ARGOMENTO
Dal principe Teodoro Artemio intende
dello stato del campo ov’egli arriva,
e ’l consiglio adunato infra le tende
maggiori a guerreggiar gl’animi avviva,
ma di voglie diverse i cori accende
Folastro; allor dal Ciel grazia deriva:
muoves’Elena santa e gli conforta,
e scudo invitto a lor diffesa porta.
Teodoro conclude il suo racconto ad Artemio: Eraclio ha espugnato la della reggia grazie a Batrano (1-12)
1«Ma l’invitto Batrano avendo in tanto
l’avverse genti e sbaragliate e sparse,
ogn’opposto riparo aperto e franto,
e torri e case rovinate et arse,
al palagio ne va, che in verun canto
non mostra ancor le sue difese scarse,
e fan ch’ogn’altro assalitor s’arretre
nuvoli d’aste e grandini di pietre.
2L’animoso pur varca e gl’altri esorta
a seguitar lui, che se ne va primiero,
per via diritta alla ferrata porta
e col ferro e col cor s’apre il sentiero.
La man sublime il duro scudo porta,
minaccia il formidabile cimiero,
la cui sola apparenza al popol folto
tremar fa ’l petto e scolorarsi il volto.
3Et ei pur contro al grandinar de’ sassi
vanne intrepidamente e non s’arretra,
giammai non torce e non declina i passi,
giammai non crolla la superba testa.
Via più s’avanza e sempre innanzi fassi,
rispingitor della mortal tempesta;
nulla esser può che mai ritenga il forte,
lo spavento o ’l pericolo o la morte.
4Sembr’egli allor quel mietitor agreste
che battute ha le spighe al maggior sole,
e perché mondo il caro frutto reste
gittarlo sparso incontro all’aura suole,
che in lui d’ariste e di festuche infeste
vien che nembo corrente avverso vole,
e ’l copron tutto, il crin, la fronte e ’l manto
et ei pur segue e non s’arretra intanto.
5Alla porta real Batran pervenne,
d’ogn’arme ad onta, e lei così percosse,
sollevando a due man dura bipenne,
che i gran cardini suoi contorse e smosse.
Con percossa minor batton l’antenne
de gl’arieti all’iterar le scosse;
cade il bronzo disciolto, e ’l suon percuote
l’aurate logge, e le colonne scote.
6Al cader del grand’uscio insieme cade
de’ racchiusi pagan l’ultima speme.
Pass’entro il forte e spiana altrui le strade,
e i nemici tremanti incalza e preme.
Or chi potria delle vittrici spade
contar la strage? Il nero ciel ne freme,
corre sangue la terra, e morte miete
ampia ricolta al regnator di Lete.
7Strida di pargoletti e meste voci
d’antiche madri e per più dura sorte
prolungate a provar miserie atroci,
di doglia empiono il ciel, tinte di morte.
E incatenate a i vincitor feroci
altri baciano i piè, tremanti e smorte,
ne piangon altre, e chiuggon altre il lutto
più amaro nel cor con viso asciutto.
8Sorgono intanto, e la real magione
rovinar fanno orribil fiamme impure.
Per tutto il fumo un negro velo impone,
e divoran gl’incendi archi e sculture.
Sembra un mar che rimbombi, un ciel che tuone,
l’ardente fiamma in mezzo all’ombre oscure,
per cui sorge alle stelle e turba loro
l’eterno tremolar de’ raggi d’oro.
9Al fin, trattane Erinta, erano tutti
morti i pagani in quel conflitto o presi;
ella appresso il suo re n’avea ridutti
per guardia alcuni a conservarlo intesi.
E rimanean della città distrutti
gl’edifici superbi a terra stesi,
e delle torri e de’ palagi solo
ceneri sparse e senza nome il suolo.
10Lieto il campo fedel s’appaga e gode
a rimirar dalle ruine in terra
salir al ciel del suo valor la lode,
espugnator dell’invincibil terra.
Godono i messaggier, ché da lor s’ode
il carcere sonar che si disserra,
e con vittoria e libertade or hanno
doppio ristoro al sostenuto affanno.
11A’ suoi forti guerrier comparte Augusto
con man benigna il gran tesoro accolto,
e nel secol presente e nel venusto
ogni servo cristian tornò disciolto.
