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La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro XIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 19.02.16 12:07

ARGOMENTO
Torna, e manda l’Inganno, ond’ei si parte,
la Superbia d’Eraclio al nobil passo,
et ella accende a gl’impeti di Marte
Batrano il forte e ’l fervido Adamasto.
L’imperador sequestrali in disparte
e per far che non segua il lor contrasto
a pregar manda et offerir soprano
grado di guerra al cavalier romano.

Eraclio convoca mensa per rincuorare i capitani dell’assenza di Niceto (1-8)

1La fama intanto in quella schiera e ’n questa
del partir di Niceto amara suona,
e per le lingue addolorata e mesta
dell’assenza di lui scorre e ragiona.
Cesere ne ricerca ogni foresta
per cento messi e con mercé gli sprona,
ma riuscendo ogni sua prova al vento
prende l’imperador nuovo argomento.

2Per temprar quel dolor, ch’ei ben s’accorge
turbar le schiere in desiar Niceto,
con mensa allegra immantinente porge
ai lor tristi pensier rimedio lieto.
E poi che l’ombra il sol cacciando sorge
dall’Oriente e rende il mondo queto,
ben trecento guerrieri all’aria bruna
nella tenda maggior Cesere aduna.

3Son poste là ben diece mense in diece
suoi partimenti, e i figurati lini
a cui simili Agave mai non fece,
coprian ricchi tapeti alessandrini.
La notte fugge, a cui venir non lece
per lungo spazio a i lucidi confini,
che gl’ardenti doppier locati in oro
splender facean con mille faci l’oro.

4Ben la mensa d’Eraclio ogn’altra eccede,
quasi plebe di fior superba rosa;
gl’è incontro Artemio, e contro Artemio
Teodoro, e poi Silvan d’etade annosa,
Batrano è ’l quarto e nell’opposta sede
sta con fronte Adamasto alta e crucciosa;
Triface è doppo e cisacun altro escluso
fu ’l primo onor da questi sette chiuso.

5Scudieri e paggi a ministrare intenti
ciascuna mensa a sé d’intorno avea,
e grave mole di sonori argenti
per loro sparsa ad or ad or sorgea;
e per saettar i natural talenti
già l’italico e ’l greco i seggi empiea,
già concorre ogni fera et ogni pesce
e Lesbo e Creta il nettare vi mesce.

6E i diletti accrescendo, altri percote
l’argentee corde alla canora cetra,
altri soavemente i nervi scote
d’angelich’arpa e i duri cor penetra,
e v’accorda talun sì dolci note
che i sensi invola e le sembianze impetra,
né pur il suono a quel cantar s’unia
ma l’armonie tra lor feano armonia.

7Quetossi al fin di tanti suoni il suono,
e sol rimase un organo canoro
dove i mobili tasti avorio sono
le canne argento e ciascun fregio d’oro,
e sovra lui con sì soave suono
cantava il garzoncel Polemidoro,
che mai sì dolce in su l’estrema arena
non sì sentì partenopea sirena.

8Cantava ei l’aspra e perigliosa guerra
che dell’Eufrate insanguinò le sponde,
e vince Eraclio e ’l ciel per lui disserra
tempeste favorevoli e seconde,
e ’l perso duce il fier Batrano atterra
morto, e sepolto infra l’arene immonde,
e più ch’al cibo i cavalieri attenti
stannosi al suon de’ gloriosi accenti.

L’Inganno decide di turbare il convivio e convoca la Superbia con l’intercessione di Plutone (10-23)

9Ma ’l mostro reo, che co i fallaci inganni
escì de’ lochi abominosi e scuri,
raggirandosi all’or co i tristi vanni
sopra le mense di guerrier sicuri,
quell’onesta letizia in lui gl’affanni
più facendo innasprir pungenti e duri,
stralunò ’l guardo e dal profondo seno
trasse d’ira e di duol fiamma e veleno,

10e ruggendo tra sé dicea: – Tu godi,
tu godi ancor di tue vittorie altero,
popolo schernitor delle mie frodi
e sprezzator del sotterraneo impero.
Contra ’l nostro poter commendi e lodi
le prove ancor che per tua man si fero;
ma non già per tua man: tanto non vale
di terreno valor prova mortale.

