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La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro XX

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 20.02.16 14:49

ARGOMENTO
Figurar la guerriera in sogno vede
il suo gran maritaggio e l’arbor poi
che della stirpe Medica succede
piena d’eccelsi e gloriosi eroi.
Indi, poi che svegliata esser s’avvede
cinta nel bosco da’ nemici suoi,
salta nel fiume e le va dietro armato
l’amante, che da lei poscia è salvato.

Proemio encomiastico (1-4)

1Donna real, se di Goffredo il chiaro
celebrator, che ben appreso avea
quanto mostrò di pellegrino e raro
ne’ sacri carmi il gran cantor d’Enea,
volea gir seco in ogni parte al paro,
la bell’opera a voi render dovea,
ché quanto pregio ha ’l suo purgato inchiostro
nasce dallo splendor del sangue vostro.

2Et io, c’ho per soggetto il sacro legno,
che ricovrò l’imperador romano,
tutto quel che produrre il basso ingegno
o pulir può questa mia rozza mano,
vassallaggio dovuto, a render vegno
al tuo gran figlio e mio signor sovrano,
e dedicar debitamente a lui
ciò ch’operàr gl’antecessori sui.

3Ben fu ragion che Loteringo fosse
chi rilevò Gierusalem soggetta,
e de’ Medici autor chi ne riscosse
all’umana salute arbore eletta.
E Dio, che l’uno e l’altro all’armi mosse,
l’una stirpe con l’altra ha giunta e stretta,
l’una che già dal barbaro feroce
la patria liberò, l’altra la croce.

4Deh potess’io, ma chi potrebbe a pieno
cantar, donna, di voi sì rara e grande,
che ’l ciel che ne circonda ha picciol seno
al chiaro suon che ’l vostro nome spande?
Forse un dì fia per quant’io posso almeno
ch’alle future età lo spieghi e mande,
e deposto d’Eraclio il premier pondo
di voi, donna real, porti il secondo.

Teodoro raggiunge un prato poco distante dal quale Erinta si è addormentata (5-8)

5Il principe Teodor più volte volto
intanto avea per vie dubbiose il piede,
vago non già di riveder quel volto
che de gl’accesi cor sempre si vede,
ma per desio che ’l cieco volgo e stolto
si disinganni in quel ch’errando crede,
e poi che l’ombre onde venian tornaro,
gir non può più, ché l’interrompe il Saro.

6Ferm’egli il passo e la speranza perde
di più ritrovarla, e dall’arcion discende,
e co i figliuoli in su la sponda verde
dell’alto fiume a ristorarsi intende.
Vede i campi ondeggiar, che li rinverde
l’aura che lor di leggier colpo offende,
e sotto un’alta e spaziosa fronda
stanco s’asside al mormorio dell’onda.

7Scalpitando i destrier nel verde prato
l’odorifere erbette erra ciascuno,
cui pendea dall’arcione il freno aurato
e con l’avido dente empiea ’l digiuno.
A destra è ’l fiume, e dal sinistro lato
verdeggia un bosco solitario e bruno,
e piace or più sul più fervente ardore
l’ombra sua muta e ’l dilettoso orrore.

8Or di quel bosco infra le piante ascosa
colei ch’errar per torte vie li face,
da lor non lungi in dolce sonno posa
e tutta sola e disarmata giace.
Con le ruvide braccia elce frondosa
fa schermo a lei dalla diurna face,
e le muove un ruscel, mentr’ella dorme,
rotto tra picciol sassi un suon conforme.

Erinta sogna, per volere di Dio, la propria discendenza, cioè la famiglia Medici (9-62)

9Ella dapoi che ’l casto piè ritorse
dal non amato suo misero amante,
d’una selva in un’altra errando scorse,
fin che fu lassa e qui fermò le piante,
dove posossi, e poi ch’un tempo in forse
fu di dormir tra quell’ombrose piante,
tacita forza i lumi suoi combatte,
tanto ch’al fin le lor palpebre abbatte.

