ARGOMENTO
Detto che fu come di Lete usciro
incontrano i guerrier le squadre perse
che scorgevan le biade, e l’assaliro,
e fur tutte da lor l’armi disperse,
l’esercito cristian rinvigoriro.
Di gielo Erinta ebbe sue fiamme asperse,
poi lo scudo del Ciel riporta al padre
e vuol pugnar per le cristiane squadre.
Triface racconta della loro fuga dal carcere (1-14)
1«Nella città che da Seleuco ha nome,
su la sponda del Tigre è ’l carcer posto,
di fuor superbo e minaccevol come
sia per paura a riguardar proposto.
Alta è la torre et ha merlate chiome,
et evvi un drago a ciascun canto esposto,
ch’apre la bocca e ’l cavo bronzo senti
fischiar sonoro allo spirar de’ venti.
2Colaggiù dunque in sì malvagia e ria
prigion serrati, anzi sepolti vivi,
che si nomina Lete, acciò che pria
che v’entri alcun d’ogni speranza il privi,
trovammo il venerabil Zaccheria,
serrato anch’esso acerbamente quivi,
e per tre lustri uman conforto alcuno
non ebbe, ancor nell’antro orrido e bruno.
3Quivi il troviam che di squallor vetusto
nelle tenebre cieche orrido fassi,
e la barba ingombrando il petto e ’l busto
che fu candida pria, livida stassi.
Pende il manto stracciato a frusto a frusto
tanto è vissuto in lochi oscuri e bassi,
ma soffrendo per Dio sì duro stato
nelle miserie sue vive beato.
4Ci racconsola in quel dolente speco
quel buon servo di Dio con dolci note,
e ci conforta a sollevar con seco
la nostra speme alle celesti rote.
E bene a trapassarvi anch’io m’arreco
la noia e ’l tempo in orazion devote;
alfin per tedio, impaziente, un giorno
laggiù comincio a raggirarmi intorno,
5e d’un piè percotendo a caso ’l muro
dal rimbombo ch’ei fa vòto il comprendo,
ond’io replico i colpi e più sicuro
venirne il suon da’ cavi sassi intendo.
Io di svellere un chiodo allor procuro
e di forar quella parete intendo;
sciolgo una pietra e poscia un’altra, e vegno
là pure alfin dov’arrivar m’ingegno.
6E vi trovai che già molt’anni prima
per dar esito al fumo, atro canale
lasciaro i fabbri, e quella via dall’ima
parte dell’alta torre al sommo sale.
Ma poi l’avea, così da noi si stima,
chiusa, ché l’uso suo più nulla vale,
et io ben miro e cautamente avverto
che salir puossi e pervenir sull’erto.
7Silvano anch’esso a quella via pon mente,
e possibil salirla anch’ei discerne,
ma non già di poter però consente
scampar dell’oscurissime caverne:
– Che, benché fusse alcun di noi possente
a montar su le parti alte e superne,
che de’ far poscia, ove mortale il salto
sarebbe ancor della metà men alto? -.
8Et io – Non già, ché nel suo molle seno
ci potrebbe raccor del Tigre l’onda,
e poi nòtando all’arido terreno
pervenir noi su la più larga sponda.
E se pur si morrà fia ’l danno meno
che rimaner nella prigion profonda,
e infracidir dall’almo Sol distanti,
sepelliti cadaveri spiranti -.
9E, così stabilito, allor che ’l nero
velo dell’ombre avea coperto il mondo,
benedicente il santo et al sentiero
prega il Ciel favorevole e secondo,
moviam noi poscia, io salitor primiero
m’appiglio e monto, e vien Silvan secondo.
Scala fanne il sentier, per cui s’appoggia
l’omero col ginocchio e s’alza e poggia.
10Così talor per l’atre vie salisce
cui tinse il fumo e si solleva al tutto
chi le folte fuligini pulisce,
lasciando aperto il chiuso calle e netto.
Lunghissimo è ’l canale, e n’impedisce
spesso soverchiamente angusto e stretto,
onde convien con faticosi affanni
riportarne stracciati il petto e i panni.
