ARGOMENTO
Vengon la fame e la tremenda peste
contra l’armi cristiane. Alvida prega
Gersamo a operar che ’l padre arreste
la guerra, et egli a ciò nulla si piega,
ma per ritrar come ’l nemico reste
gl’ambasciadori a lui mandar non niega;
di che s’accorge e riuscire in vano
fa ’l desio lor l’imperador romano.
Satana manda la Fame al campo di Teodoro. molti soldati muoiono di stenti (1-28)
1Or del misero stato ove ridotti
erano i rendentor del sacro legno
sentendo già nelle tartaree notti
l’imperador del doloroso regno,
con amari sorrisi et interrotti
quai li forma al dolor misto disdegno,
«Sì sì,» dicea «così la pianta avranno
che produsse al Dio lor mortale affanno.
2Queste son le vittorie e questi intanto
sieno i trofei, ma perché in breve suole
infievolir di mia possanza il vanto
contra colui che ’n Ciel governa il sole,
quanto breve è ’l bollor del ferro tanto
rapidamente più batter si vuole»,
e la Fame e la Peste orrendi mostri
chiama a gran nome a i sotterranei chiostri.
3Abitan esse alla più nuda parte
dell’Acheronte infra l’immonde arene,
e di nere caligini cosparte
si ravvolgon d’intorno ombre di pene.
Lo Spavento da lor giammai non parte,
la Morte al cenno sol rapida viene,
e stansi all’uggia in sempiterna lezzo
al dolore, all’orrore, al pianto in mezzo.
4A sé le chiama, e lor così ragiona
il re dell’altra region funesta:
«Ancor lassù dell’infernal corona
seguend’Eraclio alcun nemico resta,
e di colui che volentier perdona
vive la parte al nostro nome infesta,
e non ha le speranze ancor perdute
del legno ch’operò tanta salute.
5Ben dal re Cosdra e più di lui dal tosco
che la superbia a sua rovina ha sparso
quell’esercito audace io riconosco
dell’antica virtù debile e scarso.
Ma perché suol ripupulare il bosco,
tagliato sì, ma non divelto et arso,
ite ministre mie, coppia infelice,
né lasciate di lui sterpo o radice».
6La Fame allor per adempir le voglie
del tiranno infernal sorge alle stelle,
e per la via da satollarsi coglie
l’erbe de i campi e le radici sveglie.
Mostra al grave anelar l’interne doglie,
squallid’è in volto e sovra i piedi imbelle
muovesi afflitta, e spaventoso e tardo
dall’attonito ciglio affissa il guardo.
7Sovra gl’omeri asciutti ispida e folta
scende la chioma e gli circonda e vela,
e l’aspra pelle alle sue membra avvolta
non può vena coprir, nervo non cela.
Scarna è la fronte, e par dipinta o scolta
o in candido marmo o in negra tela,
perché pietade a i riguardanti apporte
figurando l’imagine di morte.
8Or così dunque alla milizia pia
giungendo il mostro una gran ferza scote,
e crudelmente ogni pietade oblia
e lo stuol di Teodor batte e percuote.
Passa il flagel dell’empia fame e ria
per le viscere altrui languide e vòte,
e ’l colpo è muto, alcun rumor non s’ode,
né fuor lascia alcun segno e dentro rode.
9Ma per l’aspre percosse erranti e sciolte
ne van le schiere ove ’l digiun le caccia
per le pendici inospite et incolte,
più che cenere spenta oscure in faccia.
Sembrano anzi ’l morir state sepolte,
trema l’alma ne’ polsi e ’l sangue aggiaccia,
e la virtù, cui l’alimento cessa,
prende per fame a divorar se stessa.
10La famelica turba intorno al suolo
spiegando va l’addolorata vista,
e vi scorge il terren povero e solo
spogliato omai d’ogni recisa arista,
e la disperazion giungendo e ’l duolo
alla fame che l’ange amara e trista,
prende a pascer dolente or frondi or erbe,
or ghiande amare or dume pome acerbe;
11ruvido nutrimento, onde più danno
traggon dall’esca, e quel che pasce offende.
Così scema il vigor, cresce l’affanno,
a dura morte ogni virtù s’arrende;
rifuggon gl’occhi oscuramente e fanno
lo sguardo uscir delle caverne orrende;
s’arriccia il crine, ogni lor senso langue,
tremano i nervi e si rappiglia il sangue.
