ARGOMENTO
Di bella donna un volto onesto e lieto
prende l’Inganno, e se ne va con esso
di mezza notte ad allettar Niceto,
ch’era in disparte in picciolo recesso;
ma facendoli il santo aspro divieto
sparisce, e torna in nuova forma appresso,
e conducelo al fin dove l’imbarca
d’orribil fiume in perigliosa barca.
L’Inganno si muta in bella donna: convince Niceto ad aprirgli l’uscio del suo eremo (1-25)
1Ma lo spirito immondo a cui commise
il tenebroso re l’inique frodi,
poi che ’l sacro ministro il tauro uccise
e ’l barbarico stuol raccese a gl’odi,
per Niceto ingannar ben mille guise
ripensa e mille insidiosi modi;
arte non è ch’ei non misuri e libri
col fero ingegno e non rivolga e cribri.
2Tra sé dice: – Ei, benché gran tempo usata
a gl’assalti infernali alma possente,
può pur anco cader finché gravata
dal suo peso terren qua giù si sente,
ché ben anco talor cadde schiantata
dallo spirar dell’Aquilone algente
quercia che stabilì l’orrido stelo
cent’anni e cento al contrastar del Cielo.
3Io mi muovrò con le più belle forme
che piacevol natura i sensi alletti,
ché se per lunga età lascivia dorme
non muor però ne gl’aggiacciati petti,
ma vieS | v’è più tenterò voglia conforme
a gl’anni suoi con più possenti oggetti.
Raro è quel cor che sia di carne e loro
resister possa, ambizione et oro.
4Ma quando pur la sua virtù sia tale,
mercé di Lui che sulle stelle impera,
ch’ei non s’arrenda e non consenta al male
ma rimanga a gl’error l’anima intera,
rivolgerommi al corpo suo mortale
e farò sì ch’ei si dissolva e pèra,
e così almeno il suo favor presente
torrò per morte alla cristiana gente -.
5Ciò rivolto tra sé, ratto s’accinge
a tanta preda e d’aer vano accolto,
giovane sì gentil, sì bella finge
che non simiglia a mortal cosa il volto.
Di neve e rose il bel color dipinge
e per formar due vaghe luci ha tolto
al sol più bello e più sereno il raggio
tra ’l fin d’aprile e ’l cominciar di maggio.
6La chioma sua, di sottil oro e lieve
che rassembra filato in Paradiso,
con un vago ondeggiar sopra la neve
fa celeste diadema a sì bel viso.
Apron perle e rubini adito breve
all’aure dolci, al lampeggiar del riso;
quindi amor prende e leggiadria e virtude,
stanvi le grazie ad abbracciarsi ignude.
7Ritondeggia il bel collo e sopra il petto
s’unisce sì che non sai come o dove
che questo è come quel d’avorio schietto
benché sol questo palpitando muove.
E fa dell’uno e l’altro suo poggetto
le neve intumidir tepide e nuove,
ch’a gran torto ristrette ad ora ad ora
spingon la vista invidiosa infuora.
8La bella man, ch’ogn’alabastro eccede
e d’Amor l’arco inevitabil tende,
spesso alle cure sue muover si vede
e spesso al fianco abbandonata pende.
Dalle spere immortali il picciol piede
a qualunque suo passo il moto prende,
d’angelo gl’atti son, d’angelo i gesti
e le parole angeliche e celesti.
9Nasconde poi la singolar bellezza
sotto un manto di cenere al colore,
e così chiude in disprezzata asprezza
le delizie elettissime d’amore.
Ma quanto ella più sé disorna e sprezza
la sua beltà più si dimostra fuore,
come fa comparir quanto più cela
l’ombra il color sulla dipinta tela.
10Così, più bel quant’egli è meno adorno,
l’iniquo spirto alle sue frodi aspetta,
non pur che muoia in Occidente il giorno,
che già cader nell’ocean s’affretta,
ma che s’innalzi dalla terra intorno
tacita l’ombra e ’l mondo in pace metta.
Et ecco omai ch’alla sorella cede
fuggendo il sol con l’indorato piede.
