ARGOMENTO
Piange morto il marito Elisa bella
e gli spiriti immondi entrano in lei,
che, da loro agitata, il sen flagella
e fa strazi di sé crudeli e rei.
Pugnano i campi, e ’l suo cugino appella
Antilio a conseguir degni trofei,
e riesce tra lor l’emula gara
a prove di virtù famosa e chiara.
Alceste muore tra le braccia di Elisa (1-17)
1Elisa intanto e ’l suo diletto Alceste,
a i veloci destrier pungendo il seno
s’aggiran lassi e in quelle selve e ’n queste
insanguinando pur vanno ’l terreno.
E si facean le piaghe lor moleste,
benché quelle d’Elisa acerbe meno,
moleste sì che in dolorosi guai
morir si sente il cavaliero omai.
2E vinto e lasso e di gelata neve
tinto nel volto, in suon tremante e fioco,
raffrenando il destriero il correr lieve,
«Deh, consorte,» chiamò «fermati un poco,
ché mi s’è fatto il mio dolor sì greve
che io vengo men, sì come gielo al foco».
Così languendo abbandonato e stanco
smonta di sella e posa infermo ’l fianco.
3Sott’un orno s’adagia, e sopr’un sasso
tutta lascia cader la fronte armata,
e lo scudo abbandona e rota al basso,
ché nol può sostener la man gravata.
La donna allor, che gl’avea scorto il passo,
dall’amara querela il cor passata,
rapida scende e se ne vola a lui
e più che ’l suo dolor sente l’altrui.
4La piaga sua, che ’l delicato petto
dianzi dilacerò, più nulla sente,
così la rende innamorato affetto
di dentro un fuoco e fuor di marmo algente.
Ma quanto il suo dolor prova interdetto
sente più quel del cavalier languente,
anzi sente di lui pena maggiore,
ch’ei languisce nel corpo ella nel core.
5Giunge l’addolorata e poi che vede
che ’l suo caro signor perde la vita,
e già gl’occhi velarsi e già s’avvede
lasciarlo un giaccio ogni virtù smarrita,
non sa che far, non sa che dirsi e chiede
alla terra et al ciel gridando aita,
e non chiude l’affanno e non lo spiega,
piange, tace, s’adira, accusa e prega.
6Corre per chiamar quivi alcun che sia
o bifolco o pastor, né sa poi dove,
e torna e va per la medesma via
e come forsennata errando muove;
e ’l bosco sol, che i suoi lamenti udiva,
non le può ministrar cosa che giove.
Tacciono i rami suoi, taccion le fronde,
né pure al pianger suo l’aura risponde.
7Misera torna al cavaliero e scioglie
l’elmo infelice alla gelata testa,
e quella poi nel cavo grembo accoglie,
fatto un guancial della sommessa vesta.
Dapoi s’inchina, e i freddi baci toglie
dalla bocca di lui pallida e mesta,
e convien, sì gelati i labbri sono,
che sia furto il baciar ch’era già dono.
8Indi la bocca sua sparsa di pianto
sì come rosa al matutino gielo,
da lui solleva a lamentarsi e intanto
pietosi affissa i suoi bei lumi al cielo,
e dice: «Ohimè, non ha potuto tanto
nell’ignudo mio sen l’avverso telo
che m’uccidesse, e disarmata er’io,
e muor con tutte l’armi Alceste mio.
9Ferro, ohimè, ferro, a trapassarmi Alceste
ben la tua ferità t’innaspra e ’ndura,
ma poi, perché difeso egli non reste,
tenero torni a variar natura.
Me salva, ohimè, questa mia sola veste,
te la corazza tua non assicura,
per te l’acciaio un fragil vetro parmi;
ite poi dunque ad aver fede in armi,
10che tradito da lor, da me ti parti,
e dove, ohimè, dove crudel mi lassi,
misera e sola in sì selvaggie parti
ch’altro non han per me ch’arbori e sassi?
E che giovò fuor delle fiamme trarti
s’a morte vai con più spediti passi,
e portando il morir per ogni loco
rincontri il ferro al dipartir dal foco?
11Ohimè, tu muori? A questo strazio Elisa
dunque serbò la sua spietata sorte,
né rimas’ella in mezzo al mare uccisa
che troppo era per lei bella la morte?
