ARGOMENTO
Celeste grazia alla cristiana sede
tragge Anfimene in sul finir la vita.
Comparte Eraclio a’ suoi guerrier le prede,
che pugnando acquistò la gente ardita.
Volge il figliuol di Sarbarasso il piede
con la salma paterna a lui largita,
e torn’a i Persi, e con Alvida appresso
giunge con gran soccorso il rege stesso.
Anfimene è portato morente a un padiglione: Artemio, su invito divino, lo convince a battezzarsi in punto di morte (1-34)
1Ma poi ch’esangue e d’ogni moto privo
fu nelle tende sue tratto Anfimene,
da cui trepido fatto e fuggitivo
lo spirto uscia per le recise vene,
a lui, men che defunto e men che vivo,
Pausodino chirurgo in fretta viene;
ben conosce costui radici et erbe,
e qual propria virtù ciascuna serbe.
2D’un suo candido lin, che li discende
fino al ginocchio, ei si circonda il fianco,
e la manica a torno alta sospende
con torte pieghe al destro braccio, al manco.
Vieta l’adito al giorno e i lumi accende
perché l’egra virtù languisca manco,
e in bianca mensa incontanente stese
l’armi mediche sue, lucente arnese.
3Diveltrici tanaglie e in sé ritorte,
arrendevoli forfici taglienti,
di coltella diverse estrania sorte,
curve, ottuse, rivolte, aspre e radente,
e ’l fil, che dietro alle sue ferree scorte
seguita infin che può gl’aghi pungenti,
gli stili aguzzi, e le dentate seghe
e le fasce ravvolte in cento pieghe.
4Viene il chirurgo e con sua spugna molle
ch’abbeverata avea di tepid’onda,
soavemente il morto sangue tolle
dall’aspra piaga e l’ammollisce e monda.
Sospira poscia, e ’l mesto ciglio estolle
così la scorge a rimirar profonda,
vede non pur che ’l fiero colpo ha rotto
l’osso, ma le due fasce a lui di sotto.
5E nel cerebro aperto il ferro scese
profondo sì ch’ogni speranza è tolta
di liberar dalle mortali offese
l’anima, omai ch’al dipartir s’è volta.
Ma di porger però le sue difese
non riman egli all’egra testa avvolta,
e in riposo l’acconcia e porta insieme
conforto al duce e simulata speme.
6E poi tratti da parte i tristi amici,
«Apparecchiate pur» disse «il feretro
e d’umana pietà gl’estremi uffici,
ché ’l morir suo non può ritrarsi adietro».
Risonaro a quel dir mormoratrici
mille lingue de’ suoi doglioso metro,
per l’esercito pio la fama scorre
e ’l popol mesto al padiglion concorre.
7Ma del popolo a lui corron più folti
gl’Angeli ribellanti al re superno,
e tutti intorno al moribondo accolti
chiaman lo spirto al tormentoso inferno.
Oh con che strani e spaventosi volti
di morte ombrati e di dolore eterno,
e come stanno a depredarlo intenti,
battendo i raffi e digrignando i denti!
8Chi di lor gl’apre il fiero libro avante,
dove l’opere altrui descritte sono;
e chi li mostra in rigido sembiante
non v’esser più da ritrovar perdono,
però che ’l fin della sua vita errante
si chiude omai d’ogni clemenza il dono;
e chi mostra a’ suoi preghi il Ciel serrato
poi ch’è di colpa original macchiato.
9E ’l buon Angelo suo, che dal natale
per averne custodia il Ciel li diede,
tacito se ne sta chiuso nell’ale
e sopra il letto addolorato siede.
Sapendo ei ben ch’a liberar non vale
mentr’egli è fuor dalla romana sede,
né potend’altro, in sua difesa a Dio,
volto per carità, parla il desio:
10«Signor, poich’altro a questo infido duce
non può giovar nel suo perverso errore,
giovi al misero almen ch’ei si conduce
nelle tue squadre e in tuo servigio muore.