12Con debil passo alle remote selve
molti ne vanno a procurar con gl’archi,
ché pasca il lor digiuno esca di belve,
ma non tornan però di preda carchi,
ché qual manca tra via pria che s’inselve
e su l’arco si muor pria che lo scarchi,
e qual di fera alle sanguigne tane
misero predator, preda rimane.
13E s’alcun mai d’acuto stral pungente
cervo nel fianco o cavriolo ha colto,
non ne sazia però l’avido dente,
ché da forza maggior suo cibo è tolto,
e dalla fame imperiosamente
ogni legge, ogni fren cade disciolto.
Nella forza ogni legge, ogni ragione
dura necessità nel ferro pone.
14E come allor che dentro all’onda fresca
si getta a i muti pesci il cibo usato,
colà verso la man ch’a sé gl’adesca
l’argenteo corre e ’l candido e ’l dorato,
ma invan s’appressa il piccoletto all’esca,
ch’entra il maggior, di fiere punte armato,
padroneggia per l’acque e pasce solo
vittorioso infra ’l guizzante stuolo,
15tal è la turba: ove ’l desio la spinge
con fameliche brame ardita corre,
né sdegna alcun dov’altri il ferro stringe
del cibo a guardia il nudo petto esporre.
L’infelici vivande il sangue tinge,
condimento crudel che ’l guardo aborre,
e ’l cacciator su la medesma fera
onde vita sperò convien che pèra.
16E già d’egri mortali a pena vivi
misti co i morti è tutto pieno il piano,
e d’ogn’umanità spogliati e privi
l’un nell’altro di lor fassi inumano,
ché non pur manca ogni soccorso quivi,
ma ’l sepolcro da lor s’attende in vano,
e della morte universal paura
di se stesso e d’altrui gl’uffici fura.
17Con attonito sguardo i vivi stanno
fissi ne’ morti e impaziente alcuno,
poi che schermo non ha contra l’affanno,
con lo stame vital tronca il digiuno.
Della vita al finir letto non hanno
né feretro al morir lugubre e bruno,
bara, letto e sepolcro è quivi solo
a i morti, a gl’egri, a gl’insepolti il suolo.
18Con quattro figli, or è ’l terz’anno, uscito
della dotta Bologna era Manfredi,
ciascun di core a meraviglia ardito
e d’aura al corso in su i veloci piedi;
ma già per morte il caro stuol finito
e ridutti in un sol tutti gl’eredi,
suo nome è Livio, ha negri gl’occhi e belli
e più che fila d’or biondi i capelli.
19De’ tre figli maggior su gl’occhi al padre
cadde il buono Adimar colto d’un sasso,
la notte quando all’ombre mute et adre
Batrano aperse a Gazzacote il passo.
E Silla e Fabio alle latine squadre
riportati gli fur, di vita casso
del tutto Silla, e visse Fabio tanto
che distinte ne fur l’esequie e ’l pianto.
20Tenerissimo è ’l padre e ’l caldo affetto
che dal fonte del cor partito uscio,
l’amor di quattro rivi in un ristretto
verso ’l figlio minor tutto s’unio.
Così resta a Manfredi il giovanetto
unica sua speranza e suo desio,
costumato garzon leggiadro e tale
che sol di grazia ha se medesmo eguale.
21Ma per digiuno a poco a poco ei manca
e di dolce stanchezza afflitto langue,
si discolora il suo bel viso e imbianca,
se ne fugge il calor, s’aggiaccia il sangue,
ond’ei, che la virtù debile e stanca
mancar si sente e rimanersi esangue,
volge al padre le luci e ’l mira fiso,
di bianchissima neve asperso il viso,
22e poi che gl’ebbe immobilmente alquanto
gli occhi ne gl’occhi al genitor tenuti,
e tacendo le lingue apriano intanto
vicendevol dolor gl’affetti muti,
cade il fanciullo al proprio padre a canto,
al padre che non ha con che l’aiuti,
e fa bella la morte, e la pietade
cresce nel volto suo grazia e beltade.
