ARGOMENTO
Eraclio invèr Seleucia il campo muove,
ma pensa pria come varcar l’Eufrate.
Volturno arriva e ’l come narra e ’l dove
e quante genti ha Sarbarasso armate,
e quant’arti nascoste e quante prove
egli per deviarlo abbia tentate.
L’onora Eraclio, e con pregiati doni
alla virtù che corre aggiunge sproni.
Eraclio muove il campo, giunge all’Eufrate, Volturno di ritorno da una missione di spionaggio racconta di quanto visto alla corte di Cosdra (1-11)
1Ma poiché l’alba a discoprir la terra
del suo notturno e tenebroso velo
sorge dall’oceano, e ne disserra
con man di rose il dì nascente in cielo,
Cesere muove a terminar la guerra
le squadre pie col matutino gielo,
e tutto avampa il popolo feroce
d’irne a Seleucia a racquistar la croce.
2Già già parton le schiere e ’l piede han volto
su per la riva al lucido Oriente;
scocca da i cavi bronzi il fiato accolto,
e replicarsi il fero suon si sente.
Con bell’ordine marcia il popol folto,
al suo loco ciascun d’armi lucente.
Muova i segni la tromba, e da lor sono
le schiere mosse, e Ceser muove il suono.
3Ma però che l’Eufrate al lor sentiero
interpon alta e perigliosa l’onda,
come sicuramente ogni guerriero
abbia a passar su la contraria sponda
del magnanimo Eraclio il gran pensiero
providamente in più partiti abbonda:
o s’ei l’acque diverta o s’e le varche,
con nuovo ponte o con navili o barche.
4Or così mentre i suoi disegni ordia
l’imperador, pria ch’adempirne alcuno
ecco incontro venir dall’altra riva
un veloce vasel picciolo e bruno.
Sdrucciolava sull’onde e non l’apriva
tant’è leggiero, e conducea sol uno:
raffiguran Volturno (a lui ben cede
qual sia più scaltro), ora da’ nemici riede.
5Da dove il sol con maggior forza incende
fin dove ei teme approssimarsi al gielo,
e sei mesi cel toglie e sei cel rende,
prodigo or troppo, or tropp’avaro il cielo,
caminato ha costui; le leggi intende,
l’odio e l’amor delle provincie e ’l zelo,
trascors’ha l’Asia e la glebosa terra
che ’l Nilo sparge e ’l mar circonda e serra.
6La chioma ha nera, e ’l sottil pelo è raro,
comincian gl’anni a variar d’argento;
veloce ha l’occhio e ’l guardo acuto e chiaro,
ma spesso il ferma alle sue cure intento;
facondo a tempo e delle voci avaro,
non mai fuor di stagion le sparge al vento;
d’ingegno è pronto, e gl’atti e le parole
sa mutar qual colomba il collo al sole.
7Dove in riva del mar sepolto giace
chi diè fama ad Enea Volturno nacque,
cui del padre privò morte rapace
mentre ancor pargoletto in culla giacque.
Di due lustri il rapì fusta predace
che ’l dannò giovanetto a romper l’acque,
ma tosto un dì sovra l’asciutta arena
uccide lui che incatenato il mena.
8A raccor l’omicida e fugitivo
corre la gente disdegnosa e presta,
e ben due giorni al morto lume, al vivo,
in van cercollo in quella selva e ’n questa.
Al fin partissi, et ei superbo e schivo
lascia la solitaria alta foresta,
e fatto stuol d’altri compagni arditi
corre a predar il mar per vari liti.
9E fendendo co i remi il vasto suolo
dove ogni loco e via rade le sponde,
et or cacciando et or fuggendo a volo
la furatrice prua muove per l’onde.
Corre l’umide vie l’audace stuolo,
la notte desto e ’l dì dorme e s’asconde.
Poscia il vile esercizio a schifo preso,
l’acque abbandona a maggior cure inteso.
