commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro XVI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 20.02.16 10:19

ARGOMENTO
Il giovane Lucrezio indarno tenta
i Gazzarri affrenar; Correo l’uccide.
Triface, poi che l’alma luce è spenta,
rimaner con Silvan preso si vide.
La Superbia a Domete il resto avventa
delle sue fiamme, e poi s’invola e stride,
e quanto ell’operò nel campo greco
racconta a Pluto e torna al cavo speco.

Correo, infiammato dagli Inferi, spinge le truppe dei Gazzarri a ribellarsi a Lucrezio (1-17)

1Dall’esercito intanto e dal figliuolo
poi che fu lungi il disdegnoso ispano,
si pon Lucrezio a rassegnar lo stuolo
di cui novellamente è capitano.
E già condutto in un aperto suolo
tutto l’armato suo popol pagano
si facea quivi in ordin lungo avanti
passar distinti e cavalieri e fanti.

2E di ciascun ch’al suo cospetto viene,
minutamente osservator severo,
mescola or biasmi or rimprovero or pene,
grave ne gl’atti e nel sembiante altero.
E ben l’auttorità dimostra e bene
sostien d’Eraclio il trasferito impero,
maggior di quel ch’egl’era dianzi e molto
cangiato a i gesti, alla favella, al volto.

3Onde ’l superbo e velenoso mostro
che se n’uscì dell’affannate grotte,
e portò di là giù nel mondo nostro
l’incendio reo della tartarea notte;
scote la man, che dal tremendo chiostro
ha le fiamme invisibili condotte,
su le barbare fronti il foco aggira
e ne fulmina in lor le vampe e l’ira.

4Né sì spessa giammai la neve algente
fiocca il dicembre in dilatate falde,
come piovean su la sdegnosa gente
folgori e lampe affumicate e calde,
onde ciascun romoreggiar si sente
e scior le lingue impetuose e balde,
contr’a ’l garzon che dimostrar si vuole
del canuto Silvan verace prole.

5E come allor che ’l nubiloso Noto
di folti Nembi oscuro velo ingrossa,
e tutto quanto il ciel sereno e vòto
colma d’impression torbida e grossa,
sciogliesi al fine e resta al tutto ignoto
da qual nuvola pria l’onda sia mossa,
che da tutte in un tempo si disserra
diluvio immenso ad innondar la terra,

6così lo stuolo a ribellarsi intento
unitamente ogni suo fren dissolve,
e sembra allor che la raggira il vento
su per l’arido suol commossa polve,
che spaventosa in cento rote e ’n cento
rapidamente al ciel s’aggira e volve,
e seco porta il tempestoso nembo
di fuor la notte e le procelle in grembo.

7Pur tra i barbari insulti al fin risuona
Correo superbo in più distinta voce,
quest’ogn’altro precorre, ogn’altro sprona
e più d’ogn’altro è fervido e veloce.
Non ha ’l mar se ribolle il ciel se tuona
nembo o procella a par di lui feroce;
combatte ignudo il forte braccio, e folta
ha la gran chioma e la gran barba incolta.

8Ei del barbaro stuol ciascuno avanza
di cor, di membra e di possanza e d’oro,
e racchiude nel sen voglia e speranza
e del governo e dell’imperio loro,
e però trarre alla paterna stanza
vorria le genti onde levate foro,
perché così, se non per sempre, almeno
terrà di lor qualche stagione il freno.

9Deh, che deposto almen non l’avess’ei
né lasciatolo a tal, che poscia armato
di maliziosi accorgimenti e rei
profeta apparve all’empio Sergio a lato,
e discender dal regno de gli dèi
mostro l’augello a prender cibo usato,
e mosse e muove ancor sanguigna e bruna
contra al verace sol l’armata luna.

10E tant’oltre fin or l’ardito corno
contro al nome di Cristo avria sospinto
che saria già da dove nasce il giorno
fin dove muore in ogni parte estinto,
se tante volte a suo perpetuo scorno
già non l’avesse il mio Signor respinto,
et avvezzato entr’un’angusta foce
l’ombra a temer della purpurea croce.