Deh, sparge in lui soprabbondante luce
che ’l vaglia a trar del sempiterno orrore».
Et ecco a tal pregar l’eterna mente
col ciglio approva e col voler consente.
11E senza indugio il messaggier celeste
nel sovrano voler contento e lieto,
componsi d’aria umano aspetto e veste
forme sembianti al vecchiarel Niceto,
e se ne va per esequir con queste
dell’eterno Motor l’alto decreto;
vanne ad Artemio, e lui per nome appella
e in cotal guisa al cardinal favella:
12«Sacro signor, deh per pietà vi caglia
d’un spirto gentil che si disserra,
perché s’adoperò nella battaglia
per noi, per Cristo in così giusta guerra.
Anfimene è costui, che or si travaglia
nel suo render di sé terra alla terra,
né può levarsi al Ciel purgato e mondo
poi ch’è di macchia originale immondo.
13Itene dunque a confortarlo, avanti
che l’ultim’aura il freddo corpo esali,
a lasciar di sua fé gli stili erranti
e sottrar l’alma a gl’infiniti mali.
Itene, che però gl’Angeli santi
porgeranno appo Dio preghi immortali».
E così detto al sacro messo e pio
lo spirito divin rise e spario.
14E dimostrò nello sparir l’aperta
divinitade a manifeste note,
tornando là dove al gran passo incerta
l’anima per orror tutta si scote.
Allor, la sua divinità scoperta,
volgesi Artemio alle celesti rote,
piega il ginocchio e ’l santo nume adora,
cercando in van di rivederlo ancora.
15Indi per ricondur l’errante agnella
dentro all’ovile anzi che ’l buio vegna,
dove ’l divin spirito l’appella
muove a sperimentar prova sì degna,
e dimandata al Ciel pronta favella
per quel ch’oprare a gloria sua s’ingegna,
poi che gl’è giunto al lagrimoso letto
così comincia in sermon grave e schietto:
16«Giovane invitto e valoroso duce,
che travagliando in perigliosa guerra
sète giunto a quel fin che si conduce
rapidamente ognun che vive in terra,
di voi riman sì gloriosa luce
anco poi che la morte il dì vi serra
ch’ad onta pur del tenebroso Lete
nelle memoria altrui viver potrete.
17Ma che però, se come pur si fanno
tutt’altre quaggiù terrene cose,
la gloria muore e poco tempo stanno
dentro a i ricordi altrui l’opre famose,
ché ’l tempo inevitabile tiranno
al fin pur tutte in cieco oblio nascose.
Quanti Alessandri al macedone avanti
furono, e non han più titoli e vanti?
18Né di lui durerà la fama eterna,
ch’altri verranno e con più chiaro grido,
che prolungasi ben ma non s’eterna,
torranno a lui d’ogni memoria il nido.
Sol l’anima nostra è sempiterna,
ché lasciando al morir l’albergo infido
volane sciolta a non morir giammai
nel bene eterno o ne gl’eterni guai».
19A tai parole, in questi rauchi accenti
dimanda il duce: «E qual ragion son quelle
che se io veggio morir mandrie et armenti
e morir l’alme alle lor morti anch’elle,
deggian gl’umani spiriti viventi
rimaner poscia e sormontar le stelle?».
E qui si tacque, et affissò le ciglia
più verso Artemio, e ’l cardinal ripiglia:
20«Sovra la terra ogn’animal rivolto
con la fronte all’ingiù dimessa pende,
per mostrar che da lei l’anima ha tolto
col corpo insieme e ch’amendue le rende.
Ma l’uom, che verso il ciel diritto ha ’l volto
e col pensier sopra le stelle ascende,
mostra che non quaggiù caduco e frale
ma che dèe colà su farsi immortale.
21Natura e ’l Ciel, che operazione in vano
non fecer mai d’universal desire,
bramare han fatto all’intelletto umano
l’eternità perch’ei non de’ morire.
