vide in volto e d’infinito
dolor colmo, chiamò Taurante tosto
e gli commise, per soverchio sdegno,
che dar devesse de la pugna il segno.
82Co’ suoi compagni allor subito un alto
colle salito ch’ivi era Taurante,
e dando segno al periglioso assalto
che i più forti cambiar fe’ di sembiante,
primier del sangue suo l’erboso smalto
macchiò morendo al gran guerrier davante,
ché d’uno stral traffitto cadde estinto
lasciando in rosso il verde colle tinto.
83Carmi Cretense anch’ei sopra la fromba
portava una pietra, ne la destra Irtano,
trombetta, colse accorto e fe’ la tromba
mentre sonava a quel cader di mano;
ciò visto un grido in tal guisa rimbomba
che in fino al Tigre e più s’ode lontano,
d’Esperia l’oste allor di rabbia ardente
si mosse contra l’inimica gente.
84Ma de i gran mostri d’India la gran schiera
scontrata, ch’eran diece volte sette,
né quei passar sapendo in qual maniera,
tra sé pensoso alquanto il guerrier stette;
por fe’ che i Galli, conosciuto ch’era
bisogno oprar da lunge archi e saette,
di Britannia, e d’Ibernia con le genti
fossero a saettar le belve intenti.
85Quei pronti adunque il lor duce ubidiro,
che, il segno atteso, da lontan con strali,
poi ch’ebber preso intorno un lungo giro,
sempre veloci come avesser l’ali,
con impeto e furor tutti assaliro
non le torri o i guerrier ma gli animali,
parendo lor d’aver vinta la guerra
s’andasser quei senza contrasto in terra.
86Quei guerrieri che armati eran di sopra
dentro a le torri, visto il lor periglio,
la forza l’un, l’altro il consiglio adopra;
ma poco giova forza e men consiglio
ch’ora questo ora quel gir sottosopra
vedeasi, e già per tutto era scompiglio;
per tutto eran querele e strida mentre
traffitte avean le belve or testa or ventre.
87Chi giù trabocca in terra e chi disturba
gli ordini, volto indietro, e gli apre e fende,
e posta in rotta la più densa turba
più che il nemico il proprio campo offende;
dentro e fuor ne l’aspetto si conturba
Cratero, che il disordine comprende,
e commette a i rettor de gli elefanti
ch’ogni un con arte il suo gir faccia avanti.
88Quei guerrier non men ch’entro ogni torre
stavan di sopra, avendo l’aste in mano,
vedeansi pronti ogni suo studio porre
per fargli avanti andar, ma sempre in vano.
Meonio audace anch’ei per tutto corre,
detto da i Persi imperator romano;
così fa Neocrete e così Poro,
chiaro compreso il vicin danno loro.
89Da l’altra parte già visto i Romani
rotti del tutto e sbaragliati i mostri,
non volser più con gli archi star lontani,
ma perché ogni un da presso al valor mostri
preser l’asta e la spada, e ad ambe mani
le gambe e i petti e i flessuosi rostri
tagliano e i nerbi lor; quei, mezzo spenti,
chiedean mercé con gemiti e lamenti.
90Sopra il destriero armato un d’essi, Ufente,
troppo audace, ferito con la spada,
quel, tra la pelle e la corazza il dente
cacciato, non che il corpo a ferir vada,
per l’aria lo portò tanto eminente
ch’ogni un stando a veder che in terra cada
gridava, ma gli affetti eran diversi:
per doglia i nostri e per letizia i Persi.
91Non già per questo d’animo perduto
ma pien d’audacia Ufente si vedea
dar nel periglio a sé medesmo aiuto,
e per suo scampo or piedi or man movea;
tratti al fin gli occhi al mostro con l’acuto
ferro che stretto ne la destra avea,
da troppo gran dolor quei spinto scuote
la testa, né fermar punto si puote.
92E per l’ambascia or si contorce, or serra
la bocca, or si fa curvo, or grida, or geme,
or corre, or fermo stassi; al fin da terra
s’alza dinanzi, sì la doglia il preme,
e in questo alzarsi sottosopra atterra
la torre, e fa cader gli uomini insieme;
mentre la belva si crucciava Ufente
salvo scampò dal periglioso dente.