23Manfredi allor, poi che venirsi manco
vede il figliuolo in così dura sorte,
oh paterna pietà!, dal proprio fianco
traendo il ferro in se medesmo forte,
taglia la maggior vena al braccio manco,
per bagnarli le labbra aride e smorte,
e porge al figlio suo, ch’a morte langue,
poich’altr’esca non ha la vita e ’l sangue,
24e dice: «Or suggi, e non m’avere a schivo,
suggi il sangue, figliuol, di cui nascesti,
ragione è ben ch’io ti mantenga vivo
se la vita da me tu prima avesti.
Suggi, non disdegnar sanguigno rivo,
l’animo ch’io ti diffondo in te si resti;
fa’ che cibo sì caro almen ti pasca,
e quanto in me si muore in te rinasca».
25Apre i lumi il fanciullo e poi che mira
che dal braccio del padre il sangue viene,
chiude il gelido labbro e lo ritira,
pietoso orror, dalle paterne vene,
e vuol muover le voci e le raggira,
ché la vinta virtù più nol sostiene,
e morte omai con mani acerbe e crude
disserra l’alma e le parole chiude.
26Sovra ’l morto figliuol cader si lassa
allor Manfredi, e sì ’l dolor l’impetra
che fuor per gl’occhi lagrima non passa,
ma per pena maggior dentro s’arretra.
E poi ch’alquanto a muta fronte e bassa
tennelo il duol d’un insensibil pietra,
il misero si scuote e da radice
sveglie un alto sospiro e così dice:
27«Deh, Livio mio, tu de’ contenti miei
dolce un tempo cagione, or de’ miei danni,
tu mi muori dunque, innanzi a gl’occhi e sei
non ancor giunto al vago fior de gl’anni?
Sète pur sazi, acerbi fati e rei?
Son giunti al colmo i miei dogliosi affanni,
ecco ch’io moro il più dolente e pria
tutta ho vista morir la stirpe mia».
28Così lagnasi il misero et in braccio
s’arreca il figlio e con due rivi intanto
bagnando lui, che tramutato in giaccio
prova se vincer può morte col pianto,
ma ecco omai che si recide il laccio
che l’alma unisce al suo terreno manto,
ond’ella parte e muor di fame l’uno,
l’altro più di dolor che di digiuno.
Invia poi al campo di Eraclio la Peste, che ne falcidia le schiere: nonostante ciò i difensori respingono gli assalti dei pagani (29-46)
29La peste intanto infin dal centro udendo
della sorella il doloroso strazio,
delle tenebre sue fervida uscendo,
sorge all’aperto e luminoso spazio,
e vien dirittamente il mostro orrendo,
avido delle morti e non mai sazio,
là dove Eraclio il popol suo ritiene
nella forte magion tra l’alte arene.
30Porta su le grand’ali atro veleno,
che tratto ha fuor delle tartaree porte,
passa discolorando il ciel sereno
e dovunque ella va sparge la morte,
e ne riman lo squallido terreno
tinto d’impression maligne e smorte,
e fa per fin nella superna mole
scurar la luna e impallidirsi il sole.
31Contaminando ovunque passa, ingombra
di spaventi, di lagrime e di stridi,
miete i popoli interi e i campi sgombra
d’abitatori e impoverisce i lidi.
Fuggon trepidamente il tosco e l’ombra
gl’augei volando a più sicuri nidi;
fuggon le fiere e le mature ghiande
per loro indarno antica quercia spande.
32Qualunque rio che correa prima argento,
cangiato in trista e fetida palude,
velenosa bevanda all’egro armento
l’acque insieme e la morte in lui racchiude.
Soffia un meridional fervido vento
che fa del verde lor le piagge ignude,
e dalla vampa avvelenata impressa
l’aria riman caliginosa e spessa.
33Ma poi che giunse alla magion superba
la peste, ove s’accoglie il fido stuolo,
e ’l magnanimo duce ancor pur serba
serenissima fronte in mezzo al duolo,
ben tre volte aggirò la furia acerba
spiegand’attorno al grand’ostello il volo,
poi messe un grido e l’ali al sen si chiuse,
e tra ’l popolo pio tutta s’infuse.
34Et ecco i forti e valorosi petti
a drappelli cader languidi e infermi,
dalla mortal malvagitade infetti,
cui non giova adoprar ripari o schermi.
E con più fieri e spaventosi effetti
scopresi il mal ne’ più gagliardi e fermi,
il mal che tosto impetuoso e forte
i segni dà d’inevitabil morte.
