ARGOMENTO
Con lo scudo furato al re pagano
va notturno Domete, et introduce
nelle trincere il popol persiano,
che in lor tacitamente si conduce.
Per favorir l’esercito cristiano
l’Angel si muove ad affrettar la luce.
Col figliuol di Teodor combatte Erinta
e riman dal destriero oppressa e vinta.
Domete vede rifiutate le proprie pretese di diventare capitano degli Elvezi, si vendica rubando lo scudo e i memoriali di Eraclio: li porta a Cosdra e si offre di aprirgli nottetempo le porte del vallo (1-27)
1Ma ’l traditore, a cui lasciato avea
dell’incendio l’avanzo il mostro altero,
poiché l’umida notte omai tingea
spargendo l’ombre ogni colore in nero,
giunto all’imperadore a lui chiedea
vago d’esercitar forza d’impero,
or che lungi ne son reggere ’l freno
o di Triface o d’Adamasto almeno.
2Risponde Augusto: «Al mio german Teodoro
già lo stuol di Triface in cura ho dato,
né gl’Elvezi vorrian che mossi foro
da lor medesmo o da chi presso è nato,
succeder voi per capitano loro,
sotto diverso ciel tant’anni usato,
e per costumi a così dura gente
e per civiltà sì differente».
3Per sì fatta risposta in vista pago
ma turbato nel cor parte Domete,
cui le viscere passa un pungent’ago
per le parti più vive e più secrete,
e di sangue e di morte ardente e vago
sol pensando a saziar l’avida sete,
mille modi discorre et alla fine
si risolve a tradir l’armi latine.
4Solo e muto passeggia, or lega or solve
della tela crudel l’infide trame,
e mille capi intorno al cor s’avvolve
del suo perverso e scelerato stame.
Un ne prende, un ne lascia, al fin risolve
di riempir così l’ordito infame:
girne ascoso a i nemici e lor celati
condur nel vallo a mezza notte armati.
5Ma seco in guisa tal prima argomenta:
– Se lo scudo fatal nel campo resta
fia l’offenderlo in van, che ’l Cielo avventa
per sua difension fiamma e tempesta.
Furerol dunque, e perché alcun non senta
nuovo scudo porrò nell’aurea vesta,
e portando il celeste a Cosdra in mano
fede otterrò dal regnator pagano -.
6Così pens’egli, perch’Augusto suole
uscir talor del padiglion vestito
com’uom del volgo alla stagion che ’l sole
chiuso nell’ocean chiude ogni lito,
però ch’egli medesmo intender vuole
del campo i sensi e ben sovente udito
l’universale opinion dapoi
Cesere variò gl’ordini suoi.
7Questo sapendo, il traditor si prende
quindi l’occasion, ponsi in aguato,
e due e tre notti insidiando attende
ch’ei tragga il piè dal padiglione aurato.
Dopo lunghe dimore al fin comprende
ch’ei fuor ne vien col suo germano a lato,
e ’l varco ascoso a piccioletta porta
né pur mai dalle guardie unquanco scorta.
8Quindi van fra le tende e di sua lode
che sol virtude e verità fan bella,
ode Eraclio le voci e più ne gode
quanto più che ’l parlar l’amor favella.
Giusto, forte, avveduto, invitto e prode,
soffritor ne’ disagi alcun l’appella,
altri pien di valor la lingua e ’l petto,
magnanim’altri et altri a Dio diletto.
9In questo mentre un persian di fuore
venendo alle trincee grida e promette
per parte del suo re premio et onore
a qual d’Eraclio a servir lui si mette.
Alza a questo l’esercito un rumore
e mischiando vèr lui scorni e saette,
mentr’ei rapido fugge e si discosta
fan con impeto altero aspra risposta.
10Ma ’l traditor per la nemica offerta
confermando ancor più l’empio pensiero,
ravvolgendo si va per l’ombra incerta
per la luna interrotta al suol più nero,
e vicin fatto alla secreta aperta
con sua chiave mentita, infame usciero,
dapoi che vòto il padiglion discerne
sicuro passa alle sue parti interne.
11E là del letto, alla colonna d’oro
dove i gravi pensier depone Augusto,
trova il drappo sottil d’aureo lavoro
della salma del Ciel pendere onusto.
Quella che giù dal sempiterno coro
portò l’imperatrice al mondo angusto,
e quel libro v’è ancor là dove impresso
have i suoi propri fati Eraclio stesso.
12Che seguendo lo stil di lui che nacque
per l’imperio del mondo e in tanta gloria
salì ch’ogn’altra fama oscura giacque,
e Roma anco per lui piange e si gloria,
quanto Eraclio mai fe’ tutto li piacque
nel volume segnar per sua memoria.
