ARGOMENTO
Fiera è la pugna, e contr’Armallo altero
muove con sette figli Almonio in vano,
e Pilade e Gismondo uccide il fero
disertator del popol cristiano.
Ma contra i Persi il ciel tonante e nero
grandine versa e i monti ingombra e il piano,
fulmina Sarbarasso e ’l fiero busto
cade spento dal foco, e vince Augusto.
Armallo uccide Almonio e i suoi sette figli (1-19,6)
1In questo mentre il furibondo Armallo
passa in mezzo a’ cristiani e ’l ferro rota,
e con la man, che mai non scende in fallo,
il più chiuso di lor disserra e vòta.
Grave e lucido l’arma ampio metallo,
suona ogni colpo in van che vi percota,
e non è incontro a raffrenar possente
l’aspro distruggitor dell’Occidente.
2Mira Almonio la strage; in riva all’onde
d’Adria nacque costui ben ricco d’oro,
ma più care ricchezze e più gioconde
di sette figli ha natural tesoro.
L’uno all’altro è simil come le fronde
suol conformi produr quercia od alloro,
e fanno a gara a chi di lor più chiaro
riesca in arme al genitor più caro.
3Le chiome han bionde e su gl’elmetti aurati
candide piume e del color del mare
quand’è tranquillo ai più soavi fiati,
la sopraveste lor serica appare.
Pendon corte le spade all’un de’ lati
dalle cintole d’or gemmate e rare,
e in mano han l’aste, e ’l volto è di ciascuno,
come a fratelli, pur diverso et uno.
4Or quando Almonio il forte Armallo ha visto
scaldar di sangue e sparger d’armi il suolo
e disfarne l’esercito di Cristo,
si stringe in un col suo diletto stuolo,
e dice a tutti: «Or or farommi avvisto
qual fia di voi che non mi sia figliuolo,
e qui manchi alla prova; e così suole
anco i figli provar l’aquila al sole.
5Or venite con me, l’ardire e ’l guardo
dirizzate in colui ch’ognun spaventa»,
e librato con man gravoso dardo
egli ardito e primier lo spiede avventa.
Ma non è come già ’l braccio gagliardo
ché l’età lunga il vigor suo rallenta;
cadene l’asta e l’una parte estrema
riman fitta nel suolo e l’altra trema.
6La medesma il pagan senza far motto
vèr lui ravventa, e ’l ferro stride a passa
feroce sì ch’ogni riparo è rotto,
e ferita mortal nel fianco lassa.
«Padre,» allor grida il maggior figlio Isotto,
«vivi fin ch’io l’uccido», e ’l ferro abbassa,
con quel furor sulla nemica fronte
che suol rotta cader parte d’un monte.
7Sembr’egli un foco, e gl’altri sei non meno
d’un unito disdegno ardendo insieme
alla fronte, alle braccia, al petto, al seno
feriscono il pagan, che nulla teme,
né pur del sangue suo stilla al terreno
traggono ancor con le lor forze estreme,
Ermolao grida: «Or senza frutto alcuno
combatterem sette guerrier contr’uno?».
8E incontro Armallo in questo dir s’avventa
di furor cieco, e per qual via non bada,
sì ch’al fero pagan, che l’appresenta,
ei medesmo a investir corre la spada.
Giung’ella al cor, da cui partir contenta
sembra l’anima fuor per nuova strada,
ché non part’ella e ’l cavalier non muore
per nemica virtù ma proprio errore.
9Palinuro al german che spira e passa
per non calcar la moribonda testa
si cansa alquanto, e in questo mentre abbassa
il figliuol del leon la man funesta,
e l’un sull’altro il crudel campo ammassa
per cui l’un sopra l’altro esangue resta.
Ahi mal pietoso: ei che toccar non volle
sopra lui giace e più non sen estolle.
10Pallidi allor d’una pietosa tema
per gl’uccisi german, Lesbo e Iacinto
stringonsi insieme, e l’un con l’altro trema,
prima ancor che morir, di morte tinto.
Et ecco in lor con sua possanza estrema
che ’l ferro omai dal fier pagano è spinto;
ambo gl’infilza e gli distende al suolo
trafiggendo due fianchi un corpo solo.