11Pur giungemmo anelanti al sommo estremo,
e dato posa al fianco afflitto e lasso
dall’un de’ merli il guardo in giù volgemo
dove ’l Tigre correa rapido e basso:
Silvan paventa, io sbigottisco e tremo,
poi, disperato, ogni riguardo lasso,
spogliomi e della croce, al petto scudo
fatto tre volte, in giù mi metto ignudo.
12Stringo a i fianchi le man, le gambe insieme,
e in diritta caduta all’acque scendo,
rattengo il fiato e l’aria intorno freme
ch’io col presto cader dirompo e fendo.
Piomba il tuffo nell’onda e ’l lito geme,
ripercosso da lei con suono orrendo;
pervenn’io fin sul l’arenoso fondo,
poscia risollevai su l’acque il pondo.
13E volgendomi intento all’altro lido
muovo a tempo le man, muovo le piante,
l’onda al sen mi raccolgo e la divido,
me sospingendo a scossa a scossa avante.
Et ecco intanto il mio compagno fido
dietro a gl’omeri miei cadde sonante,
e l’uno e l’altro alla bramata riva,
stanco, anelando, al fin sicuro arriva.
14Per paesi deserti e luoghi incolti
nudi errammo la notte, e ’l giorno poi
da cortese arator con preghi accolti
ei ci vestì di questi panni suoi.
E, quai vedete, in rozze spoglie avvolti
verso il campo la via facemmo or noi,
né sapevam le sue sventure»; e tace
con questi detti il cavalier Triface.
I cinque cavalieri assaltano e conquistano le salmerie dei Persiani, le portano a Teodoro (15-36)
15Et ecco allor dalla man destra appare
coppia di cavalier, che di lontano
alle divise del color del mare
sembran di nobil sangue persiano.
Più e più vero ogn’atto lor compare
nell’appressarsi per l’erboso piano,
et eran questi i precursor primieri
de’ frumento di Cosdra e de’ guerrieri.
16De’ guerrier che venian per fare scorta
con le lor armi alle portate biade,
e già la salmeria da lungi è scorta
tutta ingombrar le spaziose strade.
La testa ogni camelo altera porta,
ch’al petto mai non si ripiega o cade,
vengono unitamente a torma a torma
e l’un preme tra via dell’altro l’orma.
17Ciascuna torma un conduttier precorre
ch’a suon di canna alpestri note accorda,
con cui sovente a gl’animai soccorre
se egli vinca stanchezza o sete morda,
e ’l dover tosto i pesi lor deporre
e l’onde e ’l cibo in chiaro suon ricorda,
e intanto or con flagello or con le note,
or lusinga alternando oraS | or percote.
18Gl’ingroppati guerrier posano in terra
d’Ottone il figlio e ’l cavalier lombardo,
sfidano i precursori a dura guerra,
che l’uno e l’altro è cavalier gagliardo;
e l’un contra dell’altro si disserra
sì che folgore il ciel corre più tardo.
Fiero è l’incontro e risonar lontani
s’odon d’intorno e le pendici e i piani.
19Passa il nemico suo dal petto al tergo
d’Ottone il figlio, e fuor di sella il getta,
et Adamasto il suo dove l’usbergo
è doppio e sopraposta ha la goletta,
e si fann’amendue l’ultim’albergo
nel verde suol su la minuta erbetta.
E l’armi immantinente e i destrier loro
da Triface e Silvan pigliato foro.
20E così fatto un drappelletto unito
di cinque cavalier che non han pari,
vassene insieme alteramente ardito
contra i Persi stringendo i ferri amari.
Tutto d’armi nemiche han pieno il lito
d’intorno a’ grani i cavalier contrari,
e di folt’aste avean pungenti selve
per guardia lor le portatrici belve.
21Ma come fusser l’aste arida paglia
o l’armi intorno a lor tenere fronde,
entrati i cavalier nella battaglia
apresi un mar di sangue e si diffonde.
Si disordina il Perso e si sbaraglia,
si conturba ogni schiera e si confonde,
e quinci e quindi omai la turba folta
al valor de’ cristian gl’omeri volta.