Domete il toglie, et altro libro et altro
scudo in cambio vi pon, malvagio e scaltro.
13E poi, qual lupo allor che gl’have estinto
dentro al sonno il pastor se ne dilegua,
mirando al petto ov’ei di sangue è tinto
sospettoso ne va ch’altri nol segua,
la coda serra e parli ognor che spinto
sia del fero mastin che le persegua,
e ingombro il sen di torbida paura
muove il trepido piè per l’ombra oscura,
14così fugge Domete e si raggira
là ve’ ’l buio maggior serra ’l terreno.
Ahi cieco, ahi stolto, ahi come ’l volge e tira
perfida fellonia ch’alberga in seno.
Alza ’l misero il ciglio e in alto mira
quante lucide stelle ha ’l ciel sereno:
tant’occhi ha Dio, che dalle parti interne
la tua malvagità vede e discerne.
15Volgi il misero piè che ’l core stesso
non che l’opere altrui son note al Cielo,
ned ha terra né mar, tana o recesso
ch’al divino veder sia nube o velo.
Ma quei non bada, e poich’è già sì presso
che può ’l campo arrivar tratta di telo,
ferma il piè sospettoso e in picciol varco
dal tergo il tragge, e pon la corda all’arco.
16Prende poscia una freccia, e dove a punto
finiscon l’ali alla forcuta cocca,
breve carme ravvolge, e quel congiunto
con l’infida saetta, il nervo abbocca,
e trattol sì che fino al petto è giunto
e ’l più alto dell’arco il ferro tocca,
apre a un tempo la man, la tesa sgombra,
e ’l pennuto quadrel fugge per l’ombra.
17Cade in giù con la punta e fitto resta
nella gran targa in cui dormendo Arone
sopra ’l duro guancial l’armata testa
dal sonno vinta a riposar compone.
Da i suoi rotti riposi Aron si desta,
e la man su lo strale a caso pone,
rapido sorge e la compagna fida
risvegliando e chiamando «Arm’arme!» grida.
18«All’arme, all’arme! Ecco i nemici», e ’l dardo
ratto a questi et a quei dimostra e nota.
«All’arme, all’arme! Alcun non sia più tardo,
già ’l nemico n’assal, già ’l ferro rota!».
S’accendon tosto a render vivo ’l guardo
le faci intorno e scaccian l’ombra ignota,
e i sogni in un con la quiete rotta
fuggon dispersi u’ maggior buio annotta.
19Ma poi ch’Aron per lo splendor novello
badar può meglio al suo sospetto strale,
della lettraS | lettera s’accorge avvolto a quello,
cui propinqua alla cocca implica l’ale.
Ne rompe il fil, ne frange in lei il suggello,
fuor leggendo notato un senso tale:
«Al re de’ Persi, a lui ciascun mi porte,
alle cui man capiterò per sorte».
20Al re dunque la porta; ei legge e manda
subito al traditor sua guardia stessa,
ché v’è scritto in qual loco e da qual banda
la fronda il celi occultatrice e spessa,
e che faccianli onore a’ suoi comanda;
et egli al calpestio, ch’omai s’appressa,
con sue nuove paure e nuovi gieli
non sa più se si scopra o se si celi.
21Come foglia per Borea il cor nel petto
quel notturno fellon scoter si sente,
che viltà non fu mai senza sospetto
né mal oprar senza paura algente.
Ma pur con dubio e mal sicuro affetto
dass’egli in forza alla nemica gente,
e condutto dinanzi al re feroce
così discioglie il traditor la voce:
22«Signore, io vegno in poter tuo fidando
non sol di ciò che ’l tuo guerrier ne disse,
che in grado avresti ognun di noi pur quando
dall’esercito greco a te venisse,
ma perch’io so che ’l tuo nemico odiando
quanto io prima l’amai ch’ei mi schernisse
agevolmente a te potrà, signore,
dove l’odio mi spinge unirmi amore.
23Né già picciol dispregio o breve sdegno
per fugace cagion subito desto,
ma sofferto gran tempo obbrobrio indegno,
come intender potrai, m’ha spinto a questo.
Né solo, o re dell’Oriente, io vegno
col cor, col’opra a’ tuoi servigi presto,
ma caro pegno e raro don port’io
di man sottratto al tuo nemico e mio.
24Quello scudo fatal che dal Ciel venne
mirabilmente e n’è sì chiaro il grido,
quel che i venti svegliò, quel che già dienne
da tempeste seconde aiuto fido,
e la vittoria con l’aurate penne
porta ovunque ne va per ogni lido,
quell’io t’arreco; e ben levato or questo
da’ tuoi nemici è facil preda il resto.
25Ben tra tanti guerrier chi ’l raffiguri
saravvi alcun che, pur da voi, fu visto
contra il nostro poter farci sicuri
e con ampio splendor risplender Cristo.