11Il Cielo, il Ciel che ti seconda e regge
per te vince e non tu, ma se possanza
pur nulla avrem, s’alle tartaree gregge
dell’antica virtù reliquia avanza,
vedrem se ’l nostro il tuo poter paregge -,
e furibondo in vèr l’ombrosa stanza
con la fronte all’ingiù, stretto nell’ali,
piomba all’ultime tenebre infernali.

12E pervenuto al doloroso fondo
giù per priva di lume alta foresta,
vassene a ritrovar nell’antro immondo
la sprezzante Superbia orrenda e mesta.
Trae perpetui sospirS | sospiri dal cor profondo
e fra nuvoli eterni alza la testa,
mostro immenso e crudel che minacciante
scote la selva e le sulfuree piante.

13Ministre insidie e spaventose ancelle
l’Ignoranza e l’Invidia all’ombra oscura,
reggon con l’una man l’atre fiammelle
scorgendo lei che nulla intende e cura,
quinci e quindi lo Scherno e l’Ozio imbelle
e l’Ostinazion proterva e dura
e ’l Furor le fan corte, e ’l Pentir tardo,
col seguace Timor lento e codardo.

14Non che l’antro, l’abisso e non pur questi
ma l’universo ancor termine angusto,
tumida e orgogliosa, a lei diresti,
tal di cure incapaci ha ’l ciglio onusto.
Ritrosi e schivi e impaziente i gesti
ciascun moto feroce, ogn’atto ingiusto;
ispido è ’l crine e raccrespato e folto,
è qual vetro bollente acceso il volto.

15Cinge d’angui la fronte e di leone
su le mamme e su ’l petto il vello pende;
d’aquila mescolate e di paone
rassembran l’ali e le dibatte e stende.
Credi il fiero parlar nube che tuone
qualor più denso il nero ciel si fende,
e sembra il guardo infra gl’aerei campi
tremulo lampeggiar che ’l cielo avvampi.

16A lei giunto l’Inganno udir la prega
quant’ei dir voglia, et ella altera e schiva
gl’omeri volta, e l’ascoltar li niega,
sdegnando lui ch’al suo cospetto arriva.
«Venga» dice «a me Pluto, a cui si piega
ogn’altra deità di luce priva,
ei sol m’appelli e fuor che lui nessuno
convenga meco all’antro orrendo e bruno».

17S’inchina, e parte il falso mostro allora,
e quant’è d’uopo al re dell’ombre esposto,
a lei ne vien senza trapor dimora
il signor dell’imperio al sol nascosto.
S’atterra ogn’ombra, ogni demon l’onora,
concorre ogn’angue ond’ei si sta riposto,
e con la coda al fiero Pluto avante
la via pulisce ov’ei porrà le piante.

18Così giuns’egli alla Superbia e disse
con preghiere del cor vivaci e pronte:
«O figlia mia, che su le stelle fisse
di me nascesti al mio crollar la fronte,
quand’io far volli al maggior sole eclisse
e in sorte mi toccò l’ampio Acheronte,
tu seguisti mia parte, io reggo or teco,
o mia forza maggior, l’imperio cieco.

19Quant’io posso è tua possa: il primo padre,
non contento, per te della sua sorte,
acconsentendo all’ingannata madre,
lasciò ’l mondo rubello in forza a morte;
per te fonti d’errori a mille squadre
piovon dannati alla tartarea corte,
e per te di nocenti et infinite
anime a me soggette è piena Dite.

20Tu reina d’error nel cuor mortale
con cento falli imperiosa passi,
e s’ognuno di lor conduce al male
tu il ben contrasti e vigorir non lassi.
Fuggon essi da Dio, tu farti eguale
presumi altera e muovi incontro i passi,
e per dir all’estremo io per te sono
re dell’abisso e per te seggo in trono.

21Però qual volta a i tenebrosi imperi
dura necessità soccorso diede,
a te ricorro, e ne’ tuoi moti alteri
stabile farsi il nostro regno ho fede.
E giusto è ben ch’io mantenerlo speri,
con lo stesso favor ch’a me lo diede,
e che serbono immobile in eterno
quell’arti tutte che ne fondàr l’Inferno.