11Ma di Correo tu mi richiami, o Musa,
ch’io ritorni a cantar. Com’egli ha scorto
fremer la turba indomita e confusa,
da furor mossa, impetuoso e torto
ei si discopre e neghittosi accusa
ribellanti a Lucrezio a sì gran torto,
e muove ardito a rinfiammar ne’ petti
mantice all’ira e tai discioglie i detti:

12«Su su venite, a manifeste note
parlano i volti, o generosi amici,
servan gl’indegni e chi non sa né puote
scatenarsi dal piè nodi infelici,
ma non già soffrir noi leggi mal note
né gl’eserciti estrani, anzi nemici,
noi dunque, noi, le nostre insegne denno
star d’un fanciullo obedienti al cenno?

13Fu legitimo fren quel primier solo
che mi distrinse e quel, disciolto ha morte,
dapoi successe (e ben disdegno e duolo
n’ebb’io, Silvano, alla seconda sorte).
Ma chi sarà che ’l garzoncel figliuolo
ancor l’imperio ereditar comporte?
Al secondo servir, servite al terzo:
è del nostro ubbidir farsi uno scherzo?

14Chi fia di noi che sopportar mai voglia
d’un fanciullo al voler soggetto starsi,
che gonfio il sen d’ambiziosa voglia
vuol, noi premendo, in signoria mostrarsi?
È più leggier ch’al vento arida foglia,
mille volte in un dì suol variarsi;
seguite me», così dic’egli e insieme
tutto ’l barbaro stuol gl’applaude e freme.

15E come allor che di vapor terrestri
umido pende e tenebroso il velo
se dal freddo Rifeo Borea si desti
a disgombrar dell’aer tinto il cielo,
tutti ne van l’impression celesti
dove seco le porta aura di gielo,
così tratto da lui l’infido stuolo
riman Lucrezio abbandonato e solo.

16Corre il giovene allor, le piante han l’ale,
le fiamme il volto e vien gridando: «Or questo,
questo a me dunque? Ahi, che ragione, ahi quale
debito vuol ch’andiate voi s’io resto?
Sarà dunque vèr me la fede or tale,
l’obligo imperial sarà cotesto?
Deh prima, ohimè, che pigliar strade
in me volgete, o cavalier, le spade.

17O ’l ferro o ’l piede a me volgete: io prima
vo’ cader qui per vostre man trafitto
che di ribellion fregio s’imprima
me vivo, e siasi al mio governo ascritto.
Se ingiuriato alcun da me si stima
volga l’impeto in me, questo è più dritto,
faccia ’l terren del sangue mio vermiglio.
Ahi, di Silvan così si tratta il figlio?».

Il giovane cerca di ritenerli uccidendo l’alfiere (18-20)

18Così dic’egli, e per la turba passa
rapidamente, e tratto il ferro ignudo
vèr colui che ha l’insegna, il colpo abbassa
per giustissimo sdegno acerbo e crudo.
E ’l barbarico arnese in lui fracassa
ch’all’acerba percossa è frale scudo,
ond’ei cadendo il suo gelato preme
e ’l sangue versa e l’ultim’aura insieme.

19Indi della man fredda a lui traendo
l’asta ch’ei fatta avea tiepida e rossa,
la rinnalza Lucrezio e ’l piè volgendo
verso l’imperial munita fossa,
«Questa» dice «è la via, questa ch’io prendo,
da me sia meco ogni mia schiera mossa»,
e quasi tutta a questo dir consente
seco tornar la scompigliata gente.

20Così l’ampio ocean qualor decresce
o per virtù che in se medesma allenti
o per lo cielo, ond’egli or cala or cresce,
all’eterno voltar de’ lumi ardenti,
rapidissimo riede e in sé rimesce
rifuggendo ’l terren l’onde corrente,
e nel ritrarsi un nuovo mondo appare
che scoprir voglia a gl’abitanti il mare.

