ARGOMENTO
Niceto arriva all’isola del Saro
dove Ergasto di sé la storia espone,
e lo prega a pregar com’a Dio caro
per l’anima del morto Eraclione.
Dal bel viso d’Erinta altero e raro
sente Enarto nel cor pungente sprone.
Muove Notturno e le paterne spoglie
si veste e corre e la guerriera scioglie.
Niceto approda a un’isola sul fiume e viene accolto dal pastore Ergasto (1-19,6)
1Niceto intanto in su la fragil barca
dove l’empio Satan l’avea condutto
dell’universo al Regnator monarca
volge intrepidamente il viso asciutto.
Corre la navicella oppressa e carca
d’immonde arene il periglioso flutto,
piega l’orlo talora e ’l fiume beve
e nel lacero sen l’onda riceve.
2Et ei pur fisso immobilmente il ciglio
là dove intenta ogni sua brama aspira,
sul confin della morte il fier periglio
quasi agevole via passa e non mira.
E lieto e pago al terminar l’esiglio
della vita mortal gode e respira,
qual peregrin che ’l suo natio ricetto
tornando scopra al fumigar del tetto.
3Ma Dio, che vuolne alcun servigio ancora,
dal Ciel pon legge al traviar dell’onde,
e torce a riva la squarciata prora
che ’l torrente crudel preme e nasconde,
e incontrando in un’isola che fuora
con sue canne palustri erge le sponde,
omai vinta dal fiume e d’acqua piena
la navicella all’isola s’arena.
4Era l’isola questa ove ’l contrasto
l’altiero Urbante a terminar prefisse,
fra Batrano e l’indomito Adamasto
per sì lieve cagion sì dure risse.
Qui fermossi il navilio aperto e guasto,
e ’l piè Niceto all’erma sponda affisse,
non dolente e non lieto al vital corso
che l’eterno Signor gl’allenti il morso.
5Ché ’l desio moderando, in cui s’accende
che l’alma uscendo del corporeo velo
a terra lasci le caduche bende
e con l’alto fattor s’unisca in Cielo,
quasi tenera verga che s’arrende
al divino voler piega il suo zelo,
o come stella che l’ardente face
volge al moto maggior sempre seguace.
6Passa a dentro Niceto e vario e pieno
d’ombrose piante e di bei fior dipinto
scorge l’isola bella il verde seno,
quantunque abbia di fuor ruvido cinto.
Chiaro e fresco ruscello il prato ameno
con due ramora sue corre distinto,
e là vede un pastor salvo dal sole
con sua cetra cantar queste parole.
7«Le speranze fallaci e’ nembi volano
per le cittadi, e i timor vani e trepidi,
ne s’adempion mai quelle o si consolano
né pur questi giammai fansi più tiepidi;
se stessi a sé gl’abitatori involano
altri servendo altrui vilmente intrepidi,
spingon altri per l’onde abeti e roveri
per farsi poi con arricchir più poveri.
8Le parole e gli sdegni a prezzo vendono
sovente altrui mormoratori ignobili,
e vita e fama altri inseguir dispendono
donne più che faville al vento mobili.
Nessuno, o rari, ahi cieco mondo!, intendono
nelle lor cecità fissi et immobili
come è dolce acquetar, come contrario
d’ogni riposo è ’l mondo errante e vario.
9Ahi cieco mondo, e perché in noi s’ammassano
tanti desir ch’a tormentar ci voltano,
mentre rapidamente i giorni passano
e ’l vital filo acerbe parche avvoltano!
E nessun giorno e nessun’ora lassano
che non l’accorci, e nessun prego ascoltano;
meglio è goder che sol da noi si vivono
quei pochi dì ch’a bei piacer s’ascrivono.
10E se dentro i palagi in cima giacciono
o sopra i carri d’or superbi seggono
quei che molto avanzando a tutti spiacciono,
tanto suggetti altrui quant’altri veggono,
a me vie più ch’a lor temprate piacciono
le voglie mie, che nulla più richieggono:
qui son io ricco e non c’alberga inopia,
ché ’l poco ancor, se più non brami, è copia».
11Così canta il pastore e queta i venti,
che non muovon pur fronda a gl’arbuscelli,
e stansi intorno alle sue fonti intenti
con piacer disusato i pinti augelli;
fanno basso tenor l’onde correnti,
de i due germani e lucidi ruscelli,
e non ch’altri Niceto i passi alquanto
tra via ritenne ad ascoltar quel canto.
12Poi, seguendo il sentiero, a lui s’appressa
e ’l feroce mastin, che si giacea
a’ suoi piedi in un giro e sovra messa
la fronte al fianco e gl’occhi ascosi avea,
muove rapido e latra, il canto cessa,
che più oltre seguitar forse volea;
posa il pastor l’armoniosa cetra
e grida sì che ’l suo Melampo arretra.