93E dato a i quattro cavalieri morte
che l’uno e l’altro era caduto involto,
e mostratosi a tutti ardito e forte,
da i suoi fu con gran giubilo raccolto.
Costante intanto, già le belve scorte
rotte del tutto, a romper gli altri volto
fe’ dromedari e carri da discosto,
non men traffigger da i medesmi tosto.
94Stavan quei carri acconci in tal maniera
che a risguardargli sol porgean terrore:
tra i destrieri un gran ferro acuto v’era,
che dal timon sei braccia usciva fuore,
avea due punte onde si fori e fèra
ciò che s’incontra andando con furore;
quinci e quindi era il giogo in ogni lato
d’acute falci orribilmente armato.
95Nel mezzo de le rote eran non meno
confitte acute falci, e d’esse parte
stavan rivolte in giù verso il terreno,
parte su verso il ciel, tutte con arte;
contra i destrieri e chi lor regge il freno
Costante le sue schiere in giro sparte
commise che di nuovo ogni un s’affrette
d’avventar dardi e d’avventar saette.
96Onde non men che gli elefanti molti
danni facendo contra i propri Persi
subito indietro i carri a fuggir volti,
s’udian romori e strepiti diversi;
visto adunque i Romani essergli tolti
gli impedimenti, andar facean riversi
Medi, Iberi, Carmani e Sciti e Parti,
che già tutti fuggian confusi e sparti.
97Costante, Adorno, Claudio, Aureliano,
Vasconio, Artosio, Scotiro e Vizero
ciascun si mostra a gara per quel piano
forte, animoso e prattico guerriero;
non sta da parte ancor Domiziano,
Delfin, Probenzio, Irlando e il forte Anglero;
Loranio ecco e Limosio, ecco Picerde
tinger di rosso la campagna verde.
98Ciascun perch’abbia effetto il giuramento
preso quel giorno ch’egli entrò in Palmira,
cerca Meonio, e per trovarlo intento,
mentre i barbari atterra a ciò sol mira;
ma quel, pien di paura e di spavento,
tra i carriaggi accorto si ritira,
dove depone il regal manto d’oro
con la ghirlanda ch’egli avea d’alloro.
99E vestitosi a foggia d’un Armeno
come privato e povero guerriero,
non men di rabbia che di timor pieno
verso Berrea pigliò tosto il sentiero;
questa cittade allor che di veneno
colmo Artemio de i Siri avea l’impero,
con la facondia sua spesso difese;
verso lei dunque il camin dritto prese.
100Ma pria fe’ ch’un liberto suo, persona
esperta, accorta e fida, e buon soldato,
salse col manto d’or, con la corona
da lui deposta il suo destrier armato,
e mentre ora batte verso Berrea, or sprona
Meonio in vista per dolor cangiato,
con finte spoglie andò costui veloce
dov’era in colmo il gran conflitto atroce.
101E sopra un gran destrier quel giorno scorse
per tutto il campo destro e leggier molto,
talché Costante, che di ciò si accorse,
primier d’ogni altro in quella parte volto,
lieto contra di lui subito corse,
e con la spada lo ferì nel volto,
cercando che sì lieve il colpo ascenda
che non l’uccida, onde poi vinto il prenda.
102Con la spada il guerrier toccollo a pena,
che sdrucciolò nel fuggir quei leggiero;
Costante in fretta un altro colpo mena
ma coglie in fallo il capo del destriero,
talché mancato il destrier poi di lena
mancò di speme ancor molto il guerriero,
con false spoglie già d’esser vestito
sol per sciocchezza, tardi era pentito.
103Tanto più che per tutto essendo sparte
le voci «Ecco Meonio il traditore»,
tutti corsero i duci in quella parte,
di prigion farlo ogni un già fermo il core;
ma via più che la forza usavan l’arte
mitigando il prim’impeto e il furore
perché non resti quel di vita privo,
ma per condurlo a la regina vivo.
