ARGOMENTO
Disdegnato Silvan, poi che ’l figliuolo
non acconsente all’ira sua, si parte;
riman Lucrezio a governar lo stuolo,
Cosdra affretta il soccorso al fiero Marte.
Erano a navigar l’ondoso suolo
fabbrica a cento legni antenne e sarte,
e indarno a non calcar l’umide strade
l’ammonisce Anastasio e ’l dissuade.
Silvano prende congedo da Eraclio, suo figlio Lucrezio però non vuole lasciare il campo, bramoso del grado di condottiero che ora gli spetta (1-19)
1Silvano intanto a referir tornato
che sta pur duro il cavalier romano
a non compor l’ingiurioso piato
ma la lite finir col ferro in mano,
soggiunse ei poscia: «Et io signor, commiato
chieggioti per tornar nel lito ispano
a chiuder gl’occhi, e non t’adduco scusa,
sì questa chioma e ’l non poter mi scusa.
2Del gazzarico stuol lascio la cura,
ch’ è giusto e ben ch’a terminare io torni
di mia vita l’estremo e sepoltura
prender dentro i paterni almi soggiorni.
Tu molti avrai cui vigor cresce o dura,
di me migliori e di più doti adorni,
or piaccia a te che se natura darmi
licenza vuol non la puoi tu negarmi».
3Turbossi Augusto a tai parole e solo
mirollo e disse: «E voi Silvano ancora?
Ma non consentirà ch’io resti solo
Dio, che val tutti e mi guardò sin’ora.
Governerà per voi vostro figliuolo
fin che lungi da noi fate dimora,
et io per me non vi concedo o niego
licenza, e nulla il voler vostro lego.
4Sia pur l’ire e lo star libero in voi,
vostro il biasmo di ciò, vostra la lode»,
e qui Cesere tacque, e i preghi suoi
di quel grave tacer altro non ode,
ma se ne torna al padiglione, e poi,
mosso da quel velen che ’l cor li rode,
chiama Lucrezio e dice a lui che senza
dimora ei si prepari alla partenza.
5Ma ’l garzon generoso, a cui venuta
era innanzi de ’l padre la novella,
ch’a quell’onor che ’l genitor rifiuta
per successor l’imperator l’appella,
riman con fronte nubilosa e muta
senza consentimento e non favella,
pur come qui che penetrar si sente
nelle viscere allor l’incendio ardente.
6La fiamma rea, che la Superbia ha tolta
dell’Acheronte alle più basse sponde,
non men ch’el padre ha già d’errore avvolta
la mente al figlio, e ’l suo bel lume asconde.
Le luci abbassa e taciturno ascolta
Lucrezio, e nulla al genitor risponde,
ond’ei però con le paterne ciglia
tutto il ricerca e poi così ripiglia:
7«Che più pensar, che più badare, o figlio?
Ben tenn’io sempre a noi contrario Augusto,
et or manifestato ha ’l suo consiglio
quant’esser possa ingiurioso e ingiusto.
Io di qui preso ho volontario esiglio,
per darli a diveder com’è ben giusto
quel ch’a lui si convenga, a me si deggia,
cui ne gl’onori un garzoncel pareggia.
8Ben sa costui che custodire squadre
non potreste, però te l’offre e crede
rattenendo il figliuol legare al padre
di catena d’amor nel campo il piede.
Ma tosto è ben chi le nascose et adre
cogitazioni e l’arti sue non vede».
Tace Lucrezio e pure le luci affisa
in terra e ne l suo cor così divisa:
9- Odi affetto di padre? odi d’uom saggio
placida moderanza? in preda a sdegno
darsi così che di ragione un raggio
non entri pur nel nubiloso ingegno,
ma perch’io seco accomunar l’oltraggio
e partirm’io d’onde onorato vegno?
Fuggir debb’io da chi m’onora, e queste
devran dirsi per me cagioni oneste?
