commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro VIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 19.02.16 11:46

ARGOMENTO
Fassi sopra l’Eufrate un saldo ponte,
e Calisiro a sé Volturno appella
e seco ascende a picciol passo il monte
per intender da lui d’Alvida bella.
Enarto arriva, ond’egli a lui fa conte
varie provincie a cui di lor favella.
Passa il campo l’Eufrate, e sull’arene
mesopotamie alla battaglia viene.

Eraclio fa costruire il ponte sull’Eufrate (1-10)

1Cesere, poi che di quel campo intende
l’armi e le forze in se medesmo unito,
per breve spazio a terminar sospende
s’ei passar deggia al periglioso sito;
ma poi ben tosto i dubbi suoi riprende,
e fatto in Dio sicuramente ardito
a fabricar su la fiumana il ponte
le squadre appresta al suon di tromba pronte.

2E visto il loco ov’antico varco
già sottomesse a stabil giogo l’onda,
e giunse insino al quarantesim’arco
la ben sicura edificata sponda,
ma di pioggia soverchia il fiume carco
nel porta un dì che impetuoso abbonda,
pur le basi ancor salde appaion fuore,
e in lor si frange il fugitivo umore,

3l’imperadore a fabricarvi il passo
quell’antiche ruine accorto elegge,
ché de’ pilastri il ben fondato sasso
senza nuovi sostegni il pondo regge.
Ma però che l’abete o ’l pino o ’l tasso
o qual pianta più alta al bosco ombregge
dall’uno all’altro stipite non giunge,
con saldissime funi or li congiunge.

4Di qua, di là sul duro lido ei ficca
noderosi cerri ed elci antiche e dure,
mal polite le lascia e ne dispicca
sol più fragili i rami e le verdure.
Poi le gran corde agl’aspri tronchi appicca,
a qualunque tirar salde e sicure,
poi le serra in pilastri e gl’incatena
sinché l’un congiunge all’altra arena.

5Quindi su i grossi campi, che rende
argano violento istesi e piani
sì che ’l mezzo tra lor nulla s’arrende,
nulla piegano all’acqua i tesi vani,
di sottil asse un lungo stuol si stende,
ben lo sanno acconciar maestre mani,
e le tavole larghe e poco gravi
son leggier palco e gran corde travi.

6Mille e mille maestri all’opra intenti
la notte e ’l dì senza riposo stanno.
Vassi in antica selva e le taglienti
bipenni ingiuria all’alte querce fanno.
Cade il frassino inciso, onde i serpenti
anco l’ombra temendo in fuga vanno,
cade l’orno e l’abete, e ne risuona
la valle, e ’l bosco a molte miglia introna.

7Chi l’ascia torta o la tagliente scure
a colpi muove, e chi la pialla striscia,
che con lingua d’acciar sulle giunture
passando lecca e le raffila e liscia;
qual fa morder la sega e le fessure
lascia in tronco reciso a striscia a striscia,
qual torce il succhio e con lui spinge e fora,
e ’l tragge e scote e poi rispinge ancora.

8Qual di gran rota al torto perno aggiunge
la molle stoppa, e mentre ei volge e gira
indietro indietro a picciol passo lunge
suo torto spago a par de gl’altri tira.
Fa di quattro una fune, e gli congiunge,
poi quattro funi in canape raggira,
quattro canapi attorce e gli collega,
e stringe e serra sopra piega e piega.

9L’opre Augusto sollecita, ché molto
a varcar l’onda anticipar li preme,
che Sarbarasso all’altra riva accolto
abbia per impedir lo stuolo insieme.
Ma già ’l ponte declina a finir volto
stabile sì che nessun pondo teme,
e in duo dì soli, a cui le notti aggiunse,
la grand’opra del fiume al suo fin giunse.