11Tre vivi ancor v’eran rimasi, e in vano
percotean pur sull’indurato scoglio,
che in quella guisa immobile il pagano
s’arrendea nulla al triplicato orgoglio,
e girando tra lor l’invitta mano
quasi con falce a troncar biada o loglio
percuote Albino, e ’l garzoncel ne muore
come vinto dal giel purpureo fiore.
12Corre Isotto a vantaggio e ’n lui si spinge
con quant’impeto egl’ha per atterrarlo,
va dietro Elide, ai duri fianchi il cinge,
l’attraversa col piè, poi tenta urtarlo;
ma l’un premelo in van, l’altro lo spinge,
che né l’altro né l’unS | che nell’altro, nell’un posson piegarlo;
e ’l guerrier poderoso a tanta guerra
resiste e vince, e ’l maggior frate atterra.
13E l’un colpo iterando all’altro aggiunge
sì che ’l vinto guerrier ne muore e geme;
fuma l’anima e bolle, e si disgiunge
del caro albergo e va col sangue insieme.
L’ultimo or che farà? Fuggir da lunge
ben vorrebbe il fanciul, che morte teme,
ma far nol può s’a lui non cala e ’l prende
l’augel di Giove e ’n ciel con esso ascende.
14Spargea natura al giovanetto il volto
gentil d’un soavissimo pallore,
che in bianchezza maggior tutto rivolto
non han gelide brine egual candore.
Corre, e vola correndo il crin disciolto,
sparso dall’aura in luminoso errore.
Così fuggesi in ciel d’eterno volo
Arcade da Calisto intorno al polo.
15Seguelo il vincitor e ’l garzoncello,
ch’è men veloce e non può far diffesa
fuor che col volto delicato e bello,
volgesi a raddolcir tant’ira accesa,
e chiedendo mercé, tosto che in quello
ferma gl’occhi il pagan, ferma l’offesa,
e da’ bei lumi e dal suave aspetto
passa pietà nel dispietato petto.
16Renditi,» or dice e proverai non meno
ch’è ’l mio vincer cortese il servir lieve»,
et ei piega il ginocchio e curva ’l seno
e l’aspra sua condizion riceve.
Quando il padre il mirò che sul terreno
era omai fatto inutil pondo e greve,
e con l’ultimo suon: «Più tosto muori
che servir», grida, e spirò l’alma fuori.
17Di tai parole il garzoncel trafitto
sparge di bella porpora le gote,
e disperato il vincitore invitto
troppo a lui disegual punge e percote,
e irritando il morir, ch’a lui prescritto
avea ’l tenor delle superne rote,
si risdegna in tal guisa il pagan crudo,
che pietosa beltà gl’è frale scudo.
18E con la man sull’indorato elmetto
fulminò sì ch’alla più fresca aurora
tramonta il bel fanciul, che languidetto
sembra un vago arbuscel che ’l vento sfiora.
Cade, e l’anima spira, e sopra il petto
del suo buon genitor si discolora,
né ’l morir suo per ubbidir gl’incresce,
e ’l sangue estremo e l’ultim’aura mesce.
19Non badò Armallo, e ’l più schierato e chiuso
dell’esercito pio frange e sbaraglia,
sparso non già ma par nel sangue infuso
cera l’acciar sì leggiermente il taglia,
e ’l popol tutto attonito e confuso
riman dovunque il feritor si scaglia.
Miralo Erinta e si sospinge anch’essaImprese di Erinta e Sarbarasso (19,7-31)
dove la gente è più calcata e spessa.
20E col ferro e con gl’urti invitta e fera
cavalieri e pedoni atterra e fiede,
e vie più sempre indomita e guerriera
al contrasto maggior rivolge il piede,
quando di mezzo una lontana schiera
tra gl’elmi e l’aste Alminoran la vede,
e di lei posto a rampognar, da lunge
pur la vergine invita irrita e punge.
21Più che veloce è costui di tigre o pardo
che la preda a seguir rapido vòle
nel favellar, ma nell’oprar più tardo
che ne’ monti Rifei gelata mole.
Sdegnosa allora la fera donna un dardo
avventa in vèr l’inutili parole,
e giunge appunto Alminoran là dove
le sue garrule note al vento ei move.