10Se de’ titoli altrui Silvan s’adira
sì seco il faccia, e se medesmo ei roda,
ché non ho cagion io, disdegno od ira,
né degg’io rifiutar ciò che m’approda.
Torn’egli in sé, cui furor cieco aggira
la sbandita ragion richiami et oda,
ch’io ’l seguirò per dritta via, ma scorta
non mi fia già per rovinosa e torta -.
11E poi che dentro al chiuso petto alquanto
gl’agitati pensier volse e rivolse,
al genitor, ch’a lui descritti intanto
leggeali in fronte, e in cotal dir gli sciolse:
«Ben duolmi assai che se fin qui sol quanto,
padre, volesti tu per me si volse.
Or si cangi mio stil, ma tu perdona
che me ragion se te di sdegno sprona.
12Né già voler contra ragion tu dei
ch’io di Ceser gl’onori o della sorte,
che da lui mi si venghino o da lei
a sostener non mi dimostri forte.
Né legitimo tuo figlio sarei
se dalle tue le mie vestigia scorte
per lo calle d’onor temesser oggi
precipizio di valli, erta di poggi».
13Volea più dir, ma superata tacque
dal rispetto la lingua, e ’l padre a lui:
«Va’ via, figliuol, che proferir ti piacque
che lasciasti sonar gl’accenti tui;
immaturo garzon, che dianzi nacque
quello ardirà che fa tremare a nui?
Troppo il sanno color che in prova furo
quanto è ’l fren delle genti a regger duro,
14e di genti feroci, ove son l’ire
inestinguibilmente ingiuriose,
e senza freno il temerario ardire
riconoscer non sa le leggi odiose.
T’inganna, o figlio, il giovenil desire
che ’l fior ti mostra e tien le spine ascose,
non la spada girar, non correr l’asta
all’ufizio di duce in guerra basta,
15che ’l meno è questo, assai più oltre, o figlio,
di quel ch’appar della milizia è l’arte,
dove più che la man vince ’l consiglio,
e più senno che forza adopra Marte.
Non sa giovane cor fuggir periglio,
cui spesso incontra dal dover si parte,
mescolando ne gl’impeti veloce
quel che giova sovente e quel che nuoce.
16Figlio, ardisci tropp’oltre a’ tuoi verd’anni
disegual troppo è tanto peso ancora,
e tant’alto volar co’ primi vanni
cercarsi aperto il precipizio fora.
Manifesti i perigli e certi i danni
per te son troppo, e sarà breve l’ora
che tu vorresti (o mal fuss’io presago!)
esser del vano onor stato men vago».
17E qui tac’ei, ma ’l figlio suo, che sente
intumidir d’ambizione il core,
non risponde a tai detti e non consente
a recusar di capitan l’onore.
Ne’ superbi desir cieca la mente
corre a libero piè strade d’errore,
quasi audace destrier che scosso ’l morso
trascorre i campi e non pon legge al corso.
18Quindi il padre, che l’ama, e ben s’accorge
a che gran rischio il caro figlio ei lassi,
pietà sente fra l’ira, il mena e scorge
pur via lo sdegno, amor gl’affrena i passi.
Tal fra Scilla e Cariddi errar si scorge
nave che ’l mar pericoloso passi,
che tra flutti e reflussi or torna or parte,
con dubbie vele e irresolute sarte.
19Ma vincitore in quel contrasto interno
fatto lo sdegno e ’l vinto amor sbandito,
tutto prende del cor l’ira il governo,
e ’l pietoso favor fugge smarrito,
né più l’affetto natural paterno
a prender l’armi è contra l’ira ardito,
e ’l furor vince e signoreggia e sforza
sì ch’amor e pietà non han più forza.
Silvano dà al figlio qualche consiglio di natura militare e poi parte (20-26)
20E pur segue Silvan l’impeto stolto
ch’a voglia sua precipitoso il mena,
ma pur partendo al suo figliuol rivolto
discioglie i detti e lega il pianto a pena:
«Figliuolo, or odi ancor, che poco o molto
giovenil vanità non si raffrena,
recati a mente e segua poi che puote,
queste che sian per te l’ultime note.