104E fatto un cerchio avendogli d’intorno
perché non fugga, ecco Cratero intanto
giunto al romor di lucid’armi adorno,
che si diè inanzi al re di Persia vanto
d’entrar dentro a Palmira il primo giorno,
e quel roman guerrier famoso tanto
prigion condurgli con Zenobia tosto,
nel regal seggio pria Meonio posto.
105Di tanta sua temerità Costante
sendo informato da più genti a pieno,
tosto ch’ivi apparir sel vide inante,
guidato sol da rabbia e da veneno,
d’ira tutto avampò fuor nel sembiante,
spronò Leucippo e rallentando il freno
con sì gran furia urtò contra Cratero
che sottosopra andò quei col destriero.
106Quivi ogni duce ancor di Persia corso
perché Cratero non restasse estinto,
tutti ad un tempo a lui porgean soccorso,
e facean scudo a quel Meonio finto;
scarco il destrier di chi gli regga il morso
saltando corse ove Sereno, tinto
dal barbarico sangue, facea cose
onde in sconfitta il campo tutto pose.
107Sembra ogni Perso armato un fanciul nudo;
questo di Creta i sagittari scorto,
gli avventaro i lor strali ogni un più crudo:
quel, destro, ognor fu nel coprirsi accorto;
ma privo il suo destrier d’armi e di scudo
cadde traffitto in mille parti morto,
presto via più che fulmine o baleno
risorto altero in piedi ecco Sereno,
108che dar per tutto fassi ampia strada
di qua, di là, per lungo e per traverso,
e dovunque a ferir va con la spada,
sia taglio o punto, o sia dritto o riverso,
convien che un morto almen per volta cada,
talché in rotta sen va l’Ircano e il Perso;
indarno avvien che il destin crudo incolpi
chi prova un sol pur di quegli aspri colpi.
109Come il timido gregge apre e sgombiglia
leon per fame orribilmente altero,
e fa del sangue suo l’erba vermiglia,
così facea Sereno ardito e fero.
Quel destrier giunse intanto a sciolta briglia,
sopra cui prima armato era Cratero:
restò d’averlo, visto quel, Sereno
di desio tutto e di speranza pieno.
110Visto anco il bel destrier ciascun romano
quel riputato del lor duce degno,
si affaticaron pria gran pezzo in vano,
né gli successe in prenderlo il dissegno;
corsigli dietro al fin quindi lontano,
l’ebbero con industria e con ingegno,
tra l’erba un laccio ascoso in guisa ch’ambe
dietro gli avvinse nel saltar le gambe.
111E lieti a quel guidatolo, e d’un salto
salitovi Seren subito sopra,
corse dove il guerrier con fero assalto
gir Cratero e il destrier fe’ sottosopra,
giacendo quegli ancor sul verde smalto
quinci e quindi ciascun pronto s’adopra,
chi spinto dal desio di prigion farlo,
chi per dar morte a quel, chi per salvarlo.
112Quivi d’Esperia i duci e d’Oriente
stando ad un tempo, e Neocrete e Poro,
d’asta feriro ne le spalle Ufente,
che intento a prender quel dal manto d’oro
salitogli già in groppa arditamente
gli avea di capo tratto il verde alloro;
ma quel, traffitto di due piaghe, al piano
cascò, tenendo ancor l’alloro in mano.
113Parve che molto gli animi turbasse
questo d’ogni Romano, che poco inante
stato era Ufente quel che gli occhi trasse
con gran piacer di tutti a l’elefante.
Claudio con sdegno, o ch’egli più l’amasse,
o che quei gli passassero davante,
in compagnia d’Aurelian gli assalse:
fuggiron quei, ma poco al fin lor valse.
114Vistosi contra Poro e Neocrete
con tanto impeto andar duo tai guerrieri,
si cacciaro a fuggir per vie secrete,
smarriti, e per occulti aspri sentieri,
preghi usando e parole mansuete
per mitigar quegli animi sì feri;
Claudio, giunto al fin Poro ad uno angusto
passo, la testa gli spiccò dal busto.