11Seco parte la luce, il ciel si volve,
e i lor propri color perdon le cose,
ché la notte che vien tutte l’involve
nelle tenebre sue con l’ali ombrose,
e le cure mortali il sonno solve
che ’l dì serra ne’ cuori aspre e noiose,
e gl’animali alle fatiche tolti
riposan tutti in dolce oblio sepolti.
12Ma Niceto non già, ché con la mente
bench’ogn’altro mortale il sonnoS | sono affrene,
mai sempre desta al sommo Sol presente,
fruisce il ben dell’infinito bene,
e le luci del cor fissando intente
quelle del corpo suo sì ferme tiene
che lo spirito fuor delle sue membra
e prima che morir morto rassembra.
13Sul medesimo colle ove le schiere
del campo pio l’imperadore attenda,
sorgea di querce e d’elci antique e nere
picciola sì ma folta selva orrenda,
che volgendosi il sol non ha potere
che l’illumini pur non che l’offenda
sì spessa et alta è la sua fronda e l’ombra
sì cieca et atra ogni sua parte ingombra.
14Or qui Niceto in solitaria cella
fattosi abitator dell’erme piante,
la notte e ’l dì col Re del Ciel favella,
solo e pensoso e riamato amante;
né pur giammai, tant’è ’l piacer, da quella
salvatica magion torce le piante,
se non se Eraclio da’ frondosi rami
per servigio del campo lo richiami.
15La sentinella che le tende guarda
e dal periglio ha il titolo di morta,
a ciascun’ora o matutina o tarda
non men ch’all’oste al buon Niceto è scorta,
e pur la bella imagine bugiarda
come dovea non fu sentita o scorta,
ché ’l mentitor con gl’artifici sui
comparir falla e quando vuol e a cui.
16Del buon Niceto alla romita cella
giunge, e percote al picciol uscio, e poi
con fioca e pietosissima favella
così fa risonar gl’accenti suoi:
«Per farmi al Re del Ciel devota ancella
vengh’io, maestro, a questi alberghi tuoi,
a te straziata e minacciata arriva
sconosciuta regina e fugitiva».
17Ciò sentendo Niceto e l’uscio aprendo,
tosto che i lumi al bel sembiante affisse,
di se stesso fidar non si volendo,
benché in debile età, «Vattene» disse,
e ’l suo picciol tugurio indi chiudendo
prima che replicar la donna udisse.
Lei non vuol seco e non si tien sicuro
ben ancor là nel ben serrato muro.
18Ond’ella allor ricominciando i preghi
misti con le querele e co i lamenti,
«Chi m’userà pietà se tu la nieghi,»
dice, «e crudele a danno mio diventi?
Chi spererò ch’al mio pregar si pieghi?
Forse per questi boschi orsi e serpenti
se non muove ancor te lo strazio mio,
te, mansueto imitator di Dio?
19Chi mi conserverà (vergine io sono)
la mia verginità se tu la lassi,
misera, a mezza notte in abbandono,
esposta preda a ciaschedun che passi?
Come farò per conservar tal dono?
Volgerò forse al vicin campo i passi,
dove non mancherà chi mi raccoglia
e ciò che dar non mi si può mi toglia?».
20E seguitò con sì vivaci note
a pregar lui la vergine dolente
ch’avria spezzato una caucasea cote
e mosso al pianto un orrido serpente.
Ma però tanto adoperar non puote
ch’arrender faccia la severa mente,
ond’ella allor nuov’argomento prova
poi che ’l pregare e ’l lamentar non giova.
21De gli spiriti rei ch’ell’have appresso
senz’esser visti, a i più feroci impera
che d’aer tinto un nembo oscuro e spesso
stringan d’intorno all’alta selva e nera.
Et ecco il ciel d’orribil macchie impresso
grandine versa impetuosa e fiera,
tuonan le nubi e son da loro addotte
ombre sopr’ombre e sopra notte notte.
22Allor grid’ella, e con amare strida,
ripercotendo alla contesa porta:
«Vorrai dunque» dicea «che qui m’uccida
tempesta ohimè ch’impetuosa è sorta?
