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La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro XIX

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 20.02.16 13:07

ARGOMENTO
Calisiro ad Enarto il nuovo e strano
suo caso espone, e come ei fu soletto
con Alvida una notte e pur in vano,
dalla piena del fiume accolto e stretto.
Indi, per quel ch’oprò l’altro germano,
del principe Teodor nato sospetto,
ei si muove a cercar l’alta guerriera
co i figli insieme e con armata schiera.

Enarto raggiunge quella che crede la fanciulla: è in realtà suo fratello Calisiro, travestito da donzella (1-9)

1Già sottilmente i primi raggi d’oro
saettava dal Gange il sol novello,
e di lucide perle ampio tesoro
su le frondi apparia d’ogn’arbuscello,
onde ’l figliuol del principe Teodoro
ch’amore affligge, a’ suoi desir rubello,
scorge colei che su l’erbosa riva
del fiumicello incontro a sé veniva.

2Ella nell’appressarsi a poco a poco
li sembra Erinta, alla statura, a i panni,
e così avvien che l’amoroso foco
in quel che piace altrui sovente inganno.
Ma colei più quanto più scorcia il loco
mostra e conferma i manifesti inganni,
e poi più presso ella si ferma e ’l fianco
lasso riposa e tutto il lato manco.

3E in una scorza d’arbore rimira
novellamente alcune note impresse,
somigliando a veder marmo che spira
si ferma e volta e riguardar sovr’esse.
Poi con tanta pietà piange e sospira
ch’ammollir si sentia le pietre stesse.
Non vuol turbarla e, per sentir, secreto
s’appressa Enarto a passo lento e cheto,

4quand’ecco al suon d’inaridita fronde
che, premuta dal piè, l’orecchia fiede,
volgesi dolente e mira d’onde
venìa ’l rumore e del guerrier s’avvede.
Né sì rapida mai cerva dall’onde
dov’arcier l’attendea rivolge il piede
com’ella il corso a dileguarsi affretta
per l’alta selva ov’è più folta e stretta.

5Si solleva la vesta e sovra ’l dorso
quasi vela nel mar Zeffiro o noto,
incurvando la van l’are del corso
per l’errante sentier del bosco ignoto.
L’amate allor: «Che son io tigre od orso,
che tu m’abbia a fuggir? Pon freno al moto,
che farai da’ nemici, ohimè, s’ancora
da chi t’ama t’involi e chi t’adora?».

6Ma colei pur dov’è più folta e scura
l’antica selva innanzi a lui s’invola,
qual d’avanti a sparvier per l’aria pura
sua salute a cercar tortora vola.
E con l’aura nel piè della paura
omai distinta era rimasa e sola,
quand’ecco il lembo alla sua vesta prende
nodoso sterpo e non la squarcia o rende.

7Non cede il manto e non si svolge, avvolto
quinci restando al duro tronco, in guisa
che se non è di propria man disciolto
seguire indarno il correr suo s’avvisa.
Sopragiunge l’amante e poi ch’al volto
la fuggitiva sua guarda e ravvisa,
l’error comprende e ’l suo german s’avvede
esser colei che la sua donna crede.

8E Calisir, che in feminile spoglia
esser dal genitor colto si stima,
mancar sentesi ’l cor sì come foglia
ch’al fin d’ottobre il primo verno opprima.
Non sa che far, non sa che dir si voglia,
chiudersi brama in parte oscura et ima,
e in paragon de’ suoi rossori è poco
ferro che sfavillando esca dal foco.

9Enarto allor che dell’error s’accorge
sorridendo al fratel s’apre l’elmetto,
sì che ’l fanciullo immantinente scorge
nell’arnese temuto amico aspetto;
ond’ei respira, e ’l cor s’allarga e sorge,
da vergogna e timor calcato e stretto,
che ’l timor parte e la vergogna lieta
riman senza paura allegra e queta.