Ma nel nido real per lui combusto,
prima rende le grazie a Dio rivolto.
Crebbe intanto la fama e quindi poi
originar gl’alti progressi suoi.
12Però che innanzi che per nostra mano
Gazzacote a giacer condotta fosse,
er’egli in guerra al popolo pagano
disegual troppo e inferior di posse.
Da indi in qua l’esercito cristiano
qual fanciullo in età, crebbe e formosse,
e fu poi sempre a contrastar possente
contra ’l fiero signor dell’Oriente».
Teodoro dà notizia degli ultimi infelici avvenimenti (13-16)
13E qui tace Teodoro, onde riprende
a dirli il messaggier, ch’è seco a lato:
«Poi che, vostra mercé per me, s’intende
quel che più memorabile è passato,
udirei volentier, se non v’offende,
alcuna cosa del presente stato,
e se breve è la via ch’avanza al piede,
da me non lungo il ragionar si chiede».
14«Le cose» allor ricominciò Teodoro
«della guerra dell’Asia or son ridutte
a termine peggior che mai non foro:
l’armi omai stanche e irresolute tutte;
spiràr pochi dì fa l’Affrico e ’l Coro,
per cui le nevi in un dì sol distrutte
s’inalzò tanto e dilagò l’Eufrate
ch’ebber quasi a perir le schiere armate.
15Indi soprarrivò trista novella,
che ragunato il popol saracino
la città nostra imperiale e bella
d’espugnar tenta il capitan Satino.
E che ritorni il mio german s’appella,
né volend’egli variar camino
sollevossi l’esercito, et a pena
con gl’estremi remedi Eraclio il frena.
16Queste son de i rumor qui l’apparenti
cagion tra noi, ma le nascose e vere,
perché dal lungo affaticar già lenti
gl’animi son nelle cristiane schiere;
ma potrete ben voi le stanche menti
rinnanimire a ritornar guerriere:
desta ogni cor né resistenza trova
lingua che ’l vero parli e dolce muova».
Artemio giunge al cospetto di Eraclio: Roma sta per inviare un contingente (17-20,4)
17Or così mentre al messaggier ragiona
del sommo duce il principe germano,
salutevoli carmi ecco risuona
l’allegra tromba e i monti assorda e ’l piano,
e gli steccati lucido incorona
il ben armato popolo cristiano,
e ciascun fissa in chi venìa le ciglia
con pietà, con desio, con meraviglia.
18L’imperador, com’arrivato il sente,
dentro a’ ripari a raccor lui si muove,
e nel gran padiglion d’auro lucente
l’ammette, e vuol ch’ei non ricovri altrove.
Riman poi seco, e tutta l’altra gente
quindi col cenno sol parte e rimuove,
e poi dimanda a lui ciò che richiede
il gran Pastor della romana sede.
19Et egli: «Onorio a pregar te m’invia
che tu non voglia abbandonar l’impresa,
e non depor la spada mai se pria
la croce di Giesù non ti sie resa.
Questo addimanda a te, questo desia,
e questo è quel che più gl’aggrava e pesa;
ned ei spenderci sol preghi e parole
ma qualch’opra ancor promette e vuole.
20E però là su le tirrene sponde
fur due mila da lui guerrieri eletti,
ch’egli a te manda, e corron già per l’onde
di voglia accesi i valorosi petti».
Cesere a questo dir pronto risponde:Eraclio ha ricevuto una proposta di pace da Cosdra e chiede un’opinione al consiglio: Artemio sprona i cristiani a proseguire (20,5-30)
«Mestier non è ch’alcuno spron m’affretti,
ché s’egli il brama io di desir n’avvampo,
ma non è già con egual voglia il campo.
21Ché in oltre a quel che da Teodoro udito
potete aver del suo voler sospeso,
sopravennemi dianzi amico invito
del re de’ Persi a concordarsi inteso,
onde di far ritorno al patrio lito
novellamente ancor s’è più racceso,
e voi temprar questo desio potreste
co i preghi aggiunti alle dimande oneste.