22Così dunque saprai che in Oriente
dove creduto e venerato io vegno,
e dove tolto alla nemica gente
riman tra i nostri il sanguinoso legno,
per ritor la gran preda entra il Ponente
pien d’un invitto e generoso sdegno,
e scorrer poi con l’esaltata croce
dall’onde caspie alla tirinzia foce.

23Sì che muoviti figlia, e pria che questo
nascente mal più si dilati e stenda
del tutto il tronca e de’ tuoi vanti al resto
l’opra degna di te simil ti renda.
Muovi e turba lassù lo stuolo infesto,
gonfia i tumidi cuor, gl’animi benda,
va’, ch’ei sono a convito», allor muov’ella
le grand’ali per l’antro e le flagella.

La Superbia aizza Adamasto contro Batrano, si sfoderano le spade: Eraclio ferma la zuffa (24-40)

24E senz’altra risposta, a un tempo tolta
all’Invidia di man la face inferna,
batte l’alta caligine sepolta
e riscoter ne fa l’ampia caverna.
Indi rapidamente all’ombra tolta
qual divide balen nube superna,
spiegando l’ali il fiero mostro arriva
dalle tenebre morte all’aria viva.

25E mirando il ciel vago e l’auree stelle
muove irata dal cor fremiti e strida,
pensando in sé da region sì belle
quanto spazio l’involi e la divida.
Lieta serenità, pure fiammelle
da cui sì lungi in Acheronte annida,
dove stella né sol giammai non volve
ma sol pompa di tenebre l’involve.

26Sdegnosa atterra, il fero ciglio e ’l petto
si percote con l’ali e segue il volo,
a cui velocità cresce il dispetto,
spronano i vanni suoi disdegno e duolo,
e pervenuta ov’ha ’l pensier diretto,
dentro all’occidental romano stuolo,
giunge alle mense et alla fine a punto
del cantar suo Polidoro è giunto.

27«Or chi dà forza al naturale istinto
che per l’erto sentier di vera fama
fin qui m’ha scorto, et or già lasso e vinto
dall’opra io sento intepidir la brama,
sii tu, grazia celeste, e poi che spinto
mi son tant’oltre ove ’l desio mi chiama,
reggimi al fine e la tua santa face
scorga l’ingegno mio musa verace.

28Tu governa lo stil, sì che non sieno
di lor materia al tutto indegni i carmi,
e tu nutri il calor ch’io porti in seno
sì ch’ei non deggia a mezza via lasciarmi.
Et or discoprirai l’empio veleno
che seminò quel mostro reo tra l’armi,
per cui più presso a rimaner distrutto
fu da due campi il vincitor condutto».

29La ministra infernal d’empio consiglio
invisibile fiamma aggira e scote,
e poi con esse addirizzando il ciglio
d’Alboin nell’indomito nepote,
gl’affascina col guardo ogni consiglio
e con la fiamma fervida il percote,
e qual raggio per vetro il fero ardore
trapassa il petto e gli penetra al core.

30E in quell’ali s’apprende, a cui natura
l’ufficio diede ond’ei temprato fosse
dal ventilar ch’ad or ad or li fura
il soverchio calor con lievi scosse.
E con fero alternar la stigia arsura
tanto ’l fonte dell’anima percosse
che rotti omai della ragion gl’intoppi
è forza al fin che in questi detti scoppi:

31«Ben è ragion che per lodar costui
la simil gioventù lodi Batrano,
perché rimase innanzi a’ piedi sui
vinto dal Cielo il pugnator pagano,
e si taccia di me, che ’l primo fui
che l’affrontai, che l’atterrai sul piano,
ché non ho io sì colorita e bella
la faccia e ’l biondo crin torto in anella».

32E così detto alle parole i gesti
seguitaron di strazio e i motti amari,
e molto più che col parlar con questi
mostrò tacendo aperti sdegni e chiari.
Tace a un tempo la mensa e dubbi e mesti
che in sé l’offesa il gran guerrier dichiari,
rimangon tutti, ognun le luci intende,
e palpitante il cor l’esito attende.