Calisiro racconta del suo sfortunato e fortuito incontro notturno con Alvida, che al suo pari era uscita nottetempo travestita da cavaliere per cercarlo; insieme tornano al campo (10-58)

10E poi ch’alquanto e quei rimase e questi
mirando attento, e tacito e vermiglio,
primiero Enarto i suoi ferventi e mesti
amor contando, al suol tien fermo il ciglio,
e chiede poi del variar le vesti
perch’abbia Calisir preso consiglio,
e che voglia importar quella sua scorza
e chi dentro vi scrive e chi la scorza.

11Con un alto sospir si volse e disse:
«Pregoti, Enarto, attenzion mi presta,
perché favola mai non si descrisse
sì strana e nuova, e la mia storia è questa.
Tu sai che ’l petto amor già mi trafisse
di piaga in un dolcissima e molesta:
dolce poi che me l’amata mia
amante fu non che benigna e pia;

12molesta, ohimè, perché quantunque amore
faccia i desir corrispondenti in noi,
goderne, ahi lasso, e raddolcir l’ardore
ci vien conteso acerbamente poi.
E così, senza refrigerio il core
se ne consuma entro gl’incendi suoi,
e così siam due riamanti amati
felicemente miseri e beati.

13Beati ancor che la contraria sorte
non ci prestasse mai tempo né loco,
d’aprir se non per le visibil porte
con scambievoli sguardi il chiuso foco;
né pur giammai: – Tu mi distruggi a morte -,
potei pur dirle in suo furtivo e fioco;
ma che? quando per gl’occhi il cor si vede
più distinta favella amor non chiede.

14Basta in amor quel ragionar verace
che per gl’occhi s’esprime e ’l cor favella,
basta quel suon che se la lingua tace
spiegan le voglie in questa fronte e in quella.
Così del ciglio in amendue loquace
a noi bastò la mutola favella,
e lo sguardo aggiungea dove non puote
giungere il suon dell’amorose note.

15Ma tosto ancor questo parlar contese
a gl’occhi nostri acerba sorte e dura,
partir convienle, e in suo lontan paese
porta ’l cor mio, che più di me non cura.
Così, tolto il veder che i petti accese,
supplì la penna all’amorosa cura,
e dolcissime sempre ovunque sia
lettere mie riceve e sue m’invia.

16E quando ultimamente incontro a noi
mosse ’l suo genitor, venn’ella seco,
e ricondusse il sol de gl’occhi suoi
a schiarir l’ombra al mio cor mesto e cieco.
Lettere più frequenti ebb’io da poi,
ce le porta la notte astuto greco,
che viene e va dal nostro campo all’altro
con mentite sembianze audace e scaltro.

17Cauto messo d’amor le porta in loco
u’ le mie trova e le riporta a lei,
né per mantice mai s’infiamma foco
come fanno per lor gl’incendi miei.
Mille volte le bacio e parmi poco
e le rileggo e quattro volte e sei,
né carattere v’è ch’io non rimiri
minutamente a parte e non sospiri.

18Ieri pur ne venn’una e mentre ch’io
vonne solo sul vallo e penso e leggo,
e ’l core e gl’occhi a quelle parti invio
a cui guerra fa ’l padre, io pace chieggo,
e discorro fra me: – L’idolo mio
pura là si trova, io le sue tende veggo:
deh, qual breve distanza a me l’invola?
Perché ’l corpo riman se ’l desir vola?

19Fortunati augelletti, a voi son preste
d’ogni vostro desio corriere l’ali,
quanta invidia ve n’ho; ma stolto, in queste
impossibili brame errar che vale?
Se levar non si può peso terrestre,
perché ’l desio pur si solleva e sale,
voglia l’uom quel ch’ei può, ben si concede
alle voglie d’amor supplir col piede -.

20L’uno all’altro pensier seguendo appresso,
come salvo condurmi a chi mi sface
mille modi rivolgo e quello stesso
ch’or del tutto mi piacque or mi dispiace.
Sovviemmi al fin quel che m’avei tu spesso
detto, ch’io rassomiglio a chi ti piace,
e che parea la mia sembianza e l’atto
dellaS | dalla guerriera tua quasi ritratto.