10E poi ch’ebbe del tutto il molle sonno
scioglitor delle membra, avvinti i sensi,
e di lor fatto imperioso donno
ne’ suoi lacci più forte Erinta tiensi,
le potenze dell’anima, che ponno
lei pur viva serbar che brami e pensi,
misteriosi appresentaro avanti
all’interno veder chiari sembianti.

11Il Sogno, ombra fugace e delle vere
forme costanti imitator deriso,
a lei n’andò, con l’ali sue leggiere,
ravvolto d’ombra e mascherato ’l viso.
Ma s’oppon luminoso al suo volere
quel ministro sovran del Paradiso,
che dell’inclita vergine al governo
locò da prima il sommo Padre eterno.

12E dice al Sogno il messaggier celeste:
«Vattene or tu, che sarà mia la cura
che trattenuta in rimirando reste
l’alme gentil, la verità futura».
E l’ali a questo dir lucide e preste
spiegò del cielo alla più degna altura,
e quivi a piè delle sovrane soglie
a Dio s’inchina e poi la lingua scioglie:

13«Sommo Signor, s’a custodire io fui
anima a te gradita eletto in terra,
or che vinti dal sonno i sensi sui
muover contra ragion non posson guerra,
concedi a me che de’ consigli tui
possa scoprir ciò che ’l futuro serra,
e la tua grazia il primo fonte allumi
che produrrà sì gloriosi fiumi.

14Se quest’inclita vergine guerriera
com’hai tu stabilito esser de’ quella
onde discenderà chi sempre impera
fin che ’l moto maggior muova ogni stella,
e la stirpe magnanima et altera
dalla propria salute il mondo appella,
medica a lui d’ingiusti affetti et empi
con virtù somma e singolari esempi,

15deh, perch’io scopra anzi mill’anni alquanto
del chiuso vel che l’avvenir contende,
sia ’l tuo favor dove non posso io tanto»,
e qui si tace, e la risposta attende.
Tutti fermano allor gl’Angeli il canto,
dalle corde ogni man l’arco sospende,
e Dio parlò: «Sia con virtù divina
l’anima di costei fatta indovina.

16Né men quella dell’avo, anzi che sciolta
dal penoso divieto a me ritorni,
dove la carne sua giace sepolta
della succession la tomba adorni,
e vi rimanga effigiata e scolta
storia de’ non ancor venuti giorni».
E qui si tacque, e tutto il Ciel riprese
a cantar gloria, e ’n giù l’Angel discese.

17E dove la guerriera all’ombre dorme,
le bell’ali spiegando a lei s’appressa,
e i fantasmi del dì che in varie forme
lascian di lor la vaga mente impressa,
tutti cancella e in puritade informe
ogni sembianza lor disfatta cessa,
onde l’anima in lei sciolta rimane
da tutte quante qualitadi umane.

18E poi ch’è tutta pura e del mortale
nulla più sente, e sol se stessa intende,
con la divinitade onde immortale
fasciata fu dalle caduche bende,
e con l’alto favor che ’l tutto vale
da Dio concesso, a Dio rivolta attende,
e vede in lui per infiniti lustri
chi nascerà de’ suoi nepoti illustri.

19Ma pria che la nobil visione
con gradito piacer se le appresente,
parle veder d’un orrido burrone
uscir strisciando un livido serpente,
che scorre alato e fa ch’ogn’antro suone,
dov’egli arriva e sanguinoso ha ’l dente,
e di fiamma e di tosco ovunque passa
spaventosi vestigi a tergo lassa.

20Et ecco contra un fier leon li viene,
della bocca e del piè con l’armi orrende
più ch’altro mai per l’affricane arene
sbranasse fiere orribili e tremende,
sotto l’ombra del vello il ciglio tiene,
che l’aria al volger suo di foco accende,
se stesso ei sferza e desta l’ira e ’l fianco,
batte la coda al destro lato, al manco.