10E partite le prede, ond’ei ben puote
correr lunga stagion paesi estrani,
vago di veder molto, abito e note
sovente cangia, e passa monti e piani,
boschi, selve, deserti e strade ignote,
gl’asiatici lidi e gl’affricani,
e ’l fa l’uso del mondo ardito e saggio,
sotto Cesere al fin chiude il viaggio.
11E quando ultimamente Eraclio volle
mandar tra i Persi alcuna accorta spia,
temean gl’altri, ond’ei l’impresa tolle
di ciò soletto, e ponsi ardito in via.
Et ora è quel che sovra il corso molle
dell’alto Eufrate incontro a lui venìa,
e del legnetto al verde lito smonta,
et all’imperador così racconta:
Non potendo ottenere nulla dal re, ha ingannato sua figlia Alvida fingendosi un mago: ha scoperto che Orgonte è passato in Egitto per creare una grande flotta e quindi si recherà in India a chiedere alleanza, infine che il campo di Sarbarasso si avvicina all’Eufrate (12-34,4)
12«Io me n’andai, come imponesti, dove
nella villa d’Ager Cosdra risiede;
stass’ei colà tra l’erbe verdi e nuove,
né di te grave cura il sen gli fiede.
La figlia sua, che da’ begl’occhi piove
grazia che simil altra il sol non vede,
la bella Alvida a passeggiar anch’ella
va, seco i fior della stagion novella.
13Io con arabo arnese e sopra un lieve
corridor, nato infra l’armento omano,
che vincea di candor l’intatta neve
né lasciav’orma al correr suo nel piano,
m’offerisco a servirlo, e mi riceve
fin nell’intima guardia il re pagano,
così ben simulai veloce e presto
l’abito e ’l moto e la favella e ’l gesto.
14Là poscia ammesso, ogni mio studio adopro
a comprender del re gl’intimi sensi,
fingo affetto contrario e ’l ver ricopro,
desir mostrando a i danni nostri accensi;
ma faticomi in van, ché nulla scopro
di quel giammai ch’egli operar si pensi.
Con tanto ferma e ’npenetrabil chiave
serra Cosdra i secreti e cura n’have.
15E però là ben sette giorni et otto
er’io già stato, e inteso nulla o poco,
vidi Orgonte partir senza far moto,
né potei penetrar verso qual loco.
Al fin mi posi al correr vario e rotto
d’un fiumicel che fuggia lento e fioco,
cui rimirando in sulla sponda erbosa
sola Alvida sedea, muta e pensosa.
16Sedea soletta e le donzelle or lunge
s’erano al cenno suo tratte in disparte,
che ’l secreto venen che ’l cor le punge
dalle care ministre ancor le parte.
Alle labbra il sospir libero giunge
ristorator della più calda parte,
poi ch’ella è sola e più nessun rispetto
lo chiude a forza e lo rattien nel petto.
17- Lassa (dicea), deh se natura ha dato
contra gl’angui riparo al fianco offeso,
contra ’l morso d’amor più avvelenato
perc’ha il rimedio al nostro mal conteso?
Crudele Amor, da cui s’è l’uom piagato
esser non può da mortal man difeso,
così fermi nel cor l’acuto strale,
così sempre insanabile è ’l tuo male.
18Deh, perch’a me più ch’ad ogn’altro avaro,
con la speranza almen non mi consoli?
Anzi convien, per non temprar l’amaro,
che i miei chiusi sospir si spargan soli.
Che t’ho fatt’io che ’l dolce stato e caro
della soave libertà m’involi?
E come ogn’altra a me sperar non lice
doppo lungo martir farmi felice?
19Deh, se sono i dolor, son le tue pene
condimenti in altrui delle dolcezze,
perché in lor variando il male e ’l bene
più col misto dell’un l’altro s’apprezze,
misera me, perché da te mi viene
tutto quanto martir, tutte amarezze?
Né sperar lice a gl’affannosi guai
temprarsi almen, non ch’addolcirsi mai?
20Folle, ma che parl’io? di che mi doglio?
Qual più dolce catena o caro nodo?
Che se l’antica libertà mi spoglio,
in più soave servitù m’annodo.