22E però se v’aggrada or ora al vento
il segno adunator darà la tromba»;
e di ciò ’l sacro ambasciador contento,
già per le squadre il chiaro suon rimbomba,
e come al rimaner del giorno spento
corrono al nido o rondine o colomba,
all’invitar de’ replicati carmi
d’Eraclio al padiglion concorron l’armi.
23E ’l consiglio adunato, Artemio poi
ch’accennar lui l’imperadore ha visto,
pria con atto d’onor gl’invitti eroi
e poi saluta il popol vario e misto.
Indi così formò gl’accenti suoi:
«O valorosi cavalier di Cristo,
ben io m’avveggio esser venuto in vano
a inanimir l’esercito cristiano,
24ch’esser non può ch’a terminar l’impresa,
che v’ha cinte per Dio le spade a i fianchi,
e l’avete fin qui durata e presa
sicuramente avventurosi e franchi,
per la religione e per la Chiesa,
dov’è tanta virtù l’animo manchi,
e le vostre fatiche omai vicine
trar non vogliate al glorioso fine.
25Esser questo non può, ma perché alquanto
pur ne fan dubitar gl’ultimi segni,
io pur dirovvi (e sia con pace intanto
de’ vostri invitti e generosi sdegni)
che ’l lascia d’ottener l’ultimo vanto
e da Cosdra usurpar sì cari pegni
fora un aver fin qui nulla operato,
anzi al biasimo proprio essersi armato.
26Deh, qual biasmo eterno a tanta preda
l’occidentale imperio essersi spinto,
e quando più per le sue man si creda
caderne in tutto il fier tiranno estinto.
Volgasi il mondo a questo campo e veda
l’opre di vincitor e ’l cor di vinto,
ch’ei stanco e pigro il faticar ricuse,
e che l’insegne sue tornin deluse.
27Già so ben io come ’l vigore e l’armi
tempo divorator scemi e dirade,
che se la lunga età consuma i marmi
che fia dell’uom, che come foglia cade?
Ma se ’l numero manca, avanzar parmi
l’arte con gl’anni, e più tagliar le spade
che l’uso arruota, e giunger poscia a tele
ch’un ferro sol per più di mille vale.
28Ma perché pur, poiché la gente manca,
l’animo a queste squadre non si scemi,
ecco il sommo Pastor che la rinfranca
con sette navi di guerrier supremi.
E già sott’alle prore il mar s’imbianca,
rotto e percosso da i veloci remi,
né indegno fia, se non m’inganna affetto,
di congiungersi a voi lo stuolo eletto.
29A quanto poi che stabilir si possa
tra voi concordia e ’l barbaro tiranno,
pria con l’agnelle una medesma fossa
per pacifico albergo i lupi avranno.
Chi crederà che ’n lui più che la possa
possa la fede? I vostri messi il sanno;
non sia chi ’l creda e non s’appresti all’armi,
per guardar sé ferir lui risparmiS | rispiarmi».
30Ciò detto ei tacque, e com’avvien se l’onde
a finir manda in cavo scoglio il mare,
od aura fresca infra le verdi fronde
fa mormorando ogn’arboscel piegare,
l’uno all’altro guerrier dice e risponde
in proposito tal quel ch’a lui pare;
scopre in altrui quant’egli intende e vuole,
con dir sommessi in tacite parole.
Folastro prende la parola sotto mentite spoglie e induce il campo a disertare l’impresa (31-46)
31Eraclio, allor che ’l murmure e ’l bisbiglio
trascorrer sente, e gl’atti osserva e nota,
due volte e tre la grave fronte e ’l ciglio
rivolge a lor con maestrevol rota.
Poi concede a ciascun di quel consiglio
che l’opinion sua possa far nota,
ed egli intanto e ciascun altro attende
che si mostri di fuor quel che s’intende.
32Ma tacquer tutti, e sol si mosse il fero
spirito abitator dell’aer vano,
ch’apparia di Bizanzio il messaggiero
che richiamò l’imperador in vano.
Questi, umileS | humili in sembianza e dentro altero,
sol tra tutto l’esercito cristiano
di parlare in contrario il peso toglie,
e l’empia lingua in cotal suon discioglie:
33«Se quell’amor che l’augelletto al nido
porta, e l’uomo all’albergo ov’egli è nato,
e l’aman sì ch’ogni diverso lido,
ogn’altro cielo è men soave e grato,
troppo ardir mi darà, da voi confido
che d’amor natural lieve peccato
otterrà per la patria a me, che sono
suo figlio, anco pietà non che perdono.