22I capitan delle pagane schiere
chiaman pur quelli e fan rivolger questi,
e per riordinar le lor bandiere
corron di qua, di là veloci e presti,
e prova fanno a tutto il lor potere
che la furia mortifera s’arresti,
e tentano irritando or questi or quelli
contra i fieri leon muover gl’agnelli.
23De’ capitani è l’un detto Francasto,
chiaro per sangue e per famose prove,
et egli a rincontrar corre Adamasto
e chiama al correr suo propizio Giove.
Tigranne è l’altro, uom poderoso e vasto,
che sopr’un gran corsier tant’alto muove,
che sembra armato tutto egli e ’l cavallo
muoversi in guerra un monte di metallo.
24Contra colui dalle massiccie membra
Batran s’avventa, e con tal furia vanne
che sdrucendo le nuvole rassembra
fuoco che scenda a folgorar capanne.
Nulla di sua virtù più si rimembra
al fiero assalto attonito Tigranne,
e non sa né fuggir né far difesa
contra ’l guerrier della romana Chiesa.
25Batrano a lui, ch’al suo venire aggiaccia,
come neve notturna al Borea suole,
e, nel cor freddo e scolorito in faccia,
riman di marmo un’insensibil mole,
con l’intrepida man la spada caccia
dov’entra il cibo et escon le parole,
e la gorgiera a lui rompe e fracassa
e morto in terra al primo colpo il lassa.
26Cade, e sembra al cader col grave petto
quercia che l’Aquilon divelga e schiante
poiché cent’e cento anni ombroso tetto
co i rami ha fatto alle più basse pianto,
cuopre et empie alla terra il duro letto
che percosso da lui sonò tremante,
e l’alma fuor della sua rotta spoglia
col sangue uscendo al fin geme e gorgoglia.
27Quell’altro duce, il fier lombardo, anch’esso
ferì di punta, e impetuoso urtando
col cavallo in un fascio a terra ha messo
il cavalier, che ne cadeo tremando.
Poscia dove lo stuol più folto e spesso
corre, e raggira il formidabil brando,
e fa veder con la possente mano
ch’emulo degnamente è di Batrano.
28Né men feroci a insanguinar la terra
corron di qua, di là l’ibero e ’l tosco,
e Volturno animoso apre e disserra
dell’aste intorno il periglioso bosco.
Triface Ozzia, Silvano Arrigo atterra,
Volturno Alminodar crudele e fosco,
e già da i vincitor l’ignobil frotte
corron disperse e sbaragliate e rotte.
29Risorge intanto e così parla il duce,
minacciando col ferro i fuggitivi:
«Ahi gente indegna di mirar la luce
e di nascer in terra al mondo vivi,
del frumento real che si conduce
dunque sarem così vilmente privi?
E dirassi di voi che vi fu tolto
da cinque sol, né gli miraste in volto?».
30E in questo dir la fera spada ignuda
contr’i suoi volge, e gli minaccia e fiede,
e così fra due morti aggiaccia e suda,
né sa lo stuol dove rivolga il piede.
Ma pure assai più spaventosa e cruda
nella man di Batran la morte vede,
ond’ei pur fugge, e la maggior paura
incontro alla minor lo rassicura.
31Per le man di Batran muore Altimete
fesso per mezzo all’uno a l’altro ciglio.
Coglie il vecchio Silvan di punta Ormete
sì ch’ei ne cade a fare ’l suol vermiglio.
Triface a Carbasan la fronte miete,
d’Aglauro uccide il fier lombardo il figlio,
e cade in un fra membra rotte e fesse
Lupalco, e sovra lui Ciarabardesse.
32Caggion Trincastro e Moricalte insieme,
l’uno e l’altro di ferri indarno cinti.
Fuggon le prime omai, fuggon l’estreme
parti, e son tutti e sbaragliati e vinti.
Batrano orribilmente abbatte e preme
e gl’abbattuti mescola e gl’estinti.
Alcun non è che più resister vaglia
e finisce in istrage la battaglia.
33Onde Silvan l’abbandonate some
per diverso sentier rivolger fatte,
di verdi piante entr’all’ombrose chiome
più che può le conduce ascose e piatte,
acciò che dal digiun le genti dome
anzi vicine a rimaner disfatte,
possin ricuperar vigore e lena,
che ne rimane a lor l’estrema pena.