Viene a duello con Correo: muore, il pagano parte dal campo con tutto il contingente (18-38)

21Ma s’oppon di Correo l’animo forte,
e grida ardito: «O quattro volte e sei
stolti e miseri noi! Dunque le scorte
seguiterem di cui siam fatti rei?
Costui ne trae, chi non s’avvede, a morte,
castigator de’ vostri falli e miei,
che tai li crede, ha già l’alfiero estinto,
e torna a’ suoi del nostro sangue tinto.

22Non è più tempo, o sia pur fallo o merto,
l’aver franto, o guerrier, l’indegno freno,
dapoi ch’è fatto il voler nostro aperto
rivacillar ne’ primi dubbi il seno.
Sopra di me ciascun pensiero incerto
lasciate; andianne, e siate certi almeno
ch’io vi son per natura amico e fido,
e comune ho con voi la patria e ’l nido».

23Così diss’egli, e ’l crudel brando tratto
sembra un fulmine il ferro e ’l corso un volo,
così fervido affronta e così ratto
del saggio ibero il giovane figliuolo.
Ciò veggendo Lucrezio, il piè ritratto,
piantò l’insegna a man sinistra al suolo,
e con la spada al suo vessillo appresso
più bada a lui ch’a custodir se stesso.

24Grande è ’l pagano e muscoloso, e grave
l’omero e ’l fianco, e nerboruto ha ’l braccio,
e crede il temerario, e nulla pave,
della sua vita adamantina il laccio.
Pronto è Lucrezio, ha miglior arte et have
spedito più di minor membra impaccio,
e con velocitate e con vantaggio
vede e provede, ardito sì ma saggio.

25L’uno e l’altro era armato, e quegli e questi
nella fera tenzon molto valea,
né per bassa cagion gl’incendi desti
l’un magnanimo e l’altro al petto avea;
e più spessi che grandine e più presti
gl’orrendi colpi e questo e quel movea.
Rintrona intorno a molti miglia il loco
sembran le spade al balenar di foco.

26Di qua freme, e di là miran le schiere
con dubbio affetto e non li turba alcuno,
così rimaso attonito al vedere
l’esito della pugna era ciascuno.
Lieve e pronto Lucrezio or fugge or fère,
torna, parte et assal sempre opportuno;
Correo sta saldo et è qual perno in rota
mai sempre opposto ov’ei la spada rota.

27Così qualora il vorator molosso
con vari assalti il fier cinghiale aggira,
ferma l’orrida belva, ispido il dosso,
sempre volta vèr lui le zanne e l’ira;
fremon l’umide labbra, acceso e rosso
spaventevole sdegno il guardo spira,
e ’l nemico più lieve e men possente
pur cercando l’orecchia aborre il dente.

28Odonsi risuonar gl’elmi e gli scudi,
getton faville ad ora ad ora i lampi,
stride l’aer diviso a i colpi crudi
e percossi dal suon tremano i campi;
ma nessun per ancor gl’ha colti ignudi
così pronte ha ciascun difese e scampi,
e sì ben contrappesa il dubbio Marte
là possanza maggior, qua miglior arte.

29Ma ’l garzone animoso al fin pur giunge
d’acerba punta al fier Correo nel fianco,
che, sdegnato di ciò, sì l’ira il punge
ch’ogni furia infernal fervida è manco,
e inviperito ei s’avventò, ma lunge
si sottrasse Lucrezio ardito e franco,
e qual traccia di volpe il veltro in vano
s’ella torce sua via, corse il pagano.

30Così l’impeto suo, così delusa
l’agitata sua furia, in suon tremendo,
«Tra voi ladri d’Iberia or così s’usa,
dunque,» grida Correo «pugnar fuggendo?
Ma va’, fuggiti pur dove più chiusa
s’abbia l’ombra infernal l’abisso orrendo,
che fin nel centro e nel tartareo soglio
e nel grembo di Pluton ancor ti voglio».

31Né in Flegra mai della gran madre il figlio
mosse con tanti orror gl’assalti al Cielo,
né con tanto fragor cadde vermiglio
dal Ciel sovr’esso il tripartito telo,
onde il giovane allor del bianco giglio
si tinge in volto, e ’l cor gli serra un gielo,
con tutto ciò, bench’ei ritragga il piede,
né il campo ancor né la vittoria cede.