22Giunge il corniolo acerbo e la loquace
favella insieme e vital nodo incide,
e l’aura e l’alma in quel guerrier mendace
degno colpo mortal tronca e recide.
Più gl’è grave il morir, ch’ei muore e tace,
né può mal favellar di chi l’uccide.
Doppo lui la guerriera Ansaldo il forte
e Ridolfo e Giason conduce a morte.
23E Sarbarasso in sua canuta etade
tutto anch’ei si rinverde a gl’altrui danni,
e fra i gesi e fra i pili e fra le spade
rinovella il vigor de’ suoi verd’anni.
Sentenza a lui del crudel ciglio cade,
che le squadre a morir par che condanni,
fiammeggia il guardo, e gli confonde al mento
la barba folta e biforcata il vento.
24Coglie Anselmo di punta e ’l frale usbergo
qual giaccio aperse al mal difeso petto,
sì che ’l ferro fumante uscì dal tergo
rompendo all’alma il suo vital ricetto,
ond’ella uscinne, e ’l suo gelato albergo
cadde, e presse alla terra il duro letto,
dond’ei tre volte alzar si volle, e vinto
sempre ricade, al fin rimase estinto.
25Pilade e ’l buon Gismondo, i quai sì raro
d’amicizia verace il nodo aggiunge,
di due fatt’un contr’al pagano andaro
che l’esercito pio sparge e disgiunge.
Ruppe unita virtù nel forte acciaro
due salde antenne, e nessun entro il punge
a trarne il sangue e sminuir le forze,
così dure ha ’l pagan le ferree scorze.
26Traggon essi le spade, un tempo solo
le spinge e muove, un sol desio le gira,
pur combatte in ciel due ali un volo
e due rote per terra in giogo tira.
Con pari passo e l’uno e l’altro il suolo
premendo stampa, è pari ’l moto e l’ira,
ma sì bella union dalla funesta
spada del fier pagan divisa resta.
27Fiede a Pilade il braccio, e ’l braccio lassa
cader la spada invendicata al piano,
e la man con lo scudo insieme passa
del caro amico il micidial pagano,
talch’ei diffesa inutile l’abbassa,
che nol può sostener l’incisa mano;
né già d’offesa o di diffesa ignudo,
rimane un senza spada, un senza scudo,
28ché per Pilade suo Gismondo offende,
più che per sé, né men di sé Gismondo
Pilade con la manca arma e diffende,
e ’l proprio è sempre all’altrui pro secondo.
Ma ecco omai che ’l mortal colpo scende
per cui Pilade caggia immobil pondo,
né duole a lui che della vita ei passi,
solo ha dolor che ’l suo Gismondo lassi.
29Ma s’ei dolente il caro amico a forza
abbandona morendo e l’armi allaga,
l’amico il segue, e la nemica forza,
l’uno e l’altro uccidendo, entrambi appaga,
e sì chiare d’amor lampade ammorza
con unito dolor divisa piaga,
onde sciolte amendue volaron l’alme
congiunte fuor delle congiunte salme.
30Sopra lor Sarbarasso a pena il ciglio
passando inchina, e ’l corridor rivolto
a far lo sprona il bianco suol vermiglio
dove il popol cristian vede più folto.
Ma del leon più ch’altri il maggior figlio
correr fra l’armi orribilmente avvolto
e sì fervidamente il ferro muove
ch’ei ne fulmina fiamme e sangue piove.
31A fasci, a monti accatastati e involti
cavalieri e cavalli, armati e nudi
si lascia a tergo, e calpestando i volti
seguon la strada i piè superbi e crudi.
A lui rotan d’intorno i capi sciolti,
rotan di qua, di là gl’elmi e gli scudi,
e la polvere e ’l sangue atra mistura
nasconde ogni sembiante, ogn’arme oscura.
I cristiani, ormai in fuga, sono salvati da una tempesta mandata da Dio che scompiglia i musulmani (32-46)
32Contra tanto furor d’Europa il campo
più dura a pena a pena omai resiste,
e già per fuga a procurarsi scampo
voltar le schiere e declinar son viste,
pur come all’Austro il già maturo campo
volge contr’Aquilon le bionde ariste.