E dovea prima in così dura guisa
morirle in braccio il suo fedel consorte?
Et io né ferro ancor né foco vale,
et io vivo al dolor mostro immortale?
12Non fia mai vero». E disperata al fianco
dell’esangue amador tolta la spada,
s’addrizza la punta al lato manco,
là donde al core è più spedita strada.
Ma il cavalier discolorato e bianco,
pria che la donna sua sul ferro cada,
si sforza sì che lei per nome appella
e con l’ultimo suon prega e favella.
13O fu però che come il lume suole
giunto all’ultimo fin crescer l’ardore,
la vita sua, che dipartir si vuole,
sorse all’estremo e racquistò vigore,
o ch’una fu delle sovrane e sole
meraviglie e miracoli d’Amore,
et ei, che ’l tutto a chi più nulla puote
così fa risonar l’estreme note:
14«Vivi et amami, Elisa, e nel tuo petto
guardato il nostro amor teco si resti,
con rammentar quel che sovente hai detto
ch’una volta per sempre il cor mi desti.
Et io, se pur di là non è disdetto,
nelle beate region celesti,
ti prometto d’amar, datti conforto,
quant’amar si potrà, poi ch’io son morto.
15Ma promettimi tu, perché contento
m’abbia a partir, che tu sarai lo stesso
a me vivendo», e come lume al vento
qui dall’ultimo giel rimase oppresso.
E la man ch’ei levò col braccio spento
gelida cadde al cor tremante appresso.
La prende Elisa, e del suo pianger l’onde
senza punto affrenar, così risponde:
16«Tu comandi ch’io viva, a me non lice
disubbidir, se chi ’l può far nol vieta.
Di fortuna e d’amor segno infelice
rimarrò dunque, or tu l’affanno accheta».
E mentre ella così lagrima e dice,
rasserena il guerrier la fronte lieta,
e rivolgendo i gravi lumi al cielo
l’anima fugge, et ei rimane un gielo.
17La donna allor che fatto terra il vede,
per non più rivederlo in terra mai,
straccia i biondi capelli e ’l volto fiede,
che non ha colpa, e de’ begl’occhi i rai;
e ’l dolor tanto impetuoso eccede
che, capir nol potendo il petto omai,
l’anima ne sospinge, ond’ella sviene
dal suo breve morir tolta alle pene.
La strega Altea si vendica di Alceste facendo una fattura ad Elisa (18-26)
18Cade intanto nel mar la luce spenta
e la tacita notte il mondo oscura,
né punto ancor lo sfinimento allenta
ch’alla misera Elisa i sensi fura,
quand’ecco, orrida in volto e violenta,
donna col crin disciolto antica e scura
che d’un irco volante il dorso preme
e l’aria al correr suo divisa e preme.
19Costei primiera all’impudiche nozze
corre ogni luna alla tremenda noce,
e preferita alle lascivie sozze
dall’altre vien, che sopr’ogn’altra noce;
e quando all’empio re la parca mozze
l’infame vita a mal oprar veloce,
spera costei di mille streghe sparse
formidabil regina un giorno farse.
20Altea vien detta, e con le labbra immonde
gionge d’Averno a intorbidar l’arene,
et ubbidisce a lei, non pur risponde,
ogni ministro dell’eterne pene.
Costei produsse alle tessalich’onde
e poi nutrivvi il cavaliero Armene,
quel che morio per man d’Alceste quando
dianzi al vetro mortal corse volando.
21Onde però di fiero sdegno accesa
la genitrice orribile e crudele
corre notturna a vendicarlo intesa
fulminando per gl’occhi assenzio e fiele,
e indarno giunta alla bramata offesa,
poi ch’è morto il guerrier, ne fa querele,
come nibbio talor che falso vide
e senza cibo al ciel ritorna e stride.
22E dice ella tra sé: – Benché la morte
mi tolga incrudelir dov’io vorrei,
non mi torrà però che non ne porte
la penitenza in vece sua costei.
E giungeranno alla celeste corte
la sua pace a turbar gli sdegni miei,
mentr’ei vedrà compassione amara
tormentar, di lassù, cosa sì cara -.