21Ond’io presi consiglio, o fosse amore,
che maestro de frodi a’ suoi le ’nsegna,
parer colei che t’è scolpita al core
con simil manto e ciascun’altra insegna.
L’ombra di ch’io può favorir l’errore
e se troppo la voce il ver disegna,
cangerò lei con brevi accenti e fiochi
e ’l più ch’io possa accelerati e pochi.

22E quai le vesti e gl’ornamenti sono
d’Erinta, altri da me trovati furo,
e poi la sera, allor ch’affatto il dono
sparge della quiete il ciel più scuro,
me ne vesto e m’acconcio, e l’atto e ’l suono
quant’io so meglio assomigliar procuro,
e così me ne vo dove m’adduce
cieco per l’ombra cieca il cieco duce.

23Caminando tra via trovo un torrente
che d’alto monte risuonando scende,
e poi giunta nel pian l’onda corrente
da gran sasso divisa in due si fende.
Torbido ad or ad or crescer si sente
per nuova pioggia, e ’l passo a me contende,
pur tanto vo di sasso in sasso ch’io
valico un ramo del sonante rio.

24Posto ch’io ho sull’altra ripa il piede,
mi volgo indietro, e più gonfiando assai
tutto sopr’ogni selce alzar si vede,
né potrei ritornar dond’io v’entrai.
Vommene all’altro ramo e non concede
ch’io passi più, tant’è cresciuto omai,
anzi un guerrier che incontro a me veniva
dall’onde al lito a gran fatica arriva.

25Parvemi il cavalier, poiché vicino
più mi si fece, il capitan Triface,
io per non l’incontrar torco il camino,
che notizia d’amico allor non piace.
Al lito pur dond’ei venìa camino,
e la via dond’io venni il guerrier face,
nessun saluta e passiam muti e larghi
del torrente a varcar gl’opposti marghi.

26Ma giunto alla riva un morir certo
veggio che mi saria credermi all’onde,
e non m’arrischio, e mi rimango incerto
se tornar deggio o tentar guado altronde.
Cresce il fiume pur sempre e quel deserto
chiude con le sonanti umide sponde,
ond’io m’affido addolorato e invano
empio di miei sospir l’isola e ’l piano.

27E costretto aspettar che l’onda cali,
veggio tornar quel cavaliero intanto,
che trovò l’acque anch’ei cresciute e tali
ch’oltre il fiume passar non si diè vanto.
E di me non accorto i propri mali
a gl’arbusti scopria ch’erano a canto,
e con le stelle e con la bianca luna
d’amor si querelava e di fortuna.

28- Questa l’acqua non è, non è già questa –
dicea – che tempri il mio fervente ardore,
altra ne sperav’io, che non arresta
tutta l’onda del mar fiamma d’amore.
Mille volte inondò la fronte mesta
il proprio sen di lagrimoso umore,
ond’io ben so per più di mille prove
ch’alle fiamme amorose acqua non giove.

29E voi, vane speranze, indarno addotte
su le piume al desio che vi trasporta,
poi ch’a mezzo ’l volar cadete rotte
che farem con Amor, perfida scorta? -.
E così raddolcia l’ombre alla notte,
e la querela sua, da me già scorta
non difforme alla mia, per quant’io n’odo,
parte ne compatisco e parte godo.

30E lento lento al cavalier m’appresso,
traendo al suon del lamentar soave,
ond’ei mi scorse e si recò in se stesso,
guardingamente a guisa d’uom che pave,
tal ch’io, temendo il mio venirgli appresso
non mi rendesse ingiurioso e grave,
a parlar presi e con accenti persi,
conforme al suon ch’io lo sentia dolersi.

31E dissi: – O cavalier, l’altrui sventure
destan pietà, ma via più quelle assai
che l’amorose e fervide punture
fanno in cor giovenil tormento e guai,
et io, che non men provo acerbe e dure
pene d’amor, pietosa or m’appressai,
e prego voi per la cagion ch’io sento
ch’a voi pur com’a me porta tormento,

32deh, non vi spiaccia, o cavalier, se giunge
a i lamenti d’amor donzella amante,
s’un medesimo affanno il cor ne punge
non sia vi prego il lamentar distante.
Anzi che ’l solo amar non ci congiunge,
ma del torbido rio l’acqua sonante,
e ci s’aggiunge ov’una fiamma è poco
il legame dell’onde a quel del foco -.