Cesere, che ’l periglio e ’l danno vede,
con magnanimo sdegno affretta il piede.
33Et «Ahi»S | Aih grida «Romani, ahi dunque è in voi
tanta viltà ch’abbandonar potrete
gl’ordini? Or ite, e contarete poi
che me solo a pugnar lasciato avrete».
Tace, e smonta di sella, ad un de’ suoi
prende l’asta e s’inoltra e gloria miete,
e lo scudo celeste, ov’ei ripone
sua maggior fede, a mille schiere oppone.
34Triface il segue al gran periglio e desta
lo spento ardir nel paventoso stuolo:
«Ahi qui meco, guerrier, facciam qui testa,
non lasciam (dice) a sì vil turba il suolo».
Ma più d’ogn’altro il gran diluvio arresta
Batrano; ei tace, e da man manca ei solo
tutto il campo sostiene e tutto puote,
e d’aste un bosco in sé confitto scote.
35L’animoso guerriero assalto crudo
regge di mille lance e mille spade;
se stesso espone, a tutto il campo scudo,
opre di valor sommo in terra rade.
Fulmina la gran destra il ferro ignudo,
sparge i campi di morte e le contrade,
e dovunque si volge a sé d’avante
fa correr sangue tiepido e fumante.
36Ma gl’occhi intanto al periglioso stato
delle squadre di Dio Niceto atterra,
che sopra un colle a riguardar montato
dove nulla il veder contende e serra,
scorg’ei di quivi il popol battezzato
o perir o fuggir nell’aspra guerra,
e rivolgendo il suo pregare a Dio
muovelo a dar soccorso al campo pio.
37Col cor prega Niceto, e non fur lente
le sue vive preghiere accese in zelo,
ma tali andàr qual se ne va repente
festivo raggio a segnar d’oro il cielo,
che nel puro seren la strada ardente
sfavillar fa con l’infiammato telo,
e muove al fin sovra gl’aerei campi
quel suo lucido solco e tuoni e lampi.
38Quindi l’alto Motor, che dall’eterna
parte i fulmini manda a noi mortali,
e le cose del Ciel volge e governa
tutte col ciglio, e le caduche e frali,
le luci abbassa e dove l’aer verna
e raccoglie i vapor che ’l suolo esali,
lo sguardo affissa alla mezzana falda
che per vento e per sol non si riscalda.
39E dal suo sguardo una virtù discende
che di picciola nube il cielo impresso
sovra in barbaro stuol livida pende,
di futura procella indizio espresso.
Poi l’orror delle macchie apre e distende,
spargendo intorno oscuro nembo e spesso
che nasconde ogni lume, e già non resta
più cielo aperto in quella parte o ’n questa.
40L’un polo e l’altro e l’orizzonte intorno
tutto ingombrano omai tenebre oscure,
e già perduto a mezzo giorno il giorno,
minaccia orrida neve aspre venture.
Stridon percossi il pin, l’abete e l’orno,
dall’aggirar dell’atri polvi impure,
che van torcendo impetuosi fiati
di qua, di là, d’orribil buio armati.
41Tortuosa divide i nembi e l’ombra
la tripartita folgore tonante,
e dove ’l ciel di maggior buio adombra
più l’apre accesa orribil vampa errante.
Et ecco omai che la procella sgombra,
gravido di tempeste il sen pesante,
tuon, fulmina et arde il cieco flutto,
or un foco or un’ombra il cielo è tutto.
42Ne rimbomban le valli e riminaccia
reiterando il suon gl’aspri concenti,
crescono i fiumi e con orribil faccia
traggono i ponti e coi pastor gl’armenti.
Crollansi i boschi e le ramose braccia
caggiono a terra all’abbassar de’ venti.
Trema ogni piaggia e di tornar qual forse
dal caos primo è l’universo in forse.
43Stringe insoliti globi onde gelate
l’aer, che freme impetuoso e venta;
l’orribili grandini portate
da lui diritte incontro all’Asia avventa.
Risuonan gl’elmi e delle fronti armate
l’ardire insieme e la veduta è spenta,
sì vien lor contra il tempestoso cielo,
ombra, vento mischiando, ardore e gielo.
