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La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro III

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 18.02.16 17:27

ARGOMENTO
Segue Teodor a far palesi e chiari
de gl’eroi più famosi i nomi e l’opre,
e d’Elisa e d’Alceste i casi amari
con dolci note al saggio Artemio scopre.
E così ne’ diletti altrui sì cari
mostra quanti travagli il mondo copre,
e che in mezzo del riso aspro dolore
sempre si mesce a tormentare il core.

Teodoro continua la presentazione dell’esercito ad Artremio: mostra altre truppe e capitani (1-31)

1«Signor, que’ due della seconda coppia»
ricominciò Teodor «son capitani
di gente greca, e ben l’un l’altro accoppia
d’animo invitti e di valor sovrani.
Virtù che fuor naturalmente scoppia,
né lascia i cor gentil parer villani
ben mostra in lor con manifesta luce
la nobiltà dell’uno e l’altro duce.

2Quel da man destra, a cui sì lunga e bionda
la chioma è spara in sul lucente usbergo,
e, quasi un fiume d’or che si diffonda,
riga armato d’acciar l’omero e ’l tergo,
Cleanto è detto, e ’n su la verde sponda
del lucid’Ebro ha il suo nativo albergo.
Nacque de i re di Tracia, et egli i segni
muove di tre provincie, anzi tre regni.

3Sono i primi e ben forti i propri Traci,
per sua ferocità squadra temuta;
i Macedoni poi, di pari audaci,
ma vie più lor la disciplina aiuta;
terzi i Dardani sono e i feri Daci,
che nessun per onor morte rifiuta,
e quei di Ponto e di Dalmazia mesce
con questi insieme e la falange accresce.

4Sono a piè diecimila e novecento
ne conduce a cavallo, e di lor porta
famosa insegna un’aquila d’argento
ch’un altr’aquila tien nell’unghia torta,
che ’l sangue ha sparso e le sue piume al vento
dall’artiglio maggior ferita e morta,
per dinotar che rimarrà disperso
da l’imperio Romano il regno perso.

5Vedi l’altro a man manca e più raccolto
su ’l tergo ha ’l collo e più le spalle aperte,
et ha brune le chiome e fresco il volto:
quegli onor della guerra è Poliperte,
trae d’Atene il natal, paese incolto,
fatti sono i giardin piagge deserte,
e di tanti edifici infra l’arena
riman del tempo alcun vestigio a pena.

6Ma se caggion le mura e strazio indegno
fa d’ogn’opra di man la lunga etade,
a mal grado suo pur prova d’ingegno
fabbrica di scrittor giammai non cade.
nelle carte fondata ha vita e regno,
se rovina nel suol l’alta cittade,
e mancar si vedranno al sole i rai
pria che manchi d’Atene il grido mai.

7E non sol Poliperte Atene aduna,
ma l’Epiro e l’Acaia: all’Oriente
dell’incolte provincie esposta è l’una,
guarda l’altra a Corfù verso Occidente.
Non può nulla temer l’irsuta e bruna
per li monti Cerauni avvezza gente,
che le fere solea di balza in balza
saettando seguir leggiera e scalza.

8Tratti poi fuor del chiuso e ’nsieme accolti
dalla tromba medesima conduce
quelli del Peloponneso, e seguon molti
l’ardito suon del fortunato duce;
e più altri di lor sparsi e disciolti
là per l’isole egee chiama e riduce,
Lesbo e Creta concorre e Negroponte,
e le minute Cicladi ma pronte.

9Quasi a piè tutta è la sua gente greca,
ma gravi d’armi e d’animo costante,
sì ch’a danno minor morte s’arreca
che torcer mai dal suo dover le piante.
Port’ei per segno una dentata seca
che roder tenta un lucido diamante,
né pur vi lascia alcuna nota impressa
e non potendo a lui noce a se stessa.

10Dodicimila il capitan condutti
tra pedoni e cavalli avea da prima,
ma son già quasi alla metà ridutti
tanto il ferro e l’età distrugge e lima.
Son più d’ogn’altro a franger mura istrutti
ne’ duri assalti e salir loro in cima,
né torre è mai che resistenza faccia
lungamente al crollar delle lor braccia.

11Pon mente ai terzi e ciaschedun lor fregio,
vedi l’italico ornar dell’armi il pondo:
Triface è l’un, per chiare prove egregio,
gentil di spirto e di parlar facondo,
sull’Arno è nato, ov’ei più raro ha ’l pregio
delle note d’Etruria, e puro e mondo
corre con lento piè che lo rattiene
di cigni il canto alle famose arene.