21E in un momento orribili e sdegnosi
l’angue e ’l leone ad affrontar si vanno,
e d’ira ardenti e di furor focosi
l’incendio aprirsi a fiere prove fanno.
Striscia l’angue e ristriscia e tortuosi
giri sospigne al periglioso danno,
e ne riman per l’arido terreno
orma sopr’orma e sul velen veleno.

22Cresce l’orrenda e spaventosa lutta,
onde rugge il leon, la serpe fischia,
e d’atro sangue avvelenata è tutta
la terra intorno alla feroce mischia,
e già la biscia inaspidita e crutta
nella disperazion tanto s’arrischia
ch’all’avversario ella s’avventa e fascia
due volte e tre della sua propria fascia.

23E poi che l’ha con la volubil coda
tre volte avvinto al generoso petto,
passa al collo sul tergo e quello annoda
e ’l tien mordendo incatenato e stretto.
La belva allor dov’aspra quercia e soda
facea co i rami a tutto ’l bosco tetto,
corre al fianco e ’l preme sì ch’astringe
a rallentar chi l’avvinciglia e stringe.

24E con l’unghia feroce indi traendo
fuor del lubrico sen viscere e tosco,
corre e muove alla piaga il capo orrendo
la serpe, e ’l fa del sangue suo più fosco;
lei risquarcia il leone, e già morendo
cad’ella, e cinge in larghe rote il bosco,
e di se stessa in questo tronco e in quello
fa per ira e per duolo aspro flagello.

25Rimane al fin con doppio gielo esangue
sotto a i piedi al leon l’orribil drago,
muove gl’ultimi guizzi e sparge il sangue
per cento piaghe e ne raccoglie un lago.
Ma ferito il leon anch’esso langue
di leccarsi la fronte indarno vago,
ché non giunge la lingua, ov’ei del dente
venenoso inasprir la piaga sente.

26Onde s’asside, e l’egro fianco posa,
spargendo il sangue tiepido e vermiglio,
di cui ne va sopra la piaggia erbosa
spargendo un fiume il lacerato ciglio,
quand’ecco appar, del suo dolor pietosa,
soccorritrice al suo mortal periglio
aquila pellegrina, e porta in becco
d’orato cipresso un verde stecco.

27Raccoglie i vanni e la portata fronde
trita con rostro suo l’aquila altera,
e ne fa verde polvere e l’infonde
nella piaga al leon perch’ei non pèra.
L’opportuna virtù le tiepid’onde
ristagna in fronte alla sanguigna fiera,
disacerba il dolor, l’affanno molce,
e ’l fugace vigor mantiene e folce.

28L’ali poscia rispiega e della foglia
alla guerriera alcuna parte porta,
e col becco l’accenna e par che voglia
dell’occulta virtù renderla accorta;
onde poi del leon la cura toglia,
la medicina alle sue piaghe scorta,
e non par che la donna allor rifiute
al ferito leon porger salute.

29L’appella Erinta, et ei ne vien pur come
suol domestico veltro allor ch’egl’odaS | che gl’oda
dall’amato signor chiamarsi a nome,
chinar la fronte e ripiegar la coda.
Spiana il leone le ’nsanguinate chiome,
va verso Erinta, e par che brami e goda
d’esser tocco da lei, baciale il grembo
del manto e ponle il fero capo in grembo.

30E la medica man sopporta, e freme
di dolore e non d’ira, e non si muove,
al fin s’addorme e ’l sen vergineo preme
né par che chieggia i suoi riposi altrove.
Seco le par poi dilettarsi e insieme
goder che in grembo ei se le adagi e cove,
e del leone a poco a poco in questi
dolci riposi suoi gravida resti.

31Quindi ’l parto succede, e nascer mira
picciola verga e poi gran pianta fassi,
ch’al sol s’innalza e quanto ei scalda e gira
ogn’altra inferior par che si lassi.
Dell’eccelse sue frondi un fiato spira
pien di virtudi e ’l mondo all’ombra stassi,
a lui mostrando il bipartito stelo
gemina via di sollevarsi al Cielo.