10L’imperador dal fabricar del ponte
giammai non parte, e la sembianza sola
mantien le squadre alle fatiche pronte,
al disagio sovvien, la noia invola.
Né men Teodor dalla fraterna fronte
spira virtù che l’affannar consola,
e seco have i suoi figli, ove s’uniro
le grazie tutte, Enarto e Calisiro.

Tra gli altri partecipano all’impresa i figli di Teodoro: il minore, Calisiro, ama Alvida, che ha conosciuto l’anno prima alla corte dei Persiani e che lo ricambia (12-21,4)

11Calisiro è ’l minor, ch’errante e sparto
mostra il bel crin che s’innanella e ’ndora.
Senza piuma ha ’l bel mento, e del suo quarto
lustro il giovane ardente appena è fuora.
È sol d’un anno a lui maggiore Enarto,
e già de’ primi fior la guancia onora,
di color di castagna ha ’l crine scuro
quand’ell’apre pungente il sen maturo.

12D’Alvida bella è Calisiro amante,
e non men la donzella arde di lui,
et è questi il garzon del cui sembiante
cerca nell’onde e troppo crede altrui.
Né per vivere all’un l’altro distante
tempra il fervido amor gl’incendi sui,
anzi l’accresce e l’amorose pene
la memoria nutrisce e non la speme.

13Non può sperar la giovanetta amando,
nata in diversa fé, di re nemico,
le sue fiamme addolcir, che consumando
la van qual neve in picciol colle aprico.
Né speranza maggior può desiando
aver di lei l’innamorato amico,
che non men arde e non languisce meno
con le lagrime al volto e ’l foco in seno.

14Un anno è già che ’l foco lor s’accese,
quando che ’l campo persiano e ’l trace
soprastando tenean l’armi sospese
trattando accordo e sicurtà di pace.
Di qua, di là per raffrenar l’offese
nel dubio tempo in ogni petto audace
si dier gl’ostaggi, e per Eraclio vanno
i due nepoti al barbaro tiranno.

15Là dove poi tra le pagane genti
visto dalla donzella il giovanetto,
l’un piace all’altro e di trovar contenti
scambievolezza d’amoroso affetto,
con gli sguardi furtivi e con gl’ardenti
sospiri apriano il mal celato petto,
e sì tenace in lor s’apprese il foco
che mai più nol sopì tempo né loco.

16La notte e ’l giorno, e quando fuor ne viene
tacita l’ombra e quando l’alba nasce,
non han tregua giammai con le lor pene,
né mai riposo all’amorose ambasce.
Al fin partirsi il cavalier conviene,
gl’è forza al fin che la sua vita lasce,
ché, richiamandolo a sé l’imperadore,
torna il fanciullo e non riporta il core.

17Ché da gl’occhi ferito e dalle chiome
d’Alvida bella incatenato e preso,
da lei non parte e le riman pur come
semplicetto augellino al laccio teso.
Et ella ad or ad or chiamando il nome
di chi s’invola e ’l cor le lascia acceso,
delusa amante all’ombre opache e sole
Volturno attende e poi così si duole:

18«Ahi cieca e stolta, è ben ragion ch’io deggia
pianger l’altrui menzogna e ’l proprio errore,
ch’abbagliarmi sì ch’io non mi avveggia
che impossibili cose attende il core.
Com’esser può che dentro all’onde io veggia
chi ministra ad altrui fiamma d’amore?
Contrario è troppo al suo bel viso il loco,
non può l’acque abitar chi spira il foco.

19Ahi stolta me! S’a gl’occhi miei potesse
l’onda rappresentar che m’innamora,
nelle lagrime mie sì calde e spesse
visto l’avrei ben mille volte l’ora.
Folle, ma se nel seno amor l’impresse,
perché ’l vogl’io più ricercar di fuora?
Com’esser può che sia mirato e scorto
da gl’occhi fuor chi dentro al petto io porto?