34E ’l medesimo giorno al popol fido
giunti con palma e vettovaglia insieme,
levano i guerrier lassi al cielo un grido
e rinasce ne’ cuor letizia e speme.
Scorron le trombe ogni propinquo lido
chiamando al’esca ogni guerrier che geme,
e i famelici tutti e gl’alimenti
concorron lieti a ristorarsi intenti.
35Teodoro, acciò che la virtù negl’egri
debole e svigorita non s’offenda,
tempra l’avidità, né sazia integri
ma fa ch’a gl’appetiti si contenda.
E perché meglio il popol si rintegri
vuol che ristoro a poco a poco prenda,
e s’impongon leggiere al foco legna
perch’in vece d’accender non si spegna.
36Così ritorna a suo bell’agio il campo
come al tepido april boschetto suole,
che dall’orrido giel non trovò scampo
alle ramora sue spogliate e sole
se con virtù di temperato lampo
torna benigno a ristorarlo il sole,
che riha più che mai nelle sue foglie
l’antico onor delle perdute spoglie.
Erinta uccide uno sconosciuto che indossa le finte armi di Batrano, prosegue per il campo di Cosdra (37-64,6)
37In questo mentre alle sue tende Erinta
volgendo il piede e non portando il core
innanzi va, dalla pietà sospinta,
quantunque adietro la richiami Amore,
e ’l buon Niceto ad ubbidir accinta
con le speranze sue tempra il dolore;
e col pensar di vicendevol piaga
punto il guerriero ogni sua noia appaga.
38Tra se dice ella: – Oh quel famoso e forte,
e vo’ creder ancor fido e leale
veggio che su ne’ ciel per mio conforto
m’ha preparato il mio destin fatale,
né vo’ che dubbio alcun noia m’apporte
che i pensier cangi e non sia sempre tale,
ch’avendo ogni virtù sì degno amante
ben avrà questa ancor d’esser costante -.
39Ma mentre ella così seco favella,
ecco la Gelosia, mostro il più fiero,
peste la più nocente e la più fella
che mai spargesse orribil tosco e nero,
ecco la polverosa empia procella
che inabila d’amor tutto l’impero,
l’arpia crudel che con le branche immonde
ogni dolcezza sua guasta e confonde,
40e dice ella fra sé: – Dunque costei,
a cui s’è fatto il gran guerrier sì caro,
che non men sente riamando lei
foco nel cor corrispondente e chiaro,
devrà gustar fuor de gl’assenzi miei
le dolcezze d’amor senza l’amaro?
No no -, dic’ella, e le percote il petto
d’un empio stral di suo veneno infetto.
41Ma non sente però nel manco lato
pungersi pria dell’invisibil tosco
ch’ella non entri in un sentier serrato
di qua, di là da solitario bosco,
dove ella vede il suo Batrano armato
premerle innanzi il chiuso calle e fosco,
e ’l sollecito amante affrettar vede
solo soletto infra quell’ombre il piede.
42E dove un fonte scaturia d’un sasso
muov’egli incontro a giovanetta donna,
che tenea pensierosa il viso basso
facendo a lui del braccio suo colonna;
ma come udì del cavaliero il passo,
ne’ suoi stesso pensier più non assonna,
ma lieta e bella e baldanzosa in faccia
correli intorno e con amor l’abbraccia.
43Indi di propria man l’elmo e l’arnese
tutta ridente al cavalier disciolse,
e poi seco ne va dove un cortese
cespuglio ombroso i lieti amanti accoglia,
né mai raggio di sol dentro l’offese
sì dense intorno ha le sue verdi foglie.
Sent’ella poi che l’amorosa coppia
là dentro avidamente i baci addoppia.
44Erinta allor che ’l suo guerrier s’avvede
che fingendo amar lei d’altri si gode,
immobilmente rimaner si vede
quasi una pietra e più non mira et ode;
ma riscotesi poscia e torce il piede
lungi dal dolce suon che ’l cor le rode,
e giunta ove sentita esser non puote
scioglie il freno al dolor con queste note:
45«Dormo e veglio? che fo, lassa? S’io veglio,
perché non muoio a tanta pena? e s’io
dormo, perché di duol non mi risveglio
se non è morte più che il sonno mio?
