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La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro II

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 18.02.16 17:24

ARGOMENTO
Mentre Niceto a mitigar la mente
de’ soldati s’adopra, in Forestano
el demonio trapassa, ond’ei repente
muove e solleva il cieco volgo insano.
L’acqueta Eraclio, e ’l fior de la sua gente
manda a incontrar l’ambasciador romano,
a cui narra Teodor la guerra intanto,
e di Batrano e di Silvano il vanto.

Niceto seda le truppe in rivolta ricordando il miracolo del miele trasformato in oro quando mancavano denari alla missione, e racconta una sua visione avuta la notte precedente in cui gli è stato detto la guerra essere alla conclusione (1-15)

1Niceto intanto il debil passo affretta
là vèr la gente a sollevarsi intesa,
e dal ciglio ammirabile saetta
visibilmente aperta fiamma accesa,
e poi ragiona: «O cavalier, perfetta
ancor non è l’incominciata impresa,
e resta ancor contra ’l poter cristiano
di Dio la croce al fiero Cosdra in mano.

2Concederò che giustamente stanchi
esser deggiate in guerreggiar tant’anni,
e che la chioma affaticata imbianchi
sotto sì lunghi e perigliosi affanni,
ma non però, pria che la vita manchi,
troncar si denno a sì bel volo i vanni,
e sa suo danno improvido bifolco
che tra via badi e non finisca il solco.

3E perché suole il discoprir del porto
dopo lunga tempesta a i naviganti
ardimento apportar non che conforto,
dimostrolv’io non lungo spazio avanti:
siam giunti al fine, e sol ne resta un corto
termine a conseguir gli ultimi vanti.
E non son io che ciò ragioni: il Cielo
del futuro per me vi scopre il velo.

4Se vi rammenta in questo giorno a punto
l’ultimo dì dell’anno quinto è corso
ch’io d’amore o di fede ogni congiunto
cercai d’aiuto e fei lontano il corso.
Passai l’Egitto e in Alessandria giunto
dell’anime al Pastor chiesi soccorso,
mostrando a lui di qual servigio a Dio
fusse il porger sussidio al popol pio.

5Mai non prese favilla arido legno
veloce sì, né s’infiammò repente
come io vidi a’ miei detti un santo sdegno
farlo contra i pagan subito ardente.
Ma può nulla aiutar nostro disegno,
povero di tesor, privo di gente;
si volge a i preghi e con sicura fede
per soccorre a noi soccorso chiede.

6Et ecco (or che non può? che non ottiene
la fidanza nel Ciel viva e costante?
Correr l’acque del mar come l’arene
Pietro il sai tu con le sicure piante)
piene di mèle con sei grand’urne viene
al sacro tempio abitator distante,
e l’offre e parte, e ’l Pastor santo il prende
e la man poscia a benedir sospende.

7Et ecco il mel di tutte no ma d’una
delle grand’urne in un color più vivo
cangiasi a poco a poco e si raguna
qual per forza di giel rappreso rivo,
né qualitade al fin li resta alcuna,
d’umor del tutto e di dolcezza privo,
ma ’l peso in cambio e la saldezza accresce,
pregio acquistando et oro fin riesce.

8A Dio grazie ne rende e porta il santo
vescovo a noi della sua fede il frutto,
e seguivan anch’ei se non che intanto
cadde per morte il suo mortal distrutto.
Ei, raccolto dal Ciel, dal mondo pianto,
tornò volando al Creator del tutto,
dove lassù con sempiterna vita
presso a Dio gode e le nostr’armi aita.

9Et io, che sempre o cali il sol nell’onde
o fuor se n’esca, a fare ’l mondo aperto
invoco lui con queste labbra immonde
che interponga per noi favore e merto,
sì che grazia del Ciel guidi e seconde
l’armi d’Europa al fin bramato e certo,
pur pregando stamane un dolce sonno
d’ogni senso mio fral si fece donno.

10Et ecco in placidissima quiete
(né già sogno fu quel, ché sì distinta
forma non può mostrar l’ombra di Lete,
né celeste bellezza esser può finta),
l’anima a Dio diletta o che con liete
luci m’apparve, e di che lume cinta,
e sento lei che me per nome appella
con angelica voce in sua favella,

11indi lieta seguio: – Dal Ciel ne vegno,
dove io son beatissima e felice,
mandami il Re dell’amoroso regno
di tue preghiere a consolarti, e dice
che non lasci il magnanimo disdegno
la gente del suo onor vendicatrice,
ma segua pur, che anzi ’l finir dell’anno
tutti gli affanni suoi termine avranno.