33Volge rapida allor la mano ardente
l’infernal furia e ’l grave incendio al petto
del romano campione immantinente
s’appiglia, e l’arde un disdegnoso affetto;
e se non era il giovane presente
del sommo Augusto al venerando aspetto,
più pungente risposta avea ben presta,
ma la ritenne e ne formò sol questa:

34«Non prend’io già ch’el Ciel m’aiti a sdegno,
superbo et empio è chi tant’osa in terra;
né divino favor può far men degno
pregio mortal di cavaliero in guerra.
Pugnai col duce e parvem’atto indegno
uccider lui mentr’ei vacilla et erra,
da me già vinto, onde si mosse il Cielo
e ’l saettò con l’infiammato telo.

35La vita a lui per sua bestemmia ei tolse
lasciando a me della vittoria il vanto,
né tu, da cui contra di me si volse,
pur gl’incidesti in verun lembo il manto.
Or se ’l crin biondo a me natura avvolse
né di virilitade ancor mi vanto,
lascia a men della man, lascia del core,
e de gl’anni e del crin sia tuo l’onore».

36Infuriossi il fier lombardo allora,
e in lui proruppe alle minacce, all’onte,
né men discioglie il gran guerriero ancora
l’acuta lingua a nuove offese e pronte,
e l’uno e l’altro del suo seggio fuora
si spinge avanti all’avversario a fronte,
e fuor traggon le destre i ferri ignudi,
traportati dall’ira acerbi e crudi.

37Van sozzopra le mense e i vasi d’oro
e le gran sedie effigiate e scolte,
caggion pompe neglette e vil tesoro
tra i piè superbi indegnamente avvolte.
E d’ogn’intorno alle percosse loro
corron le turbe impallidite e folte,
giunge la gente e come al lito un’onda
vien sopra l’altri e ’l padiglione inonda.

38Ma levatosi già dall’aureo seggio
l’imperadore a quella rissa volto,
«Che» dice «è questo? O cavalier, che veggio?
Così dunque v’acceca impeto stolto?
Vilipeso da voi dunque esser deggio
e lo scorno soffrir su ’l proprio volto?».
Posate l’armi, e quella spada e questa
ubbidiente al suo signor s’arresta.

39Così talor per picciol esca in guerra
due coronati augei, trombe del giorno,
mentre l’un contra l’altro il collo atterra
a cui s’innalza audace piuma intorno,
se ’l predace falcon si cala a terra
per far con essi all’ampio ciel ritorno
l’un si spicca dall’altro e si ritira
superando il timor, la fame e l’ira.

40Severo Augusto al periglioso ardire
ritegno intanto in amendue trapone,
e moderanza al traboccar dell’ire
poi ch’a gl’impeti lor non val ragione.
E che nessun della sua tenda uscire
di lor non deggia all’uno e l’altro impone,
gravi pene aggiungendo a i gravi imperi,
sotto cui lega i trasgressor guerrieri.

I due si ritirano nei loro padiglioni ma si mandano i padrini e decidono di sfidarsi l’indomani (41-47)

41Ubbidiro amendue, ma ’l duro freno
che impose lor l’imperador romano
non però smorza l’uno e l’altro il seno
dell’ardor ch’avventò l’orrenda mano.
Rode il cor d’amendue l’empio veleno,
a tanto mal la medicina è in vano,
quindi scorrono omai disfide e messi,
ride il mostro infernal de’ suoi progressi.

42Mandato vien dal fier lombardo Urbante,
come quel che l’invia superbo e fiero,
che dall’omero in su quasi gigante
passa ancor d’ogni grande elmo e cimiero;
questi al figlio d’Otton fattosi avante
senz’elmo trarsi e ’n suo disprezzo altero
col piè manco oltre e con la destra al fianco
nol mira, e parla in suon feroce e franco:

43«Adamasto il possente a te mi manda
che presumi agguagliarlo e ti disfida,
né ’l divieto lasciar cura da bada
pur ch’egli or te, suo sprezzatore, uccida,
né vuol soffrir che nome reo si spanda
ch’ei le cause d’onor non ben decida,
dell’armi a te concederà l’eletta
e fuor del campo, ovunque vuoi, t’aspetta».