Non mi dolga ’l dolor s’io ’l bramo e voglio,
né gravi il mal s’io ne gioisco e godo,
né lamentisi più l’alma loquace
del suo martir se le diletta e piace.
21Così, cor mio, pur sofferendo andiamo
volentier per colui che ’l foco accende.
Fuss’ei pur qui dove ’l sospiro e chiamo,
ma ’l bosco è sol che le mie voci intende.
Ahi, pur vaneggio e pur mi fingo e bramo
quel che sorte nemica a me contende,
e pur meco riman, perch’io non pèra
disperata speranza lusinghiera -.
22Or io, che intendo a quel parlar dolente
ch’amoroso martir le preme il core,
e ben sapea che giovanetta mente
credula è sempre ove l’inganna amore,
finto lei non veder, dove corrente
s’accoglie in gorgo fugitivo umore,
a lei pongomi appresso, e qual Narciso
nello specchio dell’onde il volto affiso.
23E tre volte dall’acqua in cielo al sole
rivolgo il guardo e d’altrettante all’onde,
e confusi a vicenda atti e parole
di caratteri egizi empio le sponde,
poi, qual tessalo mago allor ch’ei vuole
costringer spirti a suon di note immonde,
disegno un cerchio a me d’intorno e dentro
sopra un piè mi raggiro e premo il centro.
24Mira Alvida i miei gesti e desiosa
della cagion di così strani effetti,
rotto il querulo suon volenterosa
congiunge i preghi addimandando a i detti,
et io, qual uom che d’improviso in cosa
abbattuto si sia ch’ei meno aspetti,
taccio prima, e poi niego, al fin contendo
scoprir l’occulto e più ’l desio n’accendo.
25Raddoppia Alvida al mio negare i preghi,
ond’io, vinto alla fin: – Giammai non fia
(dissi), donna real, ch’a te si nieghi
quel che ben giusto a non ridir saria.
La nascosa cagion di che tu preghi
è l’amorosa ardente fiamma mia,
ond’io languisco, e chi mi strugge e sface,
bella insieme e crudel, m’ancide e piace.
26Né sopportar la lontananza omai
potend’io più, tanto dolor m’assale,
tra quest’onde a mirar dianzi pensai
chi nel cor mi ferì d’acuto strale.
Lei medesma non già, ciò non sperai,
forza dell’arti mie tanto non vale,
ma l’imagine sua, pur come quella
ch’io mi porto nel cor vivace e bella.
27Né questo sol, ma quel che faccia o pensi
la diletta cagion del mio tormento,
al più nobile mio de gl’altri sensi
dimostrato avria qui l’umido argento.
Ma tu, vendendo, i miei desiri accensi
spargesti in un con le fatiche al vento,
che scoprendo il disegno è guasto il tutto,
e ’l mio dolce sperar tronchi del frutto.
28Nove giorni a quest’ora ascoso venni
specchio amoroso a fabricar nell’acque,
e ’l medesimo stile ogni dì tenni;
tu pensa omai se ’l venir tuo mi spiacque,
che, discoprendo i miei celati cenni,
l’opera sul finir disfatta giacque -,
e più oltre seguii, dissi e risposi,
talch’in desio dell’arte mia la posi.
29E da lei ripregato, al fin ritorno
a riordir per amendue l’incanto,
e vien ella soletta al fonte il giorno
dalle sue fide allontanata alquanto,
dov’io nel far con lei poscia soggiorno
vo’ spiando del re le cose intanto;
dicemi la donzella: – In vèr l’Egitto
ha spedito il mio padre Orgonte invitto.
30Là dove ei poscia all’arenose sponde
fabbricherà ben cento navi armate,
da cui saran per le maritim’onde
al Carpazio, all’Egeo le vie serrate,
sì che legno giamai che non s’affonde
spieghi verso l’Amman l’antenne alate,
né di Grecia condur per l’acque vaglia
genti od armi ad Eraclio o vettovaglia.