34Già so ben io che con quel santo affetto
ch’a ministro di Dio conviene in terra,
agevolmente il sacro messo il petto
rinfiammar puonne a seguitar la guerra,
ché, come se ne va leggiero e retto
in alto il foco e ’l grave in giù s’atterra,
per le vie della gloria e dell’onore
corre naturalmente eccelso core.
35Ma perché saggia è quella voglia ardente
che ’l desio col poter libra e misura,
mirar ben prima a quel ch’è l’uom possente
è providenza all’operar sicura.
Vincer l’alto signor dell’Oriente
certo è ben degna e generosa cura,
l’acquisto immenso e glorioso il vanto,
ma non so già se ’l poter nostro è tanto.
36Fin qui so ben che non pur mesi et anni
ma si son consumati in guerra lustri,
e sì vedran chi ben misura i danni
compre a gran prezzo le vittorie illustri.
E sapetelo voi con quant’affanni
la morte e ’l sangue ogni contesa illustri,
e se creder si de’ che in un momento
abbia Cosdra a perir qual lume al vento.
37Se come il dirlo agevol fusse a tòrre
di man lo scettro al regnator feroce,
senza più indugio a guerreggiar traporre
direi: volianne e racquistan la croce.
Ma zoppa è l’opra e ’l desiderio corre,
l’esequir lento e ’l disegnar veloce,
sì che ben pria d’aver riguardo parmi
più ch’alla voglia a quanto possan l’armi.
38E ’l campo nostro (or chi di voi nol vede?),
è sì dal tempo e dal disagio afflitto,
ch’omai riposo e non più guerra chiede,
pace desia più che novel conflitto.
Già tremandoli il cor, vacilla il piede,
e mostra in fronte il suo perir descritto,
e cader fa, non caminar, chi stanco
e già vinto il destrier batta nel fianco.
39Ma perché le speranze altri non fonde
vie più che in noi nell’imbarcate genti,
che qua n’invia dalle tirrene sponde
il sovrano Pastor, commesse ai venti,
sappiam ben noi quanto a venir per l’onde
sian gl’aiuti stranieri incerti e lenti.
Pur diasi ancor ch’alle propinque arene
favorevole il vento e ’l mar gli mene,
40e che però che settecento o mille
soldati, e vo’ che di virtù sian pari
a gl’argonauti, ai Mirmidon d’Achille,
ne conduchino a tempo i venti e i mari?
E che lume potran poche faville
produr che sì gran notte a noi rischiari?
Già per nuovo ruscel quando si mesce
nell’onde salse il mar però non cresce.
41Mio parer dunque, e quel di molti insieme
e de’ miglior del nostro campo è questo,
che là dove Satin Bizanzio preme
si volga il passo al suo soccorso presto,
né si lasci perir l’ultima speme
della salute al popol chiuso e mesto,
e temperando ogni fervente voglia
ciò che qui non si può più non si voglia.
42A quanto poi che stabilir la pace
impossibile sia tra Cosdra e noi,
come dal lupo indomito e rapace
mal conserva l’agnella i patti suoi,
risponderò che s’accordar ci spiace,
con chi può più, che fia contender poi?
Mal si fa contro e mal con chi più vale,
ma di questi il secondo è ’l minor male.
43Deh faccia Dio che quell’accordo e quella
pace, che da’ cristiani or si ricusa,
supplichevoli in atto ed in favella
non chieggia poi, che fia del tutto esclusa.
A questa il Ciel, per creder mio, n’appella
con quel tacito suo parlar ch’egli usa,
mentre a tergo il pericolo ne mostra
e ne chiama a salvar la terra nostra.
44La patria, ohimè, di cui fin qui le strida
parmi già di sentir, sentir i pianti,
mentre il barbaro stuol preme et uccida
vergini sacre e pargoletti infanti;
qual più degna pietà da gente infida
sottrar Bizanzio, e qual trofei più santi?
E d’ogn’altra vittoria omai perdute
le speranze, pugnar per la salute?