44Gli risponde il guerrier: «Benché mi doglia
contravenire a quanto Eraclio impone,
ridigli pur che mi strugg’io di voglia
di venir seco a singolar tenzone,
e che pronto n’andrò ovunque ei voglia,
né di loco mi cal né di stagione:
questo cor, questa spada e questa mano
son miei vantaggi, e più non vuol Batrano».

45Or qui replica Urbante: «In mezzo all’onda
qui non lungi del Saro isola giace,
che d’arene ha di fuor bianca la sponda
e dentro il sen d’amenità ferace.
Due miglia e più l’estremità circonda
d’ogni guerra tra voi sito capace,
là t’aspetta Adamasto, armato stuolo
mena tu se ti par, vo’ seco io solo.

46Partirem pria che ’l sole il dì saetti
e là n’andrem con l’armi nostre usate».
Batran promise, e in replicati detti
fur le promesse a duellar fermate.
E già l’un contra l’altro i forti petti
d’acciar sonante han le gran destre armate,
la fama scorre e in queste parti e ’n quelle
sparge de’ fatti lor vere novelle.

47Quindi il campo si turba, e quanto importe
bisbigliavan tra lor, che s’allontani
per andar a pugnar la coppia forte,
cui par non è tra’ cavalier cristiani,
ché qualunque di lor pervenga a morte,
e forse ambi morran, giova a i pagani,
ancor vie più che s’al pugnar contr’essi
la metà dell’esercito cadessi.

Eraclio pensa di fermarli richiamando Adamasto e offrendo a Batrano il grado di mastro del campo: ingelosisce però Silvano, al quale dà il carico di portare l’ambasceria, che decide di lasciare il campo una volta eseguito il compito (48-61)

48Sol vede Eraclio, e tra sé pensa e volve
come impedir che la battaglia segua.
Nembo d’alti pensier sua mente involve,
per compor tra i campioni accordo o tregua,
tosto poi che tra mille un ne risolve,
via sen fugge la nube e si dilegua,
Silvano appella e così narra a lui
quel ch’ei non vuol né de’ scoprire altrui:

49«Mio duce saggio, e mio fedele amico,
dal cui consiglio il nostro ben dipende,
che ’l saper congiungendo all’uso antico
quel che giova antivedi e quel ch’offende,
or sai ben tu (con sicurezza il dico,
poscia ch’altri che noi nessun comprende)
all’esercito mio qual danno apporti
partirsen ora i due guerrier più forti.

50Pensato ho dunque a ritenerli e parmi
bastar ch’io ’l nieghi al capitan lombardo
che gl’Elvezi governa e di lor armi
spiega al publico suon l’ampio stendardo.
Ma con l’altro guerrier, perché lasciarmi
così non deggia usar convien riguardo,
ch’è venturiero e libero combatte
e son larghe per lui le leggi fatte.

51N’andrai tu dunque a ritrovarlo e teco
verrà Triface il cavalier toscano,
che di nodo d’amor congiunto seco
nol pregherà per mia credenza in vano;
ma quando pur ne’ suoi furor sì cieco
sia che non l’oda il giovane Batrano,
devrà muover almen premio d’onore
quel suo superbo e generoso core.

52Prometterete a lui quel grado ch’io
di mio mastro di campo ancor non diedi,
però che quindi il giovenil desio
forse allettato avrà più ferme sedi.
Ma ch’egli il brami e non sia ’l dono mio
proferto a lui tu col tuo dir provedi,
ch’ogni premio maggior perde suo merto
qualora ei venga a chi nol brami offerto.

53Né già cred’io che d’apparente onore
ch’altrui si faccia a te, Silvano, importe,
ch’ogn’alto grado al merto tuo minore
non ha splendor che in te ricchezza apporte.
Tu di rara virtù lume maggiore
fidata scorta alla più dubia sorte,
specchio e norma d’ogn’altro, io duce teco
son del mio campo, imperador tu meco».