115Neocrete non men morto per mano
restò de l’altro nobil cavaliero,
ma dietro sel tirò via più lontano
che più torto trovar seppe il sentiero,
oltra che aver trovossi Aureliano
d’assai men lena e men presto destriero:
Claudio Poro seguì sopra Miardo,
destro e veloce più che damma o pardo.
116D’Eufrate giunto il barbaro a la sponda,
né di qua né di là sendo più strada,
ma trovata la riva alta e profonda
convien che muoia o che nel fiume cada,
onde per non sommergersi ne l’onda
Neocrete morir volse di spada:
più volte il petto a l’empio, mentre in vano
mercé chiedea, traffisse Aureliano.
117Ma quando indietro ritornar poi volse
con fretta a gli altri, tanto eran le piante
spesse e i virgulti che di via si tolse,
e tutto il giorno andò smarrito errante;
giunta la notte, or qua or là si avvolse,
ma giva indietro andar credendo inante,
e d’uno stral traffitto il destro fianco
restò nel bosco pien di doglia e stanco.
118Claudio, ucciso colui, più volte intorno
guardò s’Aurelian veder potesse,
ma pensò, nol vedendo, che ritorno
già di lui prima fatto al campo avesse;
senza più dunque aver quivi soggiorno,
sendo vicin, per quelle strade istesse
con gran velocità tornò là dove
de i Persi tutte indarno eran le prove.
119E giunto ove disteso ancor Cratero
facea la terra da tre piaghe rossa,
ché nel cadergli adosso il gran destriero
giacea dolente per la gran percossa,
né si potea levar su dal sentiero
tutti ammaccati avendo i nerbi e l’ossa,
oltra che l’impedian tante persone,
volendo a gara ogni un farlo prigione.
120Ma quel destrier, cui sopra era Sereno,
quivi arrivato e scorto il suo signore
come d’uman conoscimento pieno,
mostrando aver nel petto gran dolore,
drizzò le orecchie e stretto prese il freno
sol per gettar Seren di sella fuore,
con salti e calzi in aria a mille a mille
da i sassi uscir facea fiamme e faville.
121Quel saggio cavalier gran pezzo in vano
destro e prattico fe’ sempre ogni prova
per raddolcirlo, e con leggiera mano
pur secondando il va, ma nulla giova;
onde per tutto pien d’ira il buon romano,
poi che rimedio a ciò punto non trova,
la man su l’arcion posta, sopra il prato
leggier saltò di tutte l’armi armato.
122Poi che si ritrovò scarco il destriero
del peso odiato ch’ei pur dianzi avea,
corse là dove il suo signor Cratero
per la percossa languido giacea,
né più sfrenato come pria, né fero
ma tutto mansueto si vedea
inginocchiarsi e far le spalle basse,
come a salirlo quel proprio invitasse.
123Visto Cratero sì cortese invito,
ancor che stanco e grave essendo armato,
pesto la carne e in tre lochi ferito,
pura salse al fin, da i suoi Persi aiutato,
né da i Romani allor restò impedito,
ché, come in statua immobile cangiato
ciascun del nuovo e non credibil fatto,
restò da sé diviso e stupefatto.
124Ma non per questo fuggir poté il perso
che non restasse allor quivi prigione:
Costante, conoscendol sì perverso,
e che di tanti mali era cagione,
di nuovo in terra il fe’ cader riverso;
Dio, che il dritto difende e la ragione,
riuscir fatto ogni suo sforzo vano,
prender lasciollo dal campion romano.
125Quel liberto restò quivi ancor preso,
che d’aureo manto adorno avea le chiome
cinte pur dianzi di corona, Reso
detto, non come si credea, per nome;
già ciascun Perso era a la fuga inteso,
perché le forze lor vedute dome,
né trovando rimedio al loro scampo
miseri tutti abbandonaro il campo.
126Chi dir potrebbe i tanti e sì diversi
casi che quivi avvennero quel giorno?