44Vien da tergo i Romani: a le lor teste
quel procelloso turbine percote,
e bene appar che quelle squadre e queste
sian dai venti distinte, a i nembi note.
Così volgono in lor l’atre tempeste
col divino voler l’eterne rote,
a cotanto favor Cesere a i suoi
«Ecco,» dice «ecco il Ciel pugna per noi».
45Si cangia sorte, e già tremante fugge
lo Scita e ’l Perso, e Sarbarasso in vano
freme di sdegno a ritenerli e rugge,
opra ’l cenno, opra ’l grido, opra la mano,
ma l’ombroso timor le menti adugge,
talché debile è ’l fren, lo sprone è vano;
la paura, i nemici, il vento e l’onde
tutti gl’ordini suoi turba e confonde.
46Fugge il barbaro stuol diffuso e sparso,
quasi d’argine rotto onda superba
che sgorgando dal letto umido e scarso
né sentiero né legge al flutto serba,
lascia d’arene il bianco suol cosparso
dovunque allaga, e sepellita è l’erba.
Segue a vincere Eraclio e i vinti preme
giungendo il ferro e le procelle insieme.
Anfimene è ferito da Armallo (47-55)
47Ma quale altier tra le tempeste scoglio
la cui fronte ricurva il mar minaccia,
e di tema riempie e di cordoglio
i naviganti e gli scolora in faccia,
e de gl’orridi flutti il fero orgoglio
sostien superbo, e gli divide e straccia,
cotale Armallo alla mortal tempesta
della terra e del ciel sicuro resta.
48Ciò veggendo Anfimene al cor si sente
di timor, di desio lo sprone e ’l freno,
ch’ei va certo a morir se quel possente
assalirà, poiché di lui val meno,
ma s’ei teme d’un uom, perché lucente
porta dunque d’acciar l’omer e ’l seno?
Da i guerrier lungi e dalle schiere vada,
prenda un altro mestier, posi la spada.
49Non è cosa più vil che ’l terren prema
o per l’aer s’aggiri o in acqua nuote
d’uom che vesta di ferro e morte tema,
né gir confidi ov’altri il ferro rote.
Morte eguale a ciascuno è meta estrema
cui sol fama et oblio distinguer puote,
muore il re, muore il servo e sol non muore
chi perdendo la vita acquista onore.
50Tal divisa e si muove, e dice: «Io vegno
teco, Armallo, a provar l’ultima sorte,
ma ben tanto potrà virtude e sdegno
ch’io la tua comprerò con la mia morte».
E ’l così dire e col ferrato legno
spinger oltre col piè la destra forte
fu solo un punto, il penetrar lo scudo,
l’usbergo e ’l manto e l’arrivarlo al nudo.
51Ma qual tauro ferito e che si mira
fuor del petto stillar tepido il sangue,
il piagato guerrier cresce con l’ira
la forza insieme, e la virtù non langue.
Fiacca l’asta sdegnoso e ’l guardo spira
infocato venen qual bocca d’angue,
risponder vuol, ma la risposta cessa
dallo sdegno ammorzata e ’l suon con essa.
52Gi risponde la man, che ’l ferro abbassa
con tal vigor sopra ’l nemico elmetto
che qual fragile giaccio apre e fracassa
le dure tempre al fino acciaio eletto.
Ne declina la fronte, e grave e bassa
versa un tiepido fiume al tergo, al petto,
et ei gelido cade e s’abbandona
battendo ’l fianco, e ’l duro arnese suona.
53Armallo allor con un sorriso amaro
«Hai compro» disse «e sai per prova omai
come io faccia pagarmi il sangue caro;
giù fra l’ombre di morte a dirlo andrai».
Li risponde Anfimen: «Quel ch’ordinaro
di me le stelle esequir tu mi fai,
da lor vienmi la fin de’ giorni miei
e non da te, tu sol ministro sei».
54Risorride sdegnoso, e gli s’accosta
per finirli la vita e l’armi tòrre,
ma de’ Gazzarri armata schiera opposta
velocemente al suo signor soccorre.
Dal vinto a forza il vincitor si scosta,
tal de’ barbari suoi turba concorre,
che vivo a pena al padiglion l’han tratto
delle proprie lor braccia un seggio fatto.