32Ma chi sarà che lo smarrito ingegno
dal gran soggetto a tanta impresa aiti
sì ch’egli almen, se non perviene al segno,
non lungi arrivi ove ’l desio gl’additi?
Sia quella pianta ond’io son fatto degno
d’innalzare a sua gloria i carmi arditi,
e che regga il mio corso è ben ragione
l’alto favor che li fu meta e sprone.

33Dormiva Erinta e quando a lui più ferme
il sonno tien le valorose ciglia,
partorir le rassembra un picciol germe
ch’alle frondi, al color lauro somiglia,
e dove al nodo il suo vigor si ferme
uscir con incredibil meraviglia
della rotta corteccia umano volto
col proprio nome alle sue chiome avvolto.

34E così cresce e d’uno in altro nodo
s’ingrossa, et apre a dimostrar di fuore
gl’umani aspetti in quel medesmo modo
che di maggio o d’april la fronda o ’l fiore.
L’arbor s’avanza e sempre mai più sodo
cresce di robustezza e di valore,
e cresce sì che fino al cielo eretto
a lui fa pavimento, al mondo tetto.

35Mira la donna e in quelle frondi e ’n queste
le mitra e i regni e le corone vede,
e gli scettri e le porpore conteste
di sommi onor della romana sede,
che fanno intorno all’onorate teste
delle lor dignità secura fede,
e la sua mente in rimirar s’appaga
dell’avvenir partecipe e presaga.

36Mir’ella in prima il piccoletto germe
che dall’avo paterno il nome piglia,
e le speranze sue, ch’erano inferme
dapoi che raro ella concepe e figlia,
nella succession rende più ferme
e ’l figlio all’opre il genitor simiglia,
e la progenie sua sempre più splende,
figli de’ figli e chi da lor discende.

37Scorg’ella poi che sul fiorito lido
vengono all’Arno a trapiantar se stessi,
e l’arbor glorioso in più bel nido
vi produce d’onor frutti più spessi.
Silvestro, a Carlo Magno amico fido,
di virtù lascia alti vestigi impressi;
vien poi Lippo, con gl’anni assai più tardo,
e successore a l’un l’altro Averardo.

38D’Averardo chiarissimo e di lui
nasce un altro Averardo, e i gran vermigli
globi si pone a raddoppiar costui,
quasi potenza a raddoppiar ne’ figli.
Di lui Giovanni, e vaglion tanto i sui
di senno e di pietà saggi consigli
che l’alma insieme e riverisce e senza
raro o non mai deliberò Fiorenza.

39Di lui Cosmo e Lorenzo i figli furo,
tacciansi i Ciri e gl’Alessandri omai,
che rimane appo questi il lume oscuro
d’ogni lor fama e nubilosi i rai,
dall’Antartico ascoso al pigro Arturo
non si viddero eguali in terra mai.
E qui l’arbore eccelso in due si fende
che quinci e quindi oltr’ogni stella ascende.

40Pier di Cosmo nasce, è del gran padre
figliuol condegno, e di lui nascon quelle
due sì lucenti all’opere leggiadre
dell’italico onor lampade e stelle,
né potèr l’ombre avvelenate et adre
farle mai rimaner se non più belle,
ché non s’eclissa al furor pazzo l’una,
l’altra risplende in ciel, s’interra, imbruna.

41Di Lorenzo e Giulian nascono in terra
due vicari del Cielo: ecco Leone
che le gran porte a lui chiude e disserra
de gl’anni suoi nella miglior stagione;
ecco Clemente, ei d’ostinata guerra
le sacre mura in libertà ripone,
e d’un confuso e torbido scompiglio
a coltura miglior conduce il figlio.

42Nacque Pier di Lorenzo, e fu di Piero
figlio Lorenzo, alla cui destra forte
d’Urbin lo scettro il duce suo guerriero
cede, e disserra al vincitor le porte.
Nascene Caterina, al franco impero
felicissima in un madre e consorte,
e da lei retti al maggior dubbio foro
con divina prudenza i gigli d’oro.