12De i sei vasi di mel fu solo il sesto,
l’ultimo, quel che convertissi in oro,
e così fia de gl’anni: ultimo è questo
ch’all’impresa otterrà l’intero alloro -.
Poi vèr me sorridendo: – Io più non resto,
ma rivolo onde venni al sommo coro;
tu conserva i miei detti e poscia ch’io
gita sarò non te ne prenda oblio -.

13Così diss’ella, e com’in onda chiara
bianca pietra caduta al fondo abbassa,
che divien varia a poco a poco e rara
finché la vista sua svanisce e passa,
così l’anima bella a Dio sì cara
dileguandosi in Ciel quaggiù mi lassa.
Or voi mentr’io la vision rivelo
udite in me ciò che ragiona il Cielo.

14Deh, non possiam quest’onorato peso,
che prendemmo per Dio guerrier cristiani,
fin che ’l tronco vital non abbiam reso
al vero culto i rubator pagani.
Già matura è la messe; or chi sospeso
raffrenerà dal mieter lei le mani?
Poco il principio e poco il mezzo ancora,
ma il fine è sol che ciascun opra onora».

15E qui si tacque, e in lui le schiere attente
quasi a voce ammirabile e immortale,
immobil tutta al suo parlar la gente
resta, ad ombre dipinte in vista eguale.
Penetrar dolce e trapassar si sente
la voce i cuor qual saettato strale;
dubie pendon le menti e loro il tratto
può dar breve momento e lieve fatto.

Forestano, istigato dagli inferi, riaccende il tumulto, Eraclio lascia ai soldati il compito di giudicarlo: è linciato dalla folla (16-27)

16Folastro, allor che ’l buon Niceto ha visto
così fermar le scompigliate schiere,
con un fremer di duol con ira misto
precipitò nell’ombre eterne e nere,
e quivi al capo sibilante e tristo
c’ha di serpi le chiome atroci e fere,
una ne sveglie e in un momento riede,
né ’l partir suo, né ’l ritornar si vede.

17L’infernal angue a Forestan nel seno
con invisibil man vibra e saetta,
e giunto al cor di fervido veleno
con cento rote sue tutto l’infetta,
e cingel sì ch’avviticchiar via meno
tenero tralcio suo pianta diletta,
e quello avvolto in velenose fasce
miseramente lo consuma e pasce.

18Forestan più d’ogn’altro anima impura
avea nel campo, a mal pensare intenta,
e, più d’ogn’altra a mal oprar sicura,
al ben poi sempre è neghittosa e lenta.
Segnollo altrui per dinotar natura
che in lui dal vizio ogni virtù sia spenta;
così chiusa magion di fuor si nota,
cui peste rea d’abitatori ha vòta.

19«Sì sì (dic’ei), favoleggiando, o stolti,
costui qui ne trattenga e caggia intanto
Bizanzio a terra; o Ciel, tu che n’ascolti
già tra l’ultime fiamme estremo il pianto,
tu mi sii testimon, com’io mi volti
da te chiamato e basta a me sol tanto.
Seguami chi ti chiami», e in suo feroce
«Alla patria, alla patria» alza la voce.

20Et ecco al suon de’ velenosi accenti
et al muover sì subito e sì fiero,
come trae seco i rapidi torrenti
fiume maggior precipitoso e nero,
seguono omai le scompigliate genti
l’inordinato suo perso sentiero.
Pur la parte meglior ferma s’oppone,
di qua sorge e di là varia tenzone.

21Di qua, di là l’ignobil volgo freme,
confuso, errante, irresoluto e misto,
s’abbassan l’aste e già fan guerra insieme
di sdegni accesi i cavalier di Cristo.
Suonan l’armi percosse e ’l lido geme,
di polve un nembo al ciel levarsi è visto,
suonan le trombe i bellicosi carmi
e l’ira arruota e incrudelisce l’armi.