12Di membra è snello, e sovra i piè veloce
nel corso appena imprime d’orme il lito;
fervido di voler, di cor feroce,
ardito sì ma cautamente ardito;
né del nettare d’Ibla ha la sua voce
men soave concento e men gradito:
se va, se sta, s’egli ragiona o tace,
ha sempre un non so che che s’ama e piace.

13Di concorde voler da lui condutti
van gl’Italici seco, i qua’ partiro
con varie insegne e non volean ridutti
andar sott’una e ’n ritrosir s’udiro.
Ma proposto Triface ei solo a tutti
per duce piacque, e sotto a lui s’uniro,
et ei sì dolce or gli governa e regge
ch’amore è ’l freno e volontà la legge.

14Novemila ne regge e ne raccoglie
di quelli anco di qua dal varco angusto
ch’è fra Scilla e Cariddi, onde si scioglie
da Leucote Peloro e ’l monte adusto;
e con quei ch’abitar le bianche spoglie
dell’Appennin di lunga neve onusto
tragge insieme Triface e seco mena
quei dell’onda adriatica e tirrena.

15Un leone è l’insegna, e mentre dorme
chetamente un fanciullo il fren li mette.
Mille premono il suol di ferrat’orme,
sparse le lancie lor d’archi e saette;
partenopee son le guerriere torme,
e fan chiaro veder le squadre elette
che l’antica virtù che già fioriva
negl’italici petti ancora è viva.

16Vedi l’altro a man manca, a sue gran membra
non è già punto inferior la forza;
d’esser nato mortal non si rimembra,
sua ferocia nessun periglio ammorza;
tra gl’armenti minor tauro rassembra,
rompe l’armi e le schiere e l’aste sforza,
e qual leone orribil velli e folti
spargon la fronte sua capelli incolti,

17Adamasto è costui; sol ei non puote,
emulo di Batran, soffrirne il grido.
Per angue è chiaro e d’Alboin nipote,
nato di Lombardia nel fertil nido,
dove l’Adda e ’l Tesin con larghe rote
traggon l’umido piè spargendo il lido,
e più volte fecondi i campi fanno
pria che di neve incanutisca l’anno.

18I Sequani e gli Elvezi egli conduce,
e del ferro e del vino amica gente,
che simil di costume al fero duce
non alberga timor, piaga non sente.
Un Orion che le tempeste induce,
morte e strage crudel delle semente
è la sua ’nsegna, e la falange piena
da prima ei mosse, or n’ha due quinti a pena.

19Vedi il quarto a man manca: è quello il figlio
del canuto Silvan, c’ha per cimiero
grave d’alta pruina un bianco giglio;
bello è d’aspetto e d’animo guerriero,
sventola il pennoncel d’oro e vermiglio,
e ’l generoso e nobile destriero
a cui l’omero preme e stringe il morso
sembra neve al color, Zeffiro al corso.

20Tra ’l fin del quarto e ’l cominciar del quinto
lustro de gl’anni suoi lieta stagione
corre, età favorita a gloria, spinto
da valoroso e volontario sprone.
E ben figliuolo al naturale istinto
et al nobile fin ch’ei si propone
si dimostra a Silvan per via d’onore,
emulando a gran passi il genitore.

21Venturiero è ’l garzon leggiadro e franco,
seco è ’l duce Anfimen, carico d’oro,
a cui pende ricurvo al lato manco
geminato il ferro in barbaro lavoro.
Sopr’ha il nero destrier sottile e bianco
pur com’un vello, e i piedi e ’l capo è moro,
non preme ei no, ma par che rada il suolo,
l’ali al corso non vedi e vedi ’l volo.

22Condutti a noi del caspio monte ha fuore
gente che ’n sé non ha legge né freno.
Oh se pari in costor fusse ’l valore
al numero, all’ardir, ch’egl’hanno in seno!
Ma fidar non ne può l’imperadore,
e nuoce ovunque sia l’empio veleno.
Son trenta mila almen, tutti gazzarri,
ingiuriosi, indomiti e bizzarri.

23Dall’Ircania costui con le sue genti
a cui serra le vie l’orribil tosco,
nemiche a Cosdra e di disdegno ardenti
a congiunger si venne in guerra nosco,
quando a i giorni maggior gl’atri serpenti
fan viva siepe al duro varco e fosco,
e pur or quando il velenoso calle
chiuggon le serpi alla profonda valle.