21Pensa spesso, Lucrezio, aver possanza
colui sempre maggior che men l’adopra,
spada è l’autorità che ’l taglio avanza,
chi non la tocca e le vien meno all’opra;
e pensa pur che ’n placida sembianza
ciascun soggetto occulto sdegno copra,
ché l’imperio fuggir natura insegna
e l’uman germe a soggiocar si sdegna.
22Però convien che dall’invidia intatto
quant’esser puo’ tu ti conservi, e prima
di comandar che si pervenga all’atto
qualche dolce piacer gl’animi imprima.
Ma più si de’ quest’odio altrui, che ratto
nel cor s’apprende e lento il rode e lima,
schivar con l’opre, e con soave stile
a qualunque minor farsi simile.
23Ne’ pericoli il primo e ne’ disagi,
convien che vada, e co i guerrier tu insieme
fame soffra e vigilia e fugga gl’agi
come cosa mortal si fugge e teme,
che non dentr’alle piume o ne’ palagi
ma dove arde più ’l sole o l’aer freme,
sott’aspre gonne e non tra vaghe spoglie
chi semina sudor fama raccoglie.
24Tra i tuoi guerrier s’antica selva accade
che recider si deggia, il primo prendi
tu la più grave bipenne e in dubie strade
ciascuno avanza e l’alte rupi ascendi,
dove rapido fiume al basso cade
tu ’l guado tenta e ’l giel dirompi e fendi,
e fa men riuscir la pena amara
con le tue schiere affaticando a gara.
25E sopra tutto ove non sia che stringa
né veggia aperto a contrastar vantaggio
dei fortuna temer, che ’n sua lusinga
l’inganno è sempre e in suo favor l’oltraggio,
e piuma in aria ove Aquilon la spinga
ha fermezza maggior nel suo viaggio,
sappi ch’è l’altrui fé mal fido pegno
e senso et oro in ogni petto han regno.
26Ma che parlo o che tento? A contar piglio
del mar l’arene e l’onde in vetro accorre
che so pur io che sol può far consiglio
chi l’ocean de gl’accidenti corre,
ma non tenera età. Dal Cielo, o figlio,
ch’al bisogno maggior sovente corre,
dal Cielo attendi, ei sol può darti aita»,
né più diss’altro e fe’ da lui partita.
Adamasto accompagnato da Urbante viene fermato dalle guardie del campo, ne fa strage: sopraggiunge Batrano e con la sua sola presenza sgombra la strada: si avviano verso un’isoletta sul fiume (27-43)
27Ma già tornato a riferire Urbante
che la disfida il fier Batrano accetta,
Adamasto a partir consiglia avante
che ’l sole al giogo i destrier suoi rimetta,
ché già levato il terzo lume errante
l’aurora il ciel precorritore affretta,
e meglio era a partir pria che n’avesse
notizia Augusto e maggior fren ponesse.
28Veste il lucido acciar sonante e grave
subitamente il cavalier lombardo,
e ’l ferro cinge, ond’ei morir non pave,
e ’l Ciel minaccia il furibondo sguardo,
né per l’umido suol volante nave
gonfiò mai sì superba Euro gagliardo;
dell’ampio scudo il grave pondo imbraccia
e ’l capo altier di duro bronzo allaccia.
29Nell’elmo grave industre mano impresse
la disperata e spaventosa guerra
allor che ’l Cielo a sterminar si messe
gli smarriti figli della terra.
Vedesi in alto, infra le nubi spesse,
Giove ch’ardenti fulmini disserra,
e gli rinfresca le saette in mano
l’antichissimo fabbro siciliano.
30Vedesi l’alta e minaccievol mole
de’ sopraposti monti Olimpo et Ossa,
che facea di timor pallido il sole,
dal folgorante Ciel cader percossa,
e per le piagge inabitate e sole
veggionsi biancheggiar le gelid’ossa,
che rovinate dal fulmineo telo
empion la terra e minacciaro il Cielo.