20Folle, che ’l meno io bramo e ’l più posseggo,
posseggo il molto e vo’ cercando il poco.
Ho il mio ben meco e la sembianza chieggo,
nel seno il porto e lui nell’onde invoco.
Così vaneggio e che non stanno or veggio
l’amore e ’l senno in un medesmo loco
mentr’io pur bramo, ahi desir vano e stolto,
s’io l’ho nel petto approssimarlo al volto».

21Così tenzona, e la fresc’onda e l’òra,
a così dolce lamentar presenti,
fan pietose risposte ad ora ad ora
co i lor susurri a gl’amorosi accenti.
Ma d’Alvida non men chi l’innamoraCalisiro cerca di avere informazioni su Alvida da Volturno ma a causa dell’intromissione del fratello ottiene solo un resoconto geografico dell’Asia (21,5-42)
celando in sé l’ascose fiamme ardenti
né conforto giammai né pace trova,
né sa premer il duol né pianger giova.

22Sospira e tace, e de gl’incendi ascosi
tanto cresce il dolor quanto più ’l serra;
ma benché ’l chiuda e palesar non l’osi,
per se stesso al fratel pur si disserra,
e quel, con detti or placidi or crucciosi,
tenta indarno acquetar la dolce guerra,
e qual colombo intorno all’altro aggira
mescolando d’amor le paci e l’ira.

23Egli con sicurtà, però ch’all’arte
di cavalier con miglior cura attende,
con mostrarli il suo fallo a parte a parte
l’innamorato Calisir riprende;
et egli omai che ’l sol per mezzo parte
il nostro cielo e minor l’ombra rende,
del suo folle desio ripreso in vano,
ritorce il piè dal suo maggior germano.

24E come quel che da Volturno avea
contar gl’amor della donzella udito,
che il fiero padre a passeggiar tenea
per la dolc’ombra al solitario lito,
pien d’un freddo timor, che gli correa
per ogni vena in mezzo al cor ferito,
a premer seco il cavaliero appella
d’un opaco sentier l’erba novella.

25E se ne vanno ad un vicin poggetto
là dove a gara infra le verdi fronde,
standosi i rosignoli a lor diletto,
a gl’accenti dell’un l’altro risponde;
fresca tenda è la foglia e l’erba letto
sparso dal mormorar di lucid’onde.
Saliscon essi a picciol passo, e l’erta
facile è sì ch’è la salita incerta.

26Con più dimande e con ritorti giri
di parole il fanciul, che non s’attenta
scoprir liberamente i suoi desiri,
favellando tra via Volturno tenta.
Tace e torna a ridir, preme i sospiri,
or neve or foco il volto suo diventa,
ma gli scorge il fratello e gli raggiunge,
né, quantunque gradito, or caro giunge.

27Ché interrompendo la gelosa cura,
fermano insieme a mezza costa il passo,
e i larchi campi e l’aria aperta e pura
prendono a rimirar sopra d’un sasso.
Sereno è ’l ciel, cui nulla nube oscura,
senza macchia verdeggia il suol più basso,
e i suoi smeraldi in sul fiorir dell’anno
ai celesti zaffiri invidia fanno.

28Enarto allor che quella brama sente
che ne’ petti gentil giammai non muore,
di rivestir l’imperatrice mente
vie più di senno e dispogliar d’errore,
chiede al saggio Volturno, ei che presente
ne i luoghi fu del persian signore,
che i luochi accenni e le provincie, e l’altro
risponde: «Or nota, io volentier ti scaltro».

29E volgendo a man manca: «Oltre quel monte
l’Eufrate nasce, e di là pur, ma lunge,
tragge l’Armenia il presto Tigre il fonte,
e più basso con lui si ricongiunge.
Là, per mezzo Aretusa, ei l’alta fonte
non rimescolando all’altro lito giunge,
e quindi a poco ei fra l’arene asconde
sotterra il corso e sepellisce l’onde.