31Guidar devrà le cento vele Erano,
però che inteso ad altre cure Orgonte
volgerassi de gl’Indi al re sovrano
a chieder arme al nostro aiuto pronte,
e ne trarrà contra lo stuol cristiano
fin donde il Gange ha ’l suo gelato fonte,
e ’l campo intanto e Sarbarasso arriva
dell’alto Eufrate alla sinistra riva.
32L’invitto duce a guerreggiare ardito
vassene, general delle nostr’armi,
e trae feroce un popolo infinito:
seco dirai che tutto il mondo s’armi;
de’ rauci corni orribil suono unito,
assorda il ciel con gl’animosi carmi,
né pur di qua, ma passeran l’Eufrate
contra ’l campo roman le schiere armate -.
33E così meco in su la nona Alvida
ragionando conviene al fresco loco,
dove ’l mio ’nganno e ’l suo desir la guida
del fiumicello al correr lento e fioco.
Semplice, e pur nell’onde ella confida,
poter mirar chi la distrugge in foco,
e già correa nell’incantar mio finto
de’ novi giorni a noi prefissi il quinto,
34quando la giovanetta a me rivela
che vien mandato a Sarbarasso Ismene,
ma la cagion perché s’invia mi cela,
ch’a lei nascosa il genitor la tiene.
Ben cerch’io sviluppar l’ascosa telaHa poi intercettato un dispaccio per Sarbarasso e ha scoperto che sta per muovere il suo campo contro Eraclio per impedirgli di passare il fiume (34-41)
ritentando altre vie, ma non m’avviene,
e poiché indarno uscir m’avveggio il resto
tra mille modi al fin m’appiglio a questo.
35Pria che lucida fuor dell’oceano
sorga l’aurora e ’l ciel colori e l’onde,
da Cosdra io parto, e fatto omai lontano
aspetto Ismen tra solitarie fronde.
Et ecco ei se ne vien correndo al piano
là dove il bosco in grembo suo m’asconde,
et io, dapoi ch’egli è ben giunto al passo,
minacciando lo sfido e l’asta abbasso.
36Ond’ei, stretto dal tempo, altro consiglio
prender non può che di venire a giostra,
ch’io la carriera immantinente piglio
per trar subito a fin la lite nostra.
Di terrore è l’incontro e di periglio,
cui cresce orror la solitaria chiostra,
passam’egli lo scudo, e ’l duro cerro
fino al vivo del sen conduce il ferro.
37E se l’asta reggea più oltre alquanto
alle viscere mie fora ben giunta,
ma cadutone a terra il tronco franto
restò sua forza a mezza via consunta.
Io più alta di lui dall’altro canto
drizzando vèr lui l’armata punta,
nell’elmo il giunsi, e come fragil vetro
l’apersi, il ruppi, il trapassai di dietro.
38Si riversa di sella, e ’l tergo e ’l seno
d’un sanguigno ruscel bagna e colora;
rapido lo scudier, come baleno,
lui vedendo cader sen fugge allora.
Io ’l seguo e giungo, e fo di lui non meno
trepida dipartir l’anima fuora,
morendo il lascio a insanguinar l’arene
e ’l piè rivolgo all’abbattuto Ismene.
39Io del preso camin l’addimandai,
ma nulla a me, già moribondo, ei disse,
anzi tutto a la morte in preda omai,
velato il guardo immobilmente affisse.
Cerca indarno fruir del sole i rai,
ch’a lui s’oscura in sempiterna eclisse,
e gl’occhi suoi, che più veder non ponno
serra l’ultima notte in ferreo sonno.
40Ma poi che fuor del freddo busto uscio
l’anima ignuda infra i singulti incerti,
e cadde in loco lagrimoso e rio
tra gli spiriti immondi all’ombre inerti,
io l’armi tratte all’avversario mio,
spogliato il busto e i suoi secreti aperti,
trovo del re la lettera, e insieme a parte
date per istruirlo alcune carte.
41Dicean le carte: “A tutta fretta vada
Sarbarasso all’Eufrate, e poscia quivi
per le rive discorra e tenga a bada
Cesere sì che del passaggio il privi.
