Argomento
Meonio è preso; la Discordia fère
d’Esperia i duci e lascia ogni un traffitto;
fassi nel fiume Ascora il gran conflitto;
giungono al campo le regine altere.
Costante alla guida di un ristretto drappello cattura Meonio fuggitivo (1-12)
1Mentre nel campo lor stando quei Persi
che a custodir la preda fur lasciati
fan consigli tra lor vari e diversi,
per gran timor confusi e disperati,
e mentre tutti in grave sonno immersi
stan quei d’Esperia intorno a gli steccati,
con l’arme indosso, accorto e vigilante
va destando le guardie ognor Costante.
2A cui nel gir d’intorno sul destriero
pregando or questo or quel perché non dorma,
si dimostrò nel mezzo del sentiero
Minerva, ma non già con la sua forma:
tolto il sembiante avea quella d’Almero,
che in seguir sempre de i nemici l’orma
se ne servia il guerrier, ché l’avea scorto
per diligente e sovra ogni altro accorto.
3E giunta innanzi al cavalier la dea
gli disse: «O mio signor, quel ch’ieri preso
restò da te non fu, come parea,
Meonio rio ma il suo liberto Reso;
vassene il traditor ratto a Berrea,
spronando ognor, tutto a la fuga inteso:
se prigion farlo vuoi giungerlo ancora
potrai, ma non far più, signor, dimora.
4Con pochi e spaventato e sconosciuto,
per gran fretta non sol smarrì la strada
ma, sendogli il destrier sotto caduto,
gran pezzo è stato l’infelice a bada;
se a tempo vai non t’avrà pria veduto
che usar teco, senza stringer spada,
per sua difesa sol prieghi e parole
che a lui par di viltà non vede il sole.
5Claudio, Domizian, Vasconio, Adorno
teco guidando, con diece altri a pena,
pria che apporti l’aurora il nuovo giorno
l’avrà prigion legato di catena;
ma non bisogna far punto soggiorno:
ecco la via che dietro a quel ti mena».
Così detto spronò Minerva inante
per far scorta al suo guerrier Costante.
6Non fu lento in seguirla il cavaliero,
di meraviglia pien rimaso in mente
che quel preso da lui non fosse il vero
Meonio, e si mostrò triste e dolente;
poi del campo a Seren dato l’intero
carico, e volto il tergo a l’Oriente,
correndo or per via dritta or per via torta
veloce ognor seguia la fida scorta.
7Tra gli altri andaro ancor col gran romano
quei che pur dianzi nominò la diva,
che alcun non gli era mai troppo lontano,
né da lui troppo alcun si dipartiva.
Giunti, forte spronando, entro un gran piano,
d’un fiume altero star sopra la riva
vider Meonio con sett’altri, a lume
di luna, che varcar non potea il fiume,
8per la gran neve, onde a man destra verso
Boote biancheggiava altero il monte,
mandato il fiume gonfio avea riverso
di viva pietra sottosopra un ponte;
da costor visto il traditor perverso,
che verso Berrea volto avea la fronte,
tutti addosso improvisi gli arrivaro,
talché al suo scampo non trovò riparo.
9Tosto prostrato innanzi al pio Costante
sopra l’arena il traditor gettosse,
che al destrier capo, a l’abito, al sembiante
di tutti gli altri ben pensò che fosse;
da quei fu preso, e su l’arcion davante,
le mani avvinto di catene grosse,
nel far ritorno sopra il suo destriero
la dea portollo, in forma pur d’Almero.
10Fecero al campo allor proprio ritorno
col rio Meonio falso traditore
che Apollo, avendo in fronte il nuovo giorno,
spuntava già del gran mar d’India fuore,
e il fosso che il guerrier serrar d’intorno
la sera fe’, da tutti con furore
fatto assalir, restò subito preso,
mal da quei Persi che ’l tenean difeso.
11Color tutti che a guardia fur lasciati,
per la sconfitta timidi e smarriti,
vistosi poi d’intorno circondati,
la maggior parte inermi eran fuggiti;
d’Esperia adunque i cavalieri entrati
non rimasero allor punto scherniti,
tante gemme trovate, argento et oro,
ch’anco avanzò la gran speranza loro.
12Quei Persi tutti a fil di spade andaro
perché i Romani a la gran preda intenti
sol crudeltà quel giorno a gara usaro,
non pur l’inculte e le remote genti;
non men pien d’ingordigia si mostraro
d’ogni altro i duci, o men di sete ardenti:
chi più tesoro avea d’altri e più stato
più si mostrava ancor di rabbia armato.
Venere convince Giunone a non perseguitare Costante, la sua ira viene dirottata su Zenobia (13-25)
13Mentre nel compartir la preda immensa
cede a la forza il dritto e la ragione,
Venere, che a trovar pronta ognor pensa
nuova in pro di Costante occasione,
sopra il suo carro al ciel salì, fra densa
nube involta, e trovò quivi Giunone
che intenta a tender nuovi lacci e nuove
reti al medesmo, a par sedea di Giove.
14E trovato al guerrier la bella dea
che ancor nuovi travagli e nuovi errori
la diva d’Argo apparecchiar volea,
perch’ei rimanga al fin di vita fuori,
disse: «O Patre del ciel, dov’io credea
per Costante impetrar grazie e favori,
tòr da lui grave ingiuria, espresso torto
conviemmi, ond’ei non sia con fraude morto».
15Poi, voltasi a Giunon, soggiunse: «O vera
del supremo Rettor sorella e moglie,
che sopra tutti gli altri divi altera
sedendo più sei pronta a le sue voglie,
deponi l’odio e non voler che pèra
sì gran guerrier, né più mi accrescer doglie.
Deh, seguir lascia omai, fa’ ch’abbia effetto
quel che sovente il sommo Padre ha detto.
16Con quella riverenza ch’io maggiore
posso mostrarti, essendo tua vil serva,
ti prego, anzi ti supplico di core
che impedita non sia da te, Minerva,
ciò ch’ella ordisce ognor, mentre l’onore
si accresce al gran guerrier, non pur conserva.
Non impedir tu, dea; ma pria sbandita
l’ira da te, porgi a Costante aita».
17«O bella dea, rispose allor Giunone,
onde il Ciel si compiace e si consola,
ch’io t’ami come figlia è ben ragione,
di Giove essendo, il mio signor, figliuola;
non ti doler, che sol per mia cagione
del tuo guerrier più chiaro il grido vola:
dal faticar ch’egli ha per me sofferto
maggior divien de la sua gloria il merto.
18Ma perché manca in me l’antico sdegno,
da l’alta sua virtù già superato,
convien che arrivi a quel supremo segno
cui d’arrivar sì rare volte è dato;
per merto proprio omai si mostra degno
d’ogni alto onor che gli promette il Fato.
Per questo, adunque, e dal tuo gran cordoglio
sforzata, perseguir mai più nol voglio.