E ben di Dio l’onnipotente mano
s’ell’è pur giusta e non può mai fallire,
negar non lice e confessar conviene,
ch’ella serbi di là meriti e pene.
22Negar non lice e confessar n’è forza,
ché s’ogni altro animale all’uom soggiace
e con dominio il signoreggia e sforza,
per sua maggior sovranitade il face.
E se sovranità non ha la scorza
o men forte o men pronta o men vivace,
che l’abbia l’alma e non l’avria se fosse
quaggiù finita e inferior di posse.
23«Se l’alma adunque» il capitan soggiunge
non de’ morir, come può darli vita
del battesmo l’acqua, e come aggiunge
basso elemento a sua virtù infinita?».
Et ei: «M’è d’uopo il cominciar da lunge»,
da poi ch’egli ha l’alta dimanda udita,
«ma stringerò più che per me si puote
veracissima storia in brevi note.
24Quando ’l sommo Fattor fece e distinse
dalla luce le tenebre, e compose
gl’elementi in discordia e gli ricinse
di nove cieli, e in mezzo a lor gli pose,
vestì la terra e di bei fior dipinse
e terminò le regioni ondose,
diede a i pesci abitar l’umido suolo
e spiegare a gl’augelli in aria il volo.
25E poi che gl’ebbe l’ammirabil mole
fatta, e proposti i lumi suoi sovrani
alla notte la luna, al giorno il sole,
e distinte le valli e i poggi e i piani,
qual fabbro industre alcuna volta suole
l’opera vagheggiò delle sue mani,
e l’approva e li piace e l’uomo elegge
perch’ei domini il tutto e signoregge.
26Formalo a sua sembianza e li contende
tra ben mille delizie un pomo solo,
et egli, ohimè, pur trasgredisce e ’l prende,
onde passano in lui la morte e ’l duolo,
né sol se stesso il primo padre offende
ma, da lui discendendo ogni figliuolo,
tutto il genere uman rende infelice
la macolata sua prima radice.
27Però mosso a pietà l’eterno Figlio,
prendendo carne a ricomprar ci venne,
e per disciorre il sempiterno esiglio
che noi distrinse, a lui morir convenne;
anzi del sangue suo pender vermiglio
soffrì morendo alle penose antenne,
e quindi ad operar nostra salute
i sacramenti poi preser virtute.
28De’ quai primo è ’l battesmo, unica porta
ch’apre all’anima il Cielo e in lei cancella
l’antico error che la fa nascer morta,
e la rende al Fattor purgata e bella;
e così voi, che per via falsa e torta
la guidaste fin oggi a Dio rubella,
ricondur la potete a lui gradita
fin che pur vi rimanga aura di vita».
29E qui si tace, e ’l suo parlar, che molle
per l’orecchie passando al cor penetra,
l’antica impression dal cor gli tolle
soavemente e intenerisce e spetra.
Ma quella più che Dio mandar gli volle
grazia, ch’a lui d’ottener grazia impetra,
sì ch’ei disponsi e supplicando chiede
morir nel grembo alla cristiana fede.
30E movendo quest’ultima parola,
«Padre, a te» disse «et al tuo Dio mi dono,
e vorrei prima alla verace scola
aver appreso a dimandar perdono».
E volendo più dir, morte gl’invola
de’ rauchi accenti a mezzo il corso il suono,
e fuor del carcer suo freddo e mortale
l’anima batte immantinente l’ale.
31Ben frettolosamente a sparger l’onde
si studia Artemio, e i tre gran nomi esprime,
ma distinguer non può s’a pieno infonde
la virtù che nell’anima s’imprime,
s’ell’è partita o tuttavia s’asconde
come solea nelle sue fasce prime.
Gridan gl’empi demòni e forza fanno
d’attrarla pur nel sempiterno affanno,
32ch’ell’era sciolta e che non lei ma solo
battezzassele Artemio il corpo spento.