54Sì disse Augusto, e ’l capitano ibero
cautamente mirando osserva e nota
ch’ei movendo a quei detti il capo altero
sotto ’l torbido ciglio il guardo rota,
ché l’arsura infernal del mostro fero
a quel punto nel cor vien che ’l percota,
ché invisibilmente i petti accende
più de’ più grandi, e ’l loco e ’l tempo attende.

55Chiude poscia Silvan l’amaro tosco
nel cor profondo, e non appar più segno
e risponde ad Eraclio: «Io ben conosco
sì nobil grado al cavalier condegno,
però vo’ pronto e verrà meco il tosco
coloritor di questo tuo disegno,
con sua faconda e lusinghevol arte,
et io muovo a condurlo», e tace e parte.

56Indi parla tra sé, sentendo al petto
roder velenosa empia fiammella:
– Va’ deluso, Silvan, va’ pur negletto
là dove Eraclio a supplicar t’appella.
Ahi, non basta propormi un giovanetto
cui le labbra ancor san della mammella,
ch’a mio scorno maggior me stesso manda
e ch’io l’offra e ch’io ’l preghi a me comanda.

57Così la scure a mia percossa io porto,
che ’l mio dispregio e l’arti sue non vede,
ché sapend’ei d’inonorarmi a torto
dubbia già della mia per la sua fede,
vuol ch’io meni compagno, onde sia scorto
quant’egli altrui per mezzo mio richiede,
ché sa ben ei ch’amaro sen non puote
parlar mai dolce e ’l cor fermar le note.

58Or va’ dunque, Silvan, tanti e tant’anni
travaglia armato e meritar t’ingegna
porta a lui le vittorie e schiva i danni,
pugnare al campo e riverire insegna.
Oh inutili miei sì lunghi affanni,
oh tempo, oh arte di milizia indegna!
Così va chi ben serve e non ben mira
a cui de ’l suo fallir tardi sospira.

59Ma pure il pentimento a tempo viene
finché ’l filo vital morte non spezza;
partiti da costui, che in pregio tiene
più chi merita men, chi più disprezza.
So ben io che lasciar si disconviene
l’imprese in guerra e non mostrar fermezza,
ma più di questo è vergognoso fregio
patire indegnità, soffrir dispregio -.

60Or così mentre ei rivolgendo al core
l’agitato venen muove e raccende,
tanto lo soprafà l’ira e ’l furore
che dal campo partir partito prende.
Ragione in lui del proprio seggio fuore
cede vinta allo sdegno e l’armi rende,
e così ancora i lucidi intelletti
la nebbia offusca de’ tiranni affetti.

61Ma pur quantunque al furor cieco in preda
tutto si lasci il disdegnoso ibero,
prima che dipartir vuol che si veda
ch’ei pur adempie il mal commesso impero,
e movendo a chiamar perché interceda
Triface il non partir del cavaliero,
quanto Cesere impose espone a lui
et al figlio d’Otton vanno amendui.

Ambasceria di Silvano e Triface, cui Batrano oppone un reciso rifiuto, facendo per giunta inasprire Silvano nel suo sdegno verso Eraclio (62-88)

62Trovaron lui che fuor che l’elmo aurato
d’acciar lucente ha tutto il resto involto,
agita la gran destra il cerro armato
da i contrasti di Borea a i monti tolto,
e qual fiera procella in mar turbato
fulmina il ciglio infra ’l terror del volto.
Ora entrando i guerrier fassi repente,
qual corridor se ’l suon di tromba sente,

63e con quel singolar suo proprio gesto
che soave disprezza e fero piace,
salutevole in un cortese e presto
accoglitor de iS | di due guerrier si face.
Or pria nasconde il dimandar molesto
all’invitto campion cauto Triface,
«Venghiam» disse «ad offrirti arme e persona,
tal rumor già di tua partenza suona».

64Soggiunse poi: «Non che ’l guerrier superbo
che te sfidando i gran divieti ha gusti,
per l’indomita sua possanza e nerbo
sia dubio alcun ch’al tuo valor sovrasti,
ma per tali apparir nel tempo acerbo,
quai nel tranquillo ognun di noi provasti,
e dimostrarci alla stagione oscura
amici di virtù, non di ventura.