19Ma ben vuo’ scoprir l’odio e sfogar l’ira,
l’ira ch’io serbo a questo effetto in mente,
contra colei che affrena ora Palmira
non pur ma quasi tutto l’Oriente,
né contenta di ciò, superba aspira
a farsi ancor monarca d’Occidente,
e di gir spera trionfante a Roma
di mitra imperial cinta la chioma.
20Meraviglia non è se acceso serbo
contra lei d’ira un foco, un foco spento
già contra gli altri, e se con sdegno acerbo
sol contra lei di vendicarmi tento,
ché temeraria un carro alto e superbo
di gemme ha fatto, e d’or tutto e d’argento,
ma d’arte tal che il ricco e bel lavoro
le gemme avanza di valuta e l’oro,
21sopra cui, cinta il crin di lauro, spera
d’entrare in Roma Augusta e trionfante,
e in Campidoglio di vedersi altera
tutti del mondo i re chini davante.
Ma farò sì che in Roma prigioniera
sul carro andar potrà d’oro e di tante
gemme carca che, giunta in Campidoglio
stanca, allor priva si vedrà d’orgoglio.
22Per contrario farò che Aureliano,
ch’entro a quel bosco a piè, stanco e smarrito,
si tira dietro il destrier zoppo a mano,
sì da Zenobia e da i figliuoi schernito,
da lui vinta, monarca al più sovrano
grado vedrà per cagion mia salito,
sendo opra de gli dèi giusti e severi
d’alzar gli umìli e di abbassar gli alteri».
23E così detto, essendo e questa e quella
quinci e quindi al gran Padre eterno a lato,
Giunone umile in atto ed in favella
disse: «O Rettor del sempre immobil fato,
se destin forte o se benigna stella
lo sdegno ch’era in me tutto han cangiato
verso Costante illustre alto guerriero
in puro affetto e l’odio in amor vero,
24vi supplicò a far sì, per l’onor mio,
mosso da la bontà vostra infinita,
che Aurelian vinca Zenobia ond’io
da le femine ancor non sia schernita.
Superba ognor, mi pose ella in oblio,
né mai sacrificommi a la sua vita,
oltra che il fasto che in costei si vede
di troppo il segno e la misura eccede».
25L’eterno Padre allor da l’alto trono,
severo e venerabile d’aspetto:
«Cara consorte mia, contento sono»
rispose «che il desir vostro abbia effetto,
sì perché da ogni parte è giusto e buono,
sì perché io prendo ognor gioia e diletto
nel compiacervi, e gran piacer ne sento,
fatte il vostro voler ch’io son contento».
Giunone travestita da Sereno usa lo Sdegno su Aureliano per aizzarlo contro Zenobia (26-44)
26Dunque la dea, poi ch’ebbe a Giove rese
grazie infinite, allegra nel sembiante
in Argo sopra il carro suo descese,
dove per la gran figlia di Taumante,
che pronta sempre ad ubidirla intese,
la Discordia chiamar si fe’ davante,
cui giunta, onde chiamolla a sé, Giunone
brevemente saper fe’ la cagione.
27E volse che spargendo infernal tosco
con l’Odio, con lo Sdegno e col Furore
gisse là dove errava ancor nel bosco
smarrito Aurelian di strada fuore,
e che deposto il guardo torto e fosco,
con quel sì scuro e torbido colore,
di sangue il velo pien, d’idre le chiome
nuova forma prendesse, abito e nome.
28E poi che l’informò di quanto a pieno
dovesse far, colei l’Odio e lo Sdegno
tolto seco, e il Furor, mortal veneno
vomitando, sen gìa senza ritegno:
e se qualor più la ritira il freno
convien che scorra e che trappassi il segno,
che farà adunque spinta a quella volta
da sproni ardenti e d’ogni freno sciolta?
29Tosto prese la forma di Severo,
ch’amando al par d’ogni altro Aureliano
l’amava anch’ei, perch’era cavaliero
forte, animoso, e cittadin romano,
e giunto ove di notte il suo destriero
si traea dietro per la briglia a mano,
lo ritrovò di sudor molle e stanco,
ferito di saetta il destro fianco.
30Vistosi Aurelian giunger davante
colei che appar Severo, a l’improviso,
tra i rami torti e tra le folte piante,
rasserenossi per letizia in viso,
e tosto domandò se da Costante
fosse preso Cratero o stato ucciso,
e quanto del lor campo era seguito
mentr’ei nel bosco errò stanco e smarrito.
31Rispose allor la Furia: «È ben ragione
se di Costante pria d’ogni altro chiedi,
costretto essendo andar per sua cagione
stanco e perduto in questo bosco a piedi:
sappi ch’egli e Zenobia opinione
tengon mala di te, né forse il credi,
ma temo ben, se non ti mostri accorto
più che non sei, che lo vedrai di corto.
32Che il tuo destrier le desse parv’atto
da tolerar? ti parve cosa onesta?
Se allor ben chiaro non restasti affatto,
per farti chiaro a pien che più ci resta?
Perché Leucippo non ti diè in baratto,
vista Zenobia star pensosa e mesta
allor che non potea trovar destriero
da guerra tutto come Antrace nero?
33S’ella voluto ritrovarne avesse,
gran copia in Siria n’è per ogni loco;
scoprissi che per vil te sol tenesse,
e che accettandol ti stimasse poco;
ma che il destrier Costante ti togliesse
per darlo altrui, parmi l’ingiuria un gioco
rispetto a la cagion che ’l mosse a farlo,
ché indegno ti stimò di cavalcarlo.
34Ma doler poco del guerrier ti dei,
ché, d’amor tutto di Zenobia acceso,
cura non ha per far servigio a lei
se tutto il mondo ben restasse offeso;
sol da Zenobia ingiuriato sei,
che il cor tutto a schernirti avendo inteso
con nuova occasion l’empia ogni giorno
ceca di farti nuova ingiuria e scorno.
35Fuor che tu sol, già tutti gli altri accorti
si son, quei due suoi pargoletti figli
farsi talora in tua presenza smorti
di colera e talor d’ira vermigli.
Non vedi quei con gli occhi biechi e torti
guardarti?, e non ti accorgi de i bisbigli
che fa Zenobia, ognor di rabbia accesa
contra di te, da cui si chiama offesa?
36Da quella sera in qua ch’Erenniano
mentre volevi accarezzarlo a caso
restò ferito ne la destra mano,
grand’odio e sdegno in lei sempr’è rimaso,
e la perfida ognor cerca pian piano
sì come in cera molle o in fresco vaso,
con ogni industria oprar che in questa prima
età l’odio e lo sdegno in lor s’imprima.
37Però convienti esser ben cauto e desto,
e dimostrarti accorto e circospetto,
che sì grav’odio e sdegno manifesto
non faccia contra te malvagio effetto;
consiste il vincer nel giocar più presto,
né dir bisogna de i fanciulli aspetto
l’età viril, sapendo già qual sia
Zenobia cruda e quanto iniqua e ria.