23Ciò detto Altea le scapigliate chiome
tutte spargendo orribilmente a i venti,
scote la verga onde son vinte e dome
le furie incapellate di serpenti,
e percote la terra e chiama il nome
de gl’infernali spiriti nocenti;
et ecco all’iterar l’orrenda voce
rapida vien la legion feroce.
24E frettolosa in replicar, che chieggia
da lor quell’implacabile Megera,
che l’infernale addolorata greggia
passi in Elisa audacemente impera,
e come suol nella tartarea reggia
alberghi in lei l’abominosa schiera,
e del bel corpo inospitali et empi
facciano acerbi e lagrimosi scempi.
25E così detto in un grida e minaccia
gl’abitator del tenebroso Averno,
e con la verga orribilmente caccia
a suon di busse il neghittoso Inferno,
fin che la legion tutta si caccia
a far del molle petto aspro governo,
et ella poi su l’irco suo risale,
veloce più d’ogni animal ch’abbia ale.
26E se ne parte allor, ché più dal giorno
son col buio maggior lontane l’ore,
egualmente distanti al suo ritorno
ch’al dipartito occidental splendore.
E la giovane omai, ch’a piè dell’orno
disvenne appresso al suo perduto amore,
ritorna in sé, né qual solea si sente
misera più d’ogn’altra e più dolente.
Elisa vaga in preda ai tormenti inferi finché non è salvata da alcuni pastori (27-50)
27Scorrer si sente e raggirar nel seno
tacito orror, ma non discerne ancora
quel ch’ella sa, né che i demoni sieno
quel mal che la tormenta e che l’accora.
Spargono gl’organi suoi atro veneno
gli spirti intanto, e fan veder di fuora
alla misera Elisa, anzi parere,
orche, draghi, leon, tigri e pantere.
28Era di mezza notte e senza luna
torbido il ciel; non si potea nel bosco
o vedere o sentir cosa nessuna,
così mutolo è ’l mondo e ’l ciel sì fosco,
e pur tanto potea l’orrenda e bruna
schiera operar col trasparevol tosco,
che la giovane afflitta e sente e vede
e mezzo dì la mezza notte crede.
29Volge il torbido ciglio e intorno al prato
nascer da rotti sassi un fuoco mira,
e per l’incendio immantinente nato
fuor delle pietre orribil vento spira.
Soffia e raccende impetuoso il fiato
l’ardor, che infino al ciel s’avvolge e gira,
e per entro a quel foco egri mortali
gettati son da spiriti infernali.
30Là dove poi dell’abbruciata carne
da gli spiriti il cener si raccoglie,
e si sparge di lagrime a rifarne
un loto, e ricompor l’antiche spoglie,
e così avvien ch’ognun se ne rincarne,
e si consumi in sempiterne doglie,
urla la fiamma, e non s’accheta mai
l’orribil suon de gl’infiniti guai.
31Or mentre Elisa a quel martoro intenta,
correle un giel per ogni vena al core,
al suo marito un fier drappel s’avventa
per voler trarlo al dispietato ardore,
e ’l misero guerrier prega e rammenta
chiamando Elisa, il lor passato amore;
e pur volgesi a lei che fra i demoni
mossa a compassion non l’abbandoni.
32Raccapricciasi allora, e tutta algente
più ch’all’Euro vermena Elisa trema,
e più non è di raffrenar possente
lo spaventato piè tant’è la tema.
Al fin si fugge, e dietro a lei corrente
parle Alceste sentir, che pianga e gema,
e per nome l’appelli e la richiami,
e si dolga di lei che più non l’ami.
33Ferma attonita il passo e, pur sentendo
ripercotersi il cor dall’egra voce,
soffrir non puolla, e più e più correndo
dal funesto appellar fugge veloce.
Quanto in vita fu caro, in morte orrendo,
quel suon l’affligge a rimbombar feroce;
corr’ella, e stride, e l’ermo bosco e folto
le straccia i panni e ’l crin le frange e ’l volto.
34Corre per precipizi e per ruine,
di rupi in balza e di pendice in valle,
e passa in mezzo a i bronchi e tra le spine
qualunque chiuso impenetrabil calle;
e ’l terribile suon non ha mai fine
di rimbombarle alle tremanti spalle.