45Torniam pur dunque, a ritornar c’invita
ragione, il Ciel, necessitade; e Dio
voler non può che non si porga aita
nell’estremo periglio al popol pio»,
e qui si tacque. Or la sentenza udita,
concorre un favorevol mormorio,
e quasi tutta l’adunata gente
con l’atto applaude e col voler consente.
46E s’a lui prima il messaggier romano
piegato avea de’ cavalier gran parte,
a non lasciar non terminato in vano
sin qui seguito il periglioso Marte,
rivolgons’or, come le spiche al piano
per nuovo vento alla contraria parte,
ma più li trae del favellar loquace
senso che persuade a quel che piace.
Sant’Elena intercede presso Dio, ottiene uno scudo invincibile e lo consegna al campo, smascherando anche i due demoni infernali (47-78)
47Or così mentre al suo ritorno il piede
volgerà pur l’esercito di Cristo,
se celeste virtù non vi provede
fia interrotto il glorioso acquisto,
Elena, che dal Ciel dove possiede
l’ampia felicità del bene immisto,
delle squadre di Dio l’error comprende,
tutta di carità fiammeggia e splende.
48Oh come bella e di qual lume e quanto
splende la vaga imperatrice accesa!
D’oro ondeggia la chioma, ondeggia il manto,
nel far l’aure con lor dolce contesa.
La sua rara beltà, che piacque tanto
mentre visse quaggiù, lassuso ascesa,
riman così da se medesma or vinta
come a luce di sol luce dipinta.
49Sì bella dunque, e di vivace zelo
spirando il volto e fiammeggiando ’l core,
dove non mai sentì caldo né gielo
per la beata region d’amore,
camina, e giunge ove più puro il Cielo
arde di beatissimo splendore,
e quivi all’alta Maestà s’inchina,
immensa, incomprensibile e divina.
50Sed’ella in alto e luminoso trono,
posta su cento d’or gradi celesti,
tutti d’Angeli sparsi, e tra lor sono
di diverso splendor quelli da questi,
pur come vario è di lor bene il dono
né la gloria minor gli può far mesti,
ché bramar non può più quel che n’ha meno
come vaso licor mentr’egli è pieno.
51Tutti come dal sol le stelle fanno
lo splendore han da Dio, che gli colora,
e con lieto alternar prendono e danno
l’uno all’altro quel ben che gl’innamora.
Qual tien più alto e più felice scanno
più nel lume del ver fulge e s’indora,
e dall’altro comparte e lo dichiara
gode che insegna l’un, l’altro che impara.
52Ei sol se stesso e sua beltà vagheggia,
ond’ha ’l bel quel che’è bello e di sé vago,
senza pena d’amor d’amor fiammeggia,
e se stesso bramando è sempre pago.
Né ’l suo voler, come l’umano, ondeggia,
costante sol nell’esser vario e vago,
ma immobil sempre in sempiterno ardore
ei l’amante, ei l’amato egli è l’amore.
53Dal divino voler sorte e natura
pendon ministre esecutrici attente,
e colui che sì lieve il tutto fura
della notte e del dì figlio possente,
e ’l fratel ch’ei sollecita e misura,
l’uno immobile ognor, l’altro presente,
gli stanno a’ piedi, e sotto a’ piedi il cielo
volge con le stagion l’ardore e ’l gielo.
54Or qui l’anima bella e pellegrina
dalla desposta sua gelida spoglia,
umilemente al Re del Ciel s’inchina,
venuta a piè dell’adorata soglia,
e con voce ammirabile e divina,
ch’ove lingua non ha, forma la voglia,
i suoi chiusi desir tacita spiega,
e ’l suo caro signor pregando lega:
55«Signor (diss’ella), che sul duro legno
per disserrare al chiuso Ciel le porte
e chiuder quelle del tartareo regno,
dove amor ti guidò, corresti a morte,
pon dal Ciel mente al sanguinoso pegno,
memoria a noi del tuo dolor sì forte,
che già tre lustri al fiero Cosdra in mano
dal tuo popol fedel si piange in vano.
56Deh, s’egli è ver ch’ei da te resti alzato
a quell’onor che sei tu solo eguale,
e dal mondo e dal Ciel venga adorato
più che fosse altra mai cosa mortale,
perché voler ch’al popol battezzato
non ritorni a dar vita arbor vitale?