Ma ’l buon Angel di Dio spiegando ’l volo
lo porta a lui vie più leggier del vento,
e dice: «Abbiti pur, perverso stuolo,
materia altra di pena e di tormento,
ché, ben ch’altri lavasse il corpo esangue,
è mia pur questa e battezzata in sangue.
33Onde soletta non sol, non sol gradita
ma di martirio incoronata meco
viensene a goder lieta eterna vita;
voi ritornate al chiuso abisso e cieco».
E poi ch’èS | ch’è la bell’alma al Ciel salita,
la sua spoglia mortal, che visse seco,
riman composta in sì soave forma
che può parer che dolcemente dorma.
34Con pietà, con dolor, con meraviglia
la turba intorno al muto corpo resta,
traendo umor per le dolenti ciglia
dalla pallida al sen dimessa testa.
Chi la pira e chi l’urna e chi si piglia
cura d’apparecchiar pompa funesta.
Spargon mill’occhi e mille petti intanto
di sospiri un incendio, un mar di pianto,
Eraclio tiene un breve discorso funebre, assegna Silvano come nuovo capitano della schiera (35-42)
35quando Cesere arriva, e tra le schiere
dove ’l lutto funebre amaro suono
suonan rauche le trombe e le bandiere
giaccion rotte nel suol, così ragiona:
«Compagni, è ver che ’l signor vostro père
sul più bel dell’impresa e ci abbandona,
né già vogl’io che vi si volga in tutto
per sì giusta cagion sì degno lutto.
36Ma temprar si convien, ch’arrestar morte
d’un sol passo non vale un mar di pianto.
Quel suo piè, che non torna in pari sorte,
noi seco mena e tutto il mondo intanto:
de i pastor le capanne e l’alte porte
de i re percote, e non si può dar vanto
vita mortal che non la giunga e prema
l’irreparabil fin dell’ora estrema.
37Temperate il dolor, ché se vi duole
che vi lasci morendo ’l signor vostro,
ei più vivo che mai fin sopra ’l sole
levato s’è da questo oscuro chiostro.
Morti siam noi, ché in questa fragil mole
non è altro che morte il viver nostro,
cui rode il tempo e non è giorno od ora
ch’a poco a poco ogni mortal non mora.
38È la vita mortal torbido mare
la cui riva talor tranquilla piace
ma, contrario nell’alto a quel ch’appare,
giammai non trova alle tempeste pace.
Corre misero l’uom quest’onde amare
dove è porto il morir, ch’a lui dispiace,
perch’ei non uso a più sereno stato
degl’affanni si pasce a pianger nato.
39Questo dì del morir, che quasi estremo
della vita s’aborre, è sol confine
tra gl’affanni mondani e ’l ben supremo
della felicità che non ha fine.
Questo lume del sole è fosco, è scemo,
questo prato del mondo è pien di spine,
e non è altro a chi ben visse morte
ch’un passar sospirando a miglior sorte.
40Ma se vi duol che l’onorata destra
che vi resse fin qui deponga ’l freno,
altra darovvene io proda e maestra
di quella sua che vi guidò non meno.
Silvano, a cui ciascuna sorte è destra,
tanto ha pien di saper la lingua e ’l seno,
ei reggeravvi, e più sicura guida
ramar non puossi o compagnia più fida».
41A tai parole il fiero stuol s’acqueta,
che ’l canuto Silvan n’abbia la cura,
et ei con fronte in un severa e lieta
provede al tutto e ’l tutto intende e cura.
Premi e pene comparte, alletta e vieta
or con placida vista or con oscura,
muta i gradi e gl’onor cangia e gl’uffici,
duro a i protervi e placido a gl’amici.
42Così talor su repugnante dorso
d’indomito destrier cozzone asceso,
stringel con duro e dispiacevol morso
mentr’ei si scaglia al precipizio inteso,
e s’ei fatto restio s’arretra al corso
gl’ha tosto il sen d’acuto sprone offeso,
e con la man che i suoi furor governa
or le carezze, or le percosse alterna.