Ma qual fede maggior? Del Cielo i puri
color non vedi e ’l magistero immisto?
d’Eraclio il volume ancor ti dono
dove l’opere sue descritte sono.
26Ma via dono maggior, se pur vorrai
di me fidarti e del desir ch’io porto,
con tua vittoria in breve tempo avrai
tutto ’l campo cristian disfatto e morto;
se me lasci tornar per me potrai
qual si voglia condur trattato accorto,
né di me fia, siami concesso il vanto,
chi più possa voler né poter tanto.
27Rientrerò tra le latine tende
qual non visto partii, per varco ignoto,
e poi quando la notte il ciel raccende
e di luce e di suon fa ’l mondo vòto,
mentre tacita più l’ombra si stende
verran chete tue squadre al varco noto,
ch’io, le guardie con l’oppio addormentate,
calerò ’l ponte e introdurrò celate».
Domete torna al campo e grazie al Sonno e all’Ebbrezza addormenta le sentinelle (28-41,4)
28Lieto Cosdra l’ascolta e i doni accetta,
è conchiuso tra lor l’accordo infame.
Torna l’empio Domete al campo in fretta
pria che l’opre del dì l’alba richiame.
Nasc’ella poscia, e ’l ciel disombra e netta
del suo notturno e torbido velame,
tra gl’altri ei vanne e cautamente avverte
se pur sian le sue frodi ancor coperte.
29Dello scudo cangiato Augusto ancora
non s’era accorto, e poiché ’l giorno è spesso
il traditor la nuova guardia onora
e lei convita ad ingannarla intento.
Corr’ella a quel piacer che ne ristora
gli spirti e ’l corpo affaticato e lento,
e son mischiati all’empia mensa a lei
col vin di Creta algenti succhi e rei.
30Sollecito coppier mesce e rimesce
ne’ gran vasi il licor, crescon gl’inviti,
col riso il vino e ’l vin col riso cresce,
tutti i negri pensier vanno sbanditi.
La letizia e ’l rumor si sparge e mesce,
mille sorgon da scherzo amiche liti,
i secreti del cor fuggon disciolti,
lieti i cor tutti e son vermigli i volti.
31Onde mossa al rumor leva la testa
tutta grave di mosto in piuma avvezza,
torce stolida i lumi, al fin si desta
la vacillante e dormigliosa Ebrezza,
e batte l’ali inverso il ciel, ma resta
poi radendo il terren per sua gravezza,
pur com’anitra suol che i vanni spiega
ma levarsi non può che ’l pondo il niega.
32Corr’ella ignuda e ’l lungo crin disciolto
svolazza intorno alle gravose tempie,
respira ansando e sudor stilla il volto,
le luci ha torve e inumidite e spente.
Mostra l’arido labbro in fuor rivolto,
le vene ha grosse, il vin la gonfia e l’empie,
disdegnosa minaccia, irata freme,
non ha forza e vuol tutto e nulla teme.
33Costei giunta alla cena i vini assaggia
ne rimesce e rigusta e rassapora,
finché grave la testa al petto caggia,
che vegliar non può più né dorme ancora.
Per posar dunque e ch’a destar non l’aggia
la sì garrula mensa e sì sonora,
parte a volo spossato e parte a piede,
vèr la casa del sonno affretta il piede.
34Su la molle gramigna umido e grasso
giace ei disteso, e spira tardo e grave
e temperatamente il fianco lasso
muove misuratissimo e soave.
A lui giunge l’Ebrezza e ferma il passo,
lo scote e ’l chiama, e quei si sveglia e pave,
sopr’un braccio si leva, alzar si tenta,
ma ricade pur sempre e s’addormenta.
35Dopo molti rinforzi alfin le ciglia
pur leva al volto alla diletta amica,
ma protendesi intanto e risbadiglia,
né può ben avvertir quel ch’ella dica;
ella, avvista di ciò, per mano il piglia
e ’l fa seco venir con gran fatica,
giungono alfin su le romane fosse
d’onde sola pur or l’Ebrezza mosse.
36Ivi tacito il Sonno, ove la guarda
già lasciate le mense il vallo ascende
e intorno il pian con ogni studio guardia,
dove immobile e muto il tutto intende,
mezzo ombrato s’appressa e con bugiarda
lingua parlò, che lusingando offende:
«Dunque desti a quest’ora? Ahi duri uffici
di voi ben poco e di riposo amici.
37Qual vigilia e qual pro? La notte omai
cresciuta è sì ch’ogn’animale ha pace;
cala nell’ocean gl’umidi rai
la bianca luna, e tutto ’l mondo tace.