Vorrai dunque di me farti omicida,
ch’io per tua crudeltà rimanga morta,
misera verginella a cui disdetto
avrai (ch’altro non chieggio) ombra di tetto?».
23Ciò sentendo Niceto e del periglio
accorto a pien che la donzella corre,
mosso da carità cangia consiglio
e prontamente al gran bisogno occorre,
e rimettendo il periglioso esiglio
lassale il piè nella sua cella porre,
ond’ella passa e si conforta intanto
umida e grandinosa il crine e ’l manto.
24Potea forse parer candida aurora
stillar d’intorno il matutino gielo,
se non che troppo anticipata è l’ora
che torni l’alba a render lume al cielo.
Et ella, pur sì come a gelid’ora
fronda che tremi sul nativo stelo,
avvicinasi al foco e scalda e toglie
l’umido giel dalle bagnate spoglie.
25E così mentre ella s’asciuga, a lei
dimanda il santo: «Or fa che meglio intenda
come tu qui di mezza notte sei
così soletta e qual dolor t’offenda».
Et ella allor, da poi che quattro e sei
volte il pianto asciugò candida benda,
belli e pietosi a meraviglia affisse
nel buon Niceto i dolci lumi e disse:
Gli racconta una falsa storia sul suo passato e gli chiede di poter albergare con lui: Niceto rifiuta (25-44)
26«Ippomena son io, che fui figliuola
del re de’ Parti, e mi perviene il regno
ché legittima a lui rimasa sola
er’io del genitor l’unico pegno;
ma prima il padre a me la morte invola
e interrompe il suo giusto e mio disegno,
che fuss’io da marito e che potessi
prendermi in dote i debiti possessi.
27Lasciommi et ordinò con nodo forte
d’ultima volontà che quando io sia
pervenuta all’età degno consorte
di propria elezione a me si dia.
Ciascun ministro della regia corte
me disporre a suo pro studia e desia,
chi per proprio figliuol, chi per nepote:
l’avidità del regno in tutti puote.
28Ma io, che nel cor tacita nutriva
un desio fermo alla cristiana sede,
e sol penso tra me come s’ascriva
al mio bel regno alcun cristiano erede,
non curava gl’uffici e non udiva
ciò che da lor mi si propone e chiede,
ma sol rivolsi ogni mio pronto affetto
verso un nobil garzon, Tebaldo detto.
29Questi nacque in Europa e fu figliuolo
del re di Missia, a cui da gl’empi Daci
fu morto il padre e la sua reggia al suolo
tratta per man de gl’avversari audaci.
Così, rimaso abbandonato e solo,
doppo mille accidenti aspri e penaci
lo venderon gl’Egizi al re mio padre
che ’l diè per paggio a Pasitea mia madre.
30Il giovanetto a manifesti segni
crescendo gl’anni assai mostrò qual era,
ad onta pur di tutti quanti i sdegni
della fortuna ingiuriosa e fera.
Sublime andò fra i pellegrini ingegni,
bel fu d’aspetto e di gentil maniera,
cortese in sommo, assai d’onor gli calse,
favellò dolce e molto in arme valse.
31E però che cristiano era Tebaldo,
come io volea che mio marito fosse,
con difesa minor d’onesto caldo
a legittimo fine amor mi colse,
et ei non men con fermo nodo e saldo
perso dall’amor mio mai non si mosse,
quantunque a mille insidiose morti
conosca ei ben che ’l nostro foco il porti.
32Come la turba di color, che intenti
sono a voler la mia corona in dote,
veggon del nostro amor faville ardenti,
cui del tutto coprir l’arte non puote,
minaccian lui, fan sollevar le genti,
e mormorar sediziose note,
ché non vogliono i popoli alla sede
reale un pover’uom d’estrania fede.
33Ciò sentendo Tebaldo indi si parte,
per acquistar se può stato e tesoro,
e d’una in altra peregrina parte
più e più mesi i suoi viaggi foro,
fin ch’un uom ritrovò che sopra l’arte
di convertir gl’altri metalli in oro
fece sì che tanto amor li prese
che ’l secreto da lui Tebaldo apprese.