13E cortese in favella e in vista lieto
d’ospite santo accoglitor gentile,
menò con seco a ristorar Niceto
dov’ei ritratto ha tutto ’l mondo a vile.
Siede rustica là in un plataneto
opera di sua man l’albergo umile,
a cui mastra natura, egli architetto,
fermò l’aspra parete e pose il tetto.
14Ei le pietre raccolse e in saldi muri
legò con forte e con tenace limo,
che per poter più sollevar sicuri
fondamento lor feo stabile et imo,
e distinti gl’alberghi e gl’abituri
lasciò capace a più servigi il primo,
né men rozzi ma forti usci e finestre
poste v’ha di sua man fabbro silvestre.
15Entra Niceto, e la setosa spoglia
grave d’acqua e di loto al foco accosta,
che per uso giammai non la dispoglia
e in continuo martir punge sua costa;
e la necessità, ma non la voglia
scacciò dapoi la parca mensa apposta.
Miral fisso ’l pastor, più sempre elice
meraviglia ad ogn’atto, al fin li dice:
16«Deh, se pur se’ mortal, caro a Dio molto,
per tua somma virtù (ma si serena
maestà non cred’io d’umano volto)
qual sorte amica a’ miei confin ti mena
e come or che ne va tumido e sciolto
il rio senza nocchier giungi all’arena?
Uom non se’ tu, ma sott’umano velo
divino spirto a me ti manda il Cielo.
17E ben chiaro presaggio a me ne venne
stamane, allor che scotea lieve l’òra
le matutine sue candide piume,
l’aer purgando alla nascente aurora.
Beata selva, a cui tant’uom pervenne,
beato albergo, e più beato ancora
se non avessi o degno nume o schivo
meco albergar dentro al mio chiuso rivo!».
18Risponde: «Amor per tua bontà ti porta
a tropp’alto lodare: uomo son io,
anzi verme caduco, e mi trasporta
quinci rapida l’onda e l’error mio.
Ma ben se’ tu, che la via falsa e torta
sai del mondo lasciar, diletto a Dio,
da la cetera tua comprendo a pieno
quai le tue paci in questa selva sieno.
19E perch’ella non già rustiche note
risonar s’ode, et ha non bassi i sensi,
non è men di pastor che la percote,
per quant’io n’oda e per me stesso pensi,
cotant’oltre insegnar selva non puote,
né selvaggia cred’io stimar conviensi».
E di sua condizione e di sua fedeErgasto racconta la propria vicenda alla corte di Eraclione e la scelta dell’eremitaggio (19,7-45)
Niceto a lui maggior contezza chiede.
20«M’appello Ergasto, e ’n prima etade io fui
paggio» disse «di Cosdra; in Tiro nacqui,
e d’ubbidir lunga stagione a lui
pur mal mio grado al genitor compiacqui,
ch’io mal sempre soffrii l’imperio altrui,
e in servir altri a me medesmo spiacqui.
Vissi in corte molt’anni, attesi all’armi
e, nell’ozio di pace, al suon de’ carmi.
21Cantai donne et amori e talor finsi
veraci affetti in boscareccia scena,
e dal volgo stimato Arpasto vinsi
e fei muta tacer l’audace avena;
scoprii suoi furti e mille error distinsi
che nascosi dal suon s’udiano a pena.
Ma pugnando per Cosdra un dì prigione
fui dell’alto valor d’Eraclione.
22D’Eraclione, il genitor d’Augusto,
che per Cristo combatte i lustri e gl’anni.
È di giogo soave il collo onusto,
fu gradito il servir, dolci gl’affanni,
nessun più saggio e nessun mai più giusto,
di virtù più seguace, odiò gl’inganni,
et ei merito no ma sua mercede
riconobbe in me grato amore e fede.
23Ma venn’egli a morite e in questo lito
come fu suo voler, da’ suoi più fidi
amarissimamente sepellito,
qui li dier duri marmi ultimi nidi.
Né mai madre figliuol, né mai marito
vedova lagrimò con tanti stridi
esalando ’l dolor come pians’io
doppo morte più giorni il signor mio.
24Indi chiuso in un sasso i suoi partiro
dalla tomba dolente et io d’intorno
soletto ancor col pianger mio m’aggiro,
e vi fo per più dì mesto soggiorno.
Pur dal tempo i sospir s’intepidiro,
ond’io pensai di voler far ritorno
al primiero signor che m’ebbe in paggio,
e credea là diman pormi in viaggio.
25Ma sull’aurora, e non fur sogni o larve,
ché desti i sensi e gl’occhi aperti avea,
sereno in vista Eraclion m’apparve,
a cui nube d’argento il piè reggea,
e più bello a vedere che vivo ei parve,
sua bellezza maggior non l’ascondea.
Spargea lucido il ciglio albor vivace
e in sua fronte apparia conforto e pace.