Come dunque temer deggiam qui mai
che ci arrivi il pagan con ferro o face?
come inutile è d’opra? e come sciocchi
dubbi son questi? Or via si serrin gl’occhi».
38Ma levando Anfion le luci a pena:
«Or chi tu sei che i padiglion cristiani
mi consigli a lasciar su questa arena
incustoditi alle nemiche mani?
No no, breve vigilia e breve pena
pur bisogna soffrir, gl’empi pagani
non conosci ben tu?». Sì dice, e leva
pur gl’occhi al cielo, e i sensi suoi rileva.
39E su l’asta sua propria alzando un piede
tienlo sospeso e poi con l’altro solo,
ché domar col disagio il sonno crede,
quasi vigile gru fa forza al suolo.
Fissa il ciglio alle stelle e di lor vede
le più tarde girar più presso al suolo,
qual declini rimira e qual sormonte
gl’occhi per sostener sostien la fronte.
40Ma sdegnossene il Sonno e disse allora:
«Costui fia dunque a contrastarmi ardito?
Or via, s’usi la forza, e fia seco allora
necessità quel che fu prima invito».
E traendo del seno un ramo fuora
di Lete intinto all’oblioso lito,
colui ne sparge e tutti gl’altri poi
ch’eran seco a vegliar, compagni suoi.
41Cad’egli allora, e caggion gl’altri avvolti
da non lievi catene il senso e ’l moto,
né farebbegli omai sorger disciolti
quand’orribile è più tuono o tremuoto.
Ma poi ch’affatto in grave oblio sepoltiApre le porte a un’avanguardia di Persiani, che fanno strage dei dormienti (41,5-55)
rimaner tutti al reo demone è noto,
chiam’egli i Persi a penetrar nel varco
e ’l segno dà col saettar dell’arco.
42Vola l’infida canna al segno certo
per lo tacito vel dell’ombra algente,
e così mostra a gl’avversari aperto
ch’or la guardia s’addorme e nulla sente.
Onde, poi che tal cenno ha discoperto,
cheta cheta ne vien l’armata gente;
tace muta la tromba, il corno pende
né pur minimo suon la notte offende.
43Di color, di caligine dipinte
son l’aste tutte e le lor punte oscure,
d’una nera vernice asperse e tinte
o d’altro tal che lo splendor ne fure.
Scurate l’armi e ’n cieche bende avvinte
nulla ponno apparir lucide e pure;
sono i primi tre mila e son tra i buoni
scelta fatta dal re, tutti pedoni.
44Altrettanti a cavallo a lor soccorso
non lungi a tergo il fier tiranno invia,
ma scior non pensa a tutto ’l campo il morso
pria che ’l mondo d’orror sciolto non sia,
che mal crede alla notte e poi ch’al corso
rinoverà chi ’l tutto nutre e cria,
s’allor fia tempo, ogni sua forza vuole
a danno de’ cristian muover col sole.
45Guida Erinta i cavalli e spesso altera
tra via si pente e lor raffrena l’orme,
come che la magnanima guerriera
si disdegni assalir gente che dorme;
pur, pensando al suo re che questo impera,
seguita di condur l’armate torme,
ma lente sì che pria sian giunte stime
a i ripari cristian le squadre prime.
46D’armi nere coperti e d’ombra nera,
senza suon, senza accenti e senza luce
per lo ponte celato alla trincera
quei che vengono a piè Domete induce.
Passa l’insidiosa audace schiera
e l’un l’altro francheggia e si fa duce,
e ’l tradimento all’empio fine indotto
fuggesi il traditor senza far motto.
47Stringonsi i Persiani e poi traendo
dall’oscure vagine i ferri crudi
van con impeto tacito et orrendo
a percoter non già corazze e scudi,
ma ne’ letti infelici ancor dormendo
a svenar senza schermo i petti ignudi,
e col far de’ più forti aspri governi
traggon lor brevi sonni in sonni eterni.
48Troncan de gl’onorati e degni busti
di più chiari guerrier l’altere fronti,
e con piaghe crudeli i ferri ingiusti
fan per tutto versar tiepide fonti.
Campioni invitti e cavalier robusti
infaticabilmente al ferro pronti
forati e guasti, insanguinati e tetri
fan delle piume lor bare e feretri.
49Con la penna non men che con la spada
valea Carinzio, il cavalier d’Abido,
e di carmi scrittor, talché ne vada
anco dopo al morir più chiaro il grido;
giunge il ferro nel cuor per nuova strada,
e l’alma trae dal natural suo nido,
piange Febo il suo fato e ’l bel volume
macchia del sangue suo tiepido lume.
50Su l’ombra prima il bel garzon Tieste
prese l’armi a forbir, ben l’amorose
luci tenne nell’opre un tempo deste,
ma nell’ultimo sonno al fin l’ascose;
su lo scudo appoggiato il crudo Oreste
nelle tenere membra il ferro pose,
passa il candido petto e ne divide
la bell’alma innocente e ’l corpo uccide.