34E tornavane omai ricco non pure
ma portando dell’oro il fonte seco,
per conseguir con l’alte due venture
me per isposa e ’l mio bel regno meco,
ma sopragiunto in certe selve oscure
da nemici nascosi all’aer cieco,
fu ’l mio caro consorte all’improviso
miseramente a tradigione ucciso.
35Ma pur anco poteo, pria che dal petto
lacero e freddo il nudo spirto uscisse,
mandar a me per un fedel valletto
la novella crudel, che mi trafisse;
e ’l gran secreto in brevi note stretto
col proprio sangue in sul morir mi scrisse,
note che da me sola erano intese;
indi al sommo Fattor l’anima rese.
36Et io tanto martir della sua morte,
tanta disperazion m’oppresse il core
ch’io dissi apertamente: – Altro consorte
non vorrò mai, poiché Tebaldo muore -;
onde i ministri della regia corte
tratti però dalle speranze fuore,
cominciaro a pensar senza rispetto
quel per forza a voler ch’è lor disdetto.
37E fra tutti Aragazze il più possente,
delle miglior fortezze impadronito,
e della maggior parte della gente
del regno mio contra di me seguito,
dice che vuolmi imperiosamente
per amor o per forza esser marito,
e ’l suo finto pretesto è ch’ei non vuole
che regni alcun che non adori il Sole.
38E ch’io manifestata a mille segni
e di fede e d’amor m’era cristiana,
crescono di dì in dì l’ire e gli sdegni
contra di me della sua rabbia insana,
onde non potend’io gli strazi indegni
soffrir di sua ferocità villana,
al fin deliberai dal caro nido
partir con un drapello amico e fido.
39Il che sentendo a seguitar si mosse
l’empio, di servidor fatto nemico,
e la mia gente inferior di posse
raggiunse e strinse a duro varco oblico.
Fe’ del sangue de’ miei le piagge rosse
e tutto estinse il fido stuolo amico:
così avesse di me fatto il medesmo!,
e ’l facea ben s’avuto avea battesmo.
40Ma temend’io che non lavat’ancora
dal fonte salutar l’anima gisse,
nell’eterno pallor sempre ch’allora
della fragile sua prigione uscisse,
mi misi in fuga, e creder vo’ che fuora
del pericolo a trarmi Angel venisse,
e m’abbia poi custodita, ch’io
mi sia condotta ad uom sì santo e pio.
41E null’altro da te, Niceto, io bramo.
se non che per pietà mi purghi e scioglia
di quella infezion che prima Adamo
venne a contrar per troppo lieve voglia,
e se l’esca veggendo aborrì l’amo,
né mi vuoi tu fra questa angusta soglia,
prego a pensar ciò che saria di nui
capitando per sorte in mano altrui.
42Non mi scacciar se non m’alloghi pria
dove ’l fior verginal non mi sia colto,
benché prima vorrò che questo sia
morte soffrir, che fia più cara molto,
o, ingiuriosa alla bellezza mia,
stracciar le carni e lacerarmi il volto.
Rovinosa beltà, beltà nociva
ben chi ti brama è d’ogni senno priva.
43Non mi scacciar, ben digiunare anch’io
potrò qui teco, e trar le notti desta,
e porger preghi e cantar salmi a Dio
per questa solitaria erma foresta.
E per non cagionar sospetto rio
mi spoglierò questa feminea vesta,
e prendendom’anch’io rozza et irsuta
sarò poi teco un romitel creduta.
44E la tua grave e faticosa etade
servigio avrà da questa mano ancora,
tu a me del Cielo additerai le strade,
serva io sarotti obediente ognora».
E qui tace la lingua e la beltade
spira in sua vece i muti sensi fuora.
Tace ella e ’l mira, e si rasciuga il pianto,
e le risponde in tai parole il santo:
Gli offre il segreto della pietra filosofale e, nel farlo, cerca di sedurlo (45-50)
45«Consolatevi in Dio s’altri vi toglie,
giovanetta gentil, consorte e stato,
ch’esser non può chi sua pietade accoglie
nella calamità se non beato.