43Del medesmo Lorenzo essersi stima
nato Alessandro, al cui piacevol freno
sottomessa ubbidì la patria prima,
ma fu ’l dominio un rapido baleno,
che la man di colui vien che l’opprima,
che parea dolce e nascondea veleno,
e rimas’ei con poco saggio avviso
a tradimento infra le piume ucciso.

44Di lui Giulio riman, ch’al petto porta
di purpureo color l’invitta croce,
quella che tante palme oggi riporta
dall’Ottomano indomito e feroce.
del fratel di Leone intanto è sorta
ben degna prole a ben oprar veloce,
il cardinal Ippolito succede
della virtù, non del ducato erede.

45E in Asdrubale, e in lui quel ramo ha fine
che da CosimoS | Cosmo il vecchio uscio sì chiaro,
ma passa l’altro ogni mortal confine,
vien dal fratello, e va buon pezzo al paro,
poi le frondi magnanime e divine
così ferme solleva, a Dio sì caro
che non avrà già mai termine o meta
né per volger di ciel né di pianeta.

46Pier Francesco di lui nacque e Giovanni
di Pier Francesco, e di Giovanni è nato
quel Giovanni guerrier, ch’a gl’altrui danni
folgore parve infra le schiere armato,
e quantunque nel fior de’ suoi verd’anni
qual di Teti il figliuol cedesse al fato,
non men di lui ben mille lustri e mille
lasciò di gloria il fiorentino Achille.

47Di lui Cosmo nasce, e nasce quanto
e fortuna e virtù possono insieme,
cede l’Etruria a lui l’imperio e ’l vanto,
che gl’ha dato di sé ritor gli teme;
giovane regna, e valoroso intanto
giova a i soggetti e gl’orgogliosi preme,
e tale è lo splendor, tanta è la luce
ch’a serra gl’occhi e venerar m’induce.

48Di lui nasce Francesco, e ’l primo è questi
che di prole feconda a lui succede,
della virtude e de’ sovrani gesti
principe illustre e generoso erede.
Veglia al governo e sempre mai tien desti
gl’occhi al diritto, e ’l tutto intende e vede,
Giovanna d’Austria al sangue suo ducale
l’augustissimo aggiunge imperiale.

49E Giovanni il secondo, a cui la chioma
porpora avvolge, e segue a lui Garzía,
e Pietro il terzo, e ’l quarto Anton si noma,
cui morte invola intempestiva e ria,
e Ferdinando il quinto figlio, e Roma,
che sola insegna a dominar la via,
fu maestra di lui, ch’al mondo nacque
per por freno alla terra e legge all’acque.

50Ei succede a Francesco, e ’l gran senato
lascia sul Tebro e nel paterno lido
viensene a stabilir ciò che fondato
Cosimo avea nel suo fiorito nido;
e con l’alma Cristiana indi legato
al bel giogo d’amor costante e fido,
et ecco il sangue a nessun mai secondo
Lotteringo real farsi fecondo.

51Questa è d’eccelsa e gloriosa donna
che, invitta e saggia, ogni valor trascende,
e questa è la saldissima colonna
che l’italico onor fermo sospende,
questa, che per noi veglia e non assonna,
Gallia di due regine in cambio rende,
e per lei sola, a cui l’ha ’l Cielo unito
felice è detto il regnator marito.

52Ché di parole e di fama e di trofei
e d’immortalitade e di tesori
è lieto e sazio, et appoggiati a lei
lasciando i figli a i confermati onori,
beato in terra, al regno de gli dèi
vessene a conseguir glorie maggiori,
dov’ei s’accorge in quell’eterna pace
ch’un breve sogno è quanto al mondo piace.