Nel gir sconfitti e tòr la fuga i Persi
di su, si giù, nel mezzo e d’ogni ’ntorno
quei che giù Claudio fe’ cader riversi,
Seren, Domizian, Vasconio, Adorno,
o quei che disperati si gettaro
nel fiume, ove sommersi al fin restaro?
127Quei che Artosio e Picerde e che Andrimarte,
Delfin, Probenzio, Scotiro e Timante
ucciser, con Limosio e con Tifarte,
Loranio, Irlando e il gran guerrier Costante,
che da Minerva ognor scorto e da Marte
nessun resister gli potea davante,
chi potesse contar potria le fronde
del monte Tauro e del mar Caspio l’onde?
128Trovandosi Delfin per gran fatica
già stanco, e molle di sudor la fronte,
stava appoggiato ad una quercia antica,
rivolto a l’aura che scendea del monte,
quando lontan, sopra una piaggia aprica,
posto lo stral su l’arco a tempo Armonte,
da l’uno a l’altro fianco ivi traffitto
lasciollo, e nel dur arbore confitto.
129Probenzio con Langedo, c’han veduto
Delfin traffitto di mortal saetta,
poi che a lui dar più non poteasi aiuto,
si volsero per farne aspra vendetta;
ma, l’animo lor fermo conosciuto,
fuggì veloce Armonte e con gran fretta,
e lunge essendo fe’ sì largo giro
che quei gran pezzo in van sempre il seguiro.
130Colmi di rabbia i due fratelli tosto
vistosi da colui far danno e scorno,
malissimo nel cor ciascun disposto
mostraro a gara crudeltà quel giorno:
d’Ircani un drapelletto assai discosto
da lor veduto, ov’era un elce e un orno,
ch’ambo irritato avean sovente il telo
di Giove alzando i rami troppo al cielo,
131corser contra costor che altrove poco
aveano onde sfogar la rabbia ardente,
già vòto essendo il campo in ogni loco
quasi del tutto d’inimica gente;
ma, quei gli arbori ascesi, a l’un diè foco
Probenzio, e tutti gli arse crudelmente,
l’altro, tolta Langedo una bipenne
fe’ sì che in terra al fin cader convenne.
132Con furor poi quegli infelici Ircani
tra i rami involti e attoniti del caso,
senza piedi lasciaro e senza mani,
senz’occhi, senza orecchie e senza naso.
Poi dove i Belgi e i Celti e gli Aquitani
era ogni duce a congregar rimaso
giunti, anch’essi de gli altri a paro a paro
di Narbona le schiere ivi adunaro.
A sera, Costante raccoglie l’esercito nel vallo: Ortano in cerca del fratello ucciso alla giornata si avventura per la campagna, per errore uccide suo padre (133-158)
133Costante, avendo i suoi guerrieri scorto
dietro a i Persi, d’ardir colmi e di speme
sparsi gir qua e là, qual duce accorto
tutti di nuovo gli raccolse insieme,
benché ogni Perso indi fuggito o morto
vist’abbia, pur d’altro accidente teme:
dissegna ancor che da i suoi tutti uniti
sian l’ostil campo e gli argini assaliti.
134Perciò d’Esperia già sendo ogni schiera
raccolta, senza far punto soggiorno
gli scorse a lo steccato, ma perch’era
già tardi, circondar lo fe’ d’intorno,
e stette con gran guardia in tal maniera
tutta la notte in fino al nuovo giorno;
v’era dentro gran preda e da persone
poche guardata in gran confusione.
135E benché avesse in queste parti e in quelle
tra i suoi con diligenza il pio Costante
guardie poste e custodie e sentinelle,
e commesso ch ogni un stia vigilante,
però non prima apparvero le stelle
che per le avute lor fatiche tante
la maggior parte fur dal sonno vinti,
ne l’arme involti e de la spada cinti.
136Quando uscì di Palmira il guerrier fuora
con tante genti e di sì gran valore,
duo palmireni usciron seco ancora,
fratelli di gran forza e di gran core;
stati eran questi sconsolati ognora,
colmi d’alta mestizia e di dolore
da quel dì che Odenato restò morto,
né mai potuto avean trovar conforto.