24Tacite al penetrar del cieco sasso
movean le schiere sospettose e preste,
perché dal suon del periglioso passo
il diluvio de gl’angui non si deste,
ma indarno pur, ch’ad assalirle al basso
sibilando strisciò l’orrenda peste,
e la piaggia e la valle e ’l pianoS | pianto e l’erta
di serpi è tutta a danno lor coperta.

25Aran con larghe e velenose rote
gl’adirati colubri il gran deserto,
rigan lubrici il suolo e ’l ciel percote
di lor sibili ardenti un suono incerto.
Spaventosi sembianti e forme ignote
precipitose in giù scendon dall’erto,
rassembra il ciel s’oscuro nembo il serra
seminata di fulmini la terra.

26Suona l’orrida valle, ogn’antro geme,
spargon le biscie avvelenata spuma,
con le spade i guerrier l’orrendo seme
troncansi intorno e ’l varco ondeggia e fuma.
Seguita il popol fiero e nulla teme
e col ferro e col piè la via consuma,
tanto ch’escon d’impaccio e ne conduce
liberi i suoi guerrier l’ardito duce.

27La loro insegna è con argenteo corno
quel pianeta che in ciel già mai non suole
tal far altrui qual si partì ritorno,
compartendo alla notte i rai del sole.
Con quel dapoi che non l’estingue il giorno
il barbarico stuol mostrar ci vuole
che val per buona e più per rea fortuna
qual notturna assai più luce la luna.

28Vedi gl’ultimi due che d’un colore
che nel bianco in vermiglia han la divisa,
rara coppia gentil, c’ha giunto amore
di legittimo nodo, Alceste e Elisa.
Vive indistinto infra due petti un core,
e in due corpi è tra lor l’alma indivisa,
ella per lui, mercé d’amore, audace
combatte in guerra e gl’amoreggia in pace.

29Di dolore e d’amor trafitta e punta
la giovenetta assai fu presto a morte,
e soffrendo et amando a tale è giunta
ch’ell’è ben tra i più rari essempio forte,
ché disperata e dal suo amor disgiunta
ben la tenne quattr’anni acerba sorte
sotto ruvide spoglie, infra le piante
d’antica selva sconosciuta amante.

30Sola è donna nel campo e la permette
l’imperador, quantunque pur sia tale,
però che doti in sé raccoglie elette
ch’al virile valor la fanno eguale.
Sicuramente in certo segno mette
dall’aurata faretra ogni suo strale,
rompe ’l corso alle fere in mezzo al suolo
e per l’aria a gl’augei la vita e ’l volo.

31E dall’arco promette e se ne spera
della man feminil prove maggiori,
e l’istoria direi pietosa e vera
delle lagrime sue, de’ suoi dolori
per cui divenne in mezzo i boschi arciera,
s’io non temessi i suoi dolenti amori
portarvi noia», e qui si ferma e tace,
sovrastando a mirar quel ch’a lui piace.

Racconta la romanzesca storia di Alceste ed Elisa, sposi separati dall’inganno di una serva e ricongiuntisi solo quattro anni dopo (32-94)

32Ma scorta allor nel principe Teodoro
dal sacro ambasciador l’aperta voglia,
di contar di que’ due ch’un tempo foro
piangendo amando in disperata doglia,
volgesi ad ascoltar gli affanni loro
benché i casi d’amor gradir non soglia,
ma in lievi cose affabilmente in lui
vinto il proprio voler cede all’altrui,

33e rispondendo «A me l’udir fia caro,
purch’a voi forse il raccontar non grave,
de’ legitimi amanti il caso amaro
doppo lunga stagion fatto soave»,
ciò detto ei tacque, e ’n suon distinto e chiaro
ripigliando Teodor quel ch’a dir have,
con lieta fronte al sacro messo e pio
più volgendosi ancor così seguio:

34«Nel laconico mar Citera siede,
isola che più bella e più feconda
sopra ’l nostro orizzonte il sol non vede,
né più bella a veder l’acqua circonda.
Quivi nacquer gl’amanti e ’n quella sede
pargoletti godean vita gioconda,
della tenera età nel dolce loco
partendo il riso e l’allegrezza e ’l gioco.