33Risponde, e parla in suon latino allora:
– Pace il ciel doni all’amorosa guerra
e consenta al desio che v’innamora
tutto il piacer che può bramarsi in terra.
E per passar men duramente l’ora
che ’l torrente crudel ci chiude e serra,
affidatevi meco e in queste arene
voi le vostre direte, io le mie pene -.

34Parla italico sì, ma pur gl’accenti
mal prontamente proferir s’udia,
sì che finto il parlar, veri i lamenti
conobbi in lui che gl’avea mossi pria;
e non meno di me par ch’argomenti
dal favellar ch’io persian non sia,
e per dir breve ognun s’accorge intanto
che l’un l’armi mentisce e l’altro il manto.

35E così pure il cavalier comprende
me per nemico, e non si muove a sdegno,
anzi meco a parlar più dolce prende,
perch’io vada spiando e dond’io vegno.
Et io, che avvolto in queste false bende
pensai ch’allor si ritenesse a sdegno,
per lo creder ch’io fussi una donzella
risposi a lui con feminil favella:

36- Io mi son giovanetta e vo d’amore
spinta per l’ombre, e mi conduce e guida,
né ’l piè m’affrena il tenebroso errore
né voglio altro che me compagno e guida,
ché nulla ha da temer chi non ha ’l core
nel petto suo, dove ’l timor s’annida,
e qualunque altro mal può nocer meno
che l’incendio d’amor chi ’l porta in seno.

37Vommene al campo perso e là forse
castigo avrò dell’ardir mio sì cieco,
pur ch’io veggia colui ch’al cor mi corse
sarò contenta, e ch’io mi trovi seco -.
Et egli a me: – Come vèr noi ti scorse
l’impaziente amor ch’alberga teco,
tu con vesti mentite, io con arnesi
verso il campo cristian la strada presi -.

38E qui tace e sospira, e ’l sospir viene
dal cor divelto et è di fiamma acceso;
ei nell’elmo nascoso il volto tiene,
et io nel velo a ben celarmi inteso;
ei le sue mi racconta, io le mie pene,
ei l’oggetto del cor lasciai in sospeso,
ned io lo scopro; ei par che brami e tema
ch’io nol conosca, io n’ho talento e tema.

39Ah mal nato timor, timor che solo
fusti cagion col tuo rigore algente
che le venture mie fuggendo a volo
non sarò più giammai se non dolente!
Timore, ah lasso, in compagnia del duolo
fammiti e stammi omai sempre presente,
che s’allora io temei ben deggio appresso
sempre temere il sol, temer me stesso.

40Ma intanto a man sinistra ecco sorgendo
dall’odorato e lucido Oriente
il pianeta d’amor, che in cielo ardendo
sormontando splendea di raggi ardente;
a me l’omero allora lui volgendo
l’armata fronte il cavalier dolente,
a ragionar con l’amorosa stella
così mesce i sospir con la favella:

41- Già per me non se’ tu madre d’Amore,
lampa del terzo ciel, del giorno amica,
ch’alle fiamme ch’io porto è ’l tuo splendore
contrario sì ch’io ti vo’ dir nemica.
Per me stella se’ tu nunzia d’orrore,
cui sanguigno vapor la chioma implica;
tu di raggi conduci armato il die,
che l’ombre uccide e le speranze mie -.

42Poi, volgendosi a me: – Donzella, omai
ecco ’l segno del dì, l’alba è vicina,
tosto il lume apparir, tosto ’l vedrai
tremulo biancheggiar su la marina.
Giorno, come per tempo aggiunti n’hai,
e l’onda in van per me quinci declina,
che ’l tempo è corso et alla propria schiera
tornar vogl’io donde partii iersera -.