32E nel perder il suol giungendo all’asta
ch’ei piantò di sua man di sangue aspersa,
piegala, e non l’atterra, onde sovrasta
tanto ch’al manco piè gli s’attraversa.
Correo l’incalza; ei, che ritrar non basta
l’impacciato tallon, se ne riversa,
e ’l duro suol con quell’insegna insieme
mal bramata da lui, misero preme.

33Sul caduto garzon barbaro e crudo
Correo si getta, e dalla mole oppresso
già ne langue Lucrezio, e già lo scudo,
già di man gl’ha rapito il ferro stesso;
e due e tre volte entro ’l bel petto ignudo
ficcò ’l pugnale e trasse fuor con esso
sangue tiepido e puro e spirti lievi,
e colorò del bianco sen le nevi.

34E premutol col piè superbo e fero
dal busto esangue il vincitor si parte,
e ’l barbarico stuol va con l’altero
suo duce infido in più lontana parte.
Così seguon le gregge il lor guerriero
monton c’ha vinto in periglioso Marte,
e miran tutte a lui ristrette intorno
tumido il ciglio e sanguinoso il corno.

35Perde intanto la vita e resta un giaccio,
tutto empiendo il terren del proprio sangue,
l’infelice Lucrezio, e tien in braccio
l’insegna ancor per cui si resta esangue,
e nello scior della sua vita il laccio
così parla a se stesso, in suon che langue:
«Deh, creduto avess’io! Deh, padre, quanto
Ceser ha danno e tu cagion di pianto!

36Ch’io pur godrei dell’almo sole ancora
forse alcun dì la desiata luce,
e non termina il mal perch’i’ ne muora
ma peggior del morir danno produce,
ché fin or vinto ha ’l fedel campo et ora,
mia vergogna e mia colpa, indegno duce,
per me si rompe e si conturba; io solo
recise ho l’ali al suo spedito volo.

37Per me resta la croce in man de gl’empi
e di sue ingiurie invendicato Dio,
per me restan disfatti altari e tempi,
memorabile infamia al nome mio.
Ma tu, Signor, ch’ogni difetto adempi,
deh se più rimediar non vi poss’io,
tu soccorri all’esercito cristiano,
né sparse sian tante fatiche in vano.

38Questa mia sventurata e per me lasso
bramata troppo e mal guardata insegna,
nel dipartirmi a te, Signore, io lasso,
prendala la tua man che vince e regna,
né men l’anima afflitta al duro passo
per tua somma pietà guardata vegna».
E in sì fatto parlar morte gl’invola
l’ultim’aura di vita e la parola.

Triface è mandato da Eraclio a fermarlo, ma nel bosco incontra un drappello di Rubeno: lotta in maniera eccezionale ma alla fine, in modo infido, è fatto prigioniero (39-54)

39Più d’un pallido messo intanto è corso
con l’amara novella al sommo duce,
ond’ei si muove a por se puote il morso
e punir nello stuol chi lo conduce.
Ma già lungi il trovò, tardi il soccorso
a tanto mal l’imperadore adduce,
e sol mirò nel proprio sangue intinto
il misero garzon giacersi estinto.

40Con pietà sospirollo et alle schiere
rivolgendosi poscia all’Oriente,
sovra i monti scoprì l’alte bandiere
della rubella e fugitiva gente.
Fuggonsi speditissime e leggiere,
né più ’l suon della tromba omai si sente,
levasi intorno e si raggira e volve,
quasi cerchi l’error coprir, la polve.

41Cesere che farà? Seguir non vuole
con tutto ’l campo or c’ha ’l nemico a fronte,
né drappello spedir, che in fretta vole
i fugitivi a richiamar dal monte,
ch’ove forza non è, preghi e parole
rilevan nulla, e spesso ingiurie et onte,
a tal partito ov’è ’l minor periglio
volgesi presto il provido consiglio.

42E immantinente al guerrier tosco impone
di seguitar le ribellate genti,
né tacer prego o tralasciar ragione
né qual mai può valer forza d’accenti.
Largo promettitor, d’ogni cagione
si vaglia pur che la lor fuga allenti,
né dice più ch’a lui di senno istrutto
sola aperta la voglia espresso è ’l tutto.