Ma quando pur, che non si crede, accada
che varcato sia già quand’egli arrivi,
temporeggi col sito e di battaglia
tentar dubia ventura al lui non caglia”.
Volturno ha preso gli abiti del messo e si è recato da Sarbarasso: ha cercato invano di farlo desistere dall’affrontare Eraclio, quindi ha assistito alla rassegna del suo esercito (42-77)
42Ond’io, che veggio i suoi disegni e noto
quanto possa importar che tu, signore,
cader gli faccia anticipando a vòto,
né contrasti alla riva ostil furore,
a raffrenar dell’aversario il moto,
che s’oppon vantaggioso al tuo valore,
tutto allor mi rivolgo, e i passi tui
far piani intendo e distornarli a lui.
43E fra me dico: – In queste parti arriva
noto per fama sol novellamente
l’ucciso Ismen, che dal suo re veniva
al general della nemica gente,
ché, Cosdra pria, d’ambasciador serviva
appresso al re dell’indico Oriente,
e stato è là da che la piuma al mento
li nacque, insin che si spargea d’argento.
44E perch’al volo, alla statura, a gl’anni
più conforme bramar non mi saprei,
con sue lettere, dico, e con suoi panni,
parer lui forse al general potrei.
Periglios’è l’ardir, dubbi gl’inganni:
dov’un s’accorga, a quel supplizio andrei.
Ma nulla fa chi troppe cose teme,
e van la sorte e l’ardimento insieme -.
45E fermato così, dispoglio il mio
simulato da prima arabo arnese,
e ’l suo mi vesto e ’l piè veloce invio
dove in mal punto il suo viaggio ei prese.
Ben mi palpita il cor, ma del desio
vincono ogni timor le fiamme accese,
e giunto al campo, all’apparenze, al suono
qual messaggio di Cosdra ammesso sono.
46Sarbarasso m’accoglie, a cui presento
del re le lettere e: – Son – li dico – Ismene -,
et ei mirando al lor tenore intento
m’ha tolto in grado e per colui mi tiene.
Ciascun m’onora, io cento inchini e cento
ricevo, e ’l volto maestà ritiene.
D’ogn’altra tenda la maggior m’è data,
di seta e d’or pomposamente ornata.
47Si pon la mensa: al fero duce a fronte;
locato io sono, e più ch’al cibo attendo
le parole a notar, gli atti e la fronte,
e sol d’aspro rigor segni comprendo.
Severo è ’l ciglio e subitana all’onte
l’imperiosa lingua e ’l suon tremendo.
Gli dèi non teme, e sopr’ogn’altro è crudo,
privo d’umanità, di pietà nudo.
48Ma poi che spento il naturale amore
ne fu dal cibo, e le man piene e sparte
sopra l’aureo bacil d’algente umore,
la gran turba de’ servi intorno parte,
a la mensa seconda e senza onore
già romoreggia in più lontana parte.
Mi chiede allora il capitan ch’io voglia
far nota a lui del suo signor la voglia.
49Et io, che bramo allontanar quell’oste
che per romperti il passo incontro mena,
impongo a lui che senza indugio accoste
le schiere armate alla contraria arena,
dove sul Tigre il re de’ Persi ha poste
di milizia asiatica et armena
squadre novelle, e l’uno e l’altro stuolo
congiunger pensa e di due farne un solo.
50A sì fatta ambasciata appaion tosto
più fieri segni in quel sembiante oscuro,
come in torbido ciel pioggia d’agosto,
tutto accende di lampi il pigro Arturo,
e con voci di sdegno: – Io già disposto
sono alla pugna, e vincerò sicuro,
e fia meglio a suo pro disubbidirlo,
ch’a suo danno ritrarmi e disservirlo.
51La vittoria m’è certa, e ’l crescer mole
confondendo le squadre arrecar puote
disturbo al campo, in cui mischiar si vuole
nuovi duci e guerrier, genti remote.