Et io ben queterò le vostre voglie
dello spargere in voi fonte sacrato,
ma quelle no dell’abitar qui meco,
ché l’umano senso è fragil troppo e cieco.
46Di monacelle in un devoto chiostro
ben vi ricovrerò, datevi pace,
dove sposa di Cristo il viver vostro
passerete contenta» e qui si tace.
Et ella umilementeS | umilmente: «Il voler nostro
da voi pur prenda, e sia quel ch’a voi piace,
ma ben pria che mi serri il sacro soglio
il secreto dell’or donar vi voglio,
47ché s’egli è ver ciò che da i saggi è detto,
che il tesor della guerra il nervo sia,
e voi però già d’uno in altro tetto
ne ricercaste per sì lunga via,
caro esser de’ che ’l prezioso effetto
si spenda in pro della milizia pia,
e forse acciò che in benefizio venga
del vostro campo il Cielo a me l’insegna».
48Quindi si pon la bianca mano al seno
che tenea chiuso il sottil manto e lieve,
e quinci e quindi un candido baleno
movea la neve in ritentar la neve.
Cerch’ella pur dove i secreti sieno,
e mostra quei che più nasconder deve,
e fa veder che mal si sciolga il nastro
da cui s’allaccia il tiepido alabastro.
49Quindi al lume s’appressa e con la mano
per entro a i pomi rotondetti e cari
s’aita pur, ma li ritratta in vano
come che sian di quel cercar avari,
onde perché s’accenda a mano a mano
de’ suoi disdegni dolcemente amari,
e che tacitamente il santo inviti
ch’a toccar venga e ricercar l’aiti.
50E doppo questo, asserenando il viso,
quasi al partir di bianca nube il sole,
come un guardo tranquillo e con un riso
là dove Amor par che s’aggiri e vole,
porge al santo un vasel, c’han fuori inciso
quel ch’ei dentro contien brevi parole,
nel vasel d’or che del bel petto elice
Filosofica pietra il motto dice.
Si ferma per la notte e cerca in ogni modo di sedurlo (51-55)
51Niceto il prende e la donzella a pieno
dimostra a lui com’adoprarlo ei deggia,
ma perché ’l giorno ancor dell’onde in seno
segno non dà che comparir si veggia,
né ben anco è tornato il ciel sereno
che di nembi ingombrò l’orrenda greggia,
ad aspettar la nuova luce intanto
stansi la bella pellegrina e ’l santo.
52Dov’ella poi col dolce sguardo onesto
con mentito rigor preme et affrena,
a fermarsi pietoso e muover presto
sì che ’l foco d’amor quindi balena,
e col parlar ch’ogni pensier molesto
frange soavemente e rasserena,
che non fa, che non tenta e che non dice
lusinghiera amorosa allettatrice?
53Del letticciuolo in sua la sponda manca
talor del sonno a ricercar s’asside,
né mai posar sì dolcemente stanza
sott’ombra a mezzo dì ninfa si vide.
Svegliarsi infinge e la man bella e bianca
stende, e tocca Niceto, e poi sorride,
quasi ella allor dell’error suo si faccia
accorta sì, ma l’error suo le piaccia.
54Talora (e par ch’ad altra cura intenda
col fianco il preme o ’l piè col piè percote,
talor (quasi non l’oda o non l’intenda)
giunge il bel viso alle lanose gote,
e talor, quasi al crin festuca penda,
benché nulla vi sia nulla ne scote.
E quei pur sempre immobile e sicuro
sembra all’onde uno scoglio, a i venti un muro.
55E se talor il compiacevol senso
alcun diletto allettator gli porge,
lo schiva il cor, che d’amor puro accenso
segue ragion ch’al vero ben lo scorge.
E quasi fumo d’odorato incenso,
tra i pensier casti al Ciel s’innalza e sorge,
dove acceso di Dio mortal bellezza
non gradisce, non ama e non apprezza.