22Cesere a tal rumor salito in sella
ratto ne vien dal padiglione aurato,
e imperiosamente appar tra quella
confusion, fuor che la testa armato.
E con più che mortal chiara favella,
maestà folgorando a ciascun lato:
«Fermate,» egli gridò «fermate»; a questa
potentissima voce ognun s’arresta.

23Così talor si romoreggia accesa
d’innocenti fanciulli allegra scola,
e in quell’età ch’ai dolci scherzi intesa
de’ noiosi pensier libera è sola:
qual mercé chiede e qual rammenta offesa,
qual prende o porge e qual rapisce o nuola,
et ecco ’l mastro: ognun s’arretra, e in pace
compon se stesso, e riverisce e tace.

24Severo intanto e ’n rigido sermone,
voltosi a Forestan l’imperadore
disseli: «Or tu, di tanto mal cagione
pagheramene il fio perverso autore;
che in te caggia il castigo è ben ragione,
se da te vien l’universale errore».
E quei converso in insensibil pietra
e non prega e non fugge e non s’arretra.

25La turba allor che di sgravar se stessa
stima d’error più ch’ella aggravi lui,
per dimostrar che non per sé s’è messa
a traviar ma per gl’inganni sui,
ella medesma a punir lui s’appressa
senza lasciar quel duro ufficio altrui.
Con ira il prende, e poi che Ceser vide
non dinegarlo, innanzi a lui l’uccide.

26O del volgo volubile e incostante
quant’è l’opinion fallace e stolta,
e come a variarsi in un istante
d’un contrario nell’altro è sempre volta!
La turba or or che le malvagie piante
seguia di Forestan rapida e folta,
non pur nemica a chi la scorge e guida
ma in un momento ancor fassi omicida.

27Cesere, in cor già pago e in vista ancora,
contra ’l popolo suo crudo e severo
con magnanimo sdegno apparir fuora
i segni fa del trasgredito impero;
pur di pietade un balenar talora
traspar dal ciglio nubiloso e nero:
così tien in altrui la sua sembianza
bilanciato il timor con la speranza.

Arriva Artemio, ambasciatore papale, viene accolto da Teodoro che gli presenta Niceto e gli espone l’antefatto della spedizione (28-63)

28Fugge in tanto la notte e l’alba torna
a disserrar con man di rose il cielo,
e di vari color la terra adorna,
spoglia dell’ombre il tenebroso velo;
ridono l’erbe e le solleva et orna
con vive perle il matutino gielo,
cantano gli augelletti allegre note
e l’aura il bosco mormorando scote.

29Ed ecco incontro alla novella luce
di là venirne, ove declina il giorno,
un corrier peregrino al sommo duce,
e ponsi a bocca una e due volte il corno,
ond’egli ammesso al capitan s’adduce;
traggon le schiere a rimirarlo intorno,
et ei, disceso a venerar di sella,
Cesere inchina, e poi così favella:

30«Per iscorta vengh’io d’alto messaggio
che qui da Roma a te rivolge il piede,
e ’l mosse a così lungo aspro viaggio
il gran Pastor della cristiana sede.
Artemio è ’l nome, a cui s’aggiunge il saggio
che in Italia per senno ogn’altro eccede,
cardine sacro alle serrate porte
ch’apre la Chiesa alla celeste corte».

31E qui tacendo il precursor, dimanda
Cesere a lui minutamente ancora
d’altre condizioni, e lo rimanda
per lo stesso sentier calcato or ora;
e che s’accinga il campo suo comanda
a farli onor senza trapor dimora,
e, quel più che si può, per lunga via
due squadre elette ad incontrarlo invia.

32Fior di quell’oste e col german Teodoro
mandovvi insieme i più famosi eroi,
né vuol pur che rimanga un sol di loro
che mantien sovra altrui gl’imperi suoi.
Già sì alto era il sol col carro d’oro
ch’ei non potea se non calar da poi,
quand’ecco i cavalier che di lontano
veggion venirS | venire l’ambasciador romano.

33Oh come lieti e con quai puri e certi
segni che favellar tacendo fanno
son gl’affetti dell’animo scoperti,
mentr’essi a fronte al sacro messo vanno!
E quinci e quindi in due grand’ali aperti
argine al cardinal d’intorno fanno,
tanto che le proferte e i dolci inviti
dal principe Teodor fusser finiti.