Son mie forze a bastanza, e sol mi duole
che siano al re (però ne teme) ignote.
Questo il campo non è ch’ei già mi diede:
cresciuto è sì che d’altrettanto eccede.
52De’ suoi propri guerrier Cesere trenta
mila non passa, io n’ho notizia intera,
gente sazia dell’armi, afflitta e lenta,
e non più qual solea prode e guerriera.
Due tanti io reggo, e del morir paventa
più la fuga e lo scorno ogni mia schiera,
e se là son Batrani et Adamasti,
qui non mancan Rubeni, Armalli, Adrasti.
53E se d’esser in un prudente e forte
suona il nome d’Eraclio, e senno e mano
ho ben anch’io, che ’l ferro ignudo porte,
né scender faccia ogni percossa in vano.
Concedessimi pur propizia sorte
seco affrontarmi in pari pugna al piano,
vedresti allor se nelle vene il sangue
sotto canuto crin tiepido langue.
54Vincer vo’ dunque, e me ne do già vanto,
né crescer or senza bisogno il campo.
Sarò tosto all’Eufrate, e sai ben quanto
rilevar possa all’avversario inciampo.
E potrai tu, per riferire intanto,
tutta l’oste avvisar ch’io meco accampo -,
e me’ ch’io veggia in loco eccelso pone
e l’ampie squadre a rassegnar dispone.
55Già dassi il cenno, e ’l suo ritorto corno
il cornetta real si pone a bocca,
e giunge infino a i cavi monti intorno
l’acutissimo suon ch’in aria scocca.
Di lucid’oro in un cristallo adorno
tien l’imagin del sol la gente sciocca,
commune insegna, e la gran selva d’armi
si muove al suo de’ bellicosi carmi.
56Ma pria, dopo l’imago, esposti vanno
sopra i mobili altar gl’incendi sacri;
portangli i maghi, e van cantando et hanno
lungo e candido il crin, gl’aspetti macri.
E seguon lor di quanti giorni ha l’anno,
belle e dolci sembianze e simulacri,
tanti fanciulli, et han le vesti in dosso,
seriche di color, tra rose e rosso.
57Segue il carro di Giove e ’l traggon lenti
quattro destrier vie più che neve bianchi,
a mirar torvi e gl’aurei fren mordenti,
riccamente guerniti il petto e’ fianchi.
Sparso poi di piropi al sol lucenti
che fan parer ch’ogn’altra gemma imbianchi,
dell’almo sole il gran caval succede
c’ha di purissim’or calzato il piede.
58Segue poscia lo stuol, che d’immortale
titol si vanta, e per sovran valore
ben solo ei più che tutto il resto vale;
disciplina mantien, conosce onore.
L’aquila è la sua insegna, allor che quale
sia figlio approva all’immortal splendore,
quasi volendo dir che solo eletti
siano al drappello i cavalier perfetti.
59Son diecimila, e le cerulee vesti
han d’oro schietto i lembi lor fregiati,
de’ chiari fatti i gravi scudi intesti
son di scoltura e più di gloria ornati.
Mordon subiti al corso, al cenno presti
gl’animosi destrieri i freni aurati,
Armallo è ’l duce: ahi, quanto vale, i nostri
troppo il sanno fin qui, senza ch’io ’l mostri.
60Qual parte il ciel con tortuosa strada
folgore che scotendo infiamma il mondo,
tal sembra in vista e la fulminea spada
non ha forze al calar più lieve pondo.
Dragolante succede, e par che vada
sdegnoso in sé di rimaner secondo.
Dieci a cavallo e venti e piè conduce
mila Persi agguerriti il fiero duce.
61Arrendevoli son gl’usberghi loro,
di piastre aggiunte e di commesse maglie,
qual di pesci tra l’onde umido coro
s’arma di squamme e di minute scaglie.
Splendon gravi gli scudi intesti d’oro,
han faretre alle terga e in man zagaglie,
scimitarra ritorta al fianco pende,
fascian gl’elmetti attorcigliate bende.