43Per far lo stesso anch’io mi levo e prendo
da lui congedo, et egli allor motteggia,
che fidarsi di me vorria potendo
d’un suo secreto e non sa ben s’ei deggia.
Et io le luci allor nel cielo intendo
e dico: – O Re della stellante greggia,
Tu che ’l tutto governi e ’l tutto muovi
e nel mondo quaggiù fulmini piovi,

44Tu, se fuor di sua voglia io mai rivelo
che dunqueS | cheunque or questi alla mia fé commette,
subito sovra me vibra dal Cielo
la più fera e mortal di tue saette.
Per lo nume d’amor, per l’aureo telo
con cui fa l’alme al suo poter soggette,
di silenzio e di fé vivi sicuro,
vivi pur, cavalier, così ti giuro -.

45Et egli a me: – Poi che fidanza io posso
aver di voi chi m’ha piagato il seno
veramente dirovvi, e chi m’ha mosso
se vorrete di me fidar non meno.
Dirò del rio che subitano e grosso
n’ha qui ristretti in picciolo terreno,
voi direte lo stesso, e intanto fia
vostra fede a me pegno, a voi la mia -.

46Et io: – Quantunque il misero accidente
possa all’idolo mio scrivere in carte,
molto più gradirò che voi presente
stata qui meco in solitaria parte,
narriate a lei quant’io con voi dolente
rimasto sia tra dure rive et arte,
che non sempre in amor dove al pensiero
tiranneggia il desio si scrive il vero.

47Ma perch’io veggio ognun di noi se stesso
quanto più può tener celato altrui,
che voi qui giunta ad un nemico appresso
a me negate, io discoprirmi a vui,
dirovvi un modo, e mi sovviene adesso
che sicuri può renderci amendui,
tacerem chi sima, finché presenti
l’un l’altro teme e scopriremo assenti.

48Già tramonta la luna, onde più bruno
ci coprirà dall’atra notte il manto.
Scorziamo un tronco e in quelle scorze
scriva il suo nome a quel ch’egl’ama a canto;
scrivalo e ’l tenga, e nol dimostri alcuno
finché ’l buio maggior non cresca intanto,
e poi quando più leggier non si puote
io le tue prenderò, tu le mie note.

49E così partirem con ferma chiave
d’infrangibil silenzio amor guardando;
già sai ben tu se nostra fé sia grave,
né romana virtù suol porla in bando -.
Piace a me ’l patto, e ’l cavalier che l’have
tra noi proposto il confermò giurando
per l’aureo sol, per l’ampia terra ei giura,
per lo vasto ocean, per l’aria pura.

50E la scorza d’un arbore divisa
scrive poscia il guerrier con duro stile,
sott’apre l’elmo e l’occhio aguzza in guisa
che fa ’l vecchio sartor che l’ago infile.
Et io fra tanto, un’altra buccia incisa
d’un verde ramo a questa sua simile,
di propria man con brevi note scrissi:
CALISIRO AD ALVIDA e più non dissi.

51Lascia intanto la luna il ciel più scuro,
e la sua scorza il cavalier mi porge,
e la mia prende e passa il fiume impuro
dove men periglioso il guado scorge.
Tornan l’onde a giacer quai prima furo
tra le rive distinte, e ’l lito sorge,
né men tardo di lui m’affretto anch’io
dond’io venni a passar l’onda del rio.

52E col fin della notte alla mia gente
sospirando il mio mal me ne veniva,
quand’ecco l’alba a scoprir me dolente
più d’ogn’altro amator sul Gange arriva.
Sparge le rose sue per l’Oriente,
ricolora le piagge e ’l mondo avviva,
et io leggo col dì che l’alba guida
nella mia scorza A CALISIRO ALVIDA.

53S’io rimasi a quel punto immobil sasso
pensal tu, ch’io nol dico. Ahi sorte ria,
riconosco le note, e volgo il passo
ma lunga è troppo a ricalcar la via.
Onde, misero, al fin dolente e lasso
m’era posto a pensar la mia follia,
et ecco allor mentr’era fermo io quivi
a mio scorno e timor tu soprarrivi.