Perché soffrir che sue radici stieno
nell’infecondità d’empio terreno?
57E s’egli è ver che tu, Signor, volesti
ch’io di luoghi il traessi oscuri e bui,
perché l’alta pietà si manifesti
che ti costrinse a soffrir morte in lui,
perché lasciar che inonorato io resti
più sì lunga stagione in forza altrui,
e che barbara gente et omicida
de’ tuoi fedeli il nome tuo derida?
58Deh non voler che chi nascente il mondo
vinse col legno e tu col legno hai vinto,
sì ch’ei ne giace al tenebroso fondo
nell’eterne caligini ravvinto,
tumideggi omai più nel centro immondo
e si vanti so’ suoi per l’aer tinto,
ch’abbia in forza la croce e che l’insegna
del vincitor nelle sue man ritegna».
59Ciò detto Elena, il Re del Cielo a lei
scintillando pietà volse le ciglia,
e per letizia e quattro volte e sei
l’ali intorno batte l’ampia famiglia,
fermolle poscia, e Dio parlò: «Tu sei
esaudita, i mia diletta figlia.
Vinca Eraclio, e combatta e seco fia
quanto in me fiderà la destra mia.
60Ma che sangue e fatica il legno costi:
ragion è ben dove spes’io la vita».
Sì del sommo Fattor gl’ordini esposti
e l’impresa nel Ciel fu stabilita.
Son già gl’Angeli tutti in punto posti
e gl’altri spirti a ministrare aita,
e più mentre da lor se ne divisa
un concorde desio gl’imparadisa.
61Nel più chiaro splendor, tra i più perfetti
se ne stavan lassù lieti e ’n disparte
quei che furon quaggiù vivendo eletti
a illuminar di verità le carte,
e i gran volumi innanzi a lor son retti
d’onde il vero giammai non si diparte,
a chi reggelo il Tauro, a chi Leone,
e chi l’Aquila o l’Angel si suppone.
62Con l’applauso commune e con consiglio
nel sovrano Motor le luci intende,
e veggendo approvar l’eterno ciglio
l’opera sua maggior Luca sospende.
Posa il libro e la penna e dà di piglio
ad un aureo pennel, con cui distende
sotto il corso del Ciel giammai i non visti
color divini e senza tempra immisti.
63Dalla luna il candor, l’auro dal sole,
dalla serenità l’azzurro piglia,
e più bel che di rose o di viole
color dall’alba or candida or vermiglia,
e di materia dell’eterna mole,
cui durezza mortal non s’assimiglia,
forma uno scudo, e ’n lui dipinge quanto
nel cor li detta amor celeste e santo.
64Et ecco appare a mano a man dipinta
del Redentor la gloriosa imago,
quando già col morir la morte vinta,
e ’l sommo Padre in sua giustizia pago,
del sangue suo dalla gran tomba tinta
sorgendo torna al Ciel sereno e vago,
e la croce riporta al regno eterno
vessillo suo dell’espugnato Inferno.
65Or chi può contra a Dio? V’ha intorno scolto
l’artefice del Ciel con note d’oro;
d’abisso in fuga ogn’atro spirto è volto,
ogn’avversa virtù trema da loro;
né, quantunque di bronzo il petto avvolto
fusse ogn’Angelo reo dell’empio coro,
esser potrebbe a sostener possente
dell’imagin di Dio l’ardor lucente.
66L’arme al fin colorata a Dio presenta
la bella Elena, e quella man felice
dell’eterno Motor, giammai non lenta
a beneficio altrui, la benedice,
e le ’nfonde virtù che non consenta
poter mai riuscir pugna infelice,
e sempre in ogni guerra ella riporti
tra i perigli vittoria e tra le morti.
67Or sì fatta virtù da Dio concessa
allo scudo celeste, Elena il prende,
e la cura adempiendo a lei commessa
dall’empirea magion quaggiù discende,
e per region di stelle impressa
dirizza il corso alle cristiane tende,
e calandone vien di sfera in sfera,
favorevole e pronta messaggiera.
68Moriva intanto in Occidente il sole
e vestiansene a brun le piagge e i colli,
onde vedove l’erbe e le viole
rimanean triste e di lor pianto molli,
e le nottole uscian lugubri e sole,
portento infausto a i paventosi e folli,
e ’l ciel facea con mille lumi intorno
funeral pompa al sepellir del giorno.
