ARGOMENTO
Eraclio imperator, che guerreggiato
per ricovrar la croce un lustro avea,
presso all’Eufrate il campo suo fermato,
con la nuova stagion mover volea,
e indarno incontr’al popol battezzato
s’armò greggia d’Inferno iniqua e rea,
ché pria l’Angel di Dio, Niceto poi
diero aita e consiglio a i danni suoi.
Proemio (1-4)
1Sento trarmi a cantar del sacro legno
dove ’l figlio di Dio morte sofferse,
da pio rivolto e generoso sdegno
del magnanimo Eraclio all’armi perse.
Fur queste, ad onta del tartareo regno,
con celeste favor rotte e disperse;
corse sangue l’Eufrate e cadde vinto
il popol d’Asia e ’l fier tiranno estinto.
2Sovrano Sol, di cui favilla è questo
che l’universo illuminando splende,
per l’eclisse d’amor, che ’l ciel funesto
tutto adombrò di tenebrose bende,
Tu, che l’ingegno all’alta impresa hai desto,
l’illustra sì che quale il vero intende
fuor di tenebre il tragga, e tempri intanto
grazia che ’l tutto può la cetra e il canto.
3E tu, gran Cosmo, a sostenere il mondo
dato dal CielS | Cielocon sì felice impero,
quando talor dell’ampia soma il pondo
più ti si rende a sostener leggiero,
concedi alle mie carte il cor profondo,
libero sì d’ogni maggior pensiero,
che con qualche piacer da te sia visto
ricovrarsi da’ tuoi l’onor di Cristo.
4Ben è ragion se la purpurea croce
di mille palme i tuoi guerrieri onora,
che lei ritolta al regnator feroce
pietosa istoria udir ti giovi ancora.
E ben potrà questa mia rauca voce
mossa dal bel desio farsi canora,
sì che tra l’armi e le guerriere trombe
favorita da te suoni e rimbombe.
Idrausse sgela le nevi del Tauro per sbaragliare l’esercito di Eraclio attendato a valle, ma è fermato da Dio (5-37,4)
5Cosdra, il re d’Oriente, avea già fatto
della croce di Dio barbare prede,
e si giacea per le sue man disfatto
l’imperio quasi e la romana fede,
quando s’armò per così gran riscatto
Cesere, e volto in vèr l’aurora il piede
vittorioso in cento illustri imprese
eserciti e città distrusse e prese.
6Cadde per le sue man l’antica reggia
dell’avversario e le castella intorno,
et or che di pruine ancor biancheggia
l’ignuda terra e poco avanza il giorno,
fermasi in su l’Eufrate e non guerreggia
sin che ’l tempo miglior non fa ritorno,
e rinchiuso dal Borea attende quivi
Zeffiro, che ’l ciel apra e ’l mondo avvivi.
7Torna Zeffiro al fine, e da lui sciolto
del freddo verno il nubiloso velo,
vien da i tiepidi soli a i monti tolto
e dato a i fiumi il liquefatto gielo.
Si riveste la terra il duro volto
del suo bel verde e dell’azzurro il cielo,
e richiama l’april con dolci carmi
gli animali all’amore e ’l campo all’armi.
8Et ecco omai la gioventù feroce
rompendo gl’ozi ingloriosi e lenti,
riveste il ferro intrepida e veloce,
né sa più moderar gl’impeti ardenti.
«Su su (dic’ella), a ricovrar la croce»,
e ’l grido intorno rimbombar ne senti,
il grido universal ch’ambe le sponde
batte a l’Eufrate e risonar fa l’onde.
9A tal rumor, dell’agitato flutto
fuor de l’umido letto al sommo s’erge
Idrausse demòn, ch’orrido e brutto
dalla cintola in su l’onde sommerge.
Pien d’acqua e spuma ei giganteggia, e tutto,
gocciolandogli il crin, se stesso asperge,
scote la fronte e dove il guardo arriva
impallidisce e l’una e l’altra riva.
10Ei de l’Angeli erranti al gran conflitto
fulminato dal Ciel cadde ne l’onde,
dove poi giacque e dimorò trafitto
dell’alto fiume all’ime parti immonde.