38De l’odio e de lo sdegno suoi già provi
quai sian gli effetti a tuo mal grado in parte,
poi ch’ora a piedi e stanco ti ritrovi
ferito di saetta in questa parte,
sappi che l’empia ognor con modi nuovi
t’assalirà, che d’usar fraude ha l’arte;
s’avesti il tuo destrier, ch’ella t’ha tolto,
non erraresti in questo bosco folto.
39L’aver destrier di poca lena e tardo
fu sol cagion di questo, e che sia il vero
Claudio, che si trovò sotto Miardo,
non smarrì come tu l’orma e il sentiero;
ma Poro ucciso a tempo ancor gagliardo
poté mostrarsi al prender di Cratero.
Ma questo danno e questo scorno è lieve
rispetto a quel che t’apparecchia in breve.
40Di quel c’ho detto, essendo accorto e saggio,
come tu sei, non pur non me ne pento
ma vuo’ dir questo ancor, ch’egli è vantaggio
non aspettar da gli altri esser prevento;
e quanto a questo poco di viaggio,
che infino al campo, poi che il giorno è spento,
su l’erba loderei che in questo loco
ciascun di noi si riposasse un poco».
41Lodato Aurelian ch’ebbe il parere
de l’empia Furia, tutti cinque a paro
nel folto bosco postisi a sedere,
in fino al nuovo giorno si fermaro;
dal sonno vinto Aurelian giacere
convenne, e come quei prima ordinaro
la Furia e l’Odio e lo Sdegno e il Furore
lo sparser tutto d’infernal liquore.
42Con sputo di centauro misto v’era
d’Idra e d’Arpia, di Cerbero e di Sfinge
sangue puro, e di Scilla e di Chimera,
che a far vendetta l’uom sempre costringe;
e s’ei non ha sofferta ingiuria vera
l’occasion s’imagina e si finge,
e colmo d’odio, di furor, di sdegno
si aguzza ognor, pensando a ciò, l’ingegno.
43Già desto, apparso il giorno, Aureliano
pensando a quanto avea la Furia detto,
quasi rabbioso si mordea la mano
di furor, d’odio e pien di sdegno il petto
contra Zenobia e contra Erenniano,
e contra Timolao sì giovenetto,
pensando sol di far vendetta aperta
di quella ingiuria ch’ei non ha sofferta.
44Ma sì di vera gloria e d’alto onore
desir sempr’ebbe e d’osservar la fede,
che al grand’odio, al gran sdegno, al gran furore
per molto tempo indugio il guerrier diede;
prima è pronto a servir con tutto il core
Costante in quella guerra (per mercede
che a lui la libertà da quel fu resa)
che a vendicar l’imaginata offesa.
Lo Sdegno si riversa nel campo romano, ne nasce una zuffa, che Costante seda a fatica (45-59)
45E con questo pensier, che il cor gli punse
con troppo acuto stimolo molti anni,
da quei scorto allor proprio al campo giunse,
che, al sacco intenti ancor Galli e Britanni,
l’un duce sì da l’altro si disgiunse,
che ne seguiron gravi eterni danno.
Tosto la Furia co i seguaci suoi
d’Esperia entrò tra i vincitori eroi.
46E con più strali tinti nel liquore
medesmo tolto nel tartareo Inferno,
co i tre compagni or questo, or quel nel core
ferendo giva, onde il fier colpo interno
benché alcun segno non lasciasse fuore,
dentro il duol rimanea però in eterno;
poscia restaro ancor gli aspri tormenti
a i lor figli, a i nepoti, e i descendenti.
47La Discordia, il Furor, l’Odio e lo Sdegno,
senza avventar giamai saetta in vano,
ferendo audaci gian senza ritegno
fra quei duci, e da presso e da lontano,
talché spinto dal duol convenne il segno
passar Vasconio, il gran duce aquitano,
dando altero a Loranio tal percossa
che fe’ del sangue suo la terra rossa.
48Brabanzio audace, che di ciò s’accorse,
del caro amico suo per far vendetta
trasse la spada colmo d’ira e corse;
ma Probenzio di lui con maggior fretta
Vasconio a tempo il suo fratel soccorse,
con quel che in van mai non mandò saetta
Langedo, e con molti altri allor si uniro
contra de i Belgi, e quei pronti assaliro.
49Trovato i Belgi non avrian riparo
poi che de gli Aquitani per difesa
quei di Narbona e i Celti tutti andaro;
ma partecipi fatti de l’offesa,
co i Belgi anco i Britanni audaci entraro
con impeto maggior ne la contesa,
ché Langedo passò d’un strale acuto
Cornubio sì che non gli valse aiuto.
50Da Nivernio Brabanzio ebbe ancor morte,
sì coraggioso e sì gentil guerriero,
come Loranio al fin per man del forte
Vasconio, che l’assalse ancor più fero;
Langedo, senza ch’arco o stral gli apporte
soccorso, caddé anch’ei, per man d’Anglero;
Probenzio strinse il ferro e il destrier punse
per dar soccorso a quel ma tardi giunse.
51Quivi allor tanti avvennero e tai danni
tra quei duci che ancor se ne ragiona;
non pur si disunìr Belgi e Britanni
da i Celti e da le schiere di Narbona,
ma per dargli più gravi e lunghi affanni
la Furia or questo or quel sì fère e sprona
che tra lor colmi ancor quei d’un sol regno
rimaser d’odio, di furor, di sdegno.
52Scotiro provocato altero strinse
la spada contra Anglero e con furore,
senza potersi aitar, quivi l’estinse,
ché d’una punta lo ferì nel core;
d’Anglero un figlio poi Scotiro spinse
non già del tutto di Britannia fuore,
ma ben lo chiuse a viva forza in loco
sì stretto che potea nuocergli poco.
53Ma che direm di quei non pur fratelli
di tanto amor congiunti e di tal fede,
ma nati ad un sol parto ambi e gemelli
(ch’esser più che fratel questo si vede)?
Dico Artosio e Picerde, che rubelli
l’uno a l’altro, superbo Artosio diede
tal colpo al suo fratel di furor pieno
che del sangue di quel tinse il terreno.
54Picerde in faccia per gran doglia smorto,
spinse il destrier, colmo di rabbia, inante,
e senza dubbio avrebbe il fratel morto
se quivi a tempo non giungea Costante,
che il gran danno e il maggior periglio scorto
nel cor turbato e tristo nel sembiante,
con fretta il freno in quella parte torse
talché inanzi più quivi il mal non scorse.
55Col pio Costante ancor Domiziano
venne, e Claudio e Sereno e venne Adorno,
non men giunse in quel punto Aureliano,
che fatto avea pur dianzi anch’ei ritorno:
questi con preghi, alzando ognor la mano
d’arme ignuda, e scorrendo il campo intorno
fèr sì che si acquetò l’aspra contesa
ma non scordossi alcun per ciò l’offesa.
56La somma autorità del cavaliero,
l’amor che ogni un gli porta e il gran rispetto
l’impeto raffrenò; l’odio e quel fero
sdegno e furor ciascun si chiuse in petto.