All’alba Niceto va dall’alchimista Melchiorre, con la polvere del demone riescono a creare dell’oro (56-65)
56Al fin sorgendo i matutini albori
che rimenano in ciel l’alba novella,
dell’azzurro ocean lucida fuori
uscia, lume d’amor, l’ultima stella,
che, nell’onde levataS | laveta, i suoi splendori
folgorando rotava ardente e bella,
e già fuggia con le percosse e rotte
ombre dal nuovo dì l’ultima notte.
57Onde Niceto con la luce nuova
verso il cristiano esercito s’invia,
per far dell’auro l’ammirabil prova
a comun pro della milizia pia.
Vassene al padiglion, dove ritrova
Melchiorre, isolan di Nicosia,
che, vecchio e magro, alla fucina inteso
ben dieci lustri inutilmente ha speso.
58Costui sentendo a che venìa Niceto
tra sé sorrise, e poi così li disse:
«Scontento vissi e morrei pago e lieto
se l’alta operazion mi riuscisse.
Troppo, ahi troppo è nascoso il gran secreto,
come ’l Mercurio instabile s’affisse;
e l’arte è questa in cui qualunque splende
studio et opra maggior manco l’intende.
59L’avara turba alla fucina ardente
più dal desio che dal consiglio mossa,
la fronte inchina a ritentar sovente
se quanto opra natura il foco possa,
e sol ne trae dalle faville spente
sparsa la faccia e vergognosa e rossa,
né cessa mai, ché sempre viva avanza
tra le ceneri morte la speranza.
60Ond’io, benché per me tempo perduto
creda il tentar le meraviglie nuove,
poi che per questo sol sei qui venuto
e forse Dio così t’ispira e muove,
di ripormi all’impresa io non rifiuto
delle mai fino a qui non viste prove»,
e prontamente apparecchiò ben quanto
detto gl’avea che bisognava il santo.
61Pres’egli un vaso di tenace limo
ch’a gl’assalti del foco non s’arrende,
e l’appose al carbon, che ’l color primo
ch’egli estinto perdeo vivo riprende.
Indi col fiato impetuoso et imo
del ben premuto mantice l’accende,
e l’acceso fervor bagnando ammorza
che rintuzzato più prende più forza.
62Or così mentre il vivo incendio bolle
e ’l vaso è già del suo calor fervente,
ecco Melchior che ’l fugitivo e molle
mercurio ponvi e ’l vivo zolfo ardente.
L’un s’infiamma di lor, l’altro s’estolle,
ché dall’incendio ingiuriar si sente;
tempra il mantice il fabbro acciò più lento
renda al partirsi il fugitivo argento.
63E ’l duro stil con la maestra mano
nel vaso avvolge a mescolar distrutti
que’ due metalli, e poi ch’alquanto in vano
provò, ché contro al’un l’altro non lutti,
rivolgendosi al santo a mano a mano
«Vedrem» dic’ei «ciò che ’l tuo seme frutti»,
e dell’aureo vasel la nera polve
nell’immista mistura infonde e volve.
64Et ecco fuor se ne solleva e ride
di purpureo color viva fiammella,
che a poco a poco variar si vide
e poi d’oro apparir lucente e bella.
Melchiorre allora all’apparenze fide
«Ecco,» gridò, lietissimo in favella,
«Ecco abbiam l’oro, i certi segni io veggio;
l’arte è pur nuova, io più non bramo o chieggio».
65Versa in vaso di rame il liquid’oro,
l’asperge d’acqua e lo raffredda e indura,
né mai Pattolo od Ebro il suo tesoro
scoprì con vena sì lucente e pura.
Le squadre pie, che generarsi in loro
veggion ricchezze con sì lieve cura,
concorron tutte, e desioso e lieto
sol pende il campo in ammirar Niceto.
Niceto rifiuta ancora la donzella e scaccia l’Inganno (66-68)
66Ma quel si parte, e ’l debil passo affretta
quanto più può per ritrovar colei
che nel tugurio il suo ritorno aspetta,
e riferì, poi che fu giunto a lei,
che riuscita è l’opera perfetta,
«E però ’l campo et io con lui vorrei
polvere nuova o saper come o dove
altra se ne componga o si ritrove».