53Nuovo Pietro appo lui, nuovo Giovanni
nacquer, minor di stato e di fortuna,
ma fan veder ne’ maritali affanni
che non abbia in virtù ragione alcuna.
Spiega la fama lor lucidi i vanni
sì che ’l torbido oblio nulla gl’imbruna,
e ’l chiaro nome accompagnando al volo
a sparger va dall’uno all’altro polo.

54Nacque Isabella, e d’Isabella è nato
per l’italico onor Virginio Orsino,
cui per rinovellare il Ciel n’ha dato
l’alte speranze e ’l gran nome latino.
Ei della spada e della penna armato
col gemino valor sempre è divino,
e comunque pur l’una o l’altra prende
le vite invola a suo talento e rende.

55E se ne gl’altri principi l’esempio
di lui, quanto devria, tanto potesse,
ben s’aprirebbe alla virtude esempio
che ’l vizio ha chiuso e ’l sordido interesse,
e sarian le bell’arti al duro scempio
tolte, e tolte con lor le Muse stesse.
Ma per l’albero immenso ove lasc’io
l’undecimo Leone e ’l quarto Pio?

56Questi delle gran chiave alle gran palle
fèro diadema, ancor ch’estinto l’uno
troppo breve stagion rivolger falle
cangiando in lito acerbo stato e bruno,
e l’altro pria che con più ferme spalle
sostenne il manto a cui s’affissa ogn’uno,
del nome serenissimo e sovrano
assai più che Fiorenza ornò Milano.

57Nasce intanto Maria del primier figlio
di Cosmo il grande, et è costei traslata
a far fiorir sopra a la Senna il giglio,
donna del quarto Enrico incoronata.
Dal marito suo re prende il consiglio,
poiché l’arme non può, consorte amata,
e le ragioni e gl’impeti di Marte
al guerriero delfin mostra e comparte.

58Nacque Filippo il successor, ma come
segue un torbido vento un picciol foco,
pria che portar le faticose chiome
morte l’estinse e trasse a miglior loco.
Nacquene Antonio, et ha sì chiaro il nome
che già non mia sarà torbido o fioco,
e porta a dimostrar purgato affetto
candida croce al generoso petto.

59Nasci poi tu di Ferdinando, nasci
tu, mio signor, e qui convien ch’io taccia,
e che ’l desio cotant’impresa lasci,
dove l’arte e la man trema e s’aggiaccia.
Stringere e sollevar sì grevi fasci
opra non è dalle mie debil braccia,
ma di colui che poetando scrisse
sdegnato Achille e pellegrino Ulisse.

60Così taccio di te, né meno insieme
de’ tre germani e delle suore uscite
del tuo felice e glorioso seme,
cui le grazie del Ciel fur sempre unite.
Manca ardire al desio, manca la speme
di poter celebrar lodi infinite,
né ’l mio debile ingegno alzar si vuole
prosontuoso a riguardar nel sole.

61E tacerò di Maddalena ancora,
di nodo marital teco legata,
dell’Ispania regina augusta suora
e del monarca universal cognata.
Tu col sangue maggior ch’Europa onora,
ella col maggior duca accompagnata,
nascerà di voi due sì chiara prole
che d’anni e di splendor fia pari al sole.

62Ma dove ardisci, ove t’innalzi e tenti
sollevar, Musa, il troppo audace pletro,
né di Fetonte o d’Icaro rammenti,
l’ali impennando al mio sì basso metro?
Mira in te, mira, e i nostri rozzi accenti
meco rincorri, e ti rivolgi indietro,
torna ad Erinta, e basti a i carmi nostri
che d’un sì chiaro dì l’alba si mostri.

Erinta viene scoperta dal drappello di Teodoro e si getta nel fiume, seguita da Enarto, che si getta gravato dall’armatura (63-70)

63Mentre dorme la donna all’erba in seno
e vede in altri il prolungar se stessa,
quantunque il ver non ne discerna a pieno
ma quasi in nube assai lontana e spessa,
di Teodor pascolando il palafreno
a poco a poco al dolce sonno appressa,
lo scudier corre e ’l guardo a caso gira
e la guerriera addormentata mira.