55Cede Armallo e non fugge, et egli è solo
che l’intrepido piè sovente arresta;
la fronte volge e fa sanguigno il suolo
la non vinta giammai spada funesta.
ma né legge né fren serba lo stuolo,
correndo sparso in quella parte e in questa.
Segue a vincere Eraclio e ’l preme e strugge
perseguendolo pur dovunque fugge.
Sarbarasso, risparmiato da Batrano, bestemmia Dio ed è fulminato (56-72,3)
56Ma più d’ogn’altro il popol d’Asia incalza
Batran col ferro alle fugaci terga,
come spinge il pastor di balza in balza
la greggia sua pria che la notte s’erga,
la riduce all’ovile e vibra et alza
e fa spesso sonar l’usata verga.
Ma fra tanti suoi danni or Sarbarasso
muove torbido il guardo e ferma il passo.
57Delle man dell’indomito Adamasto
fu l’orribil pagan tratto d’arcione,
e seco a’ piedi in singolar contrasto
fèr di sommo valor gran paragone.
Ma ’l certame tra lor fu rotto e guasto
da numero infinito di persone;
l’un cercò l’altro, e poi che più nol trova
l’ira volge e la spada in pugna nuova.
58Or l’orribil pagan, che sparse e rotte
già per tutto fuggir sue squadre mira
sì dal popol fedel, sì dalla notte,
per cui l’orrido ciel suo sdegno spira,
qual ferit’orso in sue pietrose grotte
dal profondo del cor geme e sospira,
e grida: «Hai vinto, Nazareno, hai vinto.
Ma che resta a me far non manco estinto?
59Campar forse col volgo e della morte
men lo scorno temer fugace e vile?
Ma chi fia che riparo al campo porte
s’a me stesso finir vorrò simile?
Animo, che farai? Muori qual forte;
tal vivesti fin qui, segue tuo stile.
Rifar può Cosdra un campo ancor più grosso,
ma fuggir io senza viltà non posso».
60Ciò detto ei tacque, e con la forte mano
un grave dardo al gran guerrier lanciando,
«Te, prendi» grida «a te vengh’io Batrano,
ma questi doni al mio venir ti mando».
Sonò lo scudo al cavalier romano
e ’l grave tronco in lui restò tremando;
lampeggiar la gran pelle e ’l sangue in foco
cangiar si vidde, e illuminarsi il loco.
61mal cauto duce, a che ti movi e dove
precipitando a qual error t’appigli?
Non sai tu dunque, a mille chiare prove,
che invittissimi son gl’orbi vermigli?
E che gl’ha stabiliti vero Giove
dentro a gl’invariabili consigli,
sì che quanto avverrà che ’l sol risplenda
sempre a gl’assalti più che più gl’offenda?
62A quel duce il guerrier, qual generosa
aquila che di storni un nembo lassa
ed affronta il falcon fera e sdegnosa,
tutto si volge e ’l crudel ferro abbassa.
Ben è ’l barbaro omai d’etade annosa
ma ’l primiero vigor punto non lassa.
L’un l’altro affronta e fan di lor paraggio,
né vedi ancor né qua né là vantaggio.
63Ma poi ch’alquanto in dubia lance eguale
col meglio il peggio infra lor duo librosse,
punto il forte Batran sotto ’l bracciale
vede l’arme apparir tepide e rosse,
ond’ei repente in tanto sdegno sale,
sì nel foco dell’ira ardon le posse
che l’avversa virtù riman qual suole
nottola inferma al folgorar del sole.
64Or al petto, or al fianco, or alla coscia,
or gli mena alla testa, or punge or taglia,
sempre il ferro crudel raddoppia angoscia
e fora e frange e schioda l’armi e smaglia.
Ne vacilla il pagan, talor s’accosciaS | s’accoscie,
or cede, or cade e nulla par più vaglia,
e già ferito in otto parti e nove
geme stanco et anela e sangue piove.
65E già fievole è sì che ’l corpo esangue
l’anima sol non più ’l vigore aita,
e dietro a i passi del perduto sangue
la medesima via prende la vita.
La sua debile destra a i colpi langue,
fugge dal petto ogni virtù smarrita,
la man lo scudo abbandonar si vede,
posarsi il fianco e muover lasso il piede.