Ciascun volgea tra sé dentro al pensiero,
del suo vicin prendendo ognor sospetto,
come sfogar la rabbia e in questa guisa
la Gallia allor restò tutta divisa.
57Quei di Narbona, i Celti e gli Aquitani
da l’una insieme uniti si accostaro,
da l’altra parte i Belgi, che Germani,
non Galli come gli altri, si chiamaro;
co i suoi rimase Artosio e con gli estrani
Picerde, e i Belgi ancor si scollegaro
con la Britannia, sol Scotiro eccetto
che d’appoggiarsi a i Galli fu costretto.
58Fra tanti neutral fu sol Vizero
che in quelle alpestri e sterili contrade
non si volse mai por sotto l’impero
d’altrui, ma stette sempre in libertade.
Pria co i Britanni essendo Irlando, Anglero
visto e Scotiro poi sfodrar le spade,
l’un contra l’altro accorto aiuto porse,
sempre a la parte che più debol scorse.
59E tal discordia con furor, con sdegno
mista, e con odio andò fra i descendenti,
Costante il cavalier pregiato e degno
con quei sì accorti duci e sì prudenti;
fe’ sì, con la fatica e con l’ingegno,
che raffrenò quelle sfrenate genti,
e, partita la preda in tal maniera
che n’ebbe ogni un, ritrasse il campo a Iera.
Invia Claudio e Domiziano a sbaragliare l’esercito di Artaferne, stanziato nelle vicinanze: lo raggiungono e lo assalgono mentre guada un fiume, è una carneficina (60-94)
60E i cadaveri tutti il dì seguente
brusciati, onde non fosse il cielo infetto,
in tanto Almero accorto e diligente
di Costante arrivò quivi al cospetto,
cui fe’ saper che ognor verso Oriente
giva Artaferne pien d’alto sospetto,
e con le genti ch’erano scampate
che già passato avea salvo l’Eufrate.
61E ch’eran quei quaranta mila e tutti
colmi di gran viltà, d’alto spavento,
e che inermi e feriti e mal condutti
stava a la fuga sol ciascuno intento,
ma che in sicuro loco al fin ridutti
riprenderian vigor, forza e ardimento;
e che a i feriti avendo ognor riguardo
sen giva il duce lor pauroso e tardo.
62E ch’ei se dietro a quel seguia con venti
mila soldati prattichi e con meno,
o de’ suoi duci alcun forti e prudenti
Adorno, Aurelian, Claudio e Sereno,
che d’Artaferne e di quell’altre genti
s’avria vittoria indubitata a pieno.
Questo udito, il guerrier tacito volse
tra sé più cose pria, poi si risolse.
63Conchiuse, perché a dir gli avea mandato
Zenobia di venir fra quattro o sei
giorni a lui, d’aspettarla, ch’avea grato
per più rispetto di parlar con lei.
Con Claudio adunque Aurelian chiamato
disse: «O compagni, anzi signori miei,
per quel che ognor di ben mi si appresenta,
maggior la speme in me sempre diventa».
64Poi la nuova saper gli fe’, ch’Almero
di secreto gli avea pur dianzi detta,
d’Artaferne gran duce e gran guerriero
che sen fuggia da lor ma poco in fretta,
e pregolli a salir tosto il destriero,
e che secondo il gusto loro eletta
fosse la gente che per questa impresa
togliesser, sempre andando a la distesa.
65Claudio s’offerse come sempre umano
di gir, pronto e cortese nel sembiante,
ma: «Non posso» rispose Aureliano,
d’odio e di sdegno pien verso Costante;
dunque in sua vece andò Domiziano;
e già rimesso a Claudio avendo quante
genti volea, sol venti mila tolse
pedoni e cavalier, ché più non volse.
66E quel medesmo dì passò l’Eufrate
con gran prestezza al dritto ivi di Iera,
e sempre caminando a gran giornate
mattina mai non riposava o sera;
di ferro e di valor vedeansi armate
l’ardite genti di sua scelta schiera;
con questa, pria che ancor potesse averne
notizia, il sesto dì giunse Artaferne.
67Per tempo un dì che a pena avea l’aurora
le belle treccie d’oro a l’aura sparte,
tacito arrivò sì ch’egli ancora
di ciò nuova non ebbe o in voce o in carte;
presso ad un fiume il giunse, detto Ascora,
che da i monti d’Armenia, onde si parte,
debil vien prima e poi forza ognor prende
talché a l’Eufrate ampio tributo rende.
68Questo, verso Austro a gir mai sempre inteso,
l’acque di pesci avendo ognor feconde,
quasi egualmente in due parti la Meso-
potamia parte con l’altere sponde.
Come l’Egeo talor da i venti offeso
minaccioso gonfiar si vede l’onde,
così con gonfio e con spumoso corno
superbo Ascora si vedea quel giorno.
69Ciò fu cagion che timido e smarrito
per l’improvisa giunta il duce perso
restasse allora, e benché mai fuggito
non fosse in vita sua per caso avverso,
però quel dì, non come prima ardito,
per dritto e inanzi e indietro e per traverso
fuggia, poi che varcar non potea il fiume:
contrario effetto assai del suo costume.
70Se ben d’infermi e d’altri impedimenti
pieno era il campo suo, con sì grand’arte
dispone i carriaggi e l’altre genti,
quando insieme raccolte e quando sparte,
che i due romani ad assalirlo intenti,
seguendol pronti e in questa e in quella parte,
da quel sagace ognor furon delusi,
talché vedeansi andar mesti e confusi.
71Ma tanto esperti anch’essi e d’ogni ’ntorno
sì vigilanti e destri il seguitaro
che n’avria il Perso avuto e danno e scorno,
né col fuggir trovato avria riparo.
Questo visto Artaferne, il quarto giorno
scorgendo Ascora assai men gonfio e chiaro,
si cacciò dentro a quel con la sua gente
per passarlo e per gir verso Oriente.
72Ma prima Claudio, il gran duce romano,
la notte anch’ei più basso il fiume scorto,
con sei mila guerrier Domiziano
girar fe’ da man destra ascoso e torto;
qual già passato poco indi lontano
senza che Perso alcun sen fosse accorto,
con quella schiera tacito veniva
al dritto lor per la contraria riva.
73Dunque Artaferne tutto essendo volto
ch’ogni un sicuro passi a l’altra sponda,
restò nel mezzo a l’improviso colto,
là dove proprio era più cava l’onda;
con molto ardir, qual fiamma acceso in volto,
pur che a l’ardir la forza corrisponda,
per disperazion fatto più franco
si volse, e fe’ che i suoi si volser anco.
74Poi che a scampar la strada non discerne,
ma visto il suo fin giunto e la sua morte
quei, che ognor la sprezzò, né mai d’averne
mostrò timor, ne i gran perigli forte,
con preghi e con minacce ecco Artaferne
far sì che, prima sbigottite e smorte
le genti sue per tema, ciascun volto,
mostrò poi forte a l’inimico il volto.