34E poi che fu da que’ signor tra via
pieno ogni ufficio, e l’accoglienze oneste
rinnovellate, e la man sacra e pia
altri baciò d’Artemio, altri la veste,
duci e guerrier per la medesma via
tornano a ristampar l’orme già peste,
con lunga riga a passi tardi e lenti,
tutti di chiaro acciar gravi e lucenti.

35Prima i men degni e più lontano il piede
muovono quei che son di minor pregio.
Risplendon, e lampeggiar si vede
dal sol percosso ogni dorato fregio.
Sopra un candido ubino Artemio siede
scelto il più bel d’un ampio armento regio,
e riman seco alla sinistra mano
del sommo Augusto il principe germano.

36Seco viensene al pari Artemio e tace,
mirando alquanto or quel guerriero or questo;
poi rivolto a Teodor: «Se forse audace
non è la lingua o ’l dimandar molesto,
chi son costoro a cui cotanto piace
cortesia farmi, ond’onorato io resto?
Né meno ancor che di lor grazie pago,
di lor condizion bramoso e vago.

37Ma prima ancor chi sia colui mi dite
che tra tanti baron negletto e vile
con sì ruvide sue spoglie romite
sul dorso va di quel ronzino umile.
Né le maniere sue però schernite
vengon da gl’altri e ’l suo sì rozzo stile,
anzi qual gemma è pur gradita a loro
quantunque in piombo e non legata in oro».

38A tal dimanda il principe risponde:
«Signor, quel sì negletto e sì devoto
è ’l buon Niceto, in cui sue grazie infonde
sì largo il Ciel ch’ei non ne fu mai vòto,
e delle caspie alle tirinzie sponde
fama di santità l’ha fatto noto,
e con rari miracoli dimostra
quant’ei sia caro alla superna chiostra.

39Vedilo che qual Etna il crine ha pieno
di neve intorno al venerando aspetto,
ma dentro asconde un vivo foco in seno
che per Dio l’arde in amoroso affetto;
e ’l suo grave mortal peso terreno
da quell’anima pura è sì negletto
che dura vita e faticosa ei tragge,
rigido abitator d’ombre selvaggie.

40Senza sonno le notti e i giorni mena
senza ristoro, e ’l debil suo sostegno
d’erbe e di frutta sol, povera cena,
tesse alla vita sua lento ritegno,
e quel poco talor che ’l sonno il frena
è sua morbida piuma un duro legno,
et è ’l molle guancial, dov’egli lasso
posa la fronte sua, ruvido sasso.

41Da lui, che ’l muto favellare intende
della mente immutabile superna,
e quel che porterà vede e comprende
l’ampio girar de la gran rota eterna,
e da i consigli suoi Cesere pende,
ei l’essercito pio volge e governa,
et ei primier l’imperadore accese
tanto che per Giesù la spada prese».

42Artemio allor: «Deh, mio signor, se grave
non v’è, narrate il gran principio quando
contra colui che tutto il mondo pave
si mosse Eraclio a contrastar pugnando,
ché la fama ch’a noi portato l’have,
pur come suole instabile vagando,
muove là dell’Italia entro al bel nido
di ciò confuso e mal sicuro il grido».

43E in questo dir con tutto il guardo intento
più nel principe ancor s’affisa e tace,
e via più che parlando il suo talento
manifesta a Teodor l’atto loquace;
et egli a lui: «Non fu mai pigro o lento
l’animo al mio german sul lito trace
di ritorre ai pagani il sacro legno
e ricovrar dalle lor mani il regno,

44ma che però se svigorito e imbelle
vincere dal non poter le voglie sente,
pur vien Niceto, e ravvivar fa quelle
con la speme di Dio, presso che spente:
– Al Fattor della terra e delle stelle
volghiam pur (dice) e in lui fermiam la mente,
et ei difenderà se per lui t’armi,
e chi pugna per lui dal Cielo ha l’armi -.

45E così l’uno e l’altro a Dio ricorre,
e in cotal guisa il mio german favella:
– O Re del Ciel, s’omai non teme a porre
fiamma nei tempi tuoi turba rubella,
ragion è ben che più non tardi a sciorre
l’eterna man, che di lassù flagella,
per noi, non già d’ogni pietade indegni,
ma sol per gloria tua muovi i tuoi sdegni -.