137E questo sol perché il lor padre Sente
restò preso quel giorno, e fu condutto
d’aspra catena avvinto in Oriente,
sola cagion del lor gravoso lutto;
e si misero a gir con l’altra gente
fermo e disposto l’uno e l’altro in tutto
più tosto di restar di vita privo
che senza il padre ritornar mai vivo.
138L’un nome avea Cremero e l’altro Ortano,
onde con tal proponimento forte
seguito a l’alta impresa il gran romano,
salvi giunser di Iera ambi a le porte,
ma nel conflitto il dì poscia per mano
di Meonio Cremero ebbe la morte;
questo Ortano aggravò di nuova cura,
come al morto fratel dia sepoltura.
139La notte adunque, mentre l’altre genti
prendean riposo, ei, pien d’alto pensiero,
tra quei che fur ne la battaglia spenti
cercando giva il suo fratel Cremero.
Quei Persi intanto, che a la guardia intenti
de la preda lasciati avea Cratero,
visto lui preso e non sperando aita,
pensavan sol come salvar la vita.
140Né di lor sendo alcun più diligente
nel tener de i prigioni o d’altro cura,
ma pensando a lor stessi solamente
che d’esser morti avean tutti paura;
trovossi quivi allor tra gli altri Sente,
che in mezzo a punto de la notte oscura
vistosi da le guardie esser negletto,
si sciolse e ratto si partì soletto.
141E lo steccato e gli argini e la fossa
passati avendo già, cheto, pian piano
senza mai che si sia persona mossa,
passò tutto l’essercito Romano,
giunto là dove poi la terra rossa
trovò del sangue parto e de l’ircano;
prese il sentier più sempre a Iera dritto,
ch’ivi d’esser gli avean già i figli scritto.
142Ma visto or qua or là la più gente armata,
parte ch’era a spogliar quei morti uscita,
parte che afflitta e mesta e disperata
del tutto avea da sé pietà sbandita,
poi che in quella sì cruda aspra giornata
figlio, amico o fratel perdé la vita,
pensò di prender l’armi per suo scampo
d’un di color che giacean morti al campo.
143Tra dense nubi Cinzia allora involta
per tutto oscuro il ciel rendea d’intorno,
la chiara faccia ben scopria tal volta,
e risplender facea come di giorno;
mentr’ella adunque in nube oscura e folta
tenea nascoso e l’uno e l’altro corno,
Sente il miser trovò Cremero a caso,
di Meonio per man morto rimaso.
144E senza che il suo proprio e caro figlio
conoscesse, mutato di figura,
e che di sangue il volto avea vermiglio,
la notte essendo allor per tutto oscura,
solo pensando al grave suo periglio,
e sol d’assicurarsi avendo cura
d’armi, quanto potea più di nascosto,
spogliollo, armando se medesmo tosto.
145Sente, del figlio l’armi avendo e il manto,
verso Iera sen gìa pauroso e solo;
mentre cercava il fratel morto intanto
Ortano il riscontrò, l’altro figliuolo,
che giurando venìa, vinto dal pianto,
colmo di rabbia e d’angoscioso duolo,
d’uccider quel ch’avea pur dianzi a morte
posto il fratel se l’incontrava a sorte.
146E scorto il padre con quel manto poco
da lunge, a punto allor ch’avea la luna
rotte le nubi e tolta d’ogni loco
l’ombra, che più per lui fora opportuna,
per grand’ira avampò tutto di foco,
e felice chiamò la sua fortuna
d’averli a tempo colui posto in mano
che dato avea la morte al suo germano.
147Nel petto adunque un dardo immantinente
lanciolli, sì che tutto il ferro intero
fuor de gli omeri apparve orribilmente;
poi tosto adosso gli saltò leggiero,
dicendo: «Indegno ben tuo figlio, o Sente,
com’anco indegno tuo fratel, Cremero,
sarei se di costui facendo strazio
non rimanesse del suo sangue sazio.