Or sentendo il rumor del campo invitto
nel dipartir da l’arenose sponde,
nol potendo soffrir, nell’armi affisse
torbido il guardo, e poi girollo e disse:
11«Fia dunque ver che pur costoro andranno
di vittoria in vittoria alteri e lieti
fin che ’l tronco vital ne ritorranno,
né fia di noi che lo contenda e vieti?
Ma se dormendo i miei consorti stanno
a tal periglio e neghittosi e cheti,
sia timore o viltà, già non debb’io
parer mai lento in contrapormi a Dio».
12Ciò detto ei tacque, e più leggier del vento
che tra le selve impetuoso passi,
penetrando la terra in un momento
a i luoghi va caliginosi e bassi,
e da quel foco, ov’ogni lume è spento,
gran face accende e poi rivolge i passi
con l’infernal bituminosa fiamma
che ’l ciel perturba e tutto il mondo infiamma.
13Corre il mostro crudel, giunge e percote
la fronte al Tauro e le selvose spalle,
sopra di cui l’antica neve scote
ch’al ciel s’innalza, e più superbe falle.
E ’l giaccio omai, che contrastar non puote,
rovinoso ne va per ogni valle,
e per ogni pendice ove ’l consuma
l’infiammato demonio ondeggia e fuma.
14Non cessa il mostro, e in quella parte dove
l’ampio monte dell’Asia il fiume vede,
la diabolica man le fiamme piove,
raccende l’aria e la conturba e fiede.
Fiato che dall’Antartico si muove
quell’immenso calor la turba crede,
e la neve durissima si sface
al folgorar dell’invisibil face.
15Dall’ardor disusato il giel converso
subito in gonfi e rapidi torrenti,
ogni termine lor guasto e sommerso
precipitosi rovinar gli senti,
e trar correndo ogni riparo avverso,
argini e ponti, e co i pastor gl’armenti,
e portar d’ogni parte a ciel sereno
diluvio immenso all’alt’Eufrate in seno.
16D’acque torbide et alte il fiume onusto
tumido il corno e disdegnoso estolle,
né potendo soffrir carico ingiusto
freme superbo e ne rigonfia e bolle,
e fuor del letto, a tanta piena angusto,
trabocca al fin licenzioso e folle.
Le selve e i boschi e le campagne arate
perdon lor nomi e già son tutte Eufrate.
17Crescea la piena, e si schiudea nell’onde
il sole omai che l’Oriente imbruna,
e la luce nel ciel s’apre e diffonde
in mille parti ov’era accolta in una;
né pur mostra in quel campo o disasconde
i pericoli suoi l’avara luna,
ma serrata ogni via, spento ogni lume
giungosi a danno suo la notte e ’l fiume.
18L’imperador con mille faci e mille
vincer fa l’ombra e rinovarne il giorno,
e poi che vide le propinque ville
ondeggiar tutte a gli steccati intorno,
che vasto et alto il nuovo mar coprille,
né può più ’l campo variar soggiorno,
per entro il vallo a rinforzar s’aita
e rincorar la gioventù smarrita:
19«Natural cosa, o cavalieri, è questa,
che la Mesopotamia il fiume inondi:
così gravida poi la terra resta
e i suoi campi fruttiferi e fecondi.
Ma torna in breve a raffrenarsi presta
la sparsa piena a’ suoi più bassi fondi,
e giamai fino ad or con l’onde sparte
non superò questa sicura parte».
20Così dic’egli, e d’or in or più cresce
rapido il fiume e si solleva irato,
tanto che tra i guerrier se stesso mesce,
rotto l’impenetrabile steccato.
Lo spavento e l’orror la notte accresce,
c’ha del lume secondo il ciel privato,
e par che l’onda entro quell’ombra porte
indistinto terror d’Inferno e morte.
21La corrente crudel tirane seco
gl’uomini e l’armi e l’abbattute tende,
e le stelle ferir per l’aer cieco
d’amare strida un fiero suon s’intende.
Geme il mesto Latin, s’affligge il Greco,
nell’onda omai che sino al petto ascende,
e trema tutto ov’è più alto il suolo,
raccolto in un, lo sbigottito stuolo.