31Vedi col capo in giù Tizio e Tifeo
morder morendo l’insensibil madre,
e rivolto Fialte ond’ei cadeo
fisse tener le orrende luci et adre,
e, ben che morto, ancor far Briareo
scolorir di timor l’eterno padre.
Di sì fatte figure è pieno il vasto
elmo che porta il fervido Adamasto.
32Monta a cavallo, il fiero Urbante è seco,
reggendo anch’ei d’un gran destriero il freno,
e se ne va qual polveroso e cieco
nembo di lampi e di tempeste pieno.
E già fuggia la notte al cavo speco
temendo il giorno e stringea l’ombre al seno
quand’ei giungono al vallo; Urbante prega
per l’uscita la guardia, ella la niega.
33Adamasto a quel dir stringe la spada
e ’l destrier caccia, e «Sarà» disse «questa
che m’aprirà dov’io vorrò la strada,
per altrui formidabile e funesta»,
e come suol per l’immatura biada
procellosa talor correr tempesta
tenere erbe spargendo e molli spiche,
tal ei rompe e sbaraglia elmi e loriche.
34Né men fiero di lui, benché men forte,
Urbante anch’ei l’impetuosa uscita
con la destra feroce empie di morte
e di sangue cristian fa colorita.
S’ingrossa ognor su le difese pronte
contra i due cavalier la gente unita,
e ne suona il rumor sì che l’intende
il romano guerrier sino alle tende.
35E come fuor d’antiche piante altera
se n’esce al suon della commossa selva
la macolata orribile pantera
a guerreggiar con generosa belva,
allor che ’n dentro ogni men forte fera
trepida si nasconde e si rinselva,
tal si muove il guerrier, che nulla teme
e seco vanne il suo Volturno insieme.
36Volturno poi che cento mari e cento
regioni straniere ebbe trascorse,
per apprender saper di cui contento
non fu mai vivo, e desio sempre il morse,
venuto entro al cristiano alloggiamento
subito che d’Ottone il figlio scorge
«Qui vedo il tutto, et è soverchio» ei disse
d’imitar più peregrinando Ulisse
37D’ogni sovranità, d’alto valore
qui la somma vegg’io tutta raccolta,
né può saper la vera via d’onore
chiunque all’orme sue gl’occhi non volta».
E perc’agevolmente onoesto amore
verso l’origin sua se ne rivolta,
le voglie lor corrispondente furno
e riamato da Batran Volturno.
38E riamato sì ch’ei solo eletto
da lui fu per compagno alla tenzone,
e frettolosamente al tergo, al petto
or del candido acciar l’armi si pone,
e se ne va col gran campion ristretto
dove ’l rumor dell’avversario suone,
ma già ne gl’atti e nelle fiere membra
cosa mortale il gran guerrier non sembra.
39Sott’ha un destrier che discolora il bianco
di rare e sparse e non ben tinte rote,
largo il petto rileva, ardito è ’l fianco,
e la cervice il crin superbo scote;
spumeggia il morso al destro lato, al manco,
se stesso guarda e’l duro suol percote,
s’aggira e freme, e non sa stare al loco,
l’aure ha nel piè, ne gl’anitriti il foco.
40Qual or sente la tromba e l’aureo freno
la guidatrice man render più lento
non lascia al correr suo l’orme al terreno
e di velocità trapassa il vento.
Or sopra questo il cavaller ripieno
dell’ammirabil suo chiaro ardimento
giunge a i ripari, e tra i guerrier si caccia
ch’all’avversario suo chiuggon la traccia.
41Con la man valorosa il feerro stringe,
cui sol agita al vento e in prova falle,
c’ha pietà de’ fedeli, e non lo tinge
del sangue lor su’l mal conteso calle,
ma con l’impeto sol preme e rispinge
l’armate schiere, e fa voltar le spalle,
el tentato sentier col sangue invano
con lo spavento sol s’apre Batrano.