64Ond’ei mostra a gl’altri armi e cavalli,
corron d’intorno e le fan denso il cinto,
pur come al suon de’ rusticani balli
citaredo talor di turba è cinto.
Svegliasi Erinta, e già son chiusi i calli
e ’l popol tutto incontro a lei sospinto,
e ’l principe Teodor grida e minaccia
la morte a lei, se di campar procaccia.

65La magnanima allor non sa se deggia
ella stessa nell’aste urtar col petto,
e così far ch’ogn’avversario veggia
che timor di morir non ha ricetto.
L’invittissimo cor fiamme lampeggia,
ferventi or più quant’egli appar più stretto,
fiamme d’un chiaro e generoso sdegno
ond’ella avvampa e non può stare a segno.

66Ed intrepida sempre e sempre altera
folgore par che lampeggiando scoppia,
e tra i folti destrier veloce e fera
passa come fa l’angue arida stoppia,
e su la sponda all’orrida riviera
che per pioggia novella si raddoppia,
spinta da cento lance o non mai vitta,
anima sempre altera e sempre invitta,

67volgesi e dice: «Or chi mi segue?», e tolle
d’un salto i piedi alla temuta sponda,
che quasi orrida rupe al ciel s’estolle
minacciando nel pian la torbid’onda.
Pensa Erinta sentirsi al fin nel molle
percotendo dell’acqua alta e profonda,
ne risalgon le stille, e vòti e bassi
ne rimbomban da lungi i muti sassi.

68Stupido Teodor la gran nemica
d’invincibile ardir tacito onora,
ma ’l suo figlio maggior la bella amica
così vista perir, trafitto allora
senz’elmo trarsi o dispogliar lorica
(a qual rischio non va chi s’innamora?)
dietro a lei si lanciò con tutto il pondo
et «Io» disse «ti seguo» e cadde al fondo.

69Si riscote a quel tuffo, e fatto accorto
Teodor del suo figliuolo in mezzo all’acque,
s’arricciaron le chiome al padre smorto,
e restò per dolor la voce, e tacque;
ma non può far di men, come l’ha scorto,
Calisir che ’l bel viso ei non adacque,
e la vesta si straccia e ’l sen percote
rugiadoso di lagrime le gote.

70E scorrendo sul lido or piange or grida,
e l’amato fratel richiama in vano,
«Qual furia, oimè, qual ceco error ti guida,
dove vai senza me, fratello insano?
Torna, o chiamami almen sì che m’uccida
teco l’onda crudel, torna germano.
Lasso, a me dunque, a me tornar tu neghi
e sprezzi ancor di Calisir i preghi?».

Erinta lo trae dal flutto e si dilegua, i compagni lo raggiungono e lo rianimano (71-84)

71Ma se ne van le rapid’onde intanto
portando Enarto e la sua cruda amata,
e da quei che seguianS | seguivan gl’allungan tanto
ch’omai più per vederli in van si guata.
Ha succinto la donna un leggier manto,
da cui poco distretta e men gravata
per le liquide vie quasi maestra
natatrice correa mobile e destra.

72Or si tuffa, or risorge, or s’abbandona
resupina sul fiume e si riposa,
or la candida man rompendo suona
l’umor fugace e ne riman spumosa,
ora il nuoto raffrena et or lo sprona,
e viene e va per la magione ondosa,
si lancia e sbuffa or qual destriero, et ora
quasi can raspa, e ’l viso a pena ha fuora.

73Tutta volta però lungo la riva
dov’è men ratto e periglioso il corso,
si trattien per lo fiume e non arriva
dov’al mezzo non ha redine o morso.
Schernitrice di lui che la seguiva,
or li mostra or li cela il petto o ’l dorso,
né sa ella chi sia, ché l’onda il mena
sepolto e grave e può vedersi a pena.