148Senza castigo alcun, malvagio e fello,
da poi ch’io t’ho con gli occhi propri scorto
le spoglie adunque avrai del mio fratello
da te pur dianzi crudelmente morto?
Questo cor che dal petto a costui svello,
o Cirra, madre mia, per tuo conforto
da te sarà d’ambi al sepolcro appeso,
sendo anch’io tosto a seguitarlo inteso».
149Sente, ch’esser costui suo figlio Ortano
conosce, colmo da paterno affetto,
gli stese al collo e l’una e l’altra mano,
ma debil non potea tenerlo stretto;
poi disse: «Ohimè, caro mio figlio, in vano
sperasti aver, trovandomi, diletto,
ché a morte già per le tue mani giunto
m’hai trovato e perduto ad un sol punto.
150Io sono Sente, o caro figlio, io sono
il padre tuo che tu cercando andavi,
né temer ch’io men t’ami o che men buono
ti stimi, o che di ciò punto m’aggravi,
ch’io t’amo e buon ti stimo, e ti perdono
questo, che porsi tra i delitti gravi
non pur dessi, ma perché dal core
né dal voler tuo nacque, è lieve errore.
151Non ti affliger, raffrena, o figliol mio,
quel pianto, ahimè, che in te sì largo abonda,
che ciò che avvien qua giù permette Iddio,
né senza il suo voler si scuote fronda.
Tu resta in pace, o figlio, ch’io
lieto men vo di Lete a passar l’onda;
dammi l’ultimo bascio» e intanto, il sangue
mancato, ivi rimase il vecchio essangue.
152Mentre queste parole il padre Sente
verso Ortano dicea, caro suo figlio,
quei per somma pietà tristo e dolente,
e molle avendo e l’uno e l’altro ciglio,
risponder non potea, ma quel torrente
di sangue ch’uscia tepido e vermiglio
del miser padre, con tremante mano
fermar volendo, spese ogni opra in vano
153E tra le braccia sue quel visto al fine
sì freddo farsi e pallido nel volto,
stracciossi disperato il manto e il crine;
e, tosto a i cridi allor tutto rivolto,
non pur fe’ risonar le più vicine
selve, non pur quel vicin bosco folto,
ma le querele e gli alti suoi lamenti
lunge portaron d’ogni ’ntorno i venti.
154Non fu mai figlio che di tanto amore
suo padre amasse, e se giunto a l’Occaso
fosse naturalmente, di dolore
colmo in perpetuo ne saria rimaso;
poi ch’egli adunque di sua mano il core
gli aperse, con sì nuovo orribil caso,
volge tra sé, né alcun modo ritrova
maniera orribil per punirsi e nova.
155Si straccia e grida: «O padre, in tal maniera
ti rende a me tuo figlio oggi la sorte?
dunque in tal guisa di vederti spera
la patria tua, la cara tua consorte?
O felice fratel che ne la fera
battaglia avesti da i nemici morte!
Misero me che in esser tal mi trovo
che mille morti ad un sol punto provo».
156Per soverchio dolor poi, tutto insano,
perfido, iniquo, infame e scelerato
chiamando se medesmo: «Ahi crudo Ortano!»
dicea; poi di furor tutto infiammato,
per rabbia si mordea non pur la mano
che il dardo contra il padre avea lanciato,
ma si mordea le mani ambe e le braccia,
pallido più che il morto padre in faccia.
157Ma pur tornato alfin sendo in se stesso,
con sguardo assai men torbido e men torto,
come al padre pur dianzi avea promesso,
che gli mostrò dov’era il fratel morto,
quel tolse, e sotterrò l’un l’altro appresso;
poi trattosi da lato un ferro corto,
con quel se stesso il misero traffitto,
lasciò col sangue suo tal caso scritto.
158Fattosi avendo il petto d’arme ignudo,
poi che se stesso indritto al cor traffisse,
con la sinistra man tenendo il crudo
sangue, ché troppo in fretta non gli uscisse,
con la man destra dentro al proprio scudo
minutamente il caso tutto scrisse.
Caddé poi, dopo gli ultimi singulti,
sopra il padre e il fratel da lui sepulti.