67Tace la giovanetta e si scolora
in un momento e si raccende in faccia,
e sospirando: «O mio Niceto, or ora
t’insegnerò come la polve io faccia.
Ma tu vorrai che di desio mi mora?»,
e stende in questo dir l’avide braccia,
e tutta un fuoco di lascivo affetto
cader si lascia e vuol trar lui sul letto.
68S’arretra il santo e in un momento acceso
tutto nel volto di severo sdegno,
piegossi irato al focolare e preso
con la rigida destra arsiccio legno,
quell’avventò nel reo demonio inteso
a far caderlo a lasciv’atto indegno,
e ’l mostro allor, che le sue finte larve
vide scoprirsi, infuriossi e sparve.
L’Inganno allora si traveste da Dio e attira Niceto su un’isoletta con il finto pretesto di fargli ritrovare la croce: quando è ormai in balia del fiume l’eremita scopre il demonio con un crocefisso (69-88)
69E invisibile poscia il petto fiede
e straccia il crin con l’una e l’altra mano,
né però stanco alla tartarea sede
vuol ei tornar senz’alcun frutto in vano.
E con fraude novelle al santo riede,
cangiando il feminile abito umano
nel più puro sembiante e più giocondo
che vagheggino i Cieli e brami ’l mondo.
70Né pur d’Angelo d’ombra, Angel di luce
permettendolo Dio si finge e mostra,
ma le sembianze sue tant’oltre adduce
che sembra il Re della stellante chiostra.
Né giammai così bello il sol riluce
quando torna a fiorir la terra nostra,
che non restasse in agguagliarsi seco
povero di splendor, di lume cieco.
71Raggi spira la fronte e ’l crin d’argento
ambo gl’omeri suoi sparge et inonda,
e la candida barba il petto e ’l mento
de’ suoi lucidi velli empie e circonda.
Forman d’Angeli un nembo almo concento
che gli son d’ogn’intorno argine e sponda,
e quai di loro al piè sgabello e quali
fan seggio al fianco e reggon lui su l’ali.
72Di tre angoli d’oro alto diadema
la fronte involve e l’una man sostenta
ceruleo globo, e ’n parte chiusa e scema
l’altra inalza tre dita e due n’allenta.
Azzurro è ’l manto e la sua parte estrema
terminando in un lume un sol diventa,
sol che sembra spirar d’un puro cielo
ciel c’ha di sole un luminoso velo.
73Cotal fintosi adunque, ove Niceto
omai declina a mezza notte il ciglio
ne va ’l demonio, e ’l picciol suo secreto
tugurio ingombra d’un balenar vermiglio.
Poi, soave in favella e ’n vista lieto,
cominciollo a chiamar: «Destati figlio,
a me riguarda, io dall’empireo vegno
a render te della mia vista degno.
74Non conoscimi tu, che son quell’io
che da tuoi membri affaticati e lassi
l’anima separando al regno mio
con estasi d’amor più volte trassi?
Son lo Dio di Israel, son lo tuo Dio,
che dal Ciel vengo a i luoghi oscuri e bassi
per consolarti e renderti mercede
dell’immutabil tua costanza e fede.
75Venne ier notte a far caderti accinto
in voglie avare, ambiziose, immonde,
spirto infernal che con aspetto finto
t’apparve, e ti tentò fra queste fronde,
ma però che da te scacciato e vinto
se ne scorna il malvagio e si confonde;
ragion è ben che tal vittoria ottegna
qualche mercede a i merti tuoi condegna,
76ché, ben che resti apparecchiata in cielo
sempre al bene oprar mercede eterna,
ancor quaggiù della pietà del zelo
dona el premio talor grazia superna.
Il sacrosanto glorioso stelo
traposto a torto in regione esterna
più in Seleucia non è là dove stima
l’imperadore ma in parte ascosa et ima.
77Quel tiranno crudel quindi l’ha tolto,
che già lo torse al popol mio di mano,
e tra l’umide arene l’ha sepolto
d’un rio che fende a voi non lungi il piano.
Or tu, che l’auro hai disprezzato e ’l volto
con cui t’assalse il fier demonio in vano,
prendi mercé ch’io ti riveli dove
l’arbore di salute si ritrove.