46Così pregh’egli, e ’l chiuso tempio accende
di ferventi sospir, d’accese note,
ma tace intanto il buon Niceto e stende
al Ciel le palme e tien le ciglia immote.
Tace, e prega col cuor, che ben l’intende
né di picciolo suon l’aer percote,
ma le luci affisando, immobil fatte,
né pur palpebra intorno a lor dibatte.

47E qual gelida neve a poco a poco
col suo lento cader la piaggia imbianca,
fin che ’l nuovo candor cosparge il loco
e la prima sembianza al tutto manca,
tal diventa Niceto e ’l chiuso foco
che il lui viva mantien la spoglia stanca,
nelle vene s’aggiaccia e l’abbandona
l’anima, che da lor si disprigiona.

48L’anima, che ’l desio traendo porta,
la sua salma mortale in terra lassa
povera d’ogni senso, esangue e smorta,
e con l’ali d’amor le stelle passa.
Quel che poi lassù vide in giù riporta,
non ben distinto, all’ima parte e bassa,
pur com’augel ch’alla diletta prole
riportar l’esca in giù calando suole.

49Rotta l’estasi sua Niceto riede
a ravvivar l’abbandonata vesta,
e già respira a poco a poco e vede,
e ciascun senso il proprio ufficio presta.
Già risuona la voce e muove il piede,
e in ogni parte sua l’anima è desta,
e tutto lieto al mio germano intanto
si volge, e parla in tai parole il santo:

50- Confida, Eraclio, e fa’ raccolta in terra
pur delle forze tue, però che ’l Cielo
per me t’invia a gloriosa guerra,
tu sciogli omai d’ogni timore il gielo.
Favorirà chi fulminando atterra
torri e città la tua pietade e ’l zelo;
tu genti aduna, io cercherò tesoro,
nervo alla guerra, allettamento a loro -.

51Ciò detto ei parte, e le remote rive
vassene l’uom di Dio tutte cercando,
né mai voglie trovò sì dure o schive
ch’ei non movesse ai suoi desir pregando,
anzi con preci affettuose e vive
e d’Alessandria al buon pastor chiamando,
tramutar fece in massa d’oro il mèle
ch’offerseS | ch’offese al tempio un villanel fedele.

52Quindi con larga man partendo Augusto
nuove ricchezze, ogni guerrier concorre,
qual di fiume nascente al corso angusto
compagno amor da cento rivi accorre.
Muovon premio e pietade il popol giusto
a pugnar per la croce e lei ritorre,
e d’oltre a’ monti e d’oltre a’ mar s’invia
per sì ricca mercé cagion sì pia.

53Corre il popol all’armi, Eraclio elegge
non qualunque il desia, ma sol colui
a cui nel volto e nella fronte legge
che guerriera virtù s’accolga in lui.
Così ’l saggio pastor fa delle gregge
fuggendo ’l verno i freddi alberghi sui,
che le forti conduce e le lanose
le più stanche lasciando e le più annose.

54Fatta la scelta poi Cesere avvezza
de l’armi al pondo ogni guerrier eletto,
e con virilità, con robustezza
di sonno e d’esca a sofferir difetto.
E mostra a lor come ’l morir si sprezza,
com’è ’l sangue versar gloria e diletto,
altri essercita al nuoto o nel terreno
animoso destrier volger col freno.

55Ferve la gioventù d’ardito foco,
presta all’ire et al ferro, e impaziente
gl’indugi incolpa e non può stare a loco
d’ogni indugio incapace e impaziente.
Misto al suon de’ tamburi orrendo e fioco
quel d’altri corni rintronar si sente,
ma più chiara di lor l’audace tromba
spirando guerra in mezzo a’ cuor rimbomba.

56E quell’anno medesmo all’aura sciolti
dalle nobili antenne i bianchi lini,
l’ampie strade dell’onde a correr volti
chiaman gl’uomini e l’armi i vòti pini.
Ma ne gl’ordini pria Cesere accolti
e distinti fra lor Greci e Latini,
sopra l’umide arene al Cielo affisse
col cor le luci, alzò le palme e disse:

57- Padre eterno del Ciel, tu che disponi
questo popolo all’armi, e sì l’accendi
ch’altro non provò mai sì caldi sproni,
deh, per somma pietà cura ne prendi,
e tu la destra a queste insegne poni,
e tu le spiega e ’l campo tuo difendi
che va per te contr’infedeli et empi,
e di tua grazia il suo difetto adempi -.