65Ma ’l medesimo amor che ne conduce
volenterosi a seguitar tua sorte
con sollecita cura ancor n’induce
a pensar quanto il tuo partir n’importe,
quant’è ’l danno commun, sì chiara luce
sparir dal campo, e quanto orror c’apporte,
e qual cerchi tu danno e non acquisto
perder per l’onor tuo l’onor di Cristo.

66Egl’è ben ver che mal tenersi a freno
può de gl’impeti primi all’ire il corso,
ma pur convien ch’ei si rattenga e meno
valer non de’ della ragione il morso.
Però dunque sper’io ch’aprendo il seno,
che sdegno ingombra, al tuo miglior discorso,
tarpate alquanto al furor primo l’ali
veder potrai queste ragioni o tali.

67Ché s’egl’è ver che ’l disfidar che fece
per di qui trarti il tuo nemico è male,
qualor tu ’l segui, ove l’andar non lece,
trabocchi insieme in grave fallo eguale.
Voi macchia entrambi una medesma pece,
ei trasgressore e tu sarai pur tale,
e s’egli il primo in ciò se stesso aggreva
ma l’esempio d’errore error non leva.

68E s’egl’è ver ch’al commun pro posporre
si debba il proprio, or come può costui,
che di sfrenato i termini trascorre
dell’umana ragion trarti con lui?
E se tu pure a uopo tuo ritorre
non puoi te stesso dedicato a nui,
a voglia altrui potria volerlo? a voglia
d’un uom bestial ch’umanità si spoglia?

69E quando a punto or che l’un campo a fronte
si sta dell’altro e per ferir sull’ali
e d’ora in ora ad assalir dal monte
s’attende pur che l’uno o l’altro cali,
or vorrai tu questa sicura fronte
e questa destra onde tant’osi e vali
allontanar? non potrass’egli or dire
timor lo sdegno e ’l tuo partir fuggire?

70E s’egl’è ver che sol costui ti chiama
acciò che per onor l’un l’altro uccida,
deh per quanto più bello onore e fama
il popolo pagan tutto ti sfida!
Segui, è degna di te questa tua brama,
degl’avversari tuoi farti omicida.
Ma qual consiglio? un infinito stuolo
ne lasci adunque e vuoi seguirne un solo?

71Un che la gloria tua livido mira
e ’l tuo valor con cui suo nome abbassi;
e ’l malvagio però ti volge e tira
fuor della via dove secondo il lassi,
e così vuol mentr’egli indarno aspira
a superar tuoi valorosi passi
traviarneti almeno e perir prima
che mirar te di maggior fama in cima.

72Che se questo non fusse il campo aperto
a degna emulazion con l’arme in mano
non fuggirebbe, e gareggiar di merto
teco vorria contra lo stuol pagano.
Ne rileva però, che intanto offerto
tu ti sii di parola a lui Batrano,
che quantunque sia ver che ’l mondo chiame
la parola un durissimo legame,

73né restringer può, né può legar tal nodo
se non franco voler, se non disciolto,
sì come in legno entrar novello chiodo
dov’altro è fitto e ’l primier loco ha tolto
Or se’ tu preso e incatenato in modo
ch’esser non puoi da nuovo laccio avvolto,
se’ prima a noi, sei prima a Dio tenuto,
di dar con l’armi a quest’impresa aiuto.

74E tu medesmo in così stretto punto
che ben tu vedi in cui ridotti or semo,
sei di duro partito al forte giunto
ch’è ’l prender forza o l’uno o l’altro estremo,
o lui schernir, che te sfidando ha punto
o a noi mancar, che te gradito avemo;
o lui seguire ingiurioso o noi
d’amor congiunti, esaltatori tuoi.

75E non dir tu che ’l dipartir è dato
qual venturier né ’l può negare Augusto,
ché non sempre è ciò ver né in ogni stato,
né quel che lice in ogni tempo è giusto.
Già non puoi tu fuggir nome d’ingrato
col tuo signor, se ’l fuggirai d’ingiusto,
né mai fa forza in generoso core
che legge di ragion, legge d’amore.