66Or così dunque il vincitor, che lui
conosce a sì rio termine condotto,
sostenendo la man da i colpi sui
cortesemente al perditor fa motto:
«Deh non più valoroso io veggio or vui,
dalle fatiche e da tropp’anni rotto
non poter più; ben d’avversario forte,
la vittoria bram’io ma non la morte».
67E s’arretra il guerrier, postosi in atto
di ferir no ma d’aspettar sua voglia.
Ma quel superbo a sì cortese patto
ravvelenasi il cor d’amara doglia.
Risponder vuol, ma la risposta affatto
per lo sdegno non esce e la gorgoglia;
grida poi l’empio: «Ah, né tu mai né Dio
gloriar si potrà del perder mio».
68E la spada e se stesso all’ire nuove
sospinger vuol, ma la bestemmia orrenda
arrivando a Colui che ’l tutto muove,
vien che l’alta bontà di sdegno accenda.
L’infinta pietà da sé rimove
l’eterno Padre, e con la man tremenda
lancia affocato fulmine repente:
imparate a temer, superba gente.
69Rotti gl’orridi nembi immensa rota
disserra il ciel di spaventosa lampa,
non d’acceso vapor che da sé scota
nuvola che d’orror la terra stampa,
ma da Dio mossa, ond’ei quaggiù percota
con la vindice sua tremenda vampa
lingua mortal contra ’l Fattore eterno,
anzi in forma mortal lingua d’Inferno.
70Vide ’l Cielo il suo sdegno e i lumi erranti
tremàr sotto al suo piè, tremaro i fissi,
rimbombaron le nubi alte e sonanti,
si riscossero al tuon l’ombre e gl’abissi,
si rinfranser del mar l’onde spumanti,
crollare i monti e l’universo udissi
allor che Dio con la sua destra mosse
la fiamma inevitabile e la scosse.
71Sembra un folgore no ma che disceso
tutto in fiamma vorace il ciel converso
rimanga il mondo in ogni parte acceso
sul punto allor di rimaner disperso.
Lascia ogn’altro stordito immobil peso,
scioglie l’alma dal petto al duce perso,
e in lui scoppia e finisce, e quivi estinto
rimane a piè del vincitore il vinto.
72La sulfurea caligine d’intorno
poi si dissipa, e ’l muto corpo lassa,
l’alma all’ombre fuggì, nemica al giorno.
Non si ferma il guerrier, ma guarda e passa,I pagani si ritirano su un colle, Cesare non li insegue (72,4-76)
ristringe il ferro e fa con lui ritorno
all’ire, al sangue e i Persian fracassa.
Miete Morte le vite et a Batrano
per più studiarsi or pon la falce in mano.
73Ma già rotti i pagani e ’l duce morto,
le reliquie del campo a fuggir vanno
quai pianti legni al desiato porto,
sovr’alto monte e lassù cessa il danno,
ché vi fonda i ripari Orcutte accorto
tesaurier del barbaro tiranno.
E raccogliendo i fuggitivi al passo
pongosi Erinta e con Armallo Artasso.
74Poscia le bende sue torbide e negre
discaccia il ciel dall’adombrata fronte,
e col popolo pio par che s’allegre
ch’abbia il barbaro stuol cacciato al monte.
Ma già che l’ore omai son corse integre
e la luce del dì vien che tramonte,
Cesere dice: «Abbiam vinto; or della gloria
e del premio godiam, della vittoria».
75A Dio grazie ne rende, e in un momento
fa che suon in vittoria allegri carmi,
e ’l segno dà per cento trombe e cento
che si tempri il furor, si fermin l’armi.
Né divelse giammai forza di vento
fidata nave ai duri ferri, ai marmi
suo mal grado così come si parte
Batrano, onor de’ suoi, gloria di Marte.
76Questi di guerreggiar come ape ingorda
che gl’odorati fior punga e deprede,
ben ch’altri il ramo scota, ella pur sorda
non muove l’ali e non dispicca il piede,
ultimo ancor combatte e mal s’accorda
all’iterato suon che l’aer fiede;
pur consente alla fine al gran divieto,
e la spada ripon, ma non già lieto.