75Tal pur dianzi tener sopra il destriero
poteasi a pena, stanco, egro e dolente,
che per necessità superbo e fero
mostrossi contro la Romana gente;
ciascun si caccia, pien di rabbia, altero
là dove appar più rapido il torrente;
chi grida e chi minaccia e chi percuote
lasciando assai destrieri a selle vote.
76Chi di potria col suon de le percosse
l’alte strida che udiansi a mille a mille?
Divenner l’acque al primo incontro rosse,
e fino al ciel salian fiamme e faville;
di Persia il duce con furor si mosse,
nuovo Ettore sembrando e nuovo Achille,
contra Domizian che, sopra una alto
destrier, correa superbo al crudo assalto.
77Domizian, cui mai non fu costume
di fuggir, corre ardito ad incontrarlo,
che al primo colpo altero si presume
di dargli morte o dal destrier giù trarlo,
ma, sendo nel maggior corso del fiume,
come volea non poté ivi afferrarlo;
questo anco al Perso avvenne a tal che Ascora
ruppe d’entrambi ogni dissegno allora.
78Ma fecer tanto in questa e in quella parte
che teste e braccia e gambe et altre membra
vedeansi a nuoto andar per l’acque sparte,
né simil fatto alcun mai si rimembra.
Se Artaferne quel giorno sembra Marte
non men Domizian Bellona sembra;
e successero atroci orrendi casi
de gli infelici allor morti rimasi.
79Molti che di corazza erano armati,
d’alto bombagio e di sì fatti arnesi
pregni quei d’acque e tumidi e gonfiati,
del solito anco assai fatti più pesi,
nel fondo giù per forza eran tirati,
da chi speraro aiuto essendo offesi;
sul viso altri giù l’elmo si calaro,
così l’onde scacciar da lor pensaro.
80Ma giù sommersi per destin lor forte
di sopra verso gli apollinei rai
fin che in tutto non eran giunti a morte
non si scopriva il corpo lor già mai.
Molti condutti da più dura sorte
più lungamente per serbarli in guai,
da l’onde ch’avean contra con furore
venìa lor tolto il mandar l’alma fuore.
81Per uscir fuor de l’acque mentre abbraccia
Tirete un olmo stretto, ecco Veruto
tagliargli con la spada ambe le braccia,
talché il miser da l’arbore caduto,
rivolto avendo in verso quel la faccia,
veder lo potea stretto ancor tenuto
da l’una e l’altra sua spiccata mano
mentr’ei da quelle si dolea lontano.
82Stando Lambron del fiume in su la sponda,
Marne con gran pietà, suo fratel, scorse
languir ferito a morte in mezzo l’onda,
talché per aiutarlo in fretta corse;
Marne abbracciatol seco a la profonda
parte il tirò, così non pur porse
soccorso al suo fratel, ma giù riversi
caddero e, stretti, furo ambi sommersi.
83Dietro, ferito ne le spalle, Archinto
per vendicarsi tosto rivoltosse,
ma sol trovò che l’onde avean spinto
con impeto quel dardo che ’l percosse.
Tutto nel viso di rossor dipinto
Nimetro, come impenetrabil fosse,
tenea la destra con la spada in alto
minacciando a i nemici un fero assalto.
84Ma quasi dentro un stretto gruppo involto,
da l’acque absorto, giù convien che cada:
calar si vide il petto e il collo e il volto,
le chiome e il braccio, e in ultimo la spada.
Domizian, crudel quel giorno molto,
ferito il suo destrier, non stette a bada,
ma giù disceso a piè sopra la sabbia
contra i Parti sfogò l’ira e la rabbia.
85Psimarto uccise e Lirida e Timante,
Tagrio, Agirte, Catarisi e Tiferne,
talché gli fugge ogni un quivi davante
dove men grosso il gorgo esser discerne;
ma per quanto fuor mostra nel sembiante
d’ira e di rabbia pien dentro, Artaferne
corse con furia e tal colpo gli diede
che a fatica tener si poté in piede.
86Si contorse il roman molto e si dolse
per l’aspra doglia e per l’acerba pena,
e contra il Perso in tal fretta si volse
che il colpo ancor non gli avea dato pena;
ma di sotto il piè destro a quel si tolse
sì lubrica e mal ferma era l’arena,
e dal fiume al cader restò sommerso
non ch’avesse di lui vittoria il perso.
87Ma ch’ei morto l’avea ben chiara voce
per tutto il campo allor allor si sparse,
per ciò più fatto ancor Claudio feroce,
d’ira infiammossi, che nel petto l’arse,
onde correndo se n’andò veloce,
né perder volse il tempo a lamentarse,
ma con gridi e con sproni il suo Miardo
cacciando, il riprendea che fosse tardo.
88Scorto l’impeto i Persi e il furor grande
con che ne vien l’alto guerrier latino,
l’un fugge a queste e l’altro a quelle bande,
chi sotto l’acque si fa curvo e chino;
come a gran schiere or qua, or là si spande
qualor tra il picciol pesce entra il delfino
che di cibarsi cerchi, ancor digiuno,
così pauroso allor fuggia ciascuno.
89Cabarte, Pranse, Peroza e Tigadre
Claudio uccise, e Mirratro, di colore
sì vago e di fattezze sì leggiadre,
e simil tanto a suo fratel Cratore,
che l’un per l’altro spesso avea la madre
propria, a guardargli ben, tolto in errore:
Claudio sul capo sì col ferro il colse
che la matre d’error per sempre tolse.
90De’ suoi scorto Artaferne il gran macello,
poi che sommerso fu Domiziano,
pien d’ira e d’odio e con l’animo fello
corse dov’era il gran duce romano;
visto lui, Claudio al dritto anch’ei di quello
col ferro andò tinto di sangue in mano;
giunti e scontrata l’una e l’altra spada
convien che foco e fiamma in aria vada.
91Durò più di mezz’ora la contesa,
che l’un de l’altro ognor stette al paraggio;
ma Claudio, ancor ch’avesse in quella impresa
de l’avversario suo gran di svantaggio,
perché la vista gli restava offesa,
del sol proprio rivolta incontro al raggio,
però con sommo onor, con somma gloria
ne riportò la trionfal vittoria.
92Con sì gran luce riflettea ne l’onda
il sol ch’era al guerrier la vista tolta,
onde il perso pian pian presso a la sponda
cacciato, ch’era a l’Oriente volta,
d’un orno a l’ombra giunse, che la fronda
per tutto avea ne gli alti rami folta,
dove non gli era tanto offeso il lume
e men rapido ancor vi correa il fiume.
93Quivi potendo riguardarsi intorno
diè sul capo al nemico tal percossa
che restò morto a l’ombra di quell’orno,
e lasciò l’acqua del suo sangue rossa;
poi, visto ch’era omai fornito il giorno,
la mente avendo per pietà commossa,
pensoso a risguardar fermossi alquanto
e ritenea con gran fatica il pianto.