51Apre i lumi il fanciullo e una e due
volte gl’aggira al terminar dell’ore,
al fin li serra a l’atreS | l’altre nubi sue
spiega Morte nel volto e spegne Amore.
Piega il pallido viso al tergo in giue
dal lento collo, e rassomiglia a fiore
ch’a terra inchini e resti ancor sospeso
dal ciel nemico in mezzo al gambo offeso.
52Misurando Aganeo l’erranti stelle,
forse errante non men, credea non pure
antivedere le torbide procelle
ma gl’umani accidenti e le venture.
E per me’ questi altrui predire o quelle
di compassi e di globi e di misure
pur come quei ch’in ciò suo studio intese
pendea non lungi il variato arnese.
53Ma che pro, se costui l’ora fatale
sapea de gl’altri? or com’ei qui dormia?
E s’ei pur non prevede i proprio male
come può indovinar che d’altri sia?
Non ha tanto poter senno mortale,
del futuro saper chiusa è la via:
cieco è l’antivedere del senno umano
e vita e morte a Dio riposta è in mano.
54Urtan nelle trabacche e nelle tende
già scoperti i pagani, e già repente
un confuso rumor sonar s’intende
e intorno «Arm’arme!» replicar si sente.
Morte, notte et orror giunte all’orrende
spade de’ Persian caccian la gente,
vanno a fasci elmi vòti, arnesi aurati,
cavalieri e pedon nudi et armati.
55Fianchi e busti trafitti e membri mozzi
spargono il suol di lacerata morte,
omeri trapassati e incisi gozzi,
squallide fronti e impolverate e smorte.
Di chi langue e chi muor grida e singhiozzi,
fremiti di dolor confuso e forte,
ruggir d’ira, urtar d’aste e cozzar d’armi
empiono il ciel di dolorosi carmi.
Eraclio si avvede della cosa, prega Dio perché affretti l’alba e organizza le difese: i pagani non vedendo giungere i rinforzi sono messi in fuga (56-74)
56Cesere a tal rumor desto repente,
si spinge fuor delle premute piume,
e cinto al petto il fino acciar lucente
vince l’oscurità dell’armi il lume.
A prender poi ne va lo scudo e ’l sente
più lieve assai del suo primier costume,
e detrattone il vel quindi s’accorge
ch’altri il sottrasse e inutil cambio scorge.
57Altamente sospira e ’l falso scudo
ricopre afflitto, e volge i preghi a Dio:
«Signor, s’io vo di tua difesa ignudo,
ben è giusto il castigo al fallir mio,
ma guarda almen dallo spietato e crudo
avversario comune il popol pio:
che mia sola sia la pena è ben ragione,
com’io son del fallir sola cagione;
58non fa ’l popolo mal che non derivi
da chi ’l governa, e gl’error sui son miei.
A me dunque, Signor, le colpe ascrivi
ché mie son tutte e me punir tu dei,
né sian color del tuo soccorso privi
dalle cui man servito in guerra sei.
E se i merti son pochi e i falli estremi
gl’uni accresca tua grazia e gl’altri scemi».
59Così disse il magnanimo e ’l destriero
tosto salì che gl’avea già menato
il frettoloso e pallido scudiero;
già molt’altri guerrier son giunti a lato,
porta ascoso lo scudo e sembra il vero
per lo noto apparir del drappo usato
e qual rapido fulmine si muove
contra chi fugge e «Dove,» grida «or dove,
60se ’l vallo è qui, se la trincera è questa
quai movete a cercar difese altronde?
Se qui rotti sarem qual più ne resta
rifugio altrove o quai ripari o sponde?
Via, qui meco, guerrier, facciam qui testa,
la notte omai che in queste insidie asconde,
se ne dilegua, e vedrem poi ch’un’ombra
è quel timor che i nostri petti ingombra».
61E in questo dir con cento lancie insieme
al nemico furor contra si mosse,
quasi torrente ch’alta vena preme,
e gli sterpi barbarici percosse.
Suo sovrano valor, che nulla teme,
dove le resistenze eran più grosse
batte più forte, e contra lui non meno
misto col Perso urtò l’Indo e l’Armeno.
62Tal per l’indico mar mentre movendo
lo spumoso Acesin cozza col Gange,
l’un nell’altro con impeto correndo,
l’un nell’altro rintoppa e l’onda frange,
ne rimbomban le valli al suono orrendo,
ne rimormoran gl’antri e ’l lito piange.
Sanguinoso è ’l conflitto e volan rotte
mille scheggie a ferir l’ombre alla notte.