43Sale in fretta il destrier, gl’allenta il freno
e le redini al crin tutte abbandona,
e ripugnando a quel veloce il seno
ben che rapido corra ancor lo sprona.
L’orma a pena del piè lascia al terreno
l’aria del correr suo franta risuona,
s’affretta e sbuffa il corridor nel corso
pien di candide spume e ’l fianco e ’l morso.

44Ma poi ch’affatto in grembo all’onde il sole
tutto s’immerse e lasciò ’l mondo ombroso,
e la notte allargò l’umide e sole
tenebre e sparse il placido riposo,
studiasi il cavaliero e in van si duole
ch’ei non arriva ove ne va bramoso,
giunge in un bosco e tra le frondi sente
calpestrio di destrier, mossa di gente.

45Sotto il duce Ruben guerrieri ircani
dell’esercito perso eran costoro,
ch’a predar mandre per gl’aperti piani
più di guid’att’in varie parti foro,
onde mosso a cercar gl’altri pagani
nell’incontrarsi il cavaliero in loro,
gli stima esser color per cui venìa,
color ch’Eraclio a richiamar gl’invia.

46Ma come avvien se d’arrivar si crede
tra l’amiche giovenche il tauro altero,
cui porta incauto in mezzo a’ lupi il piede
che gli fan cerchio ingiurioso e fero,
lev’egli il corno e non s’arretra o cede,
cotal fermasi in vista il cavaliero,
la lancia arresta, incontr’a lor si spinge
e ’l primo uccide e poi la spada stringe.

47E con laS | a mano intrepida e sicura
che, maestra, fra l’ombre anco non falle,
mesce il barbaro sangue e la verzura
e tra l’armi e le piante apresi il calle.
Caggion i rami all’alta selva oscura
tra i capi mozzi e le recise spalle,
tremane il bosco e risonar commosse
s’odon le valli alle crudel percosse.

48Mille Ircani feroci il guerrier tosco
stringonsi intorno, il duce lor gl’irrita
e favoreggia i loro assalti il bosco,
che ’l furtivo ferir celando invita.
Volano le quadrella all’aer fosco
pur non sent’egli ancor danno o ferita,
Rubeno accorre e i suoi rampogna e sgrida
che ’l caval sotto la cavalier s’uccida.

49E già punta la groppa, aperto il fianco
l’animoso destrier trafitto cade,
et egli a piè, ma non però men franco,
tra mille aste combatte e mille spade,
e fassi intorno al destro lato, al manco
di sanguigni ruscel correr le strade.
Ferito è in fronte e in una coscia e sotto
l’ascella destra è tutto pesto e rotto.

50Ma più cresceli il cor quanto s’allenta
più nel poter l’affaticata mano,
e veduto Ruben, vèr lui s’avventa
quasi al crudo mastin feroce alano.
Sull’elmo il fère e poi nel fianco il tenta
due volte e tre col crudo ferro invano,
ch’ei sempre sbuccia; al fin pur entra e fora
e l’arnese pagan tigne e colora.

51Ciò sentendo Ruben, di sdegno rugge
qual ferit’orso, e furibondo e crudo
cala il ferro a due man, Triface il fugge,
torna un rovescio e quei v’oppon lo scudo,
tutto vien d’una punta, ei cansa e fugge,
raddoppia i colpi e mai nol coglie ignudo;
Rubeno allor, tanto furor l’accese,
col latino guerrier venne alle prese.

52L’un l’altro abbraccia, il persiano afferra
Triface al collo e lo distorge e gira,
a lui ne’ fianchi il buon toscan si serra
e sostien del pagan l’impeto e l’ira.
Premon l’un l’altro e fan piegarsi a terra,
e l’uno e l’altro in van scote e raggira;
spendono ogn’arte i cavalieri e tutta
la forza lor nell’ostinata lutta.