Fa seppellire i morti e libera un figlio di Sarbarasso fatto prigione durante la battaglia (35-49,2)
43Ma volto Augusto all’altre cure intanto,
pria che l’alba novella il dì riporti,
sepellir fa senza querele o pianto
con pietoso silenzio i guerrier morti.
E, liberal del meritato vanto,
porge a i feriti suoi dolce conforti,
che vaglion più che licor molle od erba
contra ’l dolor d’ogni percossa acerba.
44Curate indi le piaghe e sepelliti
tacitamente i cavalieri estinti,
perch’a prender baldanza non aiti
con la vittoria sanguinosa i vinti,
le prede accolte e i prigionieri uniti
di catene servili al tergo avvinti
all’esercito suo dona e comparte,
soavi frutti dell’acerbo Marte.
45E fra gl’altri prigioni un giovanetto
scorgendo Eraclio alle maniere, al gesto
di chiara stirpe, et all’esangue aspetto
più pietoso a veder quanto più onesto,
chi sia dimanda, et ei dal molle petto
sollevò lagrimando il viso mesto,
e nell’imperador le luci affisse,
belle ancor nel dolore, e così disse:
46«Un misero son io che dianzi fui
pria che scoppiasse a mia sventura il fato,
figlio di Sarbarasso, e fui da lui
mentr’ebbe vita, oltr’ogni stima amato.
Or m’ha spinta mia stella in forza altrui
e volgendomi in tristo il lieto stato
m’ha tolto padre e libertade, e questa
catena sola è quel che più mi resta.
47Tu, genitor, se ti fu caro mai
debito onor di figlio e se natura
conosci, a me negar già non devrai
pietade a me, che sol d’usar ho cura.
Terra è fatto il mio padre et altro omai
non vi resta per lui che sepoltura:
concedi tu ch’io ministrar la possa,
né voler empio incrudelir nell’ossa».
48E qui si tacque, e con due rivi il volto
tutto bagnò di liquefatti argenti,
come adacquasse fior non ancor colto
che languir fanno i maggior soli ardenti,
onde pietosamente a lui rivolto
disse l’imperador: «Tempra i lamenti,
ché già non fia che con sì caldi preghi
sì pietosa dimanda a te si neghi.
49E col busto paterno ancor ti dono
la libertà; tu dove vuoi nel porta».
Le catene al fanciul disciolte sono,Il figlio di Sarbarasso recupera il corpo del padre (49,3-51)
onde ’l grave dolor si riconforta,
e, sue grazie rendute a tanto dono,
muovesi a ricercar la gente morta,
e l’ampio orror della funebre arena
di cadaveri sparsa alquanto il frena.
50Pur segue, e là tra membra tronche e peste
raffigura il gran busto; ancor la mano
la spada stringe, e dal fulgor celeste
segnato è d’ombra al molto spazio il piano.
Ma né fiamma né ciel par che l’arreste,
morto minaccia ancor l’empio pagano,
sembra ch’ad or ad or si rizzi e fèra,
né per morte sembianza appar men fera.
51Sopra gl’omeri propri il figlio prende
l’onorato del padre e caro peso,
e con esso anelante il collo ascende
che l’avanzo de’ suoi tenea difeso,
per fin ch’ei giunge alle pagane tende
doppo molte framesse al sommo asceso,
là dove ei fu senza contrasto ammesso
dentro a i ripari e ’l morto corpo anch’esso.
Eraclio stringe d’assedio gli avanzi del campo di Sarbarasso (52)
52In tanto Eraclio in sulla cima al colle
là dove i fugitivi avea ristretti,
con l’assedio consuma e i passi tolle
e fa di cibo sofferir difetti.
E così render crede al fin più molle
l’ostinazion de gl’indurati petti,
e chi senza travaglio o rischio alcuno
quanto al ferro avanzò, spenga il digiuno.