35Quivi un amor che non sapea d’amare
d’un incognito affetto i cori univa,
sospiravan talor l’anime care,
né sapean quel sospir d’onde ei veniva,
che temer non avean né che sperare
e speranza e timor l’amor nutriva,
e così semplicetti un tempo avanti
che ’ntendessero amor vissero amanti.

36L’età crebbe e le voglie, e furon poi
dal letto marital spente e raccese,
fin che fortuna con gl’assenzi suoi
a conturbar tanta dolcezza intese.
Cosdra affronta Cartagine et a noi
convien repente apparecchiar diffese,
e già già parte e se ne va per l’onde
l’armata e con le vele il mar nasconde.

37Così a partir dalla diletta moglie
dura necessità lo sposo astringe.
Da lei congedo lagrimando toglie
e di mesto pallor tutto si tinge,
Al fin si parte e la sua vela scioglie,
l’afflitto amante, e l’Aquilon la spinge;
vassene senza cor, ché lo ritiene
la bella sposa alle paterne arene.

38Pien di lagrime il volto e ’l sen di duolo
con l’altre vele il doloroso amante
sospirando varcò l’umido suolo,
ma fermò tardi in sul terren le piante,
ché l’amica città l’avverso stuolo
avea disfatto alcuni giorni avante;
più dì fermossi a racconciar l’antenne
per tornar quell’armata ond’ella venne.

39Or tra queste dimore un cavaliero
novellamente in Africa venuto,
per portar a Cartago, ove mestiero
ne fusse a lei con la sua destra aiuto,
quando al fin della cena ogni pensiero
con poca guardia è più dal cor tenuto,
veggendo ei più con basse ciglia e meste
dolente star l’innamorato Alceste,

40- Deh, signor – li diss’ei -, sbandisce omai
così tristo pensier che t’ange il core,
ché null’altro può far, come ben sai,
nostro pensar che raddoppiar dolore.
E se forse è cagion di darti guai
come fa spesso in età fresca amore,
sterpalo, ché non è maggior follia
d’uom ch’a femina vil soggetto stia.

41Né femina esser può che non sia vile,
null’amor, nulla fede ha ’l sesso avaro,
non beltà, senno e non virtù gentile,
ma l’oro è sol ch’alle lor voglie è caro.
Provato ho mille e mai diverso stile
non vidi in una, ond’a fuggirle imparo -,
e di molte il guerrier narrando disse
godute a prezzo e l’ultima descrisse.

42- Sulla sponda a Citera, ond’ella vede
d’Asopo il dorso, è gran magione eretta,
che sporge fuor sopr’uno scoglio e siede
quasi a specchio del mar che l’ha ristretta.
Quivi donna gentil ma per mercede
pur ebb’io come l’altre, Elisa detta,
e se mai dal sembiante alcuna onesta
comprender puossi a me parea ben questa,

43ché ’n sé raccolta e nel suo bruno manto,
del crino avara e del pudico sguardo,
nell’andar schiva e vergognosa alquanto
movea guardingo ogni suo gesto e tardo.
E chinando il bel viso a terra intanto
scoccava a piè de’ suoi begl’occhi il guardo,
quasi a dir: “Non guard’io, nessun mi miri,
ch’io non porto pietà d’altrui martiri”.

44Ma ’l tesoro d’amor, che più raccoglie
fa più caro parerlo ond’ei più s’ama,
e così avvien che dell’ardenti voglie
mantice è ’l di negar quel che si brama;
tal io d’Elisa in quelle oneste spoglie
vie più m’accesi, e ne sfogai la brama,
ché per far me dell’amor mio felice
chiuse il patto tra noi la sua nutrice.

45Costei da gl’anni attenuata e trista
mostra ipocritamente atto devoto,
formar preghiere ad or ad or fa vista,
confondendo i bisbigli in suono ignoto,
baciar sovente il terren sacro è vista,
battersi e risonarne il petto vòto;
d’ogni inganno, è maestra e con suavi
detti d’ogn’altrui cor volge le chiavi.

46Costei di notte tacito e soletto
mi condusse a goder l’idolo mio;
passai per varco inusitato e stretto,
ch’ad aprirmi sul mar la balia uscio -.
La sua camera a lui descrisse e ’l letto,
tutte sue frodi il cavalier gl’aprio,
loquacissimo fatto a mensa lieta
dove scioglie la lingua il vin di Creta.