53Ma della turba un feritor villano
con la spada a due man di furto scende
sopra ’l tallone al cavalier toscano,
mentr’ei non bada, e lui cotanto offende
che ’l piè li manca, ond’ei caduto al piano
nel polveroso stuol tutto si stende,
né si può rilevar che ’l piede offeso
più non sostien delle sue membra il peso.

54Lo stuolo allor di se medesmo un monte
gl’innalza sopra, e sì l’opprime e calca
ch’ei levar non può braccio o muover fronte,
sepellito nel suol della gran calca;
quindi l’anima in lui nel vital fonte
tremando fugge, e sua virtù discalca,
e là per dubbio accelerando il moto
lascia del corpo ogn’altro albergo immoto.

Tra i prigionieri trova Silvano, caduto in mano a Rubeno mentre si allontanava dal campo (55-63,4)

55Quindi il barbaro stuol, credutol morto,
ordina il capitan che si disarmi,
e poi ch’egl’ebbe a parte a parte scorto
e ’l magnanimo aspetto e i fregi e l’armi,
ch’ei sia pur quel Triface a pieno accorto
di cui Ceser non ha chi meglio s’armi,
rinvenir fallo e con Silvan l’accoppia,
raddoppiando il piacer la preda doppia.

56Silvano anch’esso al dipartir del campo,
con lo sdegno infernal che ’l petto gl’arse,
quando in mar s’attuffò l’eterno lampo
e le tenebre sue la notte sparse
s’incontrò negl’Ircani, e per suo scampo
fe’ l’intrepida man difese scarse,
ché, poi che solo egl’ebbe in van conteso,
fu dal barbaro stuol ferito e preso.

57Indi sentì per maggior pena, il figlio
dallo stuol de’ Gazzarri esser ucciso.
Ahi qual duro dolor! L’anima esiglio
prender tentò per sì crudele acquisto,
né già serbano in lui senno o consiglio
nell’estrema miseria asciutto il viso,
ma come ’l sangue in profondata piaga
torna il piangere indentro e ’l core allaga.

58Ferma il misero vecchio e sembra un sasso
l’afflitte luci alle sue proprie piante,
e d’ogni sentimento al tutto casso
non è vivo omai più benché spirante.
Di vivo ha sol ch’ei muove, afflitto e lasso,
il fianco e di sudor tutto è stillante,
di quel freddo sudor ch’amaro scorre
dal dolor mosso et al morir precorre.

59Ma ritornando a i lor perduti uffici
gli spirti omai nel cavalier languente,
fissa i torbidi suoi lumi infelici
verso Silvan, tra la nemica gente.
L’un l’altro mirando infra i nemici,
l’un per l’altro maggior la doglia sente,
e l’uno e l’altro, in reo silenzio avvolto,
della lingua il difetto adempie il volto.

60Ma pur Triface al fin proruppe e disse:
«Sventurato Silvan, dove ci mena
fera sorte e crudel, che ci prescrisse
nel medesimo tempo egual catena?
No, che vero non è quant’altri scrisse
che ’l compagno nel duol tempri la pena,
ch’io, qual foco per foco, arder più sento
e ’l mio farsi maggior col tuo tormento».

61Misero a quel parlar più non poteo
frenare il pianto il doloroso ispano,
ma su l’arido volto a lui cadeo
quasi doppio ruscel che scorra il piano.
Poscia così parlò: «Tuo caso reo,
non è tua colpa, o cavalier toscano,
questo alleggi il tuo danno e gravi ’l mio,
ch’autore a me del mio dolor son io.

62Io, lasso, io son ch’entro al mio petto annido
sdegno e furor, che l’intelletto appanna;
tal, poi cieco vi lascio e ’l figlio uccido,
me solo, io solo e ’l mio fallir condanna».
Volea più dir, ma come l’onda al lido,
riman chiuso ’l dolor ch’entro l’affanna.
La turba intorno or l’uno or l’altro ammira,
e ne sente pietà per mezzo all’ira.