42L’adirata sembianza a pena scorta,
si ritira la guardia e ’l calle sgombra,
e parte fugge impaurita e smorta,
colma d’almo timor che ’l cor le ’ngombra.
L’invittissimo eroe su quella porta
sembra un raggio di sol giunger sull’ombra;
fuggon gl’armati e più non fan contrasto
al furor dell’indomito Adamasto,
43onde libero il varco e questa e quella
coppia di cavalier lascian le tende,
e se ne van dirittamente a quella
isola dove il Saro in due si fende.
Poco parlan tra via, che la facella
del mostro reo che le lor menti accende
le lingue annoda all’uno, e l’altro vuole
che ragionin tra lor le spade sole.
Eraclio rafforza il campo, Cosdra, venuto a conoscenza delle defezioni del campo nemico, manda messaggi agli alleati perché si affrettino a raggiungere il teatro di guerra (44-51)
44Chiude l’imperador lo sdegno e’l duolo
nel dipartir de’ duo guerrier più forti,
e tutto intento alle gran cure ei solo
par che gl’animi altrui regga e conforti.
Mostra che l’avanzar l’avverso stuolo
o nulla o poco a’ suoi guerrieri importe
poi che sian genti paventose e nude,
cresce il numero sì, non la virtude.
45Con tutto ciò delle cristiane tende
munisce il vallo e le trincee rinforza,
e l’esercito suo sicuro rende
contra ’l furor d’ogni improvisa forza;
di qua scorre e di là, sì chiara splende
del magnanimo sir l’aurata scorza
ch’un altro sol arar quaggiù diresti
per lo campo roman solchi celesti.
46Né meno ancor ciascuna parte adempie
di re, di duce, il capitan de’ Persi,
concorre l’Asia alla sua tromba et empie
d’insegne i colli al fedel campo avversi.
De’ rauci corni il vòto ciel riempie
e d’altri suoni orribili e diversi.
Parte co i premi inanimisce, e parte
con le speranze al periglioso Marte.
47Escon talora alcune schiere e vanno
alle sortite, e i capitan sospesi
della fortuna a leggier prova fanno
pugnando il saggio a maggior guerra intesi,
e d’uscire a i guerrier licenza danno
per non rattiepidir gl’animi accesi,
e qual e là con bellicosi carmi
più e più volte il dì si suona all’armi.
48Ma prima già per l’eremita e poi
per Batrano, Adamasto e per Silvano,
del santo privo e di sovrani eroi
disvigorò l’esercito romano,
qual novello Sanson che i crini suoi
tronchi la bella ingannatrice mano,
o qual Icaro pur ch’altero vòle
e la piuma e l’ardir gli manchi al sole.
49Cosdra, che se n’avvede, e che mandato
avea da prima il capitano Orgonte
a raunar da tutto il destro lato
d’Affrica genti al suo servigio pronte,
or ch’ei si crede il popol battezzato
opprimer sì che non mai più sormonte,
e che l’occasione a lui si presta
di far che in Asia non v’avanzi testa,
50per terra un messo a tutto corso spinge,
e per mare un vassel che sopra l’onde
leggiermente volando appena attinge
l’umido sale, e nulla parte infonde.
L’un di polvere il volto al corso tinge,
l’altro al Mediteran rade le sponde,
e l’uno e l’altro alla novella armata
porta dal signor suo questa ambasciata,
51che quai si siano or l’adunate genti
vengano a lui rapidamente dove
sopra de gl’avversari infermi e lenti
vorrà far in un dì l’ultime prove,
e quei del tutto annichiliti e spenti
senza moltiplicar contese nuove,
e variamente ritentar fortuna
raccoglierà molte vittorie in una.