47Quindi accorto il marito e certo omai
dello scorno da lui contra se fato,
– Ahi malvaggio – gridò -, tu dunque andrai
superbo ancor di così reo misfatto?
Tu di mia moglie e l’onor mio tolto m’hai:
per pagarne le pene il Ciel t’ha tratto
nelle mie mani -, e ’l ferro trae dal fianco,
sospingendosi a lui feroce e franco.

48Or confuso l’adultero e sorpreso,
tratta con l’ebra man la spada a pena,
mal accorto egualmente e mal diffeso
trafitto cade a insanguinar l’arena.
Dalla mensa alla tomba inutil peso
passar gli è forza alla dolente cena,
e tra i vasi ravvolto e le vivande
e col sangue e col vin l’anima spande.

49Non bada Alceste, un picciol legno sale
lasciando gl’altri e la sua vela scioglie,
cui l’Austro gonfia e per l’ondoso sale
portatrice ne va d’amare doglie.
Tinto è nel volto di pallor mortale,
dolor peggio che morte in seno accoglie,
tacito è sempre e ne’ sospir di foco
talor prorompe e non ha posa o loco.

50Al quarto dì che ’l disperato amante
dal confine african partito s’era,
di lunghissimo spazio ancor distante
per lo piano del mar vide Citera,
ma il sentir torse e poi fermò le piante
sul terren di Mallea giunto la sera,
e quindi un messo alla consorte manda
nel proprio legno e a lui così comanda:

51- Vanne, e imbarca mia moglie, e come poi
tu dall’isola sei tanto lontano
che più visto o sentito esser non puoi,
dalle morte crudel di propria mano;
o se ’l sangue di lei sparger non vuoi,
gettala immantinente al flutto insano.
Fa’ ch’ella muoia e non udir da lei
scusa o pregar se tu fedel mi sei -.

52Pronto all’opra crudel vanne colui,
giunge a Citera e l’innocente Elisa
chiama per parte del marito, a cui
menarla intende, e ’l suo ritorno avvisa
ch’ei giunto è là con altri amici sui,
sulla riva del mar quinci divisa,
dove è stretto a badar per alcun giorno
pria che far possa all’isola ritorno.

53L’amorosa consorte al noto messo,
volenterosa immantinente crede,
e tutta lieta allora allor con esso
mette nel legno suo l’incauto piede.
Lascia l’empio la riva et all’eccesso
come il luogo opportuno e ’l tempo vede,
più feroce del mar che lo sostiene
contr’alla donna impetuoso viene.

54E nel viso gentil, che forza avrebbe
tòr lo sdegno alle fere, a gl’angui il tosco,
e di pietade intenerir potrebbe
le dure querce al più deserto bosco,
poiché siffatto orribilmente gl’ebbe
spietatissimo in atto il guardo fosco,
le man distende e ’l biondo crine avvolto
s’ha già nell’una e l’altra il ferro ha tolto.

55E con aspra favella et interrotta
dall’orror del misfatto – Elisa – dice,
– su disponti a morir, che giunta è l’otta
della tua fine, e viver più non lice.
O vuoi ferro o vuoi mar -. Così ridotta
al partito crudel quell’infelice,
tremante e fredda e con le labbra smorte,
chiede almen la cagion della sua morte.

56- La cagione è il voler (le rispond’egli)
del tuo marito, et ei così comanda -,
e traendo a quel dir gl’aurei capegli
muove e ’l ferro adempir l’opra nefanda.
Rasserena allor queta i dolci spegli
la giovanetta, e fuor le voci manda:
– Eccoti il petto: il tuo signor e mio
se così vuole, così voglio anch’io.

57Per lui sol, non per me piacque la vita,
per lui mi spiaccia or ch’ei l’aborre e schiva.
Nodo eterno d’amor l’ha seco unita,
da lui dependa e per lui mora e viva.
E se forse parer morte gradita
non mi potrà, poi che di lui mi priva,
di contentarlo il mio contento fia,
talch’addolcisca ogn’amarezza mia.

58Ben mi resta un sol dubbio, et addimando
per l’estrema mercé, che tu ridica
queste parole al mio signor tornando
(ch’ella del petto fuor trasse a fatica):
Elisa tua, che fedelmente amando
non t’offese già mai, morì pudica -.
E qui la mente a Dio converte e nudo
porge altera il bel fianco al ferro crudo.