Storc’ella i lumi e ’n fiera vista acerba
né color né sembianza in vista serba.
35Parla in vari linguaggi, e proferisce
di remoti paesi estrani accenti;
qual tauro mugge e qual destrier nitrisce,
bela talor come i lanosi armenti.
Di vari suoni un suon confuso unisce,
sibili di dragoni e di serpenti,
urli di lupi e d’incavati sassi,
fischi interrotti e rumor fiochi e bassi.
36Fugge la spaventata e ’l sen percote
e le palme d’avorio insieme batte,
straccia i capelli e delle bianche gote
livide apparir fa le nevi intatte;
spesso e grave anelar suo fianco scote,
e con rapido moto il cor le batte.
Or fra tanto tormento all’alba cede
l’umida notte, e ’l nuovo dì succede.
37Et ella i lumi suoi verso Oriente
volgendo afflitta, e l’almo sol mirando,
nascer crede per terra un fuoco ardente
ch’ogni cosa mortal corra bruciando;
ond’allor più che mai fugge repente,
l’aria, l’acqua e ’l terren seco chiamando;
«Fuggi, bosco» dicea «fuggianne lunge,
campagne e selve, il fiero ardor n’aggiunge».
38E con tenera man prese le piante,
oh gran virtù di spirital fortezza!,
svelle gl’arbori antichi e in un istante
streccia ogni ramo, ogni tronco spezza,
e ’l bosco se ne va folto e sonante
dove lo trae quell’infernal fierezza,
né d’Euro irato oriental tempesta
ruppe mai tanto e strascinò foresta.
39Ma poi ch’alquanto a respirar le diero
spazio ne’ furor suoi gl’immondi spirti,
e ’l sanguigno color gl’occhi perdero
e tornàr piani i crin superbi et irti,
del suo misero error compreso il vero
vede sol d’ogn’intorno abeti e mirti,
e ch’Alceste è lontano e non si duole
e fuggir crede il foco e fugge il sole.
40Onde la miserella al fine accorta
che di spiriti immondi è fatta un nido,
e che l’impeto lor via la trasporta
di rupe in balza e di pendice in lido,
gelida e muta, e sbigottita e smorta
rimane un tempo; al fin solleva un grido,
e sospirando al Ciel con l’infelice
sguardo s’affisa, e poi prorompe e dice:
41«O Dio, se pur per le sue colpe Elisa
tormentar debbe in sì dolente sorte,
e ferite e dolor non l’hanno uccisa,
perché non tronchi i suoi martir la morte,
sostienla almen, per tua pietade, in guisa
ch’ella si mostri a tant’affanni forte,
e l’alma sua, come la spoglia frale,
non abbia a dominar forza infernale.
42Errò l’anima, è ver, che tanto affetto
non dovea porsi in sensuale amore,
e tanto errò che dal natio ricetto
vols’uscir folle e disperata fuore.
Ma chi può moderar fiamma nel petto
mentr’ella avvampa innamorando il core?
Spero però ch’a ritrovar mercede
vaglia la tua pietade e la mia fede».
43Seguita poscia, e tutta quanta è piena
di pianto il viso: «A qual crudele affanno
fiera disavventura oggi mi mena,
poi che morte et amor straziata m’hanno,
che non avendo omai tormento o pena
per me la terra, afflizione o danno,
e stanco essendo a travagliarmi il mondo
sorge a martiri miei l’abisso immondo?».
44E così detto, e l’una e l’altra stella
piegando a terra e lagrimando insieme,
quanto affannosa più tanto più bella,
dal profondo del cor sospira e geme,
e direi che la torma a Dio rubella,
che pur, com’ella suole, ancor non freme,
per non turbar tanta beltade il fesse
se mai l’Inferno impietosir potesse.
45Ma le lucide sue brevi dimore
guastando intorno i crudi spirti e rei,
tornano a rinovar l’empio dolore
e lascian corto ogni riposo in lei.
Cangia subito ’l suon, cangia ’l colore,
cangiansi in urli i lamentosi omei,
e, forsennata, ove ’l furor la caccia
corre stridendo e ’l sen percote e straccia.