Orgonte dopo aver radunato un grande esercito in Medio Oriente passa in India a cercare aiuti e lascia il campo a Erano, che fabbrica una grande flotta (52-60)
52Varie genti e diverse in tanto avea
raccolte Orgonte a i lidi d’Ascalona,
di Sammaria, d’Arabia e di Giudea,
e fin là donde il mar d’Egitto suona;
poi passato Efraimo e Galilea
gl’aspri monti varcò di Zabulona,
e di là pur ne tragge seco e mena
di Fenicia, di Tiro e d’Apamena.
53E la gente ad Erano in cura lassa
che di cento navili a lei preveggia
per abbatter Bizanzio, et ei sen passa
dove all’indico re soccorso chieggia.
Della polvere il mar quantunque bassa
toccar non vuole, e giacer queto il veggia,
tranquillamente in monticelli addutti
gl’aerei suoi perigliosi flutti,
54che se si desta e raro dorme il vento
sollevator del nero turbo al cielo,
dal commosso sabbion del tutto spento
rimansi il dì nel polveroso velo,
e dell’orrida notte alto spavento
nel cor distringe al peregrino un gielo,
e non aere più se ’l nembo il serra
passando inghiotte a respirar ma terra.
55Chiuso il misero anela e in van s’aita
col tergo opposto alla stridente arena,
sovra l’indica pietra in via smarrita
tien fisso il ciglio, ella il conduce e mena.
Tra la polvere al fin perde la vita
se quel turbine reo non perde lena,
sommerso in terra e sepellito vivo
e dell’aura vital dall’aura privo.
56Così dunque fuggendo il mobil piano
per non correr la polvere omicida
passa per Palmitina e via lontano
preme col cauto piè la via più fida.
Ma già comanda alla sua gente Erano
ch’a far le navi antica selva incida,
e dell’alte lor chiome i colli sgombra
e cupe valli e larghi campi ingombra.
57Cento e cento a due man mosse securi
fanno a gl’arbori antichi acerbi oltraggi,
fendon gl’orridi tronchi i ferri nudi
e ne caggion sonanti abeti e faggi.
L’ampia valle rintuona, e cavi e scuri
odonsi rimbombar gl’antri selvaggi,
e spaventate ancor l’antiche belve
fuggon tremanti a più remote selve.
58Vedi al sol dimostrar l’orride sterpi
gl’abeti alteri e strascinar frondose
le sparse chiome e qual brancute serpi
lor d’intorno ravvolte edre famose,
e co i lor tronchi infra virgulti e sterpi
tirate arare il suol le quercie annose,
e condur gravi et infinite salme
di cipressi odorati e cedri e palme.
59Così portan talor di grano un monte
formiche accorte alle magioni anguste,
temendo il verno, e fan veloci e pronte
la stessa via di salmi gravi onuste,
gara è fra lor chi va più carca in fronte,
riga il nero drappell l’arene aduste,
e qual posa e qual prende e qual ripone
e qual punge la preda e la dispone.
60Cento fabbri maggior, ciascuno almeno
tien cinquanta ministri, e di lor parte
dirozza i legni e parte inchioda, e pieno
n’è tutto il lido e le gran moli sparse.
Riferve l’opra e in pochi giorni avieno
innalzate el navi antenne e sarte,
le vede e spiega e veste già ciascuna
fido schermo del mar la pece bruna.
L’eremita Anastasio, cristiano convertito, mette in guardia Erano dal fallimento cui è destinato: il comandante non ci crede e salpa (61-72)
61Già per l’onde si muove e morde il lito
con cent’ancore sue grandi e tenaci
la nuova armata, e già soave invito
le facean sospirando aure mendaci,
quand’ecco al duce un pallid’uom vestito
di setosi cilici aspri e penaci,
scalzo il lacero piè, di corda cinto
e di bianco pallor nel viso tinto.