Cosdra alla notizia della sconfitta muove il campo verso ciò che resta dell’esercito di Sarbarasso: Alvida ne gioisce perché potrà rivedere Calisiro (53-60)
53Ma Cosdra, all’arrivar l’aspra novella
della sconfittaS | sconatta del suo campo avuta,
della sua guardia ogni bandiera appella
e le frondi e gl’odor tosto rifiuta,
e qual folgore ardendo asceso in sella
rinvigorì la ferocia perduta,
e già da gl’anni il suo temprato ingegno
rincrudelissi e fiammeggiò di sdegno.
54Così talor s’intepidito resta
tra le ceneri omai pallide e spente
carbon sopito, e nuovo fiato il desta
lo smarrito calor torna repente,
e rotta e sparsa la sua morta vesta
vivo e nudo fiammeggia all’aura algente,
e mischiati co i venti incendi mille
sparge i campi del ciel d’alte faville.
55L’adirato signor da quei contorni
muove lo stuol senza dimora alcuna,
per soccorrere a’ suoi pria che ritorni
il sol co i raggi a impallidir la luna.
Rimuggiscon le valli al suon de’ corni
e la polvere densa il cielo imbruna,
mentre il re d’Oriente un campo guida
che l’altro aiti, e ne gioisce Alvida.
56Gode la giovanetta al padre a canto,
per lui non già che vincitor lo speri,
ma sol per sé, ché s’avvicina intanto
all’amata cagion de’ suoi pensieri.
Ma veste ben sotto contrario manto
della sua passion gl’affetti veri,
che ’l sembiante falseggia e mostra segno
che sia ’l foco d’amor foco di sdegno.
57E nel cor sì ragiona: – Io vengo a voi,
che non pur saettate usberghi e scudi,
belle squadre romane acerbe a noi,
ma che i miseri cuor ferite ignudi.
Ben sa chi ’l prova, e ben soll’io dapoi
che due lumi d’amor soavi e crudi
la piega fèr che me tormenta e piace,
e ne bramo vendetta e chieggio pace.
58Chieggio pace al nemico e guerra porto,
m’accingo all’armi e non vo’ far difesa,
prendo a vincer colui che m’ha già morto,
cerco far mio prigion chi mi tien presa,
combatto seco e vo’ da lui conforto,
salute bramo e vo’ portargli offesa.
O confuse mie voglie, o desir miei
ch’io medesma non so quel ch’io vorrei!
59Se vince il padre, o Calisir, tu resti
d’Alvida in forza; allor parrà s’io t’ami:
discioglierò que’ lacci tuoi molesti,
fuggirò teco ovunque amor ne chiami.
E se vince il tuo campo e perdon questi
oh mio caro servir, dolci legami,
purché l’uno de’ due mi si conceda
beata sono, o predatrice o preda.
60Benché preda più certa, e sallo amore,
e sallo ognun che in sua balia si rende,
esser non può chi t’ha già dato il core
e di se stessa più cura non prende.
Tragge del proprio sen l’anima fuore
l’amoroso desio che in lei s’appende,
e la traporta dal suo proprio loco
nella cagion per cui s’accese il foco -.
Cosdra raggiunge l’accampamento rincuora i superstiti e tiene un’orazione funebre per Sarbarasso (61-73)
61Or così mentre in amorosi accenti
parlando ella tra sé sola s’udiva,
il re suo padre alle racchiuse genti
soccorritor con le sue squadre arriva,
e già gl’animi lor sopiti e spenti
con le speranze suscitando avviva;
e muovon essi un salutevol grido,
conosciuto il lor re dal chiuso lido.
62Così talor nell’imbrunir la sera
chiusa rondine fuor da i figli amati,
poi che s’apre il balcon, ché l’ombra nera
più difender non vuol da i raggi aurati,
desiosa corr’ella alla sua schiera
e l’applaudon con l’ali i dolci nati,
ciascuno stride e per la voglia stende
fuor del nido se stesso e l’esca prende.