59Ma quel servo crudel, che s’era armato
contra i preghi d’asprezza e contra i pianti,
rendon (ch’il crederia?) preso e legato
del magnanimo cor gl’atti costanti,
e due e tre volte il fiero braccio alzato,
quasi maga pietà l’arresti e ’ncanti,
non può muovere il colpo e non l’abbassa
anzi ’l ferro di man cader si lassa,

60sì ch’ei l’opra abbandona e volto a lei,
così spiegò più raddolcito il suono:
– Deh, che morte mai dar non ti potrei,
ma non è in mio poter darti perdono,
ché, qual tu moglie al signor nostro sei,
del crudel che mi manda io servo sono.
Ma della morte eterno esilio in vece
aver da me, se pur vorrai, ti lece.

61Se la fede per pegno a me tu presti
di partir quinci e non mai più tornare
ti lascierò su quelle spiagge agresti
e dirò poi che t’ho sommersa in mare.
E tu di là te ne potrai da questi
nostri confin peregrinando andare,
ma giura a men di ricovrarti dove
qui non s’odan mai più d’Elisa nuove -.

62Risponde: – Amico, uccidi pur, trapassa
pur questo petto; e che vuoi tu ch’io viva
da quel crudel, che benché tale, ahi lassa,
è pur la vita mia, lontana e priva?
Abbassa, ohimè, la mortal mano, abbassa,
non mi lasciar contr’a sua voglia viva,
ché saria troppo a me tal vita amara
e morte a piacer suo m’è dolce e cara -.

63Così pur ella il mortal colpo chiede,
perché adempiasi in lei l’empio mandato,
ma pietoso il morir non le concede
chi la vita negar dovea spietato.
Or che lite ammirabile si vede
nascer tra lor, che generoso piato:
giovene donna et innocente prega
per la sua morte e l’uccisor la nega.

64Ma poi ch’un tempo inutilmente Elisa
all’omicida suo chiese la morte,
e dimostrò con disusata guisa
ne’ magnanimi preghi animo forte,
la speme al fin, se non rimane uccisa,
di scoprirsi innocente a miglior sorte
fa che cede la misera, e dolente
all’odioso suo viver consente.

65E di lagrime sparse ambe le gote
quai rose intatte al matutino gielo,
di trar l’esule piè tra genti ignote
promette a lui sotto diverso cielo.
Indi per variar più ch’ella puote
suo sembiante gentil, depone il velo,
tronca il bel crine e la purpurea vesta,
piangendo spoglia e in servil manto resta.

66Colui glielS | glel presta, e sopr’un’erma spiaggia
la depon lagrimosa e se n’invola.
Pass’ella i monti, e fuor che il pianto assaggia
poc’altro cibo, e va dolente e sola.
Parer si sforza e ruvida e selvaggia,
nutrit’anch’essa in boscareccia scola
tra dura gente ov’ella arriva o parte,
ma non giunge al desio lo studio e l’arte.

67Del bel viso gentil fa prova in vano
nasconder l’aria e ’l portamento e ’l moto,
non può l’atto civil farsi villano
né restar di sue grazie il ciglio vòto.
Troppo candida appar la bella mano,
troppo ad ogn’opra il nobil gesto è noto,
così nuvola il sol con atri veli
non può tanto celar che ’l giorno celi.

68Ma poi ch’ell’ebbe a quattro lune e sei
misera e sconosciuta peregrina
trascorso errando, e con gl’accesi omei
fatt’ogni selva risonar vicina,
tra la sua famigliuola a raccor lei
un pietoso pastor presto s’inchina,
e da quei panni un garzoncel creduta
pasce or greggia lanosa et or cornuta.

69E con ruvida verga e con accenti
soavi troppo a così duri uffici
correggendo conduce i bianchi armenti
a pascer l’odorifere pendici,
e spesso a i suoi dolcissimi lamenti
fa pietose le selve ascoltatrici,
e compiangon sovente al suo dolore
alternando i susurri or l’acque or l’ore.

70Et ella un giorno insidiando aggiunto
d’un selvatico capro il correr lieve,
lui ferì dall’agguato, e ’l fianco punto
pasce ’l ferro la vita e ’l sangue beve.
E l’un poi delle corna all’altro aggiunto
ne compose ’l grand’arco ond’ella in breve
divenne arciera e sagittaria tale
che né ’l Parto né ’l Perso ha forse eguale.