63Ma Raffael, che in periglioso stato
l’imperadore e tutto ’l campo ha scorto,
con purissimo affetto a Dio voltato
dell’eterno voler messaggio accorto,
spinge rapidamente il volo aurato
del sol contrario al gran camin distorto,
quand’ei corre al mattin di raggi ardenti
l’odorate contrade d’Oriente.
64Là su i campi dell’aria altera mole
d’infrangibil diamante al ciel s’appressa,
dove l’alba abitar candida suole,
fugatrice dell’ombra oscura e spessa,
e raccender la luce in fronte al sole
che tuffata nel mar la notte cessa;
son gl’usci avorio e d’ariento è ’l letto
le logge intorno e le colonne e ’l tetto.
65Ripercote il diamante al puro argento
l’arbor ch’ei muove, e ’l bianco lume accede,
come specchio fa ’l sole e per un cento
ne rifolgora i lampi, a fiamme rende.
Dall’aerea magion soave il vento
per lo piano del ciel si spiana e stende,
e intorno lascia in spazioso giro
dolce color d’oriental zaffiro.
66Di rubin la cornice al bel diamante
quinci e quindi il balcon termine e verga,
vive perle nel suol calcan le piante
quasi brina appo noi la terra asperga.
Or qui la bella e fugitiva amante
alba, scorta del sol, la notte alberga,
e qui dormon del dì le bianche ancelle
che van poi seco a cancellar le stelle.
67Vi dorme l’aura, e figliuol suo non meno
pargoletto il crepuscolo si giace,
fin ch’ella il desti alla sua madre in seno;
et ha, pur com’Amor, l’ali e la face,
e vola ignudo e per lo ciel sereno
conturba l’ombre alla notturna pace,
e ’l velo ha pur ma di sua man disciolto
svolazza al tergo e non fa benda al volto.
68Or qui l’Angel di Dio l’eterne penne,
con cui riga la notte e l’ombra indora,
su ’l tergo accolte il volar suo ritenne
a risvegliar la sonnacchiosa aurora,
che dal nuovo splendor, tosto ch’ei venne,
bandito il sonno anzi ’l chiamar dell’ora,
sopra ’l letto levata a lui rivolta
dell’eterno Motor gl’ordini ascolta.
69Dicele Raffael: «Chi ’l tutto regge
anticipatamente in ciel t’appella,
a scacciar l’ombre, e te ministra elegge
a distoglier da’ suoi turba rubella.
Corri dunque, apri ’l dì, salva sua gregge,
loro indugio non ha, serra ogni stella,
scaccia il vel della notte e quella al fondo
dell’acque immergi e ricolora il mondo».
70E qui l’Angelo tace e l’aurea piuma
rispiega e lascia ardente solco impresso,
quasi nave nel mar cui bianca spuma
sua via dimostri un lungo spazio appresso.
L’alba rapida allor gl’albori alluma
per ubbidir del Re del Cielo al messo,
già dell’ampia magion sorg’ella fuora,
né molto il crin per troppa fretta infiora.
71Di qua scorre e di là per l’Oriente
l’accelerata e subita famiglia,
e ’l crepuscolo e ’l lume e l’aura algente
presta velocità, turba e scompiglia.
Scolorate le stelle a un tempo e spente
son nella region bianca e vermiglia,
rapido muta il ciel forma e colore,
volan veloci a coppia a coppia l’Ore.
72Ecco l’alba è già fuor, l’eterne rose
già cosparge là su l’eburnea mano,
e già disserra a colorir le cose
l’aurea vivacità dell’oceano.
Le squadre allor ch’entràr nel vallo ascose
ad assalir l’esercito romano
di lor oste incolpando il venir tardo
volgon dubbioso e timoroso il guardo.
73E già parte ferite e parte uccise
pria ch’arrivar le desiate insegne,
tornano al varco attonite e conquise
e ’l buon campo roman l’incalza e spegne.
Conosciute omai sono, omai divise
e palesi a ciascun le frodi indegne,
l’imperadore or questa squadra or quella
chiamando accende, e lor così favella:
74«Ecco l’alba, ecco ’l dì maturo e ’l parto
del giorno e l’opre omai son viste in terra.
Muoia l’ombra e la turba» e ’l Perso e ’l Parto
premendo incalza e percotendo atterra.
Teodoro il prence e l’animoso Enarto
spingosi innanzi a perigliosa guerra,
e di terga trafitte e membra scempie
dalle due spade il fiero calle s’empie.
Enarto duella e tramortisce Erinta, la soccorre portandola alla propria tenda e se ne innamora (75-101)
75Ma veggendo di fuor l’audace Erinta
spaventata fuggir la turba al basso,
stimola il corridor dal desio spinta
di raffrenarla al periglioso passo,
e fra i suoi contra i suoi spesso respinta
pur oltre avanza a viva forza il passo,
e prova fa di raffrenar ma in vano
lo sbigottito popolo pagano.