Anzi di me dubiterò pur meglio,
son viva o morta? Ahi duro stato e rio,
viva no, ch’io morrei tale è ’l tormento,
e morta no se tal dolore io sento.
46Egl’è pur ver, con queste luci stesse
t’ho pur veduto ad altra donna in braccio;
perfido ingannator, son le promesse
queste tue dunque? è d’amor questo il laccio?
Tu fra l’ombre ne vai tacite e spesse
a goder d’altri e ti son io d’impaccio?
E vorrò, disleal, portarti amore?
Prima mi strapperò dal petto il core.
47Pria mi trafiggerò col proprio telo
che mai legarmi a’ brutti lacci tuoi,
e roti pur le sue venture il Cielo,
che mai così non disporrà di noi.
Ecco il nobile autor del chiaro stelo
che de’ produr sì gloriosi eroi,
e di tante persone illustri e conte
ecco la bella originaria fonte.
48Ecco l’onor di cavalier ch’ambisce
sopra gl’altri acquistar titolo e fama:
chi di morte lo trae d’amor tradisce,
e con perfido cor finge e non ama.
Con la Taide sua, per cui languisce,
corre a sfogar libidinosa brama;
ahi corbo vil, che nobil esca lasci
e d’immondizia sol ti nutri e pasci.
49Tortora intatta e candida colomba
non fia mai ver che non t’aborra e schivi:
esser vogl’io rivelatrice e tromba
de’ vilissimi tuoi fatti lascivi.
Se falso suon di tua virtù rimbomba
farò veder con quanta infamia vivi,
me testimon, me querelante avrai,
né finirò, né stancherommi mai.
50Ohimè, Batrano, e chi sarà del sesso
viril ch’io creda o continente o casto,
misera, se veduto ho pur te stesso
con gl’occhi miei contaminato e guasto?
Poteva io pur non ti venire appresso
ma traviarmi al bosco ombroso e vasto,
che quella oppinion ch’avea concetto
della tua fede ancor terrei nel petto.
51Ahi, ma che dico? Al disleal vorrei
creder pur dunque, e vaneggiar tradita?
E sì stolta e sì vile Erinta sei
che vorrestilo amar benché schernita?
Ahi tiranni dell’alma, affetti miei,
non fia vostra vittoria ancor finita?
Voglio, e s’io voglio avrò poter ben anco
spegner l’ardor che mi consuma il fianco.
52E ben s’estinguerà; pregoti, o Cielo,
s’amerò mai sì vile amante indegno,
e se mai più poich’è squarciato il velo
me ne riscalderò fuor che di sdegno,
fulmina sul mio capo e col tuo telo
fiamma accompagna del tartareo regno,
fammi dell’aura e della luce priva
apriti terra e mi sotterra viva.
53Ma perché qui co i miei disdegni invano
meco m’accendo a tenzonar soletta,
e non più tosto al cavalier villano
che schernisce il mio amor ne corro in fretta?
Sì sì, vattene, va’, fa’ di tua mano
dell’ingiustizie sue giusta vendetta.
Fa’ che impari da te l’anima estinta
se come l’altre ha da beffarsi Erinta».
54Ciò sentendo nel Ciel batte le penne
Amor per ira, e giù discende a volo,
e giungendo a colei ch’a sparger venne
tra le dolcezze sue l’assenzio e ’l duolo,
la ritrovò tra le fronzute antenne
che d’Erinta ridea sul verde suolo,
et ei dell’arco suo fatta un sferza
tutta la batte e la scudiscia e sferza.
55Grid’ella allor: «Non m’hai tu detto, ahi lassa,
che nelle fiamme tue mescoli il giaccio,
che ’l tuo foco altrimenti in breve passa,
e poi mi vieni a castiga s’io ’l faccio?».
«Sì, ’l fa,» dic’egli «in mente oscura e bassa,
ma non ti dar de gl’alti cuori impaccio,
entra a parte de’ vili e de’ plebei
ma i generosi sol vo’ che sian miei».