26Era la bella sua vista simile
all’azzurro de’ ciel più puro, quando
più di nuvoli omai lo scioglie aprile,
e gian per essa eterni lumi errando;
come talora al penetrar sottile
nell’ombra il solS | sole per breve calle entrando
con suo bel variar lucida polve
muove gl’atomi d’oro e gli ravvolve.
27D’avorio schietto e più che neve bianco
nella destra tenea picciola verga.
Prendea lucido specchio al lato manco
di diamante cred’io, ch’in Ciel si terga,
e vèr me sorridendo il trae dal fianco,
perché con esso ogn’error mio disperga,
e ponendolmi innanzi in vita, come
solea parlommi, e mi chiamò per nome:
28- Che fai, – dice – che pensi? È fuor di questo
alla pace mortal conforme il sito:
muovi il piè per cercarne altro molesto?
Cangia amico fedel, cangia partito,
ferma gl’occhi al mio specchio e manifesto
vedi che cosa è ’l mondo a voi gradito -.
Et io vi miro e in lui discerno aperto
tutto il vano operar del volgo incerto.
29Veggio, né so dir come, allor presente
mare, terra, città, campagne e fiumi,
e veggionS | veggio l’avvenir come ’l presente
mirabilmente i miei purgati lumi.
Penetro allor d’ogni più cupa mente
malvage voglie e illeciti costumi,
le virtù nude e de’ lor panni veggio
vestiti i vizi e ’l mal condurre al peggio.
30Veggio i folli pensier di prima, al vento
le fallaci speranze e ’l desir vano,
veggio il presto disdegno e l’odio lento
con la morte ne gl’occhi e ’l ferro in mano.
E veggio, idolatrando oro et argento,
adorar per suoi numi il germe umano,
e tutti i cuori o poco meno assorti
dal vastissimo mar de gl’amor torti.
31E poi che mille e mille forme avante
senz’ombra o velo o finzione alcuna
mostrommi il lucidissimo diamante,
– Or mira – disse Eraclion – quest’una:
questa vuol dinotar tra tutte quante
la più dolente e misera fortuna,
e son color che in lunghi affanni e spessi
fan delle voglie altrui legge a se stessi.
32Costei, che chiusa in quel suo verde manto
sì tardo ha ’l piede e baldanzosa in fronte
sembra pur consolarsi ancor nel pianto,
né temer le minacce e soffrir l’onte,
quella è la speme, e i desir vani a canto
le fan corteggio, e salgon seco il monte.
Ma vedi quei che van legati e dietro
corron aspro sentier con piè di vetro?
33Questi son quei ch’a servir vanno in corte
e sottoporre a duro giogo il collo,
giogo crudel, ch’è sì tenace e forte
che dar non lascia a’ suoi soggetti un crollo.
Gocciola il pianto in sulle guance smorte,
rari han pastura e nessun mai satollo.
Ahi cieca gente! Ahi quale error la guida!
Quanto misero è l’uom che in lui si fida!
34Cangia dunque pensier, fermati, Ergasto,
tra questo fiume e vivi qui soletto,
e non voler, ché tutto quanto è guasto
il mondo, errar col cieco volgo infetto.
Gloria, imperio, tesor, son leggier pasto,
non si sazia per lor l’umano affetto,
e meglio è poi che non appaga alcuno
l’innata avidità viver digiuno.
35Credimi, amico, io per tuo ben ragiono,
e perché poi ch’io mi sarò partito,
sì come il più de’ vostri sogni sono,
non creda errante il mio sincero invito,
pon mente al sasso, ov’aspettando il suono
della tromba del Ciel son sepellito,
e mirerai quel che premendo in esso
l’eburnea verga io lascerovvi impresso.
36Ché nel porfido già forme e figure
né fantasma né sogno imprimer ponno,
e le pietre intagliar gelide e dure
forza non han l’impression del sonno,
ned io per me tanto potrei, ma pure
virtù mi vien da chi nel Cielo è donno -.
E qui si tace e con la verga eburnea
segna, e col disegnar scolpisce l’urna.
37Come industre pittor carbone o gesso
muova in tavola o in tela, ei muove e resta
mirabilmente in quel macigno espresso
dalla verga d’avorio or braccioS | bracio or testa.
Io miro attento e ne stupisco, et esso
la bell’opera segue e non s’arresta,
e tre parti di quattro a pin finisce,
l’ultima accenna, e partesi e sparisce.
38Io mi riscuotoS | risquoto, e ’l piè subito affretti
verso la tomba ov’ei fu già sepolto,
et ecco in lui, meraviglioso affetto
ch’ogni credenza altrui vince di molto,
il sasso, infino allor porfido schietto,
di nuove storie effigiato e scolto,
con arte tal ch’in ogni sua figura
più tosto ch’imitar vince natura.
39Io miro e penso e mi s’accende il core
di libertade il natural desio,
e dispongomi allor tra i rami e l’òre
di por meta al mio piè l’onda del rio.