30Da poi risorge, e l’altro lembo face
della Mesopotamia, in cui non solo
di biade e d’erbe e d’animai ferace
ma d’aromati è ricco il verde suolo.
Dove poi con l’Eufrate il Tigre giace,
e capisce i due fiumi un letto solo,
Babillonia risiede, alta e superba,
ma gran parte n’asconde il tempo e l’erba.

31Le gran vene dell’Asia insieme vanno
lor viaggio a finir nell’onde amare,
che dal persico lito accolte stanno
se non là donde il sol tornando appare.
Quivi due promontori adito fanno
per cui passa il minor nel maggior mare,
son tra l’Ostro e l’Arabia, e tra ’l Ponente
e le due Carmanie, verso Oriente.

32Verso Settentrion, più presso a noi,
la Sufia il cinge, e gl’è la Persia a lato,
di là sopra è la patria a gl’indi eoi,
e di sotto l’Assiria al ciel più grato.
Qua più alta è la Media, e segue poi
l’altra che ’l nome la Caspio mare ha dato,
et ogni spazio lor chiuso rimane
tra i confini di Persia e l’onde ircane.

33Ma di tutte a ridir vano consiglio
fora, ché ’l mondo quasi ha l’Asia in seno.
Guarda il mio dito, e dov’ei mostra al ciglio
pur quantunque può gir disciogli il freno.
Vedi misto parer d’oro e vermiglio
quel nuvoletto e tutto il ciel sereno:
or là oltre, diritto, e non si vede,
sovra il Tigre Seleucia altera siede.

34Questa è l’ampia città, cui le ruine
di molti regni fondamenti fero,
donna delle provincie a sé vicine,
di Persia reggia e del tiranno altero.
E là sol dirizzar l’armi latine
Cesere ha stabilito il gran pensiero,
ché là ’l buon Zaccheria, là si ritiene
l’arbor che di Giesù sparser le vene.

35Non lungi al fiume, il crudo re che l’armi
dell’Oriente ha contra noi rivolte,
fra i diporti trattiensi, e poco parmi
che sia più da temerlo, a gl’agi volto.
Per lui convien che Sarbarasso s’armi,
ch’ei, dato all’ozio, alle fatiche tolto,
per le selve d’Assiria alte e superbe
stassene a passeggiar tra i fiori e l’erbe.

36Del Tigre là, sulla sinistra riva,
tra due colli frondosi all’ombra giace
la sua riva Dager, di nulla priva,
che mai per arte o per natura piace.
L’erba sempre è novella e l’aura estiva
mai non cresce soverchio e mai non tace,
i fior nutr’ella e prende odor da’ fiori,
e si parton fra lor fresco et odori.

37Nella gran villa i verdi poggi in uno
stendon le piante a mescolar le fronde,
chiuso palco tessendo al loco bruno,
che da i raggi del sol tutto s’asconde.
Grotte varie e spelonche e sasso alcuno
non c’è cui manchi il zampillar dell’onde,
son aspri e rozzi e quell’error non vero
tanto diletta più quant’è più fero.

38Tra le bozze difformi alta serpeggia
l’edera, che s’attien con cento braccia,
e ’l musco e ’l capelvenereS | capelvener verdeggia,
che le goti sgrugnose umido allacci.
Cade e mormora l’acqua, al fin negreggia
raccolta in lago, il qual s’interna, e caccia
tra sasso e sasso e tra quei seni oscuri
i pesci, e dentro e fuor guizzan sicuri.

39Là tra marmi ben cento il fabbro eletto
Galatea figurò, che ’n riva al mare
lamentosa spargea sul morto petto
dell’amato garzon lagrime amare.
Vivo e vero è ’l dolor nel finto aspetto,
degl’impressi sospir l’aura v’appare,
e nel mirarvi attentamente e fiso
credi il pianto stillar dal suo bel viso.

40Sta Polifemo, il suo geloso amante,
tra giunchi et alghe in sulla riva, e guata.
Gravato è tutto in sul baston pesante
e gode al duol dell’infelice amata.
Par che dica: – Or mi sdegna, or la sonante
fistola aborri a chi t’adora, ingrata.
Così va chi mi sprezza -, e insieme spira
misto dal ciglio fuor l’amore e l’ira.