56Piang’ella allora e d’ubbidir promette
per l’avvenire; Amor s’acqueta e parte,
e la guerriera a far le sue vendette
rapida corre e ’l bosco incide e parte.
L’armi non avea già molte perfette,
ché provide il pastor la maggior parte,
ma nel proprio valor tanto si fida
ch’a ciò non bada e ’l gran guerrier disfida.
57Ma poi ch’è presso e senza l’elmo il volto
mira a colui ch’esser Batran credea,
e che non colui ma in quelle spoglie avvolto
non conosciuto cavalier vedea,
riman subitamente il cor disciolto
dalla tema d’amor malvagia e rea,
ma d’un’altra più fiera immantinente
per ogni vena irrigidir si sente.
58Per fermo tien che ’l gran guerriero ucciso
da lui sia stato, e l’armi sue ne porte,
e con atto fierissimo improviso
spinge il ferro mortal la donna forte,
e quello, inerme, attonito e conquiso,
d’una punta crudel trafigge a morte.
Cade, e si duol che disarmato ei cada,
senza scudo imbracciar né stringer spada.
59Erinta allor: «Se fusser tue quest’armi
ben pugnato del par con tecoS | teco con avrei,
ma perch’io so che dell’altrui tu t’armi,
né possessor legittimo ne sei,
con un ladron d’aver usato parmi
quel che con un guerrier non userei.
Quel cavalier di cui son l’arme è tale
che di te molto e più d’ogn’altro vale.
60Onde se non puoi tu col tuo valore,
che ne son certa, averlo ucciso omai,
se morto a tradigion se’ traditore,
e sei ladron se pur furato l’hai».
A questi detti il misero, che fuore
era per esalar l’anima omai,
sospirò grave, e poi soggiunse appresso:
«Ahi, che l’inganno mio torna in me stesso.
61L’armi di quel guerrier che tu ti credi
non son già queste, io le formai sembianti
per piacere a costei che qui tu vedi,
stolto assai più di tutti gl’altri amanti.
Ella, che le bramate sue mercedi
contese un tempio a’ miei sospiri e pianti,
– Va’, – disse un dì – Batrano uccidi e poi
ti prometto addolcir gl’incendi tuoi -.
62Et io, che cieco sì ma non già tanto
era però ch’io non vedessi aperto
non poter ottener sì degno vanto
con un guerrier di sì sovrano merto,
imitai l’armi e, stato lungi alquanto
a lei, di lor me ne tornai coperto,
e dissi: – Il gran guerrier pugnando ho morto,
ecco che le sue spoglie a te ne porto -.
63Ella mi crede e l’amoroso foco
vennemi a temperar tra queste fronde,
ma dentro al piacer mio fugace e poco
morte l’amaro suo per sempre infonde».
Né potendo più dir, tremante e fioco,
gl’ultimi accenti suoi guasta e confonde,
e dalla spoglia sua l’anima sciolta
mormorando fuggì col sangue involta.
64Or questo udito e ’l simulato arnese
mirato ben la valorosa Erinta,
poiché i falsi sospetti esser comprese
del suo Batrano e l’armatura infinta,
lieta alle squadre sue la via riprese,
Amore e ’l Cielo ad ubbidir accinta.
Studia ella il passo e innanzi a Cosdra arrivaTrova Gersamo cerca di essiccare il lago che protegge il forte (64-69)
che ’l giorno ancor l’estrema parte ha viva.
65Trova il suo re ch’affaticato in vano
s’era più giorni ad espugnar le mura
che difendea l’imperador romano
con guardia inespugnabile e sicura;
al fin, da poi ch’ogni suo sforzo è vano,
lascia a Gersamo un’incredibil cura,
che promett’egli, e vuol seccar quell’onda
che ’l muro impenetrabile circonda.
66Con cento fabbri alla propinqua valle
l’architetto ammirabile si muove
e, rompendo un gran sasso, un vòto calle
con vie ritrova inusitate e nuove.
Ciascuna ei tenta, e penetrando valle
finché la più opportuna vi ritrova,
che lo conduce al fin dove s’interna
dentro al concavo monte ampia caverna.