Qui poi vissi tranquillo e fui signore
io tenendo di me l’imperio mio,
e in queste selve abitator romito
fabbricai rozzo albergo a me gradito,
40che mi basta a schivar la pioggia e ’l vento;
con ben diece giovenche e due bifolci,
mia diletta famiglia e caro armento,
ch’a pascer vanno alle stagion più dolci.
Qui cantar gl’augelletti e pianger sento
la lodolella per gl’erbosi solci;
pesco nel fiume e la mia rete accresce
al latte spesso et a le frutta il pesce.
41Porpora pensierosa o pallid’oro
non vest’io qui, né la magion superba
con l’inutile mio chiuso tesoro
nell’arche gravi il cor sepolto serba,
ma d’un faggio all’orezzo o d’un alloro,
dove letto mi fa tenera l’erba,
felice godo in queste piagge agresti
bellezze incorrottibili e celesti.
42Qui la cetera mia dolce senz’arte
risveglia i carmi, e ’l solitario lido
non gl’adula né morde, e qui di Marte
tromba non giunge o spaventoso strido.
Solo i tiepidi giorni or torna or parte
rondine pellegrina a farci il nido,
e l’amorosa tortorella insieme
con la compagna in un sol tronco geme.
43Et è dolce a veder tra fiori e l’erbe
mormorando passar l’api dorate,
che vanno a nembi alle stagioni acerbe
e del nettare lor tornan gravate,
l’usignuolo a sentir, che disacerbe
l’antica pena e tempri a noi l’estate,
e l’aura fresca al suo cantar risponda,
mista col mormorar di lucid’onda.
44E quando poi nel sonnacchioso inverno
lo stridente Aquilon dispiega l’ali,
e con nodo di giel serra l’eterno
corso de’ fiumi al duro marmo eguali,
temperando il rigor foco e falerno,
fuggon tutte in oblio cure mortali,
e con povera sì ma lieta cena
traggo ignoto ad altrui vita serena.
45E in sì fatto goder sett’anni e sette
dentro all’isola mia beato ho corsi,
e le pompe del mondo ho qui neglette
fuor de’ suoi fieri ambiziosi morsi,
e mille volte il giorno ho benedette
di lui le voci ond’io di me m’accorsi,
e la beata vision che sciolse
quel velo a me che in cecità m’avvolse.
Ergasto, avvisato in sogno da Eraclione dell’arrivo di Niceto, gli chiede di pregare per l’anima del suo vecchio signore (46-54)
46Ma per contar di quel passaggio ch’io
dell’arrivo tuo qui viddi stamane,
allor che l’alba il chiuso mondo aprio
dal serrame dell’ombre orride e vane,
lo stesso Eraclion mi rappario,
ma con forme più belle e più sovrane;
dir non saprei quanto splendore e quanto
spirasser gl’occhi e ’l bianco crine e ’l manto.
47D’un vivace color la vesta è tale
ch’appo lei rimarria torbido e scuro
quel più fino smeraldo orientale,
giamai ridesse in verdeggiar più puro;
né più la verga o più lo specchio è quale
visti da me la prima volta furo,
ma l’una è di smeraldo e di rubino
l’altro sfavilla un lampeggiar divino.
48E come fuor dell’odorato incenso
s’avvolge il fumo, e li fa nube intorno,
l’aer li fa dal suo splendore accenso
nuvol di luce e li raddoppi il giorno,
or così mentre lui rimiro e penso
lieto doppo tant’anni al suo ritorno,
io stupisco di lui, di me sorride,
egli, e sul letto appresso a me s’asside.
49E poi dicemi: – Amico, io so che vivo
m’amasti et ami ancor doppo la morte,
onde per quell’amor che di me privo
ti strinse il cor d’amara doglia e forte,
e per quel ben che solitario e schivo
goduto hai fuor dell’affannosa corte,
pregoti al maggior uopo oggi m’aita
per trarmi al ben della superna vita.
50Oggi capiterà su questo lito,
com’è ’l voler delle celesti rote,
un uom, che già molt’anni a Dio gradito
molto giovar per sua bontà mi puote,
e per me fia col suo pregar finito
il mio duro pregar l’antiche note,
e l’alma al suo Fattor sopra ogni stella
tornerà più che mai lucente e bella.
51Ch’ella stassene ancor tra queste piante
volando intorno alla sua fredda spoglia,
tal si purga di qua del mondo errante
qualunque ingiusta e mal temprata voglia.
Ma le preghiere sue vivaci e sante
termineran la mia penosa doglia,
così bel come vedi or già son io
pensa poi fuor d’esilio e presso a Dio.
52Prega tu dunque il peregrin devoto
ch’oggi capiterà tra queste fronde,
che per me preghi il gran Motor del mondo
ch’all’empireo ciel mi tiri e monde -.
E qui tac’egli, e dentro all’aer vòto,
invisibil si sparge e si diffonde,
et io per quel ch’avea da lui compreso
tra me rimasi attonito e sospeso.