58E, le luci abbassando, – Andiamo, o figli,
certi, ché per Giesù cinghiam le spade.
Sarò prim’io che fra i mortal perigli
vi farò scorta e v’aprirò le strade.
Non d’altronde che me vo’ che si pigli
or d’audacia l’esempio or di pietade,
comunque avvien che ’l suo valor si mostri
o in danno dei nemici o in pro de’ nostri -.

59Né sì fatto parlar sembra che suone
da mortal voce o da terrena imago,
di sé libero allor ciascun ripone
l’imperio in lui, d’ogni sua voglia pago.
Parte senza aspettar nuova stagione,
fiero a muoversi il campo, a mirar vago,
e d’armi ingombra e fa parer più gravi
per le liquide vie l’inteste navi.

60Sulla riva del mar pallide stanno
le caste mogli e ferman gl’occhi intenti
nell’antenne fugaci, onde ne vanno
i lor pegni più cari esposti a i venti.
E la via che fan gl’occhi i sospir fanno,
quei di lagrime molli e questi ardenti,
e di tema il cor punto e di desio
repetendo van pur l’ultimo a Dio.

61Parte lieta l’armata, il lito lassa,
tutte gonfion le vele aure seconde,
e le prore nel mar Zeffiro abbassa,
che spronandole più, più le nasconde.
Lascia i solchi spumosi ovunque passa
romoreggiando rotte adietro l’onde,
e passando Carambi e Termodonte
scopron di Trabisonda al fin la fronte.

62Quindi al fin giunte u’ l’arenosa sponda
di Colco, che l’Eusin rompe et affrena,
dove spinge l’Eusin rapida l’onda
contraria al sol che ’l nuovo giorno mena,
dove già risospinse aura seconda
la d’eroi favolosa Argo ripiena,
l’imperador le navi sue ritenne
e qui spiegò le sue velate antenne.

63Quivi, sazie del mar, con torto dente
ferman l’ancore i legni, empion l’arena
le curve poppe e la guerriera gente
semina d’armi le pendici amene.
Percote altri le selci e ’l foco ardente
scotendo va dalle gelate vene,
sfrond’altri i boschi, altri cader dai monti
dimostra altrui le ritrovate fonti.

Gli mostra i due migliori guerrieri del campo, Silvano e Batrano (64-79)

64Ma che fo, mio signor? Se raccontarte
poi della guerra orribile e feroce
seguitando volessi a parte a parte
fiero ogni assalto, ogni conflitto atroce,
tornerebbe il sol pria d’onde si parte
e mancherebbe a me spirito e voce,
sì che fia meglio a ragionar di questi
capitani e signor che tu chiedesti.

65Pon mente dunque a te d’avanti a quello
che più n’è presso, e da tropp’anni carco,
sparge dell’elmo fuor bianco il capello,
e ’l grave omero suo si piega in arco,
e ’l vedi andar su quel destrier morello
sovra sé tutto e d’ogni moto parco,
e conforme al cavallo insieme ha nero
scudo, lancia, corazza, elmo e cimiero;

66et è ’l cimier che piacque a lui d’esporre
famosa insegna all’onorata fronte,
fulminata dal Ciel l’iniqua torre
ch’innalzò contr’a Dio l’orgoglio e l’onte,
tolsela giovenetto al crudo Astorre,
ch’ebbe nel sangue altrui le man sì pronte,
quand’ei l’uccise a Clodoveo davante
et era il crudo Astor quasi gigante,

67quest’è Silvan, che nove lustri e nove
d’onorato sudor cosparso in guerra
della milizia a così lunghe prove
maestro è fatto in mar sicuro e ’n terra.
Quel che noccia antivede e quel che giove,
ne’ pericoli avvezzo, e ami non erra,
e ben sovente il suo consiglio è tale
ch’ei sol vie più che tutto ’l campo vale.