76Sai ben tu quanto t’ami e insieme quanta
stima del tuo valor Cesere faccia,
e com’ei per te sol vincer si vanta
né può cosa voler ch’a te non piaccia;
e sai ben tu se ’l tuo partire in tanta
necessità di guerra a lui dispiaccia,
ché s’ei capo dell’oste è, tu, Batrano,
sei della stessa esecutore e mano.

77Corre e prende la mano in sé l’offesa
qualor vien colpo a danneggiar la fronte,
ché meno in lei qualunque ingiuria presa
ch’ove i sensi e la vita ha seggio o fonte.
E tu vorrai per terminar contesa
che la man regni e nulla il capo monte?
Anzi tu pur, come dannosa parte,
dal tuo tutto disciorti e separarte?

78Cangia, prego, consiglio, e sia suo merto
che faccia in te che la ragion prevaglia;
se sovrasti in valor, mostra anco aperto
che nessun altro in ubbidir t’agguaglia.
Né sia senza mercede, anzi t’accerto
che se pur mai di grado alcun ti caglia,
di suo mastro del campo il primo onore
avrai, giovane ancor su ’l primo fiore.

79E questo fia quell’abbassarti e quello
che invidiando costui danno faratti;
te vorrebb’egli al tuo signor rubello,
e con lui posto in sommo grado avratti.
Lascia dunque, Batran, lascia il duello,
sprezza i dannosi e mal fermati patti,
né biasmo in te né può viltà cadere,
terror dell’armi e delle squadre intere.

80E se pur vuoi di sua superbia indegna
punir costui, che ben è tal che ’l merta,
differiscilo almen tanto che vegna
vittoria a noi della gran pugna incerta.
Che ciò debito sia, che ciò convegna
credi al saggio Silvan che te n’accerta,
credi a ragione e credi a me, Triface:
puoi dubitar che t’inganni?», e ’l mira e tace.

81Così diss’egli, e i detti suoi l’ibero
tacitamente confermò col volto,
quando senza dimora il gran guerriero
verso amendue così parlò rivolto:
«Or io, qual soglio, e par che chieggia il vero,
breve risponderò, libero e sciolto.
Costui mi sfida e vuol provar ch’io sono
di venir seco al paragon non buono.

82Le ingiurie io lascio, i gravi scherni e l’onte,
qualunque altra cagion da banda reste,
che non l’ho io come Triface or pronte,
né in sì vivo parlar note sì preste:
cavalier sono, ho da condurmi a fronte
con chi mi sfida, e mie ragion son queste.
Sian tra i saggi i discorsi e tra le scole,
l’opera della man la spada vuole.

83Né di quei gradi a cui promuove Augusto
vo’ che molto mi caglia. Io ben m’accorgo
di miei verd’anni il meritarli angusto,
sì alto ancor per mia virtù non sorgo.
Ben voi, Silvan, che già tant’anni onusto
d’onorato sudor sì chiaro scorgo,
voi di ragion dal sommo duce avrete
quel sommo onor, di cui sì degno sète».

84Fur tai parole un ventilar nel foco
che nel petto a Silvan dianzi s’accese,
quand’ei proporre all’onorato loco
il latino guerrier Cesere intese,
ma come saggio il mostrò nulla o poco
e finse e tacque, or la parola offese
dov’egl’er’egro, ond’ei sentissi a punto
nella propria puntura il cor ripunto.

85E traendone fuor sorriso infinto,
«Batrano,» ei disse «il tuo valor nascente
s’onori pur, ch’io da tropp’anni vinto
son già qual vedi in vecchia età cadente.
Così badasi al sol di lume cinto
nel suo vago apparir nell’Oriente,
che più nessun più lo riguarda a sera
quand’ei tuffa nell’acque e ’l mondo annera».

86E più detto e risposto, al fin veggendo
lor preghi uscir col cavalier in vano,
né cangiar voglia il fier campion volendo
nel proposito suo lasciàr Batrano.
Scompagnato, ritorna il petto ardendo
a riferirlo a chi ’l mandò Silvano,
poi che stima non par che l’altro faccia
cosa portar ch’a Cesere dispiaccia.