71Quindi corre la selva e poi la sera
ricca di preda al chiuso albergo riede,
e ’l dì soletta ov’è più folta e nera
l’ombra d’antiche piante affrena il piede,
sfogando allor l’acerba doglia e fera
che l’usato tributo a gl’occhi chiede;
e riman poi della sua pena acerba
tiepida a i sospir l’aura, al pianger l’erba.

72Durò lunga stagion l’amaro stile
che ’l suo fior di bellezza in uggia tenne,
e ’l suo più vago addolorato aprile
per lei pur sempre oscurità mantenne.
Ferito intanto un cavalier gentile
nel medesimo albergo a morir venne,
di cui la donna il luminoso arnese
da lui lasciato e ’l corridor si prese.

73E con quest’armi ella pensò dapoi
fingersi un cavalier cangiando sorte,
e passar con più laude i giorni suoi
o i suoi lunghi dolor finir con morte.
E ben che grave al molle petto annoi
tropp’aspro peso il duro arnese e forte,
vi s’avvezz’ella, e non so dir se pure
s’intenerisca il ferro o ’l sen s’indure.

74Ma tornato il famiglio, a cui commise
la sua morte il marito, e inteso come
egli in mar la sommerse e pria l’uccise,
presela di sua man nell’auree chiome,
data a lui la mercé, qual ei promise,
quindi il fa dipartir, però che ’l nome
teme dell’omicidio e ’l fatto aborre
e ’l ministro si vuol da gl’occhi torre.

75Colui si parte e poi nel cor martella
più d’un sospetto al credulo marito,
dubbio della cagion d’opra sì fella
l’immaturo consiglio il fa pentito.
Torna a Citera e la nutrice appella,
ei con volto feroce ella smarrito,
e le dimanda o ravveduto tardi
col ferro insieme e con gli ardenti sguardi:

76- Di’ su, malvaggia, io vo’ saperne il vero:
chi fu colui ch’a violar menasti
l’impudica mia moglie all’aer nero.
Tu ’l sai, tu sei che l’onor mio macchiasti -.
La mala vecchia a minacciar sì fero
tremante cadde, e non ha cuor che basti;
ma gridando mercé mostra in che guisa
sol’ella ha colpa, et è innocente Elisa:

77- Signor, vinta dall’oro orecchia porsi
ad un vano amator, che qui venuto
con desir molto e poco senno io scorsi
a dimandarmi alle sue fiamme aiuto;
et io, che bene ogni tentar m’accorsi
la casta Elisa tua tempo perduto,
mi rivolsi all’astuzie, e lui contento
fei d’amor con inganno e me d’argento.

78Persuasi a Terea d’accoglier essa
d’Elisa in vece il folle amante in seno,
che d’un’etade e d’una forma impressa
Terea somiglia alla tua sposa a pieno,
e nella marital camera stessa
trassi il vano amator di gaudio pieno,
che l’incauta tua moglie indussi ad arte
a trar la notte in più lontana parte.

79Lascio in camera il vago e poi ch’alquanto
sovrastette in desio del mio ritorno,
con l’ancella simil chiusa nel manto
della mia donna a chi m’aspetta io torno,
e spento a un tratto un picciol lume tanto
che mal vincer potea l’ombra d’intorno,
avidamente nel tuo proprio letto
l’uno dell’altro di lor preser diletto.

80Et io prima che l’alba in Oriente
biancheggiar faccia alcuna parte ancora,
affretto lui, che tacito e repente
partir sen voglia e prevenir l’aurora.
Et egli a pieno al creder suo consente
l’accese brame, uscì dell’uso fuora -.
E qui tace la vecchia, immobil cote
rimansi Alceste, e poi s’infiamma e scote.

81Et – Ahi – grida – malvaggia, io dunque a torto
per te la donna, anzi la vita mia,
fedele e casta et innocente ho morta?
Tanto error senza pena unqua non fia -;
vuol trarre il colpo, e riman poi che scorto
ha il vile oggetto in cui ferir desia,
la lascia, e corre a minacciar Terea,
se narratol il ver la balia avea.

82E così ’l trova, ond’ei non pur ferito
ma trapassato il cor d’aspra saetta
per soverchio dolor di senno uscito
di sé far pensa incontr’a sé vendetta.
E ’l suo spirito sciolto avria seguito
lei che nuda si crede alma diletta,
ma v’accorser gli amici, e gliel vietaro,
e del morir la miglior via mostraro.