53Ma veggend’or che tu se’ giunto a questa
selvatica magion, sicuro io sono
che se’ tu quel che d’ogni pena infesta
puoi sollevarlo ad impetrar perdono;
io ti prego però, per chi ti presta
tanto di grazia e di celeste dono,
e per quel mai ch’è per piacerti o piacque,
soccorri al mio signore», e qui si tacque.
54Niceto allor, ch’attentamente udita
d’Eraclion la bella storia avea,
disponsi orando a procurarli aita,
al penace martir che l’affliggea;
né meno ancor quel buon pastore invita
a lasciar la sua fé mendace e rea,
e la vera abbracciar seguendo Cristo
per cui può far d’eterna vita acquisto.
Enarto e molti altri guerrieri si innamorano di Erinta (55-75)
55Ma intanto già la valorosa Erinta
s’incominciava a sollevar dal letto,
e tornar la virtù donde sospinta
quasi partio dal generoso petto,
tra ’l pallor di viola ond’ella è tinta
nuova porpora appar nel dolce aspetto,
quasi aurora d’amor ch’alle celesti
rinnovate bellezze il mondo desti.
56Bella fu sempre a meraviglia et ora
tanto la sua beltà se stessa avanza
quanto oppressa dal mal perdé talora
di salute e di vita anco speranza.
E così più ridente april s’infiora
quant’ebbe ’l verno in lui maggior possanza,
e quando arde ’l leon torna più viva
la fiamma universal per pioggia estiva.
57Suo rigor caro e sua gradita asprezza
nel sembiante gentil forza racquista,
con quella schiva e nobile alterezza
che l’imperio de i cuor piacendo acquista,
non sai ben dir, s’ella gradisce o sprezza
dolcemente severa e lieta in vista,
e senza fregio e di sé sola ornata
se le dispiacci o no l’essere amata.
58A passo d’oro il biondo crin disciolto
per le nevi del collo errar si vede,
e parte insieme in un sol nodo avvolto
quasi re della fronte in cima siede.
Son due stelle i begl’occhi, un sole il volto,
né la luce di quelli a questo cede,
son di rose le labbra e son le note
dell’armonia delle celesti rote.
59Alle prede d’amor leggiadra e presta
corre la man d’avorio e l’alme prende,
e le distringe in guisa tal che resta
ciascuna in lei, con tal piacer l’offende.
Fino al bel piè l’invidiosa vesta
le secrete bellezze altrui contende,
ma ’l desio passa e non restando a loco
dalle nevi nascose apprende ’l foco.
60Quindi a tanta beltà con valor tanto
meraviglia non è che nasca amore,
né quantunque di pietra aver può vanto
che non s’arrenda a sì forte armi un core.
Come stridulo stormo al muro a canto
vola di state allor che ’l dì si muore,
e torna spesso a far veloce e nera
la medesima via l’alata schiera,
61così, mossi d’amor, volgonsi a torno
a le tende di lei duci e guerrieri,
che sol col viso incoltamente adorno
la prigioniera lor tien prigionieri.
Fanno i primi talor seco soggiorno,
esca de gl’amorosi lor pensieri,
e traendo si van per gl’occhi al seno
un soave mortifero veneno.
62Ella nol cura, e sol parla e ragiona
d’armi, di guerre, di trionfi e palme,
e curandone men tanto più sprona
sott’amoroso fren soggetto l’alme.
Ma fra tutti color ch’ella imprigiona
sommette Enarto a più cocenti salme,
ard’egli e tace e si consuma, e insieme
del zio, del padre e di se stesso teme.
63E così quel che sì sovente invano
Calisiro il fratel morder solea,
che lo scettro del cor libero in mano
al tiranno d’amor lasciato avea,
misero egual foco al suo germano
per la bella guerriera acceso ardea:
or nol chiami più, no, stolto né cieco,
ma ’l suo primo martir compianga seco.
64Notte e dì pensa, e col pensiero ardente
più rinfiamma d’amor l’empia facella,
e mirandosi al cor sempre presente
l’amato oggetto a sé così favella:
– Rincorri, Enarto, e ti riduci a mente
se vedesti giamai cosa sì bella:
nell’Europa nascesti, in Asia sei,
dove mai fu beltà ch’agguagli a lei? -.
65Chiama il frate in disparte e poscia a lui
ragionando in tal suon leva le ciglia:
«Deh, qual somma bellezza oggi tra nui
quasi cosa del Ciel fa meraviglia.
Par ch’abbia impero e stassi in forza altrui
nulla cosa mortal se le assimiglia;
e quai cose ragiona? Angel cred’io
dal Ciel disceso e de’ più cari a Dio.
66E se non fusse (e ’l sai ben tu) che schivo
è ’l mio ruvido cor dal molle affetto,
e più tosto morrei che mai lascivo
Amor mi fesse a suo piacer soggetto,
a costei forse io mi rendrei cattivo
porgendo ignudo alle catene il petto,
ma non nacqui ad amar, di pietra ho ’l core,
spenda pure in altrui suoi strali Amore.