46Meraviglia dirò: quasi volante
augel si leva alcuna fiata in alto,
e se ne va delle silvestre piante
su le mobili cime a salto a salto,
e qual angue talor corre strisciante
serpeggiando col sen l’erboso smalto,
di qua, di là, di su, di giù tra via,
e viene e va per la medesma via.
47E torna, al fin de’ traviati errori,
là dove era rimaso Alceste morto,
che sembra a lei, per gl’infernal furori
che veder fanla impetuoso e torto,
un setoloso e fier cinghial che fuori
del bosco sia novellamente sorto,
et ella allor, che non posò mai l’arco
dal tergo il trae così curvato e carco,
48et una e due quadrella e quattro e sei
e tutte scocca al misero amatore,
che tutte van, sì come piace a lei,
benché sia morto, a ripassarli il core.
ma fortunato te, che giunto sei
già prima, Alceste, al terminar dell’ore,
e di veder col morir tuo schivasti
lacerarti costei che tanto amasti.
49Or mentre ella così stolta vaneggia,
pastori antichi a quelle piagge intorno
menando a pascolar l’amata greggia
vider la forsennata a piè dell’orno,
e, come par che la pietà richieggia,
chiamandon’altri a suon di rauco corno,
preser la donna e la legaron forte
con vimini arrendevoli e ritorte.
50E quella insieme e ’l cavalier facendo
condur per seppellirlo alle lor case,
dell’umana pietà gl’uffici empiendo
intermesso da lor nessun rimase,
e ’l corpo in bianche pietre indi ponendo,
se non lucenti almen polite e rase,
sopra ’l sepolcro un nobile trofeo
dell’armi appese al cavalier si feo.
I cristiani, usciti dal vallo in campo aperto, vengono accerchiati (51-56,6)
51Intanto il popol pio, che inanimito
dal magnanimo Eraclio era del vallo
contra i pagani a guerreggiare uscito,
d’onde lo spinse il furibondo Armallo,
quanto men da i ripari è custodito
tanto più la sua virtù sicuro fallo,
urta ne’ Persi e fa passar tra loro
senza disordinar l’aquile d’oro.
52Così superbo il Rodano è distinto
per lo lago Lemman portando l’onde,
di diverso color sen corre tinto
e per velocità non si confonde.
Vanne il popol d’Europa oltre sospinto
e di barbaro sangue un mar diffonde,
s’incrudelisce ad or ad or la guerra
tanto che n’arde ’l ciel, trema la terra.
53Sbandito va dal furibondo sdegno
da ciascun petto ogni timor di morte,
e non è cor quanto si voglia indegno
che non la ’ncontri inanimito e forte.
Ma il re de’ Persi a quel drappel fa segno
che ’l suo rimedio a tanta furia apporte,
e qual si muove e dimostrar che male
non li convenga il titolo immortale.
54E d’Europa al valor postosi a fronte
resiste e tronca al suo trapasso il passo,
qual chi porgesse infra due colli un monte
per dove scorra un rio sonante al basso.
Né men Ruben, con le sue schiere pronte,
manda alla coda, e con Ruben Artasso,
e già per tutto orribil cerchio e folto
l’esercito cristiano in mezzo ha colto.
55Ond’ei scorcia e s’aduna e d’ogni lato
pugna ferocemente e si difende,
come guarda se stesso istrice armato
saettator di mille punte orrende,
che da i voraci assalitor serrato
sue spine scocca e i fieri cani offende,
e quinci e quindi il morditor s’arretra
al saettar dell’ispida faretra.
56Così nulla paventa e nulla cede,
benché sia circondato, il popol fido,
ma percosso percote, offeso fiede,
e di barbara strage ingombra il lido,
riurtato riurta, e sempre riede
con più vigor contra lo stuolo infido.
Di che sdegnato il rigoglioso OdonteAntilio e Eristo rispondono alle ingiurie di Odonte gareggiando in valore, finché vengono uccisi da Armallo (56,7-79)
così prorompe alle minaccie, all’onte.
57Nacqu’ei colà dov’al Cofilo in cima
d’algente nebbia è sempiterno un velo,
e ne distilla in cupa valle et ima
per cento rivi il liquefatto gielo,
e v’è quel marmo a cui vivendo prima
quattordici suoi figli estinse il cielo,
poi lo fece il dolor gelato e fermo,
e del pianto a’ suoi piè s’accoglie l’Ermo.