78Però vengo dal Ciel, muovi tu intanto
vèr la riva del Saro e passa l’acque,
ch’un Angel mio con la favella e l’atto
di pastor ti dirà quant’a me piacque.
Tutto quel ch’egli impon da te sia fatto,
credi, parti, ubbidisci», e sparve e tacque,
et ei stupido resta, e pensa intanto
pur breve spazio a che far deggia il santo.
79Ché gl’occhi avendo e più la mente avvezza,
tra verace splendor non sì distinte
queste imagini vede e di bellezza
non sì candida e pura adorne e cinte.
Ma come quei ch’ubidir solo apprezza
le sue dubitazion subito estinte,
soletto muove ov’ogni ciglio dorme
e ’l nodoso baston gli regge l’orme.
80Della picciola sua quasi spelunca
dov’ei la notte al chiuso vallo a canto
consuma orando e di sua man s’ingiunca
solitario ricovro, albergo santo,
pronto sol d’ubbidir gl’indugi trunca,
e là rivolge il debil passo il santo
dove il mostro infernal, che dalle tende
l’avea distolto, or sopra ’l rio l’attende,
81E caminando il vecchiarello al cielo
solleva in un con le parole il core,
e dice a Dio: «Deh, squarcia tu quel velo
ch’al mio corto veder produce errore,
e tu l’anima purga e nutri il zelo
ch’a te gradisce, e tu mantien l’amore
che legandone a te d’aurea catena
la creatura al Creator rimena».
82Così mentre ragiona e ’l piede affretta
spinto dal buon voler che l’avvalora,
suoi rossor matutini il ciel saetta
e le nubi di porpora colora,
e l’aura fresca il suol celeste netta
le vie purgando alla vegnente aurora,
et ecco un pastorel che di lontano
su per la riva a lui venìa pian piano.
83Brine e rose il bel volto, oro i capelli
e in dolce aspetto un rigor caro e franco,
e di puri ermellin candide pelli
circondavano a lui l’omero e ’l fianco.
Stringean lucide fibbie i bianchi velli
e pendeanne disciolte al lato manco,
e ’l piè movea là dove accoglie e serba
gl’umor celesti e cristalleggia l’erba.
84Con dolci note il pastorello in atto
soave e lieto al buon Niceto espone:
«Quel sovrano Signor da cui se’ tratto,
perch’ei trovar la croce sua dispone,
prevenir me su questa riva ha fatto
perch’io là ti conduca ov’egli impone.
Angelo son io, che questa forma ho preso
dall’eterna magion qua giù disceso.
85E d’aspetto mortal, perché tu possa
comprender me con la terrena vista,
com’io vestito e in parte oscura e grossa
chiusi l’incorruttibile et immista».
Quest’è ’l proprio demonio et or s’addossa
sembianze nuove e maggior fede acquista,
e con tant’arte usò gl’inganni sui
che l’innocente si commette a lui.
86Chiama quegli una barca e si part’ella
da se medesma, oh meraviglia!, e viene;
poi si gira alla riva, e pinta e bella
la poppa accosta alle sorgenti arene.
Passa dentro il demonio e ’l santo appella
e di propria sua man l’erge e sostiene
mentr’ei s’imbarca; or della croce il segno
si fa Niceto allo spiccar del legno.
87Et, oh virtù del santo segno!, scoppia
quasi folgore in nube il mostro averno,
e qual presa dal foco arida stoppia
sparge nera caligine d’Inferno.
La sua larva dispar mentita e doppia
e parte e fugge e fa tempesta e verno,
riman confuso il buon Niceto e prega
Dio che ’l soccorra, e le ginocchia piega.
88Sul lito no, ch’al dipartir il lassa
l’empio spirto nel fiume e non lo sbarca.
Per lo legno sdruscito il flutto passa,
non più saldo vasel ma rotta barca.
La corrente lo porta, e grave e bassa
ne va dell’acque infino all’orlo carca.
Rapido è ’l fiume e la frondosa sponda
si muove incontro al dileguar ell’onda.