63Di lor piaghe Ruben fa prender cura
tanto che in pochi dì ne furon sani,
ma la salute lor chiaman sventura
gl’incatenati cavalier cristiani.
Di lor poscia arrivò nuova sicuraLa Superbia infetta Domete e torna agli inferi a rendere conto a Plutone delle sue imprese (63,5-73)
a gli smarriti padiglion romani
che gl’ircani guerrieri all’aer fosco
avean fatto prigion l’ibero e ’l tosco.

64Di pena in pena e di dolore il duolo
trabocca il campo, e crescon sempre affanni,
e ’l mostro reo ch’uscì di grembo al suolo
per portar sé potrà gl’ultimi danni,
glorioso di ciò, per l’aria il volo
tumido volge e batte al petto i vanni,
pien di letizia orribile e dolente
e raggira con man la fiamma ardente.

65Né sapendo omai più ov’ella spiri
l’incendio reo dell’infernal facelle,
per tornarsene scarca a quei martiri
ch’affliggon l’alme al Re de Ciel rubelle,
c’ha ’l sole in odio e i luminosi giri
soffrir non può, né rimirar le stelle,
vede l’empio Domete e lui sol crede
di sua peste crudel più degno erede.

66Costui di stupro in picciol borgo è nato,
ma si finge il fellon d’illustre sangue,
e d’invidia il cor tristo avvelenato
del ben altrui qual di mal proprio langue.
E tiensi in petto il mal voler celato
come l’erba più verde asconde l’angue,
e con atto mentito e finta voce
quanto lusinga più tanto più noce.

67Le chiome ha nere, e ’l ciglio irsuto e bruno
fa sulla fronte oscura siepe e chiusa,
che non ha varco o breve spazio alcuno
e ’l suo torbido moto i falli accusa.
Sempre al tristo pallor, sempre digiuno
rara è la barba e squallida e confusa;
gl’omeri angusti e ricurvato ha ’l dorso,
ne’ piedi è strambo e van discordi al corso.

68Le reliquie del foco or dunque al seno
d’un uom sì fatto il crudel mostro avventa,
e stride e parte e fugge ’l ciel sereno
che qual nottola il dì fugge e paventa.
E torna il loco ov’ogni albergo è pieno
di pianto eterno, ov’ogni luce è spenta,
e dov’altro non s’ode e non si mira
che sembianze d’affanni, accenti d’ira.

69E là giù riportando al re dell’ombre
disse: «Datti, signor, conforto omai,
sian le sospizion tutte disgombre,
non avrà più vittoria Eraclio mai.
Corsi, et ambe le man di fiamma ingombre,
sparsi il fervido incendio e l’avventai,
e le menti a i guerrier percossi et arsi
e le schiere e gl’eroi divisi e sparsi.

70E se l’Inganno il vecchierello ha tolto
che favoria l’esercito cristiano,
io ne’ petti avventando impeto stolto
n’ho sottratto Adamasto e ’l fier Batrano,
e l’uno e l’atro in chiuso loco incolto
ho già condutti a insanguinar la mano,
e Volturno con essi e ’l forte Urbante
delle lor vene a insanguinar le piante.

71Né men privo ho di senno e di consiglio
quel vecchio lor che di pugnar sa l’arte,
e l’ho tratto prigion tristo e vermiglio
del proprio sangue in dure funi et arte.
Ho per man de’ Gazzarri ucciso ’l figlio
e con essi Correo dal campo parte,
che ribellanti alle paterne spiagge
seco ben trenta mila armati tragge.

72Or che più vi rimane? Triface anch’esso
prigione è fatto, e in vece mia Domete
tra lor lasciando all’empio cor gl’ho messo
le mie fiamme più vive e più secrete,
talch’ei seguendo i miei vestigi appresso
tessa di tradigion perfida rete,
e, lo scudo fatal tolto ad Augusto,
del gran furto del Ciel si parta onusto.

73Tutto quest’ho fatt’io, se nulla avanza
tu la fame e la peste al campo manda,
sin ch’affatto si sterpi; ha mia possanza
sue parti empite, il resto altrui comanda».
Così diss’ella, e vèr l’antica stanza
d’ombra chiusa e d’orror per ogni banda,
sprezzante in atto, il piè superbo accosta
senza attender da Pluto altra risposta.