67La spada e l’asta, ecco ’l mio studio; a queste
onorato desio mi chiama e tira,
né dal corso d’onor fia che m’arreste
fallace error che ne ravvolge e tira».
E qui mira ’l fratello, e poi le meste
sue palpebre abbassando alto sospira,
ma se n’avvide e dal suo labro uscio
tronco il sospiro e in respirar finio.
68Ma Calisir, che se n’accorse, et era
nella scola d’Amor scaltrito omai,
sorride e ’l mira, e «Della nostra schiera
sei fatto;» disse «infingi pur, se sai;
fratel, tu ami, e non s’imprime in cera
suggello sì come tu impresso l’hai;
or via proverai tu, tu cor di sasso,
s’alla fuga d’amor libero è ’l passo.
69Or vedi pur ch’alcun mio pregio è giunto
di quei che’io mossi a’ tuoi rimorsi amari,
dicendo – O Dio, deh fa venir quel punto
ch’egli ami un giorno e compartirmi impari! -».
Ben nega Enarto il cor ferito e punto
ma ne dà col negar segni più chiari,
che celar non si può fiamma d’amore
e l’apre più se più la serra il core.
70Calisir lo consola: «Amor,» li dice
«è natural ne’ generosi petti,
e nell’anime illustri han la radice
sempre mai verde i suoi leggiadri affetti,
né su ’l fior dell’etade amor disdice,
né produce ad onor contrari effetti,
anzi è pur ver ch’a bell’impresa invoglia
e di bassi pensier gl’animi spoglia».
71Ma del nuovo amator la dubbia mente
ne i contrari voler seco discorda,
a se stesso d’amar nega e consente,
et or co i sensi, or con ragion s’accorda.
Pallido è fatto, e ’l velenoso dente
ben dimostra di fuor com’entro morda,
e quasi infin sulle palpebre spesso
gl’arriva il pianto e dice egli a se stesso:
72- Non amo io, no, se chi non vuol non ama,
e non amare e non voler vogl’io;
ma s’io nego bramar, come pur brama
contra ’l proprio voler mosso ’l desio!
E pur colà dond’ei rifugge il chiama
non pur, ma spinge occulto imperio e rio,
né dir saprei se quel che invoglia e sforza
l’anima errante è voluntade o forza.
73Deh quest’è amore, o senza amore almeno
non è ’l bramar quel ch’io bramar non voglio.
Scopresi, ohimè, pur troppo il suo veleno,
son gl’effetti nel cor pena e cordoglio.
Ma che mi val ch’io senta infermo ’l seno
se ’l volerlo curar fuggo e disvoglio?
Che giova a me ch’io del mio mal m’avveggio
se di proprio voler m’appiglio al peggio?
74Che debbiam far, chi ci consiglia omai,
anima traviata, e chi ci aita?
Volgi in te gl’occhi, e ben veder potrai
quanto a destra riman la via smarrita.
Torna, misera, in te, torna, non sai
quanto è duro a doler tardi pentita?
Lasso, ma che poss’io, se nulla vale
contra ’l foco d’Amor senno mortale?
75Più non posso fuggir, già preso è l’amo,
forza m’è seguitar gl’affetti miei;
né consiglio mi val però ch’io amo,
s’ei potesse valer non amerei.
Ragione indarno al mio soccorso chiamo,
che vie più forti e ribellanti a lei
m’hanno tolto di man le voglie il freno,
e ’l desir cresce e la ragion vien meno -.
Eraclio se ne accorge, decide di trasferire la donzella in un castello lontano dal campo (76-78,2)
76Or così mentre ei si querela, e intanto
co’ suoi chiusi pensier nutrisce il foco,
e fra speme e timor, fra riso e pianto
né riposo può aver né trovar loco,
s’accorge Eraclio in quale incendio e ’n quanto
si consumi il nepote a poco a poco,
né meno ancor mille guerrieri e mille
ardan nelle medesime faville.
77E per allontanar chi la cagione
ministra a lor dell’amoroso affanno,
la donna tor da i padiglion dispone,
dove fa co’ begl’occhi acerbo danno,
e che di notte ella si prenda impone
per minor pena a quei ch’al petto l’hanno,
e si conduca ad un castel munito
del mare Egeo sul più propinquo lito.
78E farà poi ch’al nuovo dì si dica
ch’ella al buio maggior fuggì celata.
Ma benda d’Amor, che gl’occhi implica,Enarto ruba l’armatura del padre e insegue Erinta, la libera e le si dichiara, ma lei lo rifiuta (78,2-100)
è rara sì ch’ei tutto scorge è guata;
come Enarto se ’l sappia o chi ’l ridica,
via la vidde condur presa e legata,
e sentì trarsi a tal veduta il core:
a qual duro partito il mena Amore?