74Ma dall’armi aggravato omai l’amante
non può più molto, e già lo vince il rio.
Tardi muove le man, tardi le piante,
pur soffiando rispinge il flutto rio;
grida al fin, disperato: «O tu, ch’avante
sì ratta nuoti al lento muover mio,
tanto fermati almen che gl’occhi tuoi
co’ miei raffronti, e mi sommerga poi.

75Tempo fu ch’io sperai servendo, amando,
più benigne mercé, bastami or questa:
se la neghi al morir, misero, quando
più la concederai? Volgiti, resta».
Volea più dir ma ’l suo vigor mancando
confonde il nuoto e la favella in questa,
e giù tratto dall’armi anela il fianco,
perde la luce e riman freddo e bianco.

76Sotto l’acqua due volte attuffa e sorge
già vinto omai dal micidial umore,
quando volgesi Erinta, e ben s’accorge
ch’Enarto è quel che seguitando muore,
colui che l’ama e che l’ha sciolta, e scorge
non per odio seguir ma per amore,
onde mossa a pietà vuol dargli allora
vita colei ch’è la cagion ch’ei mora.

77Fende con l’una man l’umore algente,
e dà con l’altra all’amator di piglio,
ma guardinga s’appressa e ben pon mente
di non giungere all’un l’altro periglio,
che qualunque mancar la vita sente
suole afferrar con sì tenace artiglio,
ché chi si muove a sua salute spesso
per liberare altrui perde se stesso.

78Era d’erbe e di giunchi un cespo verde
dell’alta ripa all’umido confine,
che non tocco già mai mantiene il verde
da fin di marzo al cominciar le brine;
da lungi il mira, e la speranza perde
della greggia il pastor che s’avvicine,
così scosceso a rimirar di sotto
scorg’egli il sasso a fil di piombo rotto.

79Or qui dalla pietà la donna spinta
posa il proprio amator freddo com’angue,
e torna al nuoto e non si ferma Erinta
dov’ei privo di moto a morte langue.
La gente allor dal genitor sospinta
ratta sen corre al cavaliero esangue,
e con le funi in giù molti ne giro,
e fra i primi di lor fu Calisiro.

80Lo disarman gl’amici e freddo e muto
ogni spirto vital trovan disciolto,
e d’ogni fibra il palpitar perduto,
sol tremandoli il cor batte sepolto.
Per trar del petto il troppo umor bevuto
tengogl’alte le piante e basso il volto,
e così contro al natural costume
rende il misero Enarto il fiume al fiume.

81Ritorna al fin dal breve esilio in lui
l’anima sbigottita, e ’ntorno gira
disappannando i tardi lumi sui
con gravi rote, e ’l fratel suo rimira,
e già sente e raccoglie i detti altrui,
e dall’imo del cor geme e sospira.
Ma voce anco non ha, muove a cercarla,
ch’era smarrita, al fin la trova e parla:

82«Et Erinta dov’è? Dunque son io
forse vivo rimaso et ella è morta?
Deh, se questo è pur vero il viver mio
d’ogni morte peggior doglia m’apporta.
Rigettatemi, amici, in questo rio
che il suo corpo gentil seco ne porta,
per me torbida l’onda e dolce e pura
se d’Erinta e di me fia sepoltura.

83Misero me, chi del morir mi priva,
vivo alle pene mie, vivo al dolore?
Chi fuor mi tragge all’odiosa riva
invido al dolce terminar dell’ore?
Chi, se tolto m’è pur ch’io seco viva,
mi contende il morir, dov’ella muore?
Dispietata pietà, crudele aita,
per più lungo martir serbarmi in vita».

84Calisir li risponde: «Or ti consola,
che colei che tu ami è viva ancora,
anzi t’ama e t’apprezza, ed ella è sola
che dall’onda crudel t’ha tratto fuora;
la tua vita è suo dono». A tal parola
l’abbattuta virtù s’erge e ristora;
poscia al misero Enarto arriva il padre
e ’l conducono adagio alle lor squadre.