22Chi di lor tace e chi piangendo appella
per nome il figlio o la diletta moglie,
chi sue colpe rammenta e ’l sen flagella,
chi dal cor preghi e chi sospir discioglie.
Chiunque ha corridor gl’ascende in sella
e ’l più caro compagno in groppa toglie,
studiando ognun quant’ei più possa farsi
lontan dal corso e sovra l’acque alzarsi.
23Sbuffano i corridor, che sovra il dorso
correr sentosi omai l’onde sonanti,
né giocando a lor più redini o morso
gettansi all’acque orribili e spumanti,
e trascorrendo ov’è più alto il corso
gli svolge il fiume e gli trasporta avanti,
e là poi fatto ogni rinforzo a vòto
manca l’impeto al fin, la vita e ’l nuoto.
24Soppongon molti i propri usberghi e scudi
per far basso rilevo e poca sede,
miseri, et or delle lor armi ignudi
quel che tanto aggradìr premon col piede.
Ma ’l tutto è nulla: i fieri colpi e crudi
raddoppia il fiume e più superbo riede,
e portando ne va da tutti i lati
cavalieri e pedoni, armi et armati.
25Or chi potria della gran piena a pieno
ridir la strage, annoverar le morti?
Non valse ardir, né codardia nel seno,
ché periro egualmente i vili e i forti.
L’imperador, che vede attorno pieno
di moribondi un pelago e di morti,
per la pietà della cristiana gente
correr per l’ossa un duro giel si sente,
26e traendo dal cor grave sospiro,
scioglie il freno al dolor con queste note:
«O beati color che già moriro
nell’assalto crudel di Gazzacote!
Fra tant’alme gentil ch’al Ciel saliro
con lasciar de’ lor fatti illustri note
quant’era meglio il terminar la vita,
ch’oggi senz’alcun pro riman finita.
27Deh, perch’allor non ci fu dato in sorte
s’era prefisso a i nostri giorni il fine,
mostrare almen con generosa morte
quai sian l’anime greche o le latine,
morir pugnando e con la destra forte
far di barbara gente alte ruine,
e terminare in nobile memoria
e col sangue la vita e con la gloria?».
28Ma ’l buon Niceto, a cui comparte il Cielo
di sue grazie maggior più larghi doni,
a Dio si volge, e con verace zelo
scioglie in tacito suon vivi sermoni:
«Signor (dic’ei), che sovra il duro stelo
per noi te stesso a cruda morte esponi,
deh volgi or, prego, in così gran periglio
benignamente a questo campo il ciglio.
29E s’al nostro fallir giustizia chiede
questa non pur ma vie più grave pena,
grazia t’addimandiamo e la mercede
l’impetri a noi d’ogni tua sparsa vena».
A tal pregar dalla stellata sede,
premendo in giù la region serena,
scende l’Angel di Dio c’ha l’oste in cura,
e leggier se ne va per l’ombra oscura.
30Vibra l’asta del Ciel, ch’aver può ’l vanto
fino all’orrido abisso aprir la terra,
e dividendo all’atra notte il manto
che nell’umido lampo il mondo serra,
rapido se ne va sì che non tanto
veloce i nembi il folgore disserra,
e là dove Idrausse il giel consuma
raffrena il corso alla dorata piuma,
31e grida a lui: «Tu, dunque, tu del sole
gl’uffici usurpi, infame mostro? Ch’io…
Ma per me prima liberar si vuole
d’affannoso periglio il popol pio.
Sapete pur come trattar vi suole
spiriti ribellanti, il Cielo e Dio.
Via fuggi immondo al tuo fangoso letto
o nell’Inferno, a te degno ricetto».
32Quell’empio allor, che ’l folgorar dell’asta
soffrir non può che lo minaccia e preme,
dall’alto monte a cui la neve guasta
dolente in giù precipitando freme,
con quel furor ch’orribil mole e vasta
suol dirupar da le montagne estreme,
e dell’Eufrate al più riposto fondo
disdegnoso tornò lo spirto immondo.
33Del fiume allor su la sinistra riva
l’alto messo di Dio raffrena l’ale,
e rosseggiante più che fiamma viva,
avventò sopra lei l’asta fatale.