94Pien vedea il fiume in quelle parti e in queste
di tronche membra, innanzi al suo cospetto
molte faccie al lor collo e molte teste
correano, e molte braccia al proprio petto;
spogliati alcun già d’armi e di veste,
là dove il fiume esser vedean più stretto,
facendo a Dio per lor salute voto,
fuggian paurosi a l’altra riva a nuoto.
La morte di Pandoro genera l’ira delle divinità fluviali, che sommergono buona parte dell’esercito romano (95-122,5)
95Un giovenetto, d’Ascorilla figlia,
d’Ascora nato e d’un Silvano, d’oro
mostrava il crine, e candida e vermiglia
a bella guancia, e nome avea Pandoro;
vago era e forte e saggio a meraviglia,
che al suo nascer gli dèi del sommo coro
quanto ciascun dal ciel più largo pote
gli infuse ogni sua grazia, ogni sua dote.
96Venere fe’ che pari di bellezza
non ebbe, e per Minerva fu prudente,
largo Pluto gli diè somma ricchezza,
di Maia il figlio quel fece eloquente,
Marte gli diè la forza e la destrezza,
talché Pandoro fra la mortal gente
privo non pur vivea d’ogni diffetto
ma sol poteasi addimandar perfetto.
97Del Tigre ad ogni ninfa e de l’Eufrate
tanto e d’Ascora la sua forma piacque
che per sì mostruosa alta beltate
di viva fiamma tutte ardean ne l’acque;
del giovenetto al cor somma pietate
quel giorno, vista la gran strage, nacque:
vede, né la cagion sa imaginarse,
per tutto il fiume umane membra sparse.
98Donde fu d’arme il fatto era lontano
il giovenetto allor circa tre miglia,
cui parve caso a veder nuovo e strano
di bianca divenir l’onda vermiglia,
e sì di membra or braccio, or testa, or mano
coperto il fiume, ond’ei per meraviglia
contra l’acque a nuotar si mise tosto,
l’origine a trovar di ciò disposto.
99Ogni gorgo del fiume, ogni antro noto,
su verso il monte o giù verso la foce
gli era in tal guisa che sicuro a nuoto
per tutto se ne gìa destro e veloce,
tal Palemon d’ogni altra cura vòto,
fuggendo il padre suo crudo e feroce
sen gìa per l’onde salse afflitto e smorto,
o d’Antedone Glauco intorno al porto.
100L’acque vedeansi a quel dietro e davante,
o contra il fiume over nuoti a seconda,
scherzar giocando sotto le sue piante,
e sostenerlo con diletto l’onda;
ma giunto ove coperto era di tante
membra il fiume da l’una a l’altra sponda,
d’ira infiammato, come ardente face,
troppo divenne il giovenetto audace.
101Et or con uno strale, or con un dardo
provocava da lunge il gran romano,
ma con destrezza il buon destrier Miardo
cader facea sempre ogni colpo in vano,
che in mezzo l’onde come in terra un pardo,
or volto a destra ora a sinistra mano,
fe’ sì che un sol di cento strali almeno
coglier nol poté in parte alcuna a pieno.
102Gran pezzo Claudio a far che nol cogliesse
Pandoro sol restò col pensier volto,
e che suo colpo mai non l’offendesse:
per ciò stava in se stesse ognor raccolto;
non che sì bel, sì giovene il vedesse,
ché l’elmo il capo gli copriva e il volto,
ma sol perché pur troppo gli dolea
di quei che infino allor già morti avea.
103Poi che ogni Perso quivi estinto giace,
si meraviglia assai del giovenetto
che tanto temerario e tanto audace
si mostri, ritrovandosi soletto;
ma quel, che seco aver non volea pace,
talmente l’irritò che fu costretto
d’avventargli uno stral di quei che a nuoto
per l’onde gian, né cadde il colpo a vuoto.
104Borea, geloso d’una ninfa detta
Filtra, che l’amor suo sprezza, spinse
con tal furor l’acuta empia saetta
nel cor del giovenetto, ché l’estinse;
ben l’onda per salvarlo alta e ristretta
si oppose, e tutto quel d’intorno cinse,
ma non per ciò con ogni sforzo tolse
l’impeto al colpo, che nel fianco il colse.
105Traffitto il giovenetto del feroce
colpo, che in grembo a l’avo suo l’uccise,
«Ahi,» gridò «madre, io muoio», e questa voce
l’ultima fu ch’egli in sua vita mise;
la qual d’intorno spartasi veloce
tutte le ninfe per pietà conquise,
le selve e i campi e gli argini commosse,
come ancor l’acque del suo sangue rosse.
106La matre, udito il figlio, afflitta e mesta
prorrompe in strida e in pianto, e l’auree chiome
si straccia da furor spinta e la vesta,
chiamando sempre di Pandoro il nome.
Da l’antro uscita, or quella parte or questa
scorre per ritrovarlo, e non sa come;
come non sa, né sa dove trovarlo,
e tutto il tempo in van spende a cercarlo.
107Tra quelle genti quivi morte armate
lo scudo sol trovò la madre allora,
che il cadavero già presso a l’Eufrate
portato avea, di dolor colmo, Ascora:
lo conobbe a l’altere insegne usate
dal figlio ognor (ch’era Pomona e Flora),
oltra che in un gran fregio in lettre d’oro
da lunge apparia scritto in quel: Pandoro.
108E mentre teste tronche e busti e braccia
volge e guarda Ascorilla, finalmente
ritrova il suo figliuol, pallido in faccia
e sparso d’atro sangue orribilmente.
Ora la vesta a due mani e il crin si straccia
e fa che il grido in fino al ciel si sente,
e gambe e ventre a quel, de l’acqua tolto,
con le sue treccie asciuga e petto e volto.
109E molte Ninfe essendo al suo cospetto
per pietà corse, in fretta l’aiutaro
a far di gionchi e d’erba un molle letto,
cui sopra il bel cadavero posaro;
graffiossi poi con l’unghie il volto e il petto,
che di tenerla in van l’altre tentaro,
pregando il padre a giunte man che s’erga
tumido sì che il traditor sommerga.
110Uditi Ascora i suo preghi e lamenti,
chiamò in aiuto e venner tutti pronti
con gran velocità rivi e torrenti,
e giù la neve si stillò da i monti;
non poco ancor gli dier d’aiuto i venti
che, incontra l’Orse ognor volte le fronti,
là dove ha foce Ascora ne l’Eufrate
l’onde indietro tenean per forza alzate.
111Claudio ogni Perso in tanto già veduto
l’acqua di sangue aver fatta vermiglia,
del fiume tanto e sì tosto cresciuto
tra sé prende a pensar gran meraviglia;
si sforza indarno pur di darsi aiuto,
tenta indarno al destrier volger la briglia,
ma ritrovarsi non può sopra la sponda
tanto l’assale impetuosa l’onda.