79Sembra usignuol che ’l dolce nido ha visto
tor via dal tronco e non può darli aita,
che gira attorno e batte l’ali e tristo
l’aure a pietà della sua pena invita;
or piange, or tace, e ’l dolor vario e misto
contra ’l sordo villan nulla l’aita,
ch’ei se ne porta i cari pegni e solo
riman la valle ascoltatrice al duolo.
80«Lasso,» dicea «dunque fia ver che ’l zio
forse ad onta di me, forse del padre,
debba senza cagion l’idolo mio
allontanar dalle fedeli squadre?
Qual colpa in lei, qual tradimento rio
perch’ei la mandi all’ombre oscure et adre?
Ma s’ell’asconde indizio è ben che scorto
non v’ha l’error ma la condanna a torto.
81E se forse il mio amor qualcun gl’ha detto,
ch’io male ascosi, o come sia l’intenda,
deh qual colpa è la sua, s’entro al mio petto
per sua rara bellezza amor s’accenda?
Di me, dunque, di me, ch’è mio difetto,
se difetto è l’amar, pena si prenda,
né colpa è ’n lei ch’altrui l’onori et ami,
se bellezza e valor colpe non chiami.
82Ma che fo, lasso? In van mi dolgo, et ella
forse è già morta, e ’l bel vergineo seno
trapassato di punte di coltella
del suo sangue innocente empie ’l terreno.
Se quest’è ver, sulla sua fredda e bella
spoglia miser’anch’io vo’ venir meno,
voglio uccidermi anch’io». Così fra tanto
s’accende d’ira e in sé ristringe il pianto.
83E troncando i sospir ferro mortale
si cinge al fianco, e volge ratto il piede
per le vestigia del suo dolce male,
dove trovarlo a pochi passi ei crede.
L’amoroso desio gl’impenna l’ale,
corre, né chiuso il vallo esser s’avvede,
sin ch’ei non giunge e rattenendo ’l passo
muto e fermo riman con volto basso.
84Che farà per uscir? La dubbia mente,
doppo breve discorso, amor consiglia
ch’ei là ritorni ov’alto sonno algente
premea già forte al genitor le ciglia.
Giunge, e nota ch’ei dorme e nulla sente,
tal ch’ei muove pian piano e l’armi piglia,
che per giungere a lor per varco stretto
passar gl’è forza infra le tende e ’l letto.
85Spiccale ad una ad una e se ne veste
tacito sì che ritien anco il fiato.
Poscia lento si muove e va con queste
a poco a poco ov’era dianzi entrato.
Teme ch’ogni suo passo il padre deste
e ferma alquanto e tien l’orecchio alzato,
e poi nulla sentendo il piè dinanzi
posa ben tutto e fa che l’altro avanzi.
86Così tacito passa, e poscia quando
ebbe il trepido piè dell’uscio tratto
lui con man dubitosa a sé tirando
socchiusa lascia e non lo serra affatto.
Corre al vallo veloce, e lui mirando
la pronta guardia, e ’l suo venir sì ratto,
s’oppone altiera, ed ei s’appressa e mostra
dell’arme fa ch’un per un altro mostra.
87Breve parla a gl’uscier: «Calate il ponte»,
né trappongono quelli indugio alcuno,
et ei l’orme novelle a lui pur conte
seguita frettoloso all’aer bruno,
ché la luna scopria l’argentea fronte
col corno unito e senza vel nessuno;
ei da foco d’amor portato il piede
s’avanza sì che la sua donna vede.
88Vede pur ch’ella è desta, e rosso e bianco
diviene allor, sì fattamente il prende
quel fervente calor ch’al lato manco
l’incatenata giovane gl’accende,
e la spada traendosi dal fianco
contra i suoi condottieri il corso stende,
e gridò: «Siete morti, o voi lasciate
libera a me costei che voi menate».
89Così dice e gl’assale, ed ecco in quella
schiera di metitor venir da lato,
ch’avean tronca quel dì l’erba novella
con l’adunche lor armi al verde prato,
e tornavan dall’opre alle castella
de’ lor ferri mordenti ognun gravato.
Venian l’un dopo l’altro, e ciascun porta
sua falce in collo e splende acuta e torta.
90Quindi, o fosse luna, onde sovente
mira falso la notte occhio ben sano,
o l’ombrosa paura, onde la mente
anco spesso paventa il buio e ’l vano,
che lor contra ne venga armata gente
ben cedettero allor, che di lontano
apparian quelle falci armati spiedi,
ond’ei volgon tremanti in fuga i piedi.
91E senz’altro badar chi colui fosse
che da tergo affrontogli, o quei d’avanti,
le catene lasciàr, ch’a terra scosse
dalle gelide man cadder sonanti.
Presto vèr la sua donna Enarto mosse,
et ei, ch’ebbe pur or querele e pianti
e pregar volle e dimandar aiuto,
di lontano è facondo e presso è muto.