41A questa fonte il re de’ Persi il giorno
securo si sta da molte schiere e molte,
che per sua guardia a quelle selve intorno
novellamente ha d’ogni banda accolte.
S’invola a lor, ma non già quercia od orno
né di gorgo o di rio nevi disciolte
posson riparo alle sue cure farli,
ch’ei le porta nel cor, voraci tarli.

42Sol di sue gravi e nubilose ciglia
talor vien lieta a serenar l’orrore
del superbo tiranno Alvida figlia,
di sovrana beltà, pregio maggiore».
Calisiro a quel dir foco simiglia
cui muova l’aura a rinfiammar l’ardore,
e ’l volto acceso ad onta sua discopre
l’amor ch’indarno ogni suo studio copre.

Il campo passa l’Eufrate (43-47)

43Ma ecco il suon della romana tromba
ch’a i loro uffici i cavalier richiama,
pugnitrice de i cuor lungi rimbomba
e risveglia desio d’onore e fama.
Chi lancia od asta e chi faretra o fromba,
chi prend’altr’arme e chi ’l compagno chiama,
rompon gl’indugi e immantinente al basso
tornan que’ tre con frettoloso passo.

44Così talor nel caldo tempo, allora
che ’l mietitore affaticato e stanco
d’un faggio all’ombra allo spirar dell’òra
respirar lassa all’affannato fianco,
se scoppia il tuon d’oscura nube fuora
e l’alma luce a mezzo divien manco,
si leva ratto e corre all’aia e tutta
la sua rustica schiera è già ridutta.

45L’imperador, poi che tornaro a lui
a referir gl’esploratori accorti
che non v’è da temer, ch’impeto altrui
a passar l’acque alcun travaglio apporti,
chiama tosto a varcar gl’ordini sui,
ché sa ben quanto il dubbio passo importi,
e che ’l tempo non ha chi non lo fura,
e chi perde stagion perde ventura.

46Passan primi i più forti, e ’l piè fermato
dell’alto Eufrate in sulla sponda manca
guardando stanno e fan sicuro il lato
dove l’oste fedel passa più franca.
Già dal fiume di là lo stuolo armato
s’allarga e cresce, e di qua scorcia e manca,
già con gl’ultimi Eraclio il varco passa
e ’l gran ponte disfatto a tergo lassa.

47Le squadre poi che superate han l’onde,
della Mesopotamia empiono i campi,
e ’l bel verde dell’erbe e delle fronde
l’armi tocche dal sol spargon di lampi.
Pianan poscia i ripari e di profonde
fosse fan cerchio e di contesti inciampi,
e in largo spazio i cavalier sicuri
rendon quasi città mobili muri.

Arriva l’oste di Sarbarasso: Eraclio schiera i suoi e li incita (48-60) Si viene a battaglia (61-71)

48Ma come prima il nuovo lume appare
col purpureo color, col bianco poi,
e le stelle nel ciel pallide e rare
fuggon dallo splendor de’ liti eoi,
ecco un nubilo vel pare e dispare,
quinci affissa la guardia i lumi suoi,
scopre certa la nube e folta e spessa,
vede che ad or ad or cresce e s’appressa.

49Di tempeste poi lucide e guerriere
scorge gravido il nembo, uomini et armi
distingue appresso e le falangi intere
e ’l segno dà che tutto il campo s’armi.
Et ecco inorridir l’audaci schiere
e le trombe sonar bellici carmi,
anzi fiamme d’ardire, e cielo e terra
ripercossi da lor rimbomban: guerra.

50Il magnanimo Eraclio alla novella
copre di bianco acciar l’omero e ’l petto;
gl’eroi del campo e i maggior duci appella,
suscitando al pugnar l’usato affetto.
Né con chiome giammai sanguigna stella
rinfiammò il ciel di spaventoso aspetto,
minacciando ruine al germe umano
come morte e terror spira Batrano.