69Et ecco apresi il ciel dall’Oriente
e con parto improviso un sol produce,
vie più chiaro dell’altro e più lucente
che pur dianzi nel mar chiuse la luce.
Quindi a tanto spettacolo la gente
tutta volta a mirar dov’ei riluce,
mille immobili fronti e mille ciglia
fa di marmo restar la meraviglia.
70«Or son dunque del Ciel le leggi rotte
e mutato» dicean «l’ordine e ’l moto?
Che ’l sol rinasca al cominciar la notte
o pur quest’è di DioS | quest’è Dio portento ignoto?».
Dal novello splendor nulla interrotte,
sian del mobile corso o dell’immoto,
fiammeggiavan le stelle a lui d’intorno,
accoppiandosi in ciel la notte e ’l giorno.
71E scendendone giù la chiara lampa
con gran fasce di lume in giro avvolte,
l’alto campo del ciel calando stampa
di scintillanti e spaziose volte.
Giunge poscia alle nubi, e in loro avvampa
con più rosso fulgor l’ombre più folte;
poscia, quasi falcon sopra colomba,
su la tenda maggior la luce piomba.
72E qual raggio di sol non si divide
che per vetro purissimo trapela,
passa l’anima bella e non recide
né scote fregio alla dorata tela.
E poi nel mezzo al padiglion si vide
dentro un nuvolo d’or, che nulla cela;
splend’ella et arde, e sparse intorno e rotte
fa per tutto fuggir l’ombre alla notte.
73Quivi all’imperador porge lo scudo
e con voce superna (un ciel che tuona
potria forse parer, se quanto è crudo
fosse dolce il tonar) così ragiona:
«Cesere, non temer, quantunque ignudo
di potenza mortal, ché Dio ti dona
celeste aiuto, e quest’erranti squadre
mandami a illuminar l’eterno Padre.
74E perché meglio il ver vi si dimostri,
che nascondono a voi mentite larve,
son demoni costor, non guerrier vostri
che dal combatter qui tenton ritrarve».
E battendo col piè de gl’empi mostri
l’umano aspetto, e questo e quel disparve,
e i composti lor corpi in un momento
l’un disfacesi in acqua e l’altro in vento.
75Soggiunse Elena: «Egl’è ben ver che cinte
d’assedio or son le bizantine mura,
ma le lor genti alla difesa accinte
pur sospetto non han, non che paura.
Né qui dubiti alcun che restin vinte,
ché la grazia di Dio ve l’assicura,
anzi tosto avverrà ch’a tempo corra
gente amica al suo scampo e le soccorra.
76Voi seguite l’impresa; il Ciel v’è guida,
non restate tra via ben mosse schiere.
Sgomentar non si dèe ch’in Dio si fida,
e chi mosso è da lui non dèe temere.
Ecco la sicurtà possente e fida
ch’io porto a voi dalle stellanti spere;
voi quanto appresso il fermo scudo avrete
mai sempre invitti e vincitor sarete.
77Qual nebbia e fumo all’Aquilone, o quale
sparisce l’ombra all’apparir del giorno,
dall’arme potentissima immortale
convien che fugga ogn’avversario intorno».
E qui l’anima bella al sole eguale
per far volando al puro Ciel ritorno
levossi in alto, e l’adunate genti
lasciò stordite e si mischiò tra i venti.
78Devoto allor ciascun guerriero e duce
le palme inalza, e con pietoso zelo
l’imago adora e l’ammirabil luce
che se ne torna alla magion del Cielo.
E più ratta al suo Dio si riconduce
che ’l balenar per nubiloso velo;
e più chiara che mai, più che mai lieta
nell’infinito ben se stessa accheta.
Il campo si accinge a partire per Seleucia (79)
79L’adunato consiglio insieme allora
che ’l divino voler più chiaro vede,
e l’esercito tutto, si rincora
di ritorre a i pagan le sacre prede.
E già s’appresta alla novella aurora
per volger pronto in vèr Seleucia ’l piede;
desir mostr’ogni squadra, arde Batrano,
forza e fior de gl’eroi, guerrier sovrano.