Rotto l’argine allor quinci deriva
la piena rea, che ’l popol fido assale,
et ecco omai che traviate altronde
dalla divina man s’abbassan l’onde.
34Dal petto al fianco e dalla coscia al piede
de gl’afflitti guerrier l’acqua declina,
e donde fuor della sua propria sede
tumida s’innalzò, queta s’inchina:
E come allor che tramontar si vede
e nascondersi il sol nella marina,
più che mai vive, scintillanti e belle
tornano in ciel le scolorite stelle,
35così poi che l’esercito cristiano
tornar quell’onda a i liti suoi s’accorge,
quanto fugge e s’abbassa il flutto insano
l’animo cresce e la virtù risorge.
E già lucida fuor dell’oceano
su per l’indico ciel l’aurora sorge,
e già sparge con man rosate fasce
per avvolgerle intorno al dì che nasce.
36Già nato è il giorno e già languendo imbianca
l’alma luce del ciel che c’innamora,
e l’aureo sol che le virtù rinfranca
lambendo i monti ogni lor cima indora,
sì che, vedendo come l’onda manca
e s’avanzan le rive ad ora ad ora,
rappariscono i campi, e già se n’esce
de l’onda il prato e rende al fiume il pesce.
37Si ristoran le squadre al sol novello,
libere omai del periglioso affanno,
e se ne rode il mostro iniquo e fello
ch’apportar si pensò l’ultimo danno.
Ma poi che dell’orribile flagelloEraclio fa estrarre del ferro per forgiare nuove armi (37,5-42)
omai sicuri i cavalier si stanno,
e che più del morir non han paura,
si prova acerba ogn’altra pena e dura.
38Onde l’imperadore al popol mesto
così parlò de gl’aspri casi e duri:
«O guerrier miei, non è già ’l primo questo
ch’abbiam noi corso intrepidi e sicuri;
son cinque anni forniti e volge il sesto
che noi partimmo da’ paterni muri,
con sopportar ne’ faticosi acquisti
mille vari accidenti or buoni or tristi.
39Noi siam qui salvi et è sotterra accolta
salva la vettovaglia e gli alimenti,
e se pur c’hanno alcuna parte tolta
de l’armi nostre i torbidi torrenti,
di qui non lungi in aspra rupe incolta
vid’io di ferro ascose vene algenti,
ond’al bosco vicino agevol parmi
purgarle in foco e riformarle in armi».
40E così detto e richiamata a pieno
la smarrita virtù nelle sue schiere,
fa che più squadre aprendo al monte il seno
ne traggon selci polverose e nere,
e turbando molt’altre il bel sereno
con vaste fiamme alle stellanti spere,
due volte e tre da i duri semi tratto
si fonde il ferro e nel disfar vien fatto.
41Gravi mantici poi gli stretti fiati
alternando a spirar mantengon rosse
l’agitate fucine, e rinfiammati
son gl’accesi carbon per mille scosse.
Di martella pesanti i fabbri armati
muovon sopra gl’incudi alte percosse,
e ’l ferro ardente in mille raggi e mille
sparger si vede e folgorar faville.
42Dalle tinte lor braccia il ferro tratto
or si spiana in usbergo, or si raccoglie
rivolto in elmo, et or braccial n’è fatto,
o golette o schinieri o d’altre spoglie,
or s’allunga in spada, or più distratto
s’apre in scudo o in piastra si discioglie.
L’opera ferve e la bollente arsura
nell’onde stride e gorgogliando indura.
Folastro e Idrausse si fingono ambasciatori di Bisanzio venuti a chiedere aiuto contro l’assedio: Eraclio nega gli aiuti (43-61)
43Sente l’alto rumor Folastro, il fero
demonio abitator dell’aria algente,
dov’ei col Borea ’l tempestoso e nero
Affrico chiama a guerreggiar sovente,
e chiudendo d’orror l’ampio emispero
per lo torbido ciel trascorre ardente,
e si vanta lassù tra le procelle
ch’egli il sol ci nasconda e l’auree stelle.
44Corre, e graffia per ira ambi le gote,
morde le labbia e si percote il petto,
e se ne va, ché penetrar ben puote,
fin dell’Eufrate al più profondo letto,
e chiamando Idraus con fiere note
spronolloS | spronolo ad eseguir malvagio effetto:
«Pugnar (dic’ei), non riposar si vuole,
contra colui che in Ciel governa il sole.