92Così freddo e volubile il pianeta
che si raggira a gl’elementi intorno,
quanto lungi è dal sol candida e lieta
s’inargenta la fronte e stringe il corno,
che poi presso correndo all’aurea meta
ch’a lui luce, a noi comparte il giorno,
di sé fatto a se stesso oscuro velo
lascia del lume suo povero il cielo.
93Ma dapoi che la donna accento o moto
pur non comprende, e quasi un marmo il vede,
così tutta legata al suo devoto
né sa ella chi sia, rivolge il piede.
Indi scorto l’arnese, a lei ben noto,
che si Teodor senz’alcun dubbio crede,
che per lei venga o ricondur la voglia,
e del suo partir s’adiri e doglia,
94e dicendo: «Non è, non è già mia
colpa s’io parto, il tuo germano è pure
che me così novellamente invia,
a soffrir non so dove altre sventure»,
tremava Enarto, e in mezzo al cor sentia
ripassarsi a quel dir mille punture,
e due e tre volte aprì le labbra e fuore
non uscì ’l suon, ché l’interruppe Amore.
95Pur disse: «Errasti, io quel Teodor non sono
che mostran l’armi alla tua vista, Erinta,
ma ’l suo figliuolo, a te soggetto», e ’l suono
perdé la voce e ne rimase estinta.
Poi lento appressa e chiede a lei perdono
se per franger que’ nodi ond’ella è cinta
gl’è pur forza toccarla, e ’l fa tremante
sempre la man del rispettoso amante.
96E nel cor sì ragiona: – Almen da questi
la legartice mia duri legami
apprendesi in altrui quanto molesti
son quegli al cor di chi l’adori et ami,
come lenti a disciorsi, a stringer presti
come han l’esca soave, acuti gl’ami.
Deh, s’una volta a ciò mirassi, oh caro,
oh beato servir quantunque amaro! -.
97Ma già sciolta colei, l’altero aspetto
benignamente a lui rivolge e dice:
«Ti debb’io molto, e sol mostrarlo aspetto
con l’opra un giorno in quel però che lice;
scatenata per te la mano e ’l petto,
serberommiti ognor tua debitrice,
e come tale anzi ch’io parta chieggio
da te saper quel che per te far deggio».
98Le risponde il guerrier tremante e fioco:
«Donna, nulla ho fatt’io se non amarte,
anzi ’l fai tu, che l’amoroso foco
come raggio da sol da te si parte,
né più bramarS | bramare né più sperare ha loco
che l’incendio del cor si tempri in parte;
ma che tu ’l creda e se nel volto a pieno
non lo discerni io l’aprirò nel seno».
99Più non dice, e sospira, e ben ne sente
spirito di pietà la donna al core,
ma le scintille sue, ferma la mente,
subito ammorza, e non s’accende amore.
E perché men se la cagion presente
che l’accese in altrui la fiamma muore,
per pietà verso lui fatta spietata
così dolce risponde e s’accomiata:
100«Tempra, Enarto, tue voglie; in tua sol mano
dell’insania d’amor sanare è posto.
Fallo, né indugiar più, ché non lontano
sempre è ’l guarir quando ’l rimedio è tolto.
Son pagana e guerriera, e ’l desir vano
del mio fermo voler tanto è discosto
quanto l’ozio dall’armi. A Dio rimante,
e sii di gloria e non di donna amante».
Erinta si allontana, Enarto incontra una fanciulla nel bosco (101-104)
101Risponder vuol, ma nol consente il duolo,
ch’annodò le parole e ’l pianto sciolse.
Tacque il misero, tacque, e parlò solo
lo sguardo suo che in verso a lei rivolse,
e in lei mosse pietà, ma né pur solo
li diè speranza, e dal guerrier si tolse,
e se ne’entrò per dubbio calle e fosco
dentro un antico e solitario bosco.
102Et ei qual rimanesse a così presto
e sì duro partir pernil chi ama,
e se dolor giammai simile a questo
portar può fiera e impetuosa brama,
muto ei rimane, e in suon dolente e mesto
più e più volte a sé la morte chiama,
e i passi muove e non sa dove, e intanto
sparge sospir di foco, un mar di pianto.
103Or così mentre ei si querela e pensa
e in soverchio dolor langue e si strugge,
l’aurora nasce, e l’ombra muta e densa
dal nemico splendor timida fugge,
e la stella del giorno ultima accensa,
nella luce che vien par che s’addugge,
et ecco una donzella di lontano
vede lungo un ruscel venir pian piano.
104Di ceruleo color la vesta scende
dalla spalla sinistra al destro fianco,
sovra l’omero è giunta e in crespe pende
e la man copre e tutto il lato manco.
Cingon la fronte sua candide bende,
ha la manica e ’l sen succinto e bianco,
nudo il piè muove et alle piante ha solo
stretto da fibbie d’or purpureo suolo.