112Mentre lo scudo ardito a l’empia porge
punto non pur da sé non la discaccia,
ma con più crudo orgoglio altera sorge,
talché gli arriva omai fino a la faccia;
Claudio, che chiaro il suo periglio scorge,
per gran timor tutto nel petto agghiaccia,
ma Venere, che ognor cura si prese
de i suoi Romani, al sommo Padre ascese.
113Giove allor dentro a le superne sfere
s’era tra Cinzia assiso e tra Vulcano,
talmente esposto che ciascun vedere
chiaro il potea da presso e da lontano,
quando con quelle sue dolci maniere
la dea, per liberar l’alto romano,
se gli gettò prostrata umil davante
non men trista nel cor che nel sembiante.
114E quel pregò ch’avendo Claudio il peso
da sostener di tutto l’universo,
com’ella avea da lui più volte inteso,
non rimanesse alor quivi sommerso;
ma solo a vendicarsi Ascora inteso
del sommo Padre al seggio anch’ei converso,
di giunchi adorno il crin, bagnato il volto,
così parlò, di canne il ventre involto:
115«Padre, che il mondo e il Ciel reggi e governi,
e di giustizia ognor la spada adopri,
tu vedi pur da gli alti seggi eterni
mentre d’intorno ogni uman fatto scopri,
quanto ingiurie da Claudio e quanti scherni
sopporto, e se tu quei, signor, non copri
col tuo poter, gli oltraggi e i guai sofferti
mi staran sempre nel cospetto aperti.
116Pandoro, quel fanciul vago e innocente,
de l’avo e de la matre sua conforto,
e ch’era le delicie d’Oriente,
giace per man de l’empio Claudio morto:
ti supplico, devoto e riverente,
di tanta ingiuria che per lui sopporto,
da te, Padre, si tolleri e permetta
ch’io faccia contra il traditor vendetta.
117Deh, fa’ ch’io possa, o Padre, vendicarmi,
già provocato da sì giusto sdegno;
non mi sia tolto d’adoprar quell’armi
c’ho per difesa del mio picciol regno;
se Claudio ancor morrà, non per ciò parmi,
perduto avendo così nobil pegno,
che l’aver d’uom sì vil vendetta presa
di tanto semideo sconti l’offesa».
118Giove rispose allor: «Quel che dal Fato
fu conchiuso a principio da la sorte
per tempo alcun non puote esser cangiato,
ché quel via più d’ogni altro è fermo e forte.
Dunque d’ogni virtù sì Claudio ornato
non pur non deve oggi patir la morte,
ma de la terra a lui solo si deve
sì come ancor del mar l’imperio in breve.
119E del sangue di Gotti e d’Alemanni
la terra e l’acqua renderà vermiglia.
Ben voglio, in ricompensa de gli affanni
d’Ascora padre e d’Ascorilla figlia,
far de l’Imperio suo più brevi gli anni
che quei di Tito, a cui tanto simiglia,
ma quel che in venti far devria che in dui
compisca, e in meno ancor concedo a lui».
120Tacque Giove ciò detto e con la mano
fatto cenno, acquetò l’aspra tempesta,
che vana resa avria del gran romano
la forza e la virtù sì manifesta;
ben si sforzava arditamente in vano
di scacciar l’acqua torbida e funesta,
e quanto più restò di speme fuore
tanto in lui quella diventò maggiore.
121Si meraviglia Claudio a veder l’onda
che gli arrivò pur dianzi al collo e al mento
di sì rapida ch’era e sì profonda
divenir tarda e bassa in un momento;
salvo indietro tornò sopra la sponda,
dove gli altri a salvar fermosse intento,
e ritrovò che il quarto d’essi almeno
sommerso Ascora si chiudea nel seno.
122Ma di quaranta mila ch’avea il Perso,
quivi col duce lor tutti moriro,
fuor che intorno a tre mila, e fu diverso
il modo onde la vita quei finiro:
chi di coltello e chi restò sommerso.
Ma Claudio, poi che i suoi tutti s’uniro,Claudio torna a Iera, pochi giorni dopo giungono anche Vittoria, Zenobia e il suo ricco corteo (122,6-150)
preso il viaggio indietro fe’ ritorno,
e in Iera si trovò l’ottavo giorno.
123E come dentro al cor, fuor nel sembiante
mesto apparendo del compagno morto,
con parlar grato si sforzò Costante
di far sì ch’ei prendesse alcun conforto,
dicendo: «Le da voi fatte già tante
prove mostraran chiaro in tempo corto
che la difficil tanto impresa nostra
facil ne fia mercé de l’opra vostra.
124E benché sia Domizian caduto,
de l’alte imprese questo è proprio effetto;
che da la sua viltà sia proceduto
non è chi n’abbia pur picciol sospetto,
poi ch’era il fatal suo giorno venuto,
più tosto che stentar languido in letto;
chi l’ama aver de’ caro in un sol punto
vederlo a morte sì onorata giunto».
125Non tanto del compagno era cagione
la morte d’attristarsi dentro al core,
quanto che tenea Claudio opinione
che in quella pugna l’acquistato onore
per la strage di tanti con ragione
giudicar si devesse assai minore,
e sopra tutti gli altri per la morte
di sì gran duce, di guerrier sì forte.
126Ma di Costante quel parlar cortese
pien d’alto affetto e sì benigno e grato,
cagion fu ch’egli allor conforto prese,
né punto più si dimostrò turbato.
De le regine poi Costante intese,
per messo a questo effetto a lui mandato,
che a Iera e l’una e l’altra il dì seguente
si trovaria con tutta l’altra gente.
127Per ciò non pur di gioia e di piacere
Costante sol ma ciascun altro pieno,
co i duci tutti de l’armate schiere,
pria che Febo a i destrier ponesse il freno,
si mosse in contra le regine altere;
e in spazio d’otto miglia o poco meno
con ricca pompa e con trionfo raro
quelle per tempo ancor lieti scontraro.
128De l’essercito Argeo la terza parte
per antiguardia avendo, era primiero;
seguia poi del gran figlio d’Arismarte
il cener tutto sopra un carro altero,
fabricato con tanta e sì grand’arte,
con sì meraviglioso magistero
che avanzava il sottil vago lavoro
le gemme in questo preziose e l’oro.
129Un corpo umano d’or puro, a martello
da così dotto mastro fabricato,
che a risguardar parea fatto a pennello,
anzi a guardar parea ch’avesse il fiato,
vòto stava sul carro, e dentro a quello
col cenere del principe Odenato
mirra e balsamo e incenso eran, che fuori
l’aria empian tutta di soavi odori.
130Come un coperchio sopra che via tolto,
sì come ancor riposto esser potea,
del re stava talmente espresso il volto
che a risguardar l’effigie sua parea;
di porpora in un manto d’oro involto
pien di ricami il corpo si vedea;
quinci e quindi eran poi sul carro appese
quell’armi ond’ebbe il pregio in mille imprese.