51E d’un fervido suo disegno ardente
può sopportar quel breve indugio a pena,
quasi barbaro al corso impaziente
che l’odioso canape raffrena.
Serrar l’orecchie e raggirar fremente,
mordere il corso e calpestar l’arena,
e in mille guise accellerar gli vedi
l’audace suon che gli discioglie i piedi.

52Dell’alto Eufrate alla sinistra riva
Cesere il campo suo ferma e dispone,
e in piaggia che insensibile saliva
diritto a fronte all’avversario il pone.
L’altro esercito intanto ecco veniva
di gran luna in sembianza alla tenzone;
nota Eraclio la forma e ben s’avvede
che circondarlo il suo nemico crede.

53Et ei mettesi in quadro, e da tre lati
argine impenetrabile gli fanno
con pungenti sarisse i forti astati,
e col fiume congiunti al quarto stanno.
Di grave arnese i più possenti armati
sono alla fronte, e ’l piè ritrar non sanno,
e con targa celata, arco e saette
al corno destro i leggier d’armi mette.

54Dalle squadre disciolti appena quanto
fuor d’arco sorian saetta andrebbe,
e i cavalli a lor presso et Adimanto,
nato sul Calcedon, la cura n’ebbe;
costui sempre guidolli e sempre il vanto
di veloce union pugnando accrebbe,
et or con essi ei se ne va di tutto
che deggia far dal sommo duce istrutto.

55L’imperador, poi ch’una volta e due
mirando e corso in quella schiera e ’n questa,
con rammentar qual per l’addietro fue
di lor ciascuna ai gran disagi presta,
nel mezzo al fin di tutte l’armi sue
serenissimo in volto i passi arresta,
e in voce assai più che mortale il suono
del petto scioglie, e tai le note sono:

56«Guerrieri miei, che per tant’anni e tante
prove sì chiare il valor vostro splende,
che nemico verun, se non tremante,
omai più l’arme incontro a voi non prende,
vedete là quella vil turba errante
che né pur della tromba il suono intende,
e che rotta oggimai cotante volte
ne i primi incontri a voi le spalle ha volte.

57Qual dubbio adunque? Ognun di voi simile
a sé si mostri, io più non chieggio e bramo.
Seguirann’essi, e noi seguiam lo stile
pur contr’a lor che ’ncominciato abbiamo.
Né fa caso però che stuol sì vile
moltiplicato incontr’a noi veggiamo:
di valor, non di gente ha d’uopo Marte,
e non di moltitudine ma d’arte.

58Son quai vasi gl’eserciti, e tal uno
è di metallo e tal di vetro frale,
onde poi nell’urtar vantaggio alcuno
non ha ’l maggior, ma la saldezza vale.
Nello stringer la pugna un sol contr’uno
dapoi combatte, e se ’l valor prevale
qual sarà tra di lor, benché ’l migliore,
che del nostro peggior non sia peggiore?

59Per pugnar no ma per fuggire ha tolto
quel capitan tanti cavalli e tanti,
né varrangli appo noi poco né molto
di barbarico onor titoli e vanti.
Su guerrier miei, ch’a ricovrare il tolto
ce n’andiam noi con giusti auspici e santi;
su facciam pronti il glorioso acquisto
premio è la croce e la vittoria è Cristo».

60Così Cesere disse e delle spoglie
seriche disvelò l’arme celeste,
né già mossersi mai per bosco foglie
all’Aquilon che incontro a lor si deste
come i cor di ciascun mosser le voglie,
e gridaron le schiere ardite e preste:
«Dà ’l segno omai, ch’una medesma sorte
teco tutti vogliam, vittoria o morte».