58Nato dunque su l’Ermo, Odonte audace
verso il campo roman così favella:
«Mira indomita turba e pertinace,
mira ostinata e temeraria e fella,
che non cede ancor vinta e non vuol pace,
e debellata ancor dura rubella,
e vuol prima per noi tagliarsi a brani
e preda rimaner d’augelli e cani.
59Su rendetevi, su, l’orgoglio e l’armi
di voi s’abbassi e vi chiamate servi,
ché meglio è che la vita si risparmi
che nell’ostinazion morir protervi.
Ahi dunque, i vetri cozzeran co i marmi,
e co i leon contrasteranno i cervi?».
Sì disse, e ’l suon delle superbe note
ne gl’italici cor punge e percote.
60Ma più nobile sdegno in mezzo al petto
di due guerrier a quel parlar s’accende,
che l’uno Antilio e l’altro Eristo è detto,
e fin da Pansa il sangue lor discende,
e, quantunque cugini, acuto affetto
d’emulazion sì l’uno e l’altro offende
che passaron talor pensosi e mesti
l’ore del sonno insino al giorno desti.
61Nacquer costor là nell’Etruria, dove
dal duce Antonio il traditor fu vinto
che sommetter la patria a leggi nuove
tentò feroce, al gran servaggio accinto;
ma di colui che ’l mal consiglio muove
non fu pur un che non restasse estinto,
e fiero et alto alla crudel tenzone
gonfio di sangue rosseggiò l’Ombrone.
62Antilio al suon di tante ingiurie e tali
verso l’emulo suo si volge e dice:
«Non odi, Eristo, or chi ne biasma e quali
rampogne in noi, che sopportar non lice?
Su dunque, al par di me nell’armi vali,
mostrine il paragon la spada ultrice,
e sarà ’l paragon chi prima uccida
quell’uom bestial che ne minaccia e grida».
63Ciò detto ei tace, e dove più congiunte
son le squadre de’ Persi oltre si caccia,
e là dell’oste infra l’unite punte
fa che ’l proprio valor la via si faccia.
Mena il giovane audace or tagli, or punte,
e sprezzando la vita onor procaccia.
Rodon l’emulo suo l’invidia e l’ira,
e torvo alquanto e dispettoso il mira,
64e poi tra gl’avversari anch’ei si getta
e ferito ferisce e non s’allenta,
né men d’Antilio i fieri colpi affretta;
né ’l periglio maggior più cauto tenta,
e l’uno e l’altro ov’è più folta e stretta
fa la turba cader divisa e spenta;
l’uno all’altro dà l’occhio e torna spesso
con l’altrui prove a misurar se stesso.
65Così talora in biondo campo avviene
se con l’un metitor l’altro gareggia
a qual più presto al fin del solco viene,
e ben l’opra dell’un l’altro pareggia,
la falce al sol tra le recise arene
co’ suoi rapidi giri arde e lampeggia,
morde ratta la messe e spazio acquista,
folgore par tra la cadente arista.
66Dopo mille respinte e mille offese
pervenne Antilio al gran nemico a fronte,
e fra mill’aste a rigettarlo intese
s’avanzò sì ch’al fin percosse Odonte,
e rotto a lui quel suo superbo arnese
trassevi ad irrigar tiepido fonte.
Ma intanto unito immenso stuolo insieme
lo spinge et urta, al fin l’abbatte e preme.
67Or la caduta sua veggendo Eristo,
da pietà generosa il petto punto
così parla tra sé: – Qual gloria acquisto
s’io salvo Antilio al periglioso punto?
Dono mi sarà poi, non proprio acquisto,
s’io nel sottraggo a dura morte giunto -.
E così detto immantinente corre,
emulo illustre, e ’l suo cugin soccorre.
68E tra i nemici è ’l cavalier caduto
con la rapida man punge e percote,
e in aria imprime il crudel ferro acuto
strisce di fiamma e folgoranti rote;
e sì ben porge al buon Antilio aiuto
che sollevarsi e rinfrancar si puote,
e già ’l ferro e lo scudo imbraccia e impugna,
e già si scaglia a rinovar la pugna.