45Tu vedi ben quant’al suo culto importe
ch’Eraclio vinca il sanguinoso legno,
e togliendolo a noi se ne riporte
per lui sì caro e prezioso pegno.
E noi, ministri dell’eterna morte,
non guasterem l’imperial disegno?
Sì sì, vien meco, e non siam pigri stanchi
ad oprar l’arte ove la forza manchi.
46Se contra il Ciel, che i suoi guerrier difende,
riesce spesso ogni contrasto in danno,
chi ’l nemico non può quando contende
superar di valor, vinca d’inganno.
Bizanzio in Tracia il popol Perso offende,
l’imperadore e le sue squadre il sanno,
or noi per trarle a custodir l’impero
vo’ che prendiamo a falseggiar sul vero.
47Noi formerem di due messaggi volti
conosciuti dal campo, e in forma loro
cen verremo a pregar ch’Eraclio volti
in soccorso de i suoi l’aquile d’oro».
E qui Folastro i detti suoi raccolti,
che dall’altro fra l’onde uditi foro,
sorge Idraus dal più profondo letto,
torbido il guardo e palpitante il petto.
48E pronto ad esequir l’empio consiglio,
figurandosi un corpo in un momento,
dell’onda accoglie in suo ricurvo artiglio
tanto che basti, e l’altro aduna il vento,
e d’acqua e d’aria il piè formano e ’l ciglio,
la chioma, e ’l guardo a rimirare intento,
le membra e l’atto e la favella e i panni
e tutto quelS | quello che ciascun senso inganni.
49E l’un simiglia al senator Torquato,
per età venerabile e severo,
e congiunto di sangue a chi lasciato
aveva Eraclio a custodir l’impero;
l’altro a Tifeo, di chiara stirpe nato,
uom di candida fede, amico al vero,
bianco alle chiome, e temperato e tardo
ad ogni gesto, e mansueto al guardo.
50Fingon lettere finte i finti messi,
fingono corridor, paggi e scudieri,
e son gli abiti lor di doglia impressi,
quai convenian maninconiosi e neri.
E poi quando la notte in dubbio ha messi
con le tenebre sue tutti i sentieri,
pervenuti all’esercito amendue
Cesere accoglie infra le tende sue,
51a cui Torquato in mesta voce espone:
«Signor, fin oggi a mille assalti ardita
stata è la patria tua longa stagione,
contra barbara gente et infinita,
ma non potendo or più stanca si pone
per noi con preghi a dimandarti aita,
e difendersi ancor tanto s’ingegna
ch’a le sue mura il tuo soccorso vegna.
52Sotto il crudo Satin le folte schiere
che i tesori di Cosdra a lor comparte,
s’ingrossan sempre, e dispietate e fere
di fuor han arso ogn’abitata parte.
Sono i borghi e le ville in lor potere,
e quai feron difesa a terra sparte,
e le verdi semente, empia et acerba
la turba ha guaste e pascolate in erba.
53E con machine et archi al muro intorno
per doverne pur far barbare prede,
cento assalti la notte e cento il giorno
a rinovar da cento bande riede,
e d’or in or con nostro danno e scorno,
scemar tra merli il difensor si vede,
sì che in te solo e nessun altro avanza
a i disperati popoli speranza.
54Tu sol torci d’assedio, a te sol lice
sottrarci a morte, e del tuo figlio io taccio,
ch’ohimè, pur troppo lagrimando dice
la patria tua, che l’ha tremante in braccio.
Torna adunque signor, tu l’infelice
libera dal noioso e duro impaccio,
salva i vassalli tuoi, scaccia l’infido
stuol dalle mura tue, guarda il tuo nido».
55E qui si tacque allor; fissando il ciglio,
l’imperador tra pensier gravi ondeggia,
ché del re d’Oriente il fier consiglio
conosce ei ben dell’assalir sua reggia,
che per lui divertir mosso ha ’l periglio:
però tra due di quel ch’oprare ei deggia,
se tornare o seguir, discorre e volve,
né ben sicuro il suo voler risolve.