61Ma, l’ora già di guerreggiar venuta,
ferma al suo luogo ogni guerrier le piante,
con intrepido aspetto e l’asta acuta
piegando affissa immobile e costante.
La battaglia non cerca e non rifiuta
il fedel campo all’avversario avante:
Cesere il sa, come ben noto a lui,
che disordina sé chi assale altrui.

62Ma, già vicini un contr’all’altro i campi,
leva il barbaro stuolS | stuolo le strida orrende,
orrende sì che per gl’aerei campi
men sonante dall’alto il tuon discende.
Per le tacite selve e i muti campi
rimbombar lungi il fiero suon s’intende;
l’Eufrate e ’l Tigre al gran rumor le sponde
scorser tremanti e corser tinte l’onde.

63Ma poi che scemo il largo spazio resta,
manda a turbarlo il fiero duce i suoi
Cinamomiti, e la pungente testa
spoglia di lor saette e fuggon poi.
Di pennute quadrella atra tempesta
fa nube in aria e ’l sol veder non puoi,
con le punte poi giuste, alte con l’ali,
grandinan morte i velenosi strali.

64Lor muovon contro i leggier d’armi e quelli
scorron fuggendo, a nuova parte infesti,
e partendo e tornando audaci e snelli
cangian fughe et assalti or quelli or questi,
gl’uni rapidi più quanto più imbelli,
gl’altri timidi men quanto men presti;
ma ’l barbarico stuol sempre veloce
quanto ha manco valor tanto più noce.

65Co i cavalli Adimanto allor movea
degl’arcieri a scacciar la noia audace,
quando Augusto il fermò, ché far volea
l’avversario disegno uscir fallace:
Sarbarasso a turbar mandato avea
lo stuolo innanzi assalitor fugace,
perché l’urtin le lance e disarmato
ne rimanga a iS | i Romani il destro lato,

66onde Augusto le ferma, e perché in vano
caggian sopra i guerrier l’armi volanti,
fa che lievi ciascun a manca mano
e congiungan gli scudi alti e pesanti.
E col mobile tetto indi pian piano
vanne sicuro il fedel campo avanti,
fin che giunge al nemico e ’l paragone
fassi omai del valor con la tenzone.

67Minacciose abbassar l’orride punte
vedi l’aste e le lance, e, curvi gl’archi,
le saette da lor fuggir disgiunte
rapidamente, e tremar vòti e scarchi;
montar lo sdegno e già turbar congiunte
le squadre opposte i perigliosi varchi;
sonar lucide armi e volar mille
tra le scheggie e i troncon fiamme e faville.

68Sorge dalla percossa arida terra
d’atro fumo in sembianza oscura polve,
che ’nvolando la luce il giorno serra
e di tenebre orrende il cielo involve.
Di trombe e strida e di furor di guerra
per entro un suon vi si raggira e volve,
che ’ndistinto rimbomba e fremer pare
misto col vento in cavo scoglio il mare.

69Ma già spiegando e l’uno e l’altro il corno,
d’Oriente il gran campo indarno prova
pur l’esercito pio cinger d’intorno,
ché tra ’l fiume e i guerrier varco non trova,
né può far danno a gl’altri lati o scorno,
ché ’l romano valor vince ogni prova.
Se ’l vede il duce e le grand’ali aduna,
e le forze sue tutte accoglie in una.

70E come allor che ’l nubiloso fiato,
che guastandone al ciel d’Affrica parte,
onde muove sopr’onda il mar turbato,
nuotan l’alghe e l’arene il lito sparte,
con quell’impeto tutto al manco lato
si rivolge il furor del fiero Marte:
lo sdegno monta e schiera a schiera accozza,
piede piè, scudo scudo, elm’elmo cozza.

71Così sovente in due lor nembi accolte
con feroce contesa api dorate,
nuvola contra nuvola rivolte
battaglia fan di pungent’aghi armate,
nell’accesa tenzon crucciose e folte
ronzan per l’aria e battan l’ali alzate,
e l’una amica invita l’altra e sprona
a degna morte, l’aer franto suona.