67Là dove poi che mille volte il piede
l’orma segnò per la profonda tana,
fermando il passo all’arti sue richiede
l’onda, che sovrastà quant’è lontana,
e raffrontando ogni misura vede
esser non molto al capo suo sovrana,
e sottraendo il ciel pietoso al monte
scaturir fanne a pochi colpi un fonte.
68Ond’egli allor con frettolosa voce
richiama i fabbri dal mortal periglio,
e col timido piè fugge veloce
nel cor tremante e sbigottito il ciglio,
e per l’orrenda e tenebrosa foce
spaventati ne van senza consiglio
maestri erranti, e lasciano infra quelli
spaventosi sentier, marre e martelli.
69Et eran giunti i fuggitivi a pena
fuor della tana, e ’l piè sicuro tratto
che d’angusto rigagno un’ampia vena
dilatando il sentierS | sentir l’onde s’han fatto.
Rimbomba il suon della spumante piena
d’ampio torrente e procelloso e ratto,
che d’incognito corso errando vaga,
le valli ingombra e le campagne allaga.
Entra nel padiglione di Cosdra e legge le memorie di Eraclio rubate da Domete: scopre di essere figlia dell’imperatore cristiano, riporta al campo lo scudo (71-77)
70Or mentre van per nuova strada aperta
traendo altrove il proprio lago l’onde,
e ’l munito castel cresce sull’erta
e dell’acque al fuggir sorgon le sponde,
dubbiosa Erinta e del suo stato incerta,
per veder s’al predetto il ver risponde,
a cercar va tra le pagane tende
l’origin propria e la paterna fede.
71E tra quelle che ’l re tien più gradite
nel proprio padiglion poste in disparte,
per onorarle poi le sue meschite
se gloria avrà del sanguinoso Marte,
con lo scudo del Ciel pendere unite
scorge in picciol volume alcune carte,
pria lo scudo celeste Erinta prende
e poi lo sguardo al bel volume intende.
72Legge il titolo pria, le prove e i gesti
son qui d’Eraclio, e di sua man gli scrisse.
Volg’ella i fogli, e ’n quei ritrova e ’n questi
ciò che in tempi diversi or fece, or disse,
quand’ecco avvien che la veduta arresti
singolar caso, e le sue luci affisse:
descritto è l’anno e l’ora e ’l mese e ’l punto
ch’allor finisce il terzo lustro a punto.
73E dicevan le note: «Una mia figlia
uscita fuor del primo lustro a pena,
corseggiando un vascel m’invola e piglia
del mare Egeo sovra l’estrema arena.
Ha sul braccio suo destro una vermiglia
spada, ché, ’l grembo suo la madre piena,
bramò di voglia e ’l macolò concetto
l’impression del suo guerriero affetto».
74Stupida la guerriera il certo segno
riconosce in se stessa, e i detti accorda
del buon Niceto, e del natal suo degno
non inteso fin qui nulla discorda.
Se medesma rincorre il proprio ingegno
e di vari accidenti si ricorda,
sì che del sole a mezzo dì più certa
discerne omai la veritade aperta.
75Gl’indugi rompe, e d’ubbidir disposta
Niceto, Amore, il suo natale e ’l Cielo,
quel libro prende ov’è l’istoria esposta,
e lo scudo immortal sott’altro velo,
e se ne va vèr la munita costa
alla fede verace, al giusto zelo,
e riconduce alle romane squadre
l’armi del Cielo e se medesma al padre.
76Gl’Angeli santi un’invisibil rota
fan di se stessi alla donzella intorno,
mentr’ella se ne vien per l’ombra ignota
facendo il salutifero ritorno;
e si rallegra ogn’anima devota
ch’in Ciel fruisce il sempiterno giorno,
mentre veggio lassù, d’intorno a Dio,
tornar l’arme celeste al popol pio.
77Non aspetta la donna il sol che rieda
a scioglier l’ombra al mondo oscuro e cieco,
ma parte in prima notte e la gran preda
che Domete furò riporta seco.
Chiama la sentinella e fa che chieda
d’esser ammessa al sommo duce greco,
ché viene amica, e di passar sicura
quinci impetrò nell’assediate mura.