69Così l’aquila torna al volo altero
e fra le nubi in un momento sale,
dapoi che sciolto è ’l mortal angue e nero
che in feroce tenzon gl’avvinse l’ale.
Stringe il fulmineo ferro il cavaliero
e ’l fiero Odonte impetuoso assale,
quand’ecco un dardo alla man destra aggiunge
e ’l chiaro emulo suo percote e punge.
70Passa il frassino il braccio, e non mai chiodo
conficcò dura e ben polita spranga
com’egli al fianco il destro braccio, in modo
ch’esser non può che ’n sua balia rimanga.
Si sforza ei pur, ma sì tenace è ’l nodo
che far non può che si disciolga o franga,
e intanto opprime unitamente il tosco
di mille spade e di mill’aste un bosco.
71E su ’l duro terren battuto e steso
dalla gran calca abbandonato e bianco
lo scorge Antilio, e di pietade acceso
lascia vivo il nemico e ’l vincer manco,
ch’avea già di sei punte Odonte offeso,
tre nel volto superbo e tre nel fianco;
e corre ratto e vuol, se può, la vita
render a lui con altretanta aita.
72S’impenna al corso e colà dove Eristo
giacea nel suol da cento lance oppresso
penetra audace, e ’l popol folto e misto
gli sparge intorno, e tal si pon sovr’esso
qual chioccia suol, che in brevi rote ha visto
girarsi il nibbio predator da presso,
che l’ali spande e da i feroci artigli
di se stessa fa scudo a i propri figli.
73E renduto al cugin nobile usura,
degno cambio di vita e di salute,
già sorge Eristo e di se stesso ha cura
né bisogno gl’è più ch’altri l’aiute.
Van poscia insieme e quanto in lor natura
cerca di contrapor, vince virtute,
e, Odonte ucciso a manifeste prove,
fanno a gara tra lor chi più si giove.
74Lo scudo e l’elmo alla superba fronte
d’accordo han tolto, e ’l fiero capo inciso,
e ben potean le ricche spoglie e conte
portarne ancor dell’avversario ucciso,
ché l’uno e l’altro avea le man sì pronte
e con franco valor sì saggio avviso
ch’aprir poteansi i due guerrieri il loco
tra i nemici non pur ma in mezzo il foco.
75Ma ecco Armallo, e ’l buon Antilio aggiunto
dove all’omero il capo unisce ’l collo,
come col balenar tuona in un punto
la mortifera man scese e tagliollo.
Pria cadde il teschio e poi, da lui disgiunto,
diede il tronco nel suol l’ultimo crollo.
Al duro caso un’insensibil pietra
rimansi Eristo, e ’l piè tremante arretra.
76E nel cor sì ragiona: – Infausto vanto,
sventurati trofei, spoglie funeste!
Tu muori, AntilioS | Artilio, e ben dimostri or quanto
l’emulo in arme inferior ti reste.
Tu muori, e vivo io ti rimango a canto:
or quai prove bram’io più manifeste?
Sempre muor l’animoso e ’l vile avanza,
superarti omai più non ho speranza.
77Ma non fia ver, se glorioso al fato
ceduto hai tu, ch’io viver voglia oscuro,
che vendicarti over morirti a lato,
generos’alma, a te prometto e giuro -.
E qual torbido flutto in mar turbato
corre a spezzarsi in fermo scoglio e duro,
tal egli Armallo orribilmente urtando
l’impeto di sé tutto unisce al brando.
78Ma così salda e impenetrabil cote
così rigida et aspra è ’l fier pagano
che indarno in lui col suo furor percote
e sparge il cavalier le forze invano.
E col ferro mortal che ’l tutto puote
cala il figlio d’Aton l’orribil mano,
e fra le ciglia in fin sul labbro fesso
morto all’emulo suo lo stende appresso.
79Quindi, spenti i cugini e quell’affetto
ch’era in lor vivi a ben oprar cagione,
anime gloriose al ben perfetto
volaste voi dalla mortal magione.
Deh, fusse il mio stil pari al soggetto!,
d’una patria virtù tal paragone
ben trarrei fuor d’ogni mortale oblio,
ma valer non può tanto il cantar mio.