56Sembra il pensiero antica quercia e grande
che non men le radici apre nel suolo
di quel che in aria i duri rami spande,
se recider la vuol ruvido stuolo
de le bipenni al suon treman le ghiande,
si scuot’il tronco e non cad’ella e solo
con superbo piegar l’ombrose braccia
la sua ruina or qua or là minaccia.
57Ma tu, lampo di Dio, che l’alme accendi
d’eterno lume, e ne sei guida e duce
del cieco mondo infra gli abissi orrendi
alla via che gli erranti al Ciel conduce,
tu nella dubia mente a lui discendi,
a tanta elezion fidata luce,
e gl’illumini il senno e lo consigli
che senza indugio al suo miglior s’appigli.
58Così ben tosto i suoi gran dubbi il saggio
imperador risolve, e s’assicura
col pensier fermo e non cangiar viaggio
ma seguitar l’oriental ventura.
E con fronte serena, ov’alcun raggio
di pietà più illustra e non l’oscura,
alla città che serra al mar la foce
risponde in carta, a i messaggieri in voce.
59«Tornate a quei che dal noioso assedio
v’han qui mandati a riferir che male
verrò più a tempo a levar loro il tedio
sì lungi or sono e ’l camin dietro è tale,
ma ch’io procurerò pronto rimedio
per via più breve, e come il Perso assale
per avermi a distor da i danni sui,
distorallo da’ miei l’offender lui.
60Intanto a voi con più gelosa cura
reggerà Bonso or ne i perigli il freno,
e in vece mia le ben guardate mura
egli di me conserverà non meno,
e chiamerà, se poi l’assedio dura,
gente che vi soccorra, e pronti fieno
Bulgari e Trogoliti e Misi e Traci,
gli Ungari e quei di Bosnia e i Russi e i Daci.
61Gitene dunque a la città, ch’è forte
e munita a bastanza a mesi et anni;
lasci ogni dubio e in me si riconforti,
ch’io l’attendo a salvar con gli altrui danni.
Guardi le torri sue, guardi le porte,
e sol tema in altrui l’oro e gl’inganni,
et io, scorto dal Ciel, tornerò prima
forse da voi ch’alcun di voi non stima».
I due demoni si fermano al campo per tentare di sollevarlo contro il capitano (62-78)
62E qui tacendo a i messaggier commiato
non ben paghi di ciò Cesere diede;
allor pregando il senator Torquato
seco restar col suo compagno chiede:
«Signor (dic’ei), poiché contrario fato
la tua patria salvar non ti concede,
tu concedene almen che con quest’occhi
la sua ruina a noi mirar non tocchi».
63Ciò sentendo Ruberto, amante e sposo
della bella Ericlea, da cui lontano
non può notte né dì trovar riposo,
e ’l facea quasi amor soverchio insano,
subitamente il giovene amoroso
con dimande iterare al capitano
di tornar ei con la risposta chiede:
Cesere cotal grazia al fin concede.
64E i due demòni a sollevar le menti
de i cavalier se ne rimangon quivi,
le querele raddoppiano e i lamenti
perché d’aiuto il capitan gli privi,
e con sediziosi amari accenti
di sdegno accesi e di rispetto privi,
spargendo vanno e risvegliando affetti
perversi et empi, e cotai sono i detti.
65«Fia dunque ver che miscredente e duro
fatto costui qui rimaner li piaccia?
Ch’opprimer lasci il mal difeso muro,
e non sia chi per lui difesa faccia?
Che il popol suo, ch’ei può guardar sicuro,
miseramente abbandonato giaccia?
Resti in forza a i nemici e in preda a l’oro
gli antichi tempi e le colonne d’oro?
66Or va, fonda i palagi e i campi chiudi
con muro o siepe, e pianta olive e viti,
e tra bell’arti e tra civili studi
sian pure i figli in prima età nutriti,
a che pro s’al bisogno inermi e nudi
non han chi gli difenda o chi gli aiti?
S’avanza questo a seguitar costui
che ’l proprio lascia e vuol cercar l’altrui.