76Ond’ella al fin, poich’arrestar non vale
per modo alcun de’ fuggitivi il corso,
vuol che la fuga almen per minor male
abbia condegnità, termine e morso,
e de’ suoi cavalier stendendo l’ale
circonda il fianco a i Persiani e ’l dorso,
e d’onde innanzi alla diurna luce
taciti si partìr gli riconduce.
77E qual pastor che i suoi pasciuti armenti
all’albergo rimeni, ultima resta,
dalla selva a raccorne altri più lenti,
s’alcun pur giunge e ’l piè sovente arretra,
e gl’occhi alzando alle romane genti
sente occulta nel cor pena molesta,
ch’ella porti partendo il ferro asciutto
là d’onde il suol di tanto sangue è brutto.
78E del salvo squadron la cura altrui
lasciando, altera ove ’l suo cor l’irrita
torna a fronte a i nemici, e i detti sui
così discioglie, incontro a tanti ardita:
«Io mi sono un guerrier ch’oscuri e bui
non cerca i vanti, et or ch’è giorno invita
quella a giostrar che più si fida e vuole
far di sé paragon col nuovo sole».
79Sconosciuta è costei, ché dovend’ella
per l’oscuro condur le squadre perse,
la sopravesta d’or fregiata e bella
non porta, e l’armi e luminose e terse,
ma cangiato ogn’arnese ascende in sella
con divise non cognite e diverse,
e sprona e regge un corridor sì tinto
che ’l carbon vince allora allora estinto.
80Subito la disfida Enarto accetta,
che, tra i persecutor del vallo uscito,
mal potea raffrenar, poi che interdetta
gl’avea Ceser la caccia, il core ardito.
L’animoso garzon più nulla aspetta,
tosto c’ha il suon della disfida udito,
sprona il destriero e la gran lancia arresta,
rondine sopra rio vola men presta.
81Parver fragili canne i duri cerri
nell’aspro incontro, e rotte al ciel volaro,
trassero i cavalier gl’ignudi ferri
e le punte a gl’elmetti ambi voltaro.
Grandine che dal ciel nube disserri
batterebbe men ratto il forte acciaro;
risuonan l’armi alle percosse e mille
ne sorvolano al ciel fiamme e faville.
82Veloci al cenno al destro lato, al manco,
dove la man del cavalier si giri,
premendo a pena il sabbion trito e bianco
fan gl’esperti cavalli angusti giri,
e ripiegarsi e serpeggiar sul fianco
quasi verghe arrendevoli li miri,
e perché giunga o passi l’urto a vòto
sovente il cenno anticipar col moto.
83Di pari un tempo i due guerrier si stenno,
che notabil vantaggio alcun non ebbe,
né per lo spesso martellar ch’ei fenno
gocciola di lor sangue il ferro bebbe.
L’incude etnea sotto ’l martel di Lenno,
quantunque al ver con finzion s’accrebbe,
sfavillò pure e risonò, ma ’l suono
maggior qui molto e le percosse sono.
84Dopo lungo contrasto al fin percosso
l’animoso garzon nel manco braccio
vede il sangue stillar tiepido e rosso
e lo scudo alla man sente d’impaccio,
ond’ei freme nel cor, quasi percosso
bosco per Borea alla stagion del giaccio,
e pien d’un sicurissimo ardimento
stima perdita indegna il vincer lento.
85Su le staffe s’innalza e se può tanto
vuole a un colpo finir l’aspra nemica,
ma gli negò qual ei credette il vanto
del buon elmo di lei la tempra antica,
da cui difesa e intenebrata intanto
perde a mezzo del dì la luce amica,
perde ogni senso, ogni vigor vien meno
e lascia al corridor libero il freno.
86Et ei, che fuor d’ogn’uso alla stordita
vergine abbandonar sente l’impero,
di qua sciolto e di là dove l’invita
più l’errante voler corre il sentiero.
Seguita il cavalier la via smarrita,
del fugitivo e libero corsiero,
per uccider non già ma perché renda
l’armi al pagano e suo prigion s’arrenda.
87Ma in sé ritorna e come tante ciglia
volgersi in lei la generosa vede,
quasi pallido ciel che s’invermiglia
tosto ch’a i primi albor la notte cede,
ricolora il bel viso e in un ripiglia
lo smarrito vigor ch’a i sensi riede,
e ritorcendo all’avversario il freno
nella velocità sembra un baleno.
88E per purgar con gloriosa emenda
suo commisso fallir la spada stringe
e nello scudo all’avversario orrenda
punta, quant’ella può, rapida spinge.