54Misero me, che pure a me soletta
per le tenebre amiche Alvida mosse,
e meco ell’albergò nell’isoletta
tutt’una notte e non sepp’io chi fosse.
E che mai vorrò più? che più s’aspetta
che le difficoltà vengan rimosse,
se non mi giova, ahi mentecatto e cieco,
soletta averla a mezza notte meco?

55Ahi cieco e stolto, e pur la luna aperta
a favor mio rinovellava il giorno,
e non era in quell’isola deserta
chi c’udisse o vedesse altri d’intorno.
Ahi qual più bella occasione e certa
e pur da lei senz’alcun frutto io torno.
Alvida, e tu di me poi che diraiS | poi dirai
quando la viltà mia compresa avrai?

56Questo è l’ardir d’un valoroso amante,
trovar l’amata a i suoi desir pietosa
e rimaner immobile e tremante,
temer la spina e non toccar la rosa.
Ahi fortuna crudel, fra tutte quante
mai furo a me più perfida e ritrosa,
ma dico di lei se stolto io fui
e mia sola è la colpa e non d’altrui?

57Fu la sorte seconda e destro Amore,
l’isoletta opportuna, amico ’l rio,
e ministro a me sol del mio dolore
fu la propria sciocchezza e l’error mio.
Ahi cieco, ahi stolto, ahi d’ogni senno fuore,
di chi m’ho da doler se fallisch’io?».
Così parla il garzon, piange e s’adira,
e ’l fratel per pietà seco sospira.

58Ma poi ch’alquanto i dolorosi affanni
lamentando sfogàr de’ petti loro,
tornaro al campo e l’un riveste i panni
che tra i rami celò d’un verde alloro,
e seguendo pur l’altro i primi inganni
con l’armi entrò del genitor Teodoro,
e di furto passò nell’aurea tenda;
poscia i lamenti lor fanno a vicenda.

Teodoro, sentite le voci che lo accusano di aver liberato la prigioniera, organizza la ricerca di Erinta per discolparsi e scoprire la verità (58-75)

59Per l’esercito pio la voce intanto
sonar s’udia com’un guerrier cristiano
mosso forse d’amor presunse tanto
ch’Erinta liberò col ferro in mano.
Sparge tacito spie per ogni canto
l’imperator, ma ne ricerca in vano,
banditrice la tromba al fin ne chiede
e ’l silenzio promette e la mercede.

60Sta sospesa la guardia e non s’attenta
rivelar che la notte uscì Teodoro,
che benché ’l suon del cavo rame senta,
teme il frate accusar del signor loro.
Pon mente e tace, e ’l bucinar paventa
quella coppia che fuor la notte foro,
Calisiro et Enarto, e la lor froda
temon ch’ad or ad or palese s’oda.

61Ma il genitor, che di se stesso sente
scorrere il campo un tacito bisbiglio
che ’l condanna di quel ch’era innocente,
né può la colpa immaginar del figlio,
vanne al vecchio Soffronio, a cui la mente
gravida è di prudenza e di consiglio,
e con lui spesso a divisar si pose
l’imperador le sue più gravi cose.

62Costui risposta oscuramente suole
render altrui come Sibilla in foglie,
ravvolger sensi e traportar parole
e più dubbi che mai lasciar le voglie,
perch’egli accorto o palesar non vuole
le colpe in altri o nunziar le doglie,
né per facilitade o per chiarezze
suo profondo saper vuol che si sprezze.

63A lui parla Teodor: «Come compreso
per le voci del volgo aver già puoi,
ch’io dall’imperador mi chiami offeso
s’ode falso rumor sonar di noi,
e però la guerriera abbia ripreso
di propria man da condottieri suoi.
Ma ’l Cielo il sa, cui non s’asconde il vero
s’io n’ho la destra e s’io n’ho il cor sincero.

64Ma perché pure ogni calunnia noce,
benché di verità non porti faccia,
com’io deggia attutar la falsa voce
tuo consiglio a dar non ti dispiaccia;
troppo, se non s’ammorza, al vivo coce,
ch’io l’approvi parrà mentr’io taccia,
né scusar mi vorrei, ché quella scusa
che non vien chiesta è manifesta accusa.