62Un sol che nasce a colorir le piagge
è loro insegna. Adrasto poi succede,
che quei di Battro e quei d’Ircania tragge,
turba che in sé non ha legge né fede.
Di cortecce han gli scudi aspre e selvagge,
dove ’l ferro men duro indarno fiede,
sua bipenne ha ciascuno e piene e scarchi
suonano ai fianchi lor faretre et archi.
63La loro insegna è fra due colli un vento
che i suoi fiati raccoglie e spira unito.
Seguon gl’Armeni: han senza peli il mento,
e pasciuti i cavalli in duro sito;
ma, ben che macro, il faticoso armento
nel corso è presto e ne’ perigli ardito.
Vanne insieme gl’Arasi e son predoni
simili a i Battri e non di lor men buoni.
64Li guida Erinta, in sull’etade acerba
non al collo monil, maniglia al braccio
costei si pose, e fior non colse d’erba,
ch’al negletto suo crin portasse impaccio.
D’ago in vece e di fuso alla superba
piacque l’asta e la spada; al sole, al giaccio
crebbe, e sudò nell’armi, e l’auree chiome
ha sol di donna, e la bellezza e ’l nome.
65Costei bambina in su l’estrema arena
fu da i corsar del mar Egeo rapita,
e poi da lor nella montagna armena
tra fiere orrende in prima età nutrita.
Cacciatrice animosa, e ’l vento a pena
l’agguaglia al corso, e col piè lieve uscita
rapidamente in sulle spiche bionde
senza piegarle e gir poria sull’onde.
66Subito ch’ella udì con fieri carmi
l’Oriente irritar tromba straniera,
lasciò fervida i boschi e corse all’armi,
di cacciatrice a diventar guerriera.
Né veggendo il re Cosdra altri che s’armi
con più franco valor nella sua schiera,
tre mila Arasi e tanti Armeni in cura
diede all’ardita vergine sicura.
67Rigida è la sua bellezza e come rosa
di punte armata il coglitor minaccia,
girne altera la vedi e disdegnosa,
e di piacer altrui par che le spiaccia.
Di sua gente è l’insegna orsa rabbiosa,
che leva i figli, e così lor procaccia
dar con la lingua sua forma e figura,
quel che non seppe o volse far natura.
68Quei del Cinamometo a lor van presso,
nudi le braccia e fra l’accolte bende
che fan turbante al lungo crine e spesso
di tosco armate han le saette orrende,
velenosa corona, e quindi spesso
qual di faretra ognun le tragge e tende.
Sembran satiri al moto e vanno a salti,
e con strida e furor muovon gl’assalti.
69Son quattromila, e di lor nulla meno
quei dell’Ircania e di lor vanghe guaste
e de gl’aratri i duri pali avieno
ferrati in punta e convertiti in aste,
e parte, ove quel ferro onde solieno
domar le zolle or non è tal che baste,
avean col fuoco intizzoniti e scuri
fatti i bastoni e in punta acuti e duri.
70Van tutti insieme, e con ritorto dente
è l’insegna un cignal che ’l dorso frega
d’una palma alla scorza, e non consente
ma si spezza la palma e non si piega.
Captano è Ruben, per sé possente,
ma vie più tra i pagani il nome spiega,
poiché del forte Armallo egl’è fratello
e d’estranio natal seco gemello.
71Per le nomade selve errando un giorno
Tergina, bella e faretrata arciera,
disviolla una cerva, e poi ritorno
più far non seppe alla compagna schiera;
ella in van delle voci, in van del corno
empie la selva solitaria e nera,
e poi la notte misera e soletta
la morte sua da qualche fiera aspetta.
72Sospirando dicea: – Ben or debb’io
pagar, ohimè, di mille morti il danno,
che l’acute quadrella e l’arco mio
delle belve uccisor sovente fanno -.
E così, mentre un lagrimoso rio
versando al petto i suoi begl’occhi vanno,
ecco il bosco risuona e cento fere
già sono a lei per l’ombre antiche e nere.