Passa il ferro crudel finch’egli offenda
nel vivo Enarto, e vi si bagna e tinge;
passa il destriero e la confitta spada,
spezzar non volsi e non può uscir di strada.
89Onde però si torce in modo e piega
che riman curva a guisa d’arco e quale
diritta fu di ritornar più nega
ma riman di gran falce in vista eguale.
Quindi inutile fatta indarno spiega
la donna i colpi e ferir più non vale,
ché né punta giammai dov’ella intende
né giammai dove vuol taglio discende.
90Pur l’aggir’ella e la sua cura pone
che ’l figliuol di Teodor non le s’appressi,
non credendol durar lunga stagione
a sparger sangue e che ’l vigor non cessi;
ma col ferro a due man l’aspro garzone
scendele in fronte, e dal gran colpo impressi
restan del valor suo chiari vestigi
sovra gl’arnesi scolorati e bigi.
91O di lei fusse accorgimento o sorte,
dir non saprei, che scarso il colpo alquanto
come dovea non trasse Erinta a morte,
ben più oltre passò che l’armi e ’l manto;
o fusse il Re della superna corte
per non turbar col suo morire intanto
quel che già fermo e stabilito avea
del germe suo la sempiterna Idea.
92Calò la spada e come suol bipenne
cui selvaggio arator nel tronco abbassi,
né dalle vive ingiuriate antenne
può trarre il ferro ove allegato ei stassi,
ella a fermar dentro all’arcion si venne,
che le raffrena al fiero corso i passi
tenacemente, e qual tanaglia suole
l’offenditrice sua render non vuole.
93Per ritrarnela allor l’agita e scote
del cavalier l’impaziente mano,
e tira sì ch’al fin disciolte e vòte
ne caggion l’else a impolverarsi al piano.
E così avvien che danneggiar non puote
più l’un che l’altro, e spargon l’ire in vano,
e stan sospese a rimirarne il fine
e le squadre di Grecia e le latine.
94Tragge Erinta il pugnale e vuol con esso
finir la guerra, e ’l cavalier minaccia;
l’animoso garzon fa pur lo stesso,
e l’uno e l’altro il destrier punge e caccia.
E i corridor, che troppo omai son presso,
levansi in alto e questo e quel s’abbraccia,
e in feritade orribilmente accesi
premonsi acerbi a soverchiarsi intesi.
95Della bocca e del piè con l’armi orrende
fan l’indomite belve atroce guerra,
né più giova appo lor ne più s’intende
lo sprone o ’l fren che gli rivolge o serra.
Dal feroce anitrir l’aer s’accende,
pressa dal calpestio geme la terra,
fremon le nari e spargon fuor le labbia
fervide spume e furor misto e rabbia.
96Ma nella lutta orribile il destriero
del figliuol di Teodor con maggior forza
superando più sempre il caval nero
tanto gl’impeti suoi cresce e rinforza
che ’l men forte di lui (non già men fero)
al riversarsi al fin costringe e sforza,
e col petto all’in su steso per terra
la guidatrice sua sotto si serra.
97Quindi dal destrier proprio Erinta oppressa
disventurosamente immobil giace;
il che veggendo il cavalier, non cessa
ma scendutone a piè col ferro audace
alla vergine esangue omai s’appressa
per portarne le spoglie al lito trace,
e là dov’egli un cavalier lui crede
bella e giovane donna armata vede.
98Vede a i biondi capelli il ferro duro
ruvido troppo e faticoso incarco,
e l’avorio del sen tiepido e puro
dalla scorza d’acciar premuto e carco,
e vede il ciglio ancor ch’afflitto e scuro
tender d’amor inevitabil l’arco,
e la candida man di neve intatta
ch’altrui l’anima stringe e ’l ferro tratta,
99e come avvien se col suo grembo pieno
l’indico pescator dell’onde uscito
di maritime conche empie il terreno
e le dure cortecce apre sul lito,
se in gran perla s’abbatte ov’ei pur meno
si credette dell’acque il don gradito,
stupido nel piacer la mano arresta,
tal veggendo la donna Enarto resta.
100Riconosce ben ei d’Erinta il volto
ch’altre volte ammirò, non pur li piacque,
ma di speranza il nutrimento tolto
morì subito amor tosto che nacque.
E di ragione il duro fren disciolto
scuoter si seppe e soggiacer gli spiacque,
ma ora da speme alimentato amore
cresce in un punto e tiranneggia il core.
101Il cavalier nella paterna tenda
la fa condurre, e vuol ch’arte chirurga
di lei più che di sé cura si prenda,
che ’l più tosto che può risani e surga.
Pausodin la soccorre e l’ossa ammenda,
va molcendo i tumor, le piaghe purga,
langu’ella a morte e di sua vita avanza
appesa a debil fil frale speranza.