63Cesere, che s’accorge al campo perso
venir lo stuol soccorritore ardito,
e muovere vede il luminoso e terso
acciar da lungi e lampeggiarne il lito,
pon freno a’ suoi, che già moveansi inverso
quel re che mena il nuovo campo unito,
ch’ei non si vuol tra due nemici esporre
e dubia pugna e svantaggiosa tòrre.
64Dell’audaci lor voglie il fren ritira
riserbandole al tempo, e tutto intende
a spiar de’ nemici e ben rimira
le nuove forze e quasi in lance appende.
Per lo largo del pian suo campo gira
con pensier nuovo, e ’l suo primier sospende,
et è ’l nuovo pensier lento a ritrarsi
a miglior sito e in sicurtà fermarsi.
65Onde senza contesa il re feroce
con trenta mila cavalieri eletti
viensene speditissimo e veloce
a color che sul monte eran ristretti,
e con l’altiera et animosa voce
svegliando i cuori e rinfiammando i petti
gli riconforta, e risolleva e sprona
virtù che langue, e lor così ragiona:
66«Valorosi guerrier, che meco insieme
domar dianzi col ferro Europa ardiste,
e per li monti e per lo mar che freme
tra gli scogli e tra ’l giel la via v’apriste,
qual di nuovo timor malvagio seme
par che ’l vostro valor turbi e contriste?
Qual nebbia oscura o qual contrario vento
v’inaridisce il solito ardimento?
67Su, riprendete ardir; qual oro suole
più nel foco s’affini il valor vostro:
durate amici, e quel che più ci duole
gioverà ricordando al gaudio nostro.
Tal doppo l’ombra assai più bello il sole
e doppo orrido verno april n’è mostro.
Sol per gli affanni e la quiete cara
e sol pensando a ben goder s’impara.
68Or vengh’io vosco e la fortuna meco
e la vittoria al campo mio rimeno,
l’usate palme in questa man v’arreco,
voi l’usato valor destate al seno.
Ecco ch’al venir mio Cesere e seco
tutto ’l campo de’ suoi sgombra il terreno;
ma fugga pur, che non fia sdegno a nui
men caldo spron che la paura a lui».
69E qui si tacque, e ristorato intanto
le sue squadre al suo dir prendon conforto,
come all’aure d’april sereno il manto
riveste il ciel già scolorato e smorto.
Al fin s’invia dove tra faci e pianto
rendon gl’ultimi onori al duce morto,
e del feretro alla dolente sponda
con gl’occhi il figlio i piè paterni inonda.
70Pendon, mesti trofei, l’armi e le spoglie,
e su gl’omeri degni e ’l gran feretro
onoranza di morte e d’aspre doglie
funebre suona e lagrimoso metro.
Delle sue prove intorno a lui s’accoglie
a somma espressa; e stan rivolti indietro
con le fiaccole i paggi, ardono accensi
aloe, mirra et odorati incensi.
71Come ’l re s’avvicina i rauchi accenti
la turba accresce e ’l mesto suon rinforza,
et ei mira e non parla, e i suoi lamenti
virtù maggior nel forte petto ammorza.
Ma poi ch’alquanto a mirar gl’occhi intenti
del duce ei tenne alla gelata scorza,
doglioso e mesto a’ suoi pensier si tolse
e in sì fatto parlar la lingua sciolse:
72«Valoroso mio duce in vita e in morte,
ben tu la via di guerreggiar m’insegni,
e quantunque a virtù manchi la sorte
però non rendi i pregi tuoi men degni.
Glorioso tu muori, e che più forte
non fu né sia son manifesti i segni,
ché poi che ’l mondo incontro a te non vale
ti fu d’uopo a morir forza immortale.
73Tu d’uopo a Giove il fulminarti è certo
d’avversario minor degno non eri,
né trovar potea mai segno più certo
la possente sua destra a i colpi feri.
Vivesti invitto, e non fu mai di merto
e mai non fia chi d’aguagliar ti speri.
Moristi poscia, e del morir che tanto
non cape a ’l mondo, al Ciel s’ascrive ’l vanto».