62Lunghe e nere ha le chiome, al tergo, al petto
da gl’omeri divise in giù cadenti;
le ciglie ha gravi e in venerando aspetto
severi gl’occhi e di baldanza spenti;
s’allunga il volto e ’l labbro alquanto eretto
soave forma e mansueti accenti;
biforcata ha la barba e per digiuno
crespe e magre le mani e ’l vestir bruno.
63Era questi di Dio l’amato servo
che tra l’ombre d’error sepolto nacque,
e nel popol fedel crudo e protervo
le mani un tempo insanguinar li piacque,
ma poi pentissi e ’l buon Giustin conservo
suo primiero fallir lavò con l’acque,
e traendolo fuor del viver morto
Anastasio il chiamò quasi risorto.
64Viveasi il santo in solitaria cella
sopra un sasso che ’l mar non lungi siede,
e là piange sue colpe e ’l sen flagella
e con lunghi sospir mercé ne chiede.
Et or dal sasso allontanato in quella
spiaggia, contro ad Eran rivolge il piede,
e chiamandolo a nome a lui si scopre
suo caro un tempo e già compagno all’opre.
65«Raffigura,» dice ei «son io che fui
Magundato il guerrier del campo perso,
anch’io Cosdra seguii, pugnai per lui,
mostrommi a Cristo e la sa sua fede avverso,
ma con le colpe mie, l’offese altrui,
per dover cancellar lagrime verso,
a quel Signor ch’allo smarrito calle
m’ha ricondotto ov’io voltai le spalle.
66Gl’è decreto di Dio che ’l sacro legno
ritolga Augusto e glorioso il porte
dove eterna pietà l’ha fatto degno
di disserrar del chiuso Ciel le porte.
E tu, che stimi all’immortal disegno
con quest’armata audacemente opporte,
vedrai ben tosto, e le tue navi insieme,
a qual termine va chi Dio non teme.
67Cristo è ’l Dio vero onnipotente, e ’n vano
a lui contrasta uman potere imbelle:
gira i globi del Ciel l’incisa mano,
e ’l confitto piè calca le stelle,
e tu che intanto audacemente, Erano,
le vele spieghi a sì gran Dio rubelle,
oh quanto, oh quanto avermi ancor creduto
vorrai ben tosto», e qui divenne muto.
68Stupisce Erano e raffigura all’atto
l’antiche forme e la cangiata vista,
e quant’altr’uom da quel di prima è fatto
tanto se ne conturba e se n’attrista,
ché fuor del seno aver lui crede or tratto
forza di passion maligna e trista,
ma indarno i preghi e le minacce intanto
riuscir viste, il piè rivolge il santo.
69E l’incredulo Eran ne’ curvi pini
la schiera adatta e più nel mar gl’infonde,
e co i gelidi fiati matutini
muove per le tranquille e placid’onde.
Aran le prore il mar de’ gonfi lini,
traggono i bianchi gioghi aure seconde,
e senza batter mai de remi l’ali
per l’acqua van più che per l’aria strali.
70Ma poi ch’uscì dall’oceano il sole
di luce a seminar del cielo i campi,
pallido si vedea più che non suole
interrotti spirar sanguigni lampi,
e parte avvien che l’orbe suo ne nuole
macchia che d’atro orror l’ingombri e stampi.
L’avveduto nocchier che fisso ’l mira
ne scolora la fronte e in cuor sospira.
71E tanto più che rifuggir veloci
con lo spesso cangiar l’aeree note
la grue mira a man manca, e in fioche voci
destra nube de’ corbi il ciel percote,
e le folaghe al lito, invèr le foci
più secure di fiumi e più remote,
muovon l’umide piume e quelle in secco
prendon stridendo a spennacchiar col becco.
72Né men tristo presaggio il curvo dorso
del veloce delfin sorge fra l’onde,
che spesso avvien che di sue rote al corso
or si mostra del tutto, or si nasconde:
«Che fia?» dice il nocchier d’affanno morso,
«Sfoga, Nettuno, i tuoi disdegni altronde»,
e tuttavia tranquillamente il caccia
vento di suo favor per la bonaccia.