73Misera, che farà? Forse dal piede
rivolta in fuga aver potrà soccorso,
ma commetter non può, ché nulla vede,
la vita ai passi e la salute al corso.
E già per farne ingiuriose prede
correan la lupa e la pantera e l’orso,
ma tra loro un leone, oh maraviglia!,
s’oppone a tutti e la diffesa piglia.
74E sì ben la guardò che la molesta
torma al fin l’abbandona e si rinselva,
e poi ritorna e piega a lei la testa
con atto umil la generosa belva;
sol frange l’arco e la faretra e resta
quinci dell’arme sue sparsa la selva,
né più l’offende, anzi talor pian piano
se le appressa a baciar l’ignuda mano.
75Ma s’arretr’ella, e d’orrida paura
tutta notte vegliò fredda e tremante,
poscia alquanto col dì la rassicura
l’amoroso leon tra l’erme piante.
Di sue cacce la pasce e di lei cura
come belva non già ma come amante,
e sì ben la lusinga e l’accarezza
che men sempre tem’ella e più l’apprezza.
76Quindi amante d’amata e poscia moglie
vie più d’amor necessità la rende;
gode seco la belva e ’l cinto scioglie,
che la giovane indarno a lei contende,
e la gemina prole in grembo accoglie
che Rubeno et Armallo esser s’intende.
Così di lor si favoleggia, e questo
più temuti li rende; or seguo il resto.
77Cinque mila son poi condutti a prezzo,
Parti, Tartari e Sciti e Sogdiani,
gente in un da disagio e da disprezzo,
dure alla marra han le callose mani.
Sono innanzi al viaggio, in guerra al sezzo
di sembianza plebei, di cor villani,
né curando di gloria è senza insegna,
negletta turba, innominata e indegna.
È infine ripartito per il campo cristiano (78-83)
78Qui finita la mostra il fero duce
si volge a me, pien di baldanza il volto:
– Or di’, che parti? -. Et io: – Da te s’adduce
popolo (gli rispondo) ardito e molto,
e, precorrendo la novella luce,
tornerollo a ridir dond’io son tolto.
Tuo nuov’ordine aspetta – e poscia il ciglio
fermo in atto dubbioso, indi ripiglio.
79- Già negar non si può, grand’e possente
quest’esercito io veggio, e se dovessi
contra l’armi pugnar dell’Oriente,
dubitar non si può che non vincessi.
Ma co i forti guerrier ch’arma il Ponente,
temo, e fussi pur ver ch’io mal temessi,
temo che schermo fral siano a costoro
porpore ricamate e fregi d’oro.
80Viene il campo romano incolto e fero,
di cor, di ferro e non di pompa armato;
suo riposo è ’l disagio et al cimiero
guancial lo scudo e duro letto il prato.
L’arte sa del pugnar ciascun guerriero,
sì ch’ogn’uno è di lor duce privato,
raccolto muove e volontario e solo,
mosso dal suo valor, l’ardito stuolo -.
81E seguito avrei più, ma auspicando
non farmi a lui col mio lodar sospetto,
m’affreno, e dico: – Io vo’ così toccando
ciò che può dubitar geloso affetto,
ch’io tema no, ma se viltà pugnando
mostra colui c’ha verun dubio al petto,
temeritade è di ciascun che prima
dell’avversario suo non faccia stima -.
82E qui finito il divisar tra nui,
congedo io prendo, e da più schiere alquanto
fuor de i ripari accompagnato fui,
ch’al fin lasciarmi, e ’l dì morissi intanto.
E poi ch’affatto i color foschi e bui
la notte impresse e spiegò bruno il manto,
adempiuto da me que ch’a te piacque
d’impormi a te mi ricondussi» e tacque.
83Cesere allor, ch’attentamente udita
dell’arti sue la nuova storia avea,
quantunque in sé la stimi ardita
pur care lodi al cavalier rendea;
e perch’ogn’altro a ben oprare invita
premio o castigo ad opra buona o rea,
fa dono a lui tra i suoi migliori eletto
d’un gran corsiero a guerreggiar perfetto.