131Ne la sublime parte avea una volta
larga dodeci piè, lunga diciotto,
di ricche gemme e d’or tutta con molta
arte distinta, e v’era un seggio sotto
con quattro faccie, e in quella ch’era volta
di fuor leggeasi alcun leggiadro motto,
che contenea con dir breve e coperto
del morto re gli alteri fatti e il merto.
132Ne la medesma faccia erano spessi
capi d’or di leoni e tutti quelli,
rilevati, eminenti e ben espressi,
tenean di gemme e d’oro in bocca anelli;
da questi tutti equidistanti messi
pendean di più colori allegri e belli,
qual ne’ tempi, ricchissime ghirlande
di gemme e d’oro e d’artificio grande.
133Le gioie a guisa di lucenti stelle
togliean la vista a qualunque occhio umano,
poscia in copia e sonagli e campanelle
fatte con maestria da dotta mano,
pendean sì grandi e in queste parti e in quelle,
che il suon s’udia da presso e da lontano;
poi da ogni alto una Vittoria v’era
di trofei carca e d’alte spoglie altera.
134La volta da pilastri sostenuta
vedeasi, e i capitelli eran corinti;
dentro a quelle una grada avea tessuta
di bastoni, ad un par tutti distinti;
d’un ricco e vago acanto e di valuta
inestimabil poscia erano avvinti
tai pilastri, che quel sparto e diffuso
girando gli avvolgea dal mezzo in suso.
135Tra le colonne e tra la volta poi
un spazio largo v’ha circa tre braccia,
dove del morto duce i padri eroi
tutti si veggion ne la prima faccia;
poi la seconda i chiari fatti suoi
di parte in parte alteramente abbraccia,
che Augusto da Galeno e suo consorte
fu detto, e quanto oprò fino a la morte.
136Si mostra ne la terza il tradimento
di Meonio e di Amantio, che in Palmira
pentito di sua fraude e mal contento,
se stesso uccide su l’ardente pira;
ne l’ultima da poi che il re fu spento,
di Zenobia ogni fatto ancor si mira,
e che arrivò più giorni andando errante
con le genti d’Esperia a lei Costante.
137Duo leoni dinanzi ne l’entrata
stavan con fermo e con orribil sguardo,
come quella da lor fosse guardata,
sopra la qual piantato era un stendardo
di porpora che d’India fu portata,
di sì vivo color, di sì gagliardo
ch’ogni altro color d’ostro a prova messo
debile e smorto gli sembrava appresso.
138Questo vessillo, poi che Aureliano
sfogò lo sdegno e l’infernal furore,
con tutte l’altre spoglie avuto in mano,
per meraviglia di sì bel colore
cercò d’averne con gran studio in vano;
tal fece Probo ancor suo successore;
mentre ogni altro di cenere parea,
questo a guisa di folgore splendea.
139Da la bandiera più che lampo rossa
d’oro pendente una ghirlanda stava,
che da i raggi del sol chiari percossa
or quinci or quindi mentre il carro andava,
e leggiermente ancor da l’aure scossa
qual fulmine a guardar gli occhi abbagliava;
sostenean due gran sale il carro adorno,
e le giravan quattro rote intorno.
140Poi ne l’estrema parte de le sale
fuor de le rote da ogni lato v’era
con arte un capo finto d’animale
come pardo, leon, tigre o pantera,
che un’asta o dardo o freccia o cosa tale
mordea con spaventevol vista e fera.
Stava un police poi fatto da dotto
mastro nel mezzo e giù nel fondo sotto.
141Con sì gran maestria, con sì grand’arte
posto era questo, ch’or per l’alta strada
tirato il carro, or bassa, in ogni parte
convien che stabil sempre e fermo vada.
Tanto e sì ricche v’eran gemme sparte
per tutto che del mondo altra contrada
mai tal non vide; in quel non era cosa
ch’oro non fosse over più preziosa.
142Tal carro, onde si vanta e con ragione
la Siria ancor via più d’ogni altro luogo,
quattro timoni avea, ciascun timone
quattro ordini di gioghi e ciascun giogo
quattro muli, da questa regione
tolti e da quella, e non rimase giogo
del Tauro che Zenobia diligente
non vi mandasse per trovarne gente.
143Talché trovati quattro oltra sessanta
neri come carbon tutti n’avea,
né segno in fronte o in qual si voglia pianta,
come anco altrove, in quei non si scorgea;
sì grandi e vaghi e di sembianza tanta
che l’un da l’altro non si discernea;
di gagliardia, di beltà somma rari
tutti vedeansi, e di grandezza pari.
144Di quei sessanta quattro muli, ornato
vedeasi alteramente ogni un di loro
di superbe corone e circondato
d’intorno al collo di sonagli d’oro;
parte da l’un, parte da l’altro lato
le chiome volte con sì bel lavoro
splendean d’oro e di gemme ricamate
che tesoro infinito eran stimate.
145Sopra ogni mulo un paggio moro adorno
venìa di gioie e di battuto argento,
di cui s’udian da lunge e d’ogni ’ntorno
le strida e il pianto e i gemiti e il lamenti,
fin d’Etiopia verso il Mezzogiorno,
donde soffia l’Austral tepido vento,
venir fece costor Zenobia tutti,
che al ciel mandavan le querele e i lutti.
146Con la battaglia poi seguia Aricorte,
duce prudente e coraggioso molto;
costui difese il re quand’ebbe morte,
che non gli fosse da i nemici tolto.
Con questa schiera mista era la corte,
talché ciascun d’oscuro manto involto
sopra l’armi vedeasi, e le regine
venian fra questi altere e pellegrine.
147Sopra un gran carro d’ebeno tirato
da quattro superbissimi elefanti,
venir vedeansi altere, e da ogni lato
la schiera cingea lor dietro e davanti;
semplice il carro tutto era intagliato
di torte viti e d’edere e d’acanti,
sì bei che a risguardar solo il colore,
non già la forma, ogni un toglie d’errore.
148Sopra duo seggi altere ambe, con molta
superbia e leggiadria sedean vestite
d’oscuri panni e l’una e l’altra volta
s’avea la faccia, d’amor vero unite;
sedendo in modo tal restò via tolta
di chi preceda la cortese lite,
si affaticò più volte ogni una in vano
per far che l’altra andasse a destra mano.
149Poi con la retroguardia il fido Adrasto,
pari a l’altre di numero, ancor giunse;
questi fu che di nodo stretto e casto
con Zenobia Odenato al fin congiunse,
come da i Persi aver guerra e contrasto
devesser, la regina gli disgiunse,
e in tre parti gli pose in ordinanza
qual sempre fu de i duci accorta usanza.
150Tutta la vettovaglia e i carriaggi
Zenobia collocò tra questa schiera,
l’inutil gente, come donne e paggi,
venìa tra questi, e poi che furo a Iera
ne le castella intorno e ne i villaggi
si diero alloggiamenti ad ogni schiera;
solo ambedue l’alte regine a paro
ne la città co i duci tutti entraro.