83Persuaso da lor che ’n lui non deggia
morte d’eterno danno esser cagione,
passa il misero in Asia e qui guerreggia,
disperato a i perigli il petto espone.
Ma quantunque il morir pur sempre chieggia,
con mill’opre ardite ov’ei si pone,
riserbandolo a meglio amica sorte
gl’incontra gloria ov’ei ricerca morte.

84E già quattr’anni il lagrimoso amante
avea miseramente ad ora ad ora
le colpe sue rammemorate e piante,
né sentito il dolor temprarsi ancora,
quand’un guerriero alle trincee d’avante
venne a chiamarlo a guerreggiar di fuora.
Tace il suo nome il cavaliero e ’l volto
tien dentr’all’elmo ascosamente accolto.

85Del guerrier peregrin più d’una voce
la disfida ad Alceste in fretta porta;
subito ei s’arma e sul destrier veloce
viensene al vallo, e s’apre a lui la porta,
e ben del petto intrepido e feroce
l’alta virtù nel fier sembiante è scorta;
la lancia stringe, e si rassetta in sella,
ma pria che muova al cavalier favella:

86- Questi Alceste son io che tu richiedi
teco a pugnar né la cagion dir vuoi;
ma se neghi a me questo, almen concedi
prima dirmi il tuo nome e giostrar poi -.
E ’l peregrino: – Un cavalier tu vedi
da cui questo e non altro intender puoi,
ch’odio non ti port’io ma tu nemico
non hai maggiore, e nulla più ti dico -.

87E qui punti i destrier corronsi incontra,
cader la lancia il peregrin si lassa,
e ben vedesi a studio; Alceste incontra
a lui lo scudo e lo divide e passa.
Ma meglio assai che non vorria gl’incontra
perché spezzasi l’asta e si fracassa
di lui più molle, e più pietosa, e solo
lo scontrato guerrier batte nel suolo.

88Dismonta Alceste e corre al vinto a piede
per torgli l’armi, e tratto a lui l’elmetto
stupido et adombrato Elisa vede,
riconosce ben ei l’amato aspetto,
la sua donna gentil, che morta crede,
e pur viva mantiensi in mezzo al petto.
Fermo attonito ei resta, e in tutto immoto
non ha voce né suon, senso sé moto.

89E ben morto saria, ch’erranti e sparte
sue virtù dal piacer fuggian dal core,
se non ch’in dentro alla più nobil parte
premeale il duol del suo commesso errore.
Quindi errando la vita, or torna or parte,
nel reflusso di morte e pur non muore;
potea solo il dolor, solo la gioia,
né pon fare amendue ch’Alceste muoia.

90L’amorosa consorte in fronte il mira,
e veggendo ch’ei resta e non l’offende,
tacito un favellar da gl’occhi spira,
che chi ama e nessun altro intende.
– Crudel – poi dice -, or che non empi l’ira
chi mi salva da te, chi mi difende?
Nelle tue mani è pervenuta Elisa,
sol per restar dalle tue mani uccisa.

91Già son ben io ch’è tuo piacer, Alceste,
non ti turbar, non ti dirò consorte,
ché né moglie né viva Elisa reste,
ne vo’ che ’l viver mio noia t’apporte.
Morir vogl’io, ma sparge tu di queste
mie vene il sangue e dammi tu la morte.
Fallo, che più tardar? Saziati omai,
e sappi sol ch’io non t’offesi mai.

92E se già per pietà or è ’l quart’anno
ch’ebbe il servo di me, morta non fui,
non ti doler ché, benché viva, m’hanno
poi ritenuta sepolta i boschi bui.
E vengo a te per rimorire, avranno
nuovo contento i desir tui,
che in quanto a te morrò due volte e fia
con tuo doppio piacer la morte mia -.

93Pentito Alceste a quel parlar, tremando
qual filo d’alga in sulla riva al mare,
la rea cagion dell’error suo contando
versa per gl’occhi fuor lagrime amare.
E d’amor vinto e di dolor parlando
spesso ammutisce e nel silenzio appare
quel che serra la lingua, e più rivela
la vista in lui, ché ’l suo tacer non cela.

94Ma poi ch’a pieno il fallir proprio aperto
le preghiere condì col pianto amaro,
amaro a lui ma ’l pentir suo scoperto
d’ogni nettare d’Ibla a lei più caro,
l’amorosa obliando ogni demerto
con un guardo il mirò tranquillo e chiaro,
che dell’intimo cor nunzio verace
perdon li porge e li promette pace».