68Cesere ne’ perigli a lui s’attiene,
che risoluto ai maggior dubi piace,
ma severo e costante ov’ei ritiene
suo tenor sempre e poi men caro in pace.
Seco ha ’l figlio Lucrezio, ed anco il tiene
sotto il fren di timor che giova e spiace;
vivacissimo è ’l figlio e ’nsieme a gara
fa col padre l’Iberia illustre e chiara.

69Quei ch’è seco a man manca e la statura
non ha forma mortal, non gesto umano,
e l’intrepida sua fronte sicura
spira invitto valor, quegli è Batrano.
Contra l’Asia il guerrier la morte scura
nel ciglio porta e la vittoria in mano,
questo è ’l vanto dell’armi et è ’l terrore
dell’Oriente ancor sul primo fiore.

70Nell’ampio scudo il cavaliero imprime
per ogn’anno di guerra orbe vermiglio,
finché racquisterà l’arbor sublime
dove morì del Padre eterno il figlio.
E di color ch’ei combattendo opprime
segna con sangue il nobil suo periglio;
cinque son gli anni e le gran palle, e resta
con quel che volge a colorar la sesta.

71Di quel gran Belisar ch’alla difesa
corse del Tebro e su le torbid’acque
con la vendetta pareggiò l’offesa
nell’estrema vecchiezza un figlio nacque;
Otton fu detto, e in ogni grande impresa
calcar l’orme del padre al figlio piacque,
e fu chiara la stirpe a cui sol una,
come suole a virtù, mancò fortuna.

72Di lui nacque Batrano e pargoletto
sollevar non potea lo scudo ancora,
né del buon genitor l’asta o l’elmetto,
onde gl’ultimi dì già vecchio onora,
quand’ecco omai che dallo stanco petto
deggia l’anima uscir venuta l’ora,
e con le fredde e moribonde braccia
così pregando il caro figlio abbraccia:

73- Guerrier di Dio, che su nel Cielo apristi
l’insuperbite e ribellanti schiere,
e dell’Angel più bello il sen feristi
tal ch’ei trafitto abbandonò le spere,
se mai voce mortal benigno udisti
odi l’ultime mie calde preghiere;
a te mi volgo e sull’estremo passo
la cura a te del mio figliuolo io lasso -.

74Ciò intendendo Michel non lievi piume,
né sembianza mortal finse o compose,
ma scendendo dal Ciel semplice lume
sulla fronte al fanciul suo raggio pose,
et ei, non già con pueril costume
le strida inalza o l’auree chiome ondose
con la debita man dibatte e scote,
ma sicuro sostien le fiamme ignote.

75Senz’offesa di lui lambendo vanno
l’inanellato crin puri splendori,
indi al più spesso vampeggiar che fanno
chiara voce succede e dice: – Mori,
mori padre contento, effetto avranno
tuoi preghi sì che tra i guerrier migliori
che combattan per Dio sarà Batrano
di virtù militar pregio sovrano.

76Io, quel Michel che tu pregasti in terra,
sarò sua scorta e guarderò l’audace
suo core invitto e la man forte in guerra -,
e qui l’aureo fulgore sparisce e tace.
Morte intanto ad Otton la vita serra,
l’anima sì ne vola al ben verace,
e rimangono intorno al mortal manto
gl’amici afflitti inutilmente al pianto.

77Quindi al primo custode avendo aggiunto
Batrano il duce di guerrier celesti,
ragion è ben ch’a somma lode ei giunto
sia già per chiari e gloriosi gesti.
E predicesi ancor che un dì congiunto
di legittimo nodo il sangue annesti
in qualch’alto lignaggio, e n’esca prole
che ’n virtude e splendor pareggi il sole.

78Or questi due, benché privati e sanza
carica militar sian venturi eri,
per prudenza non han né per possanza
chi superar, chi pareggiar gli speri.
E però quel ch’a dir de gl’altri avanza
capitan valorosi e cavalieri,
di lor prove famose e chiari gesti
non mai s’intenda a paragon di questi».

79E qui tacendo il principe Teodoro,
quasi ogn’altro guerrier posto in non cale,
colmo d’alto stupor sospende in loro
la mente e ’l guardo il senator papale.
Ma come poi le meraviglie foro
quete e raccolte ai pensier pronti l’ale,
Teodor de gl’altri a raccontar riprende
al messaggier che con desio l’attende.