65Né pur questo m’annoia: ov’io non prezzi
di discolparmi, altrui parer può forse
che per orgoglio d’animo disprezzi
che sian l’opere mie laudate o morse;
e s’io la gente alle mie scuse avvezzi
non sarà questo in minor grado forse?
L’un mi spiace pur dunque e l’altro stile,
ch’uno è troppo superbo, un troppo umile».

66Li risponde Soffronio: «Or ti conforta,
che benché sia la fama un mostro orrendo,
che ’l vero e ’l falso in su le penne porta,
mille lingue sonanti al volo aprendo,
e come ha presa o via diritta o torta,
vada col suo volar sempre crescendo,
pur come fiume, ov’ogni rio si mesce,
e ’l correr suo l’altrui concorso accresce,

67della notte è pur figlia e dell’errore,
e fa ’l suo corso in compagnia dell’ombra,
tra le vane speranze e ’l van timore
che luogo han sol s’oscurità s’adombra.
E però quando il nuovo sol vien fuore
dell’immenso oceano e ’l mondo sgombra,
fugge la fama il minacciar del lume
con sue tremanti e sbigottite piume.

68Ma fugge in van, ché più di lei possente
del sovrano Motor vergine figlia
mossa la verità dall’Oriente
le viene incontro e l’aurea spada piglia.
Candido è ’l suo vestire, e sì lucente
che la neve col sol mista simiglia,
povera d’ogni fregio e ’l crin disciolta
e più bella a veder quanto più incolta.

69Nutrilla il tempo, et ei pur come suole
far dell’altre quaggiù terrene cose,
divorar si volea l’eterna prole,
ma fuggiss’ella e se medesmo ei rose;
né quantunque veloce il balio vòle
l’aggiunge mai, né d’ella mai s’ascose,
tra così folti e tenebrosi veli
che ’l suo proprio splendor mai non riveli.

70E costei con la spada or presso or lunge
della fama fugace il leggier corso
quasi nera cornice aquila giunge,
l’ali fosche recide e frange il dorso,
né schermo ha l’altra ov’ella fère e punge,
ma stride indarno e chiede in van soccorso,
che rotta cade e nel cader disfatta
riman nell’aria onde fu prima fatta.

71Or con questo velame e non sì folto
che nasconda i miei sensi all’intelletto,
ho voluto ciò dir perché disciolto
d’ogni vano timor disgombri il petto,
ché non può contr’al ver poco né molto
giammai falso rumor né van sospetto,
ma lodo ben che procurar ti giovi
come insieme la donna e ’l ver ritrovi.

72E perch’a tempo esser potrebbe ancora
squadra che tu muovessi a ricoverarla,
più non è da indugiar, vadane or ora»,
tal Soffronio consiglia e così parla.
Teodor l’approva, e senza più dimora
suo destrier chiede e vuol anch’ei cercarla,
veste il lucido arnese e l’elmo allaccia,
la lancia impugna e ’l grave scudo imbraccia.

73E tra mille destrier n’elegge cento
de’ più veloci, e se ne va con essi
a ritrovar la bella donna intento,
per cupe valli e folti boschi e spessi.
Curioso ne chiede, e ’l portamento
e le vesti disegna e sparge i messi,
e gli raddoppia, e per aggiunger sproni
al lor pronto voler promette doni.

74Calisiro et Enarto insieme vanno
col proprio padre alla bramosa inchiesta,
e lo stesso sentier più volte fanno,
le pendici scorrendo e la foresta.
Ma del misero Enarto un doppio affanno
quinci e quindi mordendo il cor molesta,
vuole insieme e disvuole e la sua voglia
sembra in mezzo a due venti arida foglia.

75Pur vorrebbe trovar la donna amata,
cui trovar non potendo odia se stesso;
né trovar la vorria, ché lei trovata
suo nascoso fallir si scorge espresso.
Così vago fanciul cupido guata
bollente ferro e muove il dito appresso,
e vorria pur toccar ma non lo stende
che ’l bello cuoce e quel che piace offende.