67Ma s’egli ancor con ostinata voglia
se stesso inganna e ’l nostro mal non vede,
anzi il vede e nol cura, e della soglia
paterna uscendo ha il pensier tratto e ’l piede,
perché noi sopportar ch’a noi si toglia
l’albergo, e il regno a Costantino erede?
Via, si torni a guardar; fin dalle fasce
è tenuto alla patria ognun che nasce».
68E con tai detti un tacito veleno
spirano a gl’altrui cor gl’empi demoni,
ch’apprendendo si va di seno in seno
per entro a le cristiane legioni,
e già per tutto risonar s’udieno
sediziosi e torbidi sermoni,
simili al suon che sulle rive estreme
fa percotendo il gonfio mar che geme.
69Di qua, di là per le parole audaci
vien per lo campo il mal desio scoperto,
né meno ancor da i gesti lor loquaci
sdegnosamente a tutti gl’occhi aperto.
Qua i Macedoni e là i rubelli Traci
fan di confusion rumore incerto,
e le schiere e i manipoli disciolti
corron com’ebri in cieco errore avvolti.
70Così talor di prima estate uscendo
dell’angusta magion le pecchie d’oro
la lor nuvola industre al cielo aprendo
fan per l’aere seren nembo sonoro,
e disusate in folle oblio ponendo
e de i favi e de i fior le cure loro,
di qua, di là senza fermar le piante
seguele in vano il villanello errante.
71Cesere a tal rumor Niceto appella,
e da i propri guerrier tratto in disparte,
con sollecita cura a lui favella
e le difficoltà tutte comparte:
«Tu che vedi nel Ciel sopr’ogni stella
de’ petti umani ogni secreta parte,
tu sai nel mio s’è vera voglia accesa
di seguitar l’incominciata impresa.
72Ma come il campo irritrosisca e come
si conturbin le cose omai t’avvedi,
e già depor qual fastidite some
all’esercito mio l’insegne vedi,
e della patria, or che s’è sparso il nome,
già muover molti a sua difesa i piedi,
trattasi senza me, soccorrer lei,
e negletti lasciar gl’imperi miei.
73Et io fra due ne rimango s’io
muova ’l castigo a tener loro a freno,
e lasciandone pur la cura a Dio
per me gl’error dissimulati sieno.
Non so s’acerbo io mi dimostri o pio
delle schiere a sanar l’empio veleno:
questi il mal non innaspra e nol guarisce,
quegli la vita e ’l mal spesso finisce».
74Niceto allor: «Son due ragioni ascose
che ’l tuo campo conturbano, et è l’una
che ’n sì lunghe sue guerre e faticose
corse sovente al sol, corse alla luna,
egli è già lasso, e par ch’omai non ose
perigliosa tentar battaglia alcuna,
e più l’animo lor s’arrende e cede
che ’l fine ancor del guerreggiar non vede.
75L’altra cagion che i tuoi guerrier solleva
più che l’Euro non fa marittim’onde,
è che purtroppo al cieco abisso aggreva
tornar la croce alle native sponde,
quindi il timido Eufrate in alto leva
qualche demonio, e ’l popol pio confonde,
e intorno al campo ei si ravvolge e spira
impeti di furor, folgori d’ira.
76Con tutto ciò sperar mi giova in lui
che ’l Ciel governa e che giamai non suole
porger tardo soccorso a i servi sui,
ch’ogni malvagità sua grazia invole,
e che respinto a gl’antri eterni e bui
fugga il pallido mostro il giorno e ’l sole,
ma s’adopri in ciò forza immortale,
ché terreno poter tanto non vale.
77Potrò ben io per sollevar l’afflitta
virtù, che langue in faticar tant’anni,
mostrar com’abbia il Re del Ciel prescritto
breve dimora a così lunghi affanni.
Dunque raffrena tu la mano invitta
nel castigo comun da i nostri danni,
et io prova farò co ’l parlar mio
che s’acqueti e conforti il popol pio».
78E qui tacendo e ne’ suoi dubbi alquanto
lasciando allor l’imperador più queto,
pien di vera pietà muovesi il santo
per moderar l’esercito inquieto.
Già spiegava la notte il nero manto
e d’ogni parte il ciel sereno e lieto
a vegliar per chi dorme apria ben mille
lucidissime d’or vive pupille.