35Arde l’infermo, e senza stato o loco
mosso da’ suoi furor freme e s’aggira,
e gemer dentro in suon dolente e fioco
né momento giammai posar si mira.
Putridissima ansando aura di foco
per l’arse labbra a grave moto ei spira,
gonfia la lingua e si fa nera et aspra,
e la voce con lei s’affioca e innaspra.
36Mostran gli sguardi e gl’arricciati velli
scritto di fuor con manifeste note
quanto sia quel dolor ch’entro flagelli,
che né soffrir né temperar si puote.
Squilla che rapidissima martelli
sembra il grave anelar che ’l fianco scote,
e ’l cor mentre la morte l’imprigiona
gl’ultimi suoi singulti indarno suona.
37Tuffa l’aride labbra in mezzo all’onde
per entro ardendo il sitibondo infermo,
la fronte immerge e ’l nudo petto infonde,
né trova scampo a tanta arsura o schermo;
però che nelle parti ime e profonde
arde l’incendio suo sì caldo e fermo
ch’alimento è l’umor, che in lui si mesce,
e per l’acqua che ’l bagna il foco cresce.
38Di qua, di là l’universal lamento
sonar tra gl’egri e replicar si sente,
e indarno a lor salute ogn’argomento
e indarno ogn’opra a comun pro si spende,
ché, medicato, il mal piglia agumento
nuoce ogni cura, ogni rimedio offende.
Vince il male i remedi et è più forte
d’ogni riparo irreparabil morte.
39E cade il popol pio come le foglie
caggion d’autunno all’Aquilon gelato,
quando rende al terren l’aride spoglie
del verde onore ogn’arbuscel privato,
o come avvien se ’l metitor dispoglie
con falce adunca il già maturo prato,
e rimangon poi là monti e cataste
di cadaveri spenti e membra guaste.
40Quivi tra i moribondi il gran messaggio
del sovrano Pastor, cardine sacro,
con suprema pietà nel lor passaggio
l’anime aita al forte punto et acro,
e mostra in quell’orribile paraggio
or esempio di Cristo or simulacro,
e i dubbiosi e gl’erranti affida e scorge
e nel pane a chi muor la vita porge.
41Né men fra lo spavento e fra le morti
Cesere il grave pondo allor sostiene,
e nell’avversità gl’animi forti
col grande esempio suo forma e mantiene,
e da gl’amabilissimi consorti
l’altrui tormento alleggerito viene,
e mostra e con l’aspetto e con la voce
che né febre né morte a virtù noce.
42«Guerrier,» dic’ei «per calle acerbo e duro
così si giunge a vera gloria, e queste
son del mar de gl’affanni al tempo oscuro
le procellose e torbide tempeste,
ma poi che corse a gl’altrui danni furo
son più dolci a contar le più moleste:
così s’ottien di vera gloria alloro,
questa è la fiamma in cui s’affina l’oro.
43Duriamo adunque, e la medesma sorte
che c’apporta dolor c’apporti speme,
ché varie son le sue vicende e corte,
e durabili men quanto più estreme.
Non s’arrende a i travagli anima forte
e magnanimo cor morte non teme;
anzi non è morir: morendo acquisto
fa di vita immortal chi serve Cristo».
44Così dicendo i guerrier lassi e vinti
confortando a virtù solleva e sprona,
e da gl’egri divide e da gl’estinti
l’altra parte incorrotta, all’armi buona,
e ne fa su le mura, onde son cinti,
minacciosa apparir folta corona.
Copre il danno a’ nemici e, dentro afflitto,
fa che ’l popol di fuor si mostri invitto
45E notte e dì con mille assalti invano
Cosdra a lui contra ogni sua squadra irrita,
ma dell’acque varcar l’umido piano
non può d’intorno alla magion munita,
ché mai non stanco il difensor cristiano
fa con ferma virtù custodia ardita,
e infaticabilmente i guerrier prodi
vincon vegliando or violenze or frodi.
46Studiando il re di superar quell’onda
fabbrica ponti e navicelli e barche,
sopra di cui vèr la munita sponda
le sue squadre avvicini e l’acque varche.
Ma i progressi interrompe e i legni affonda
l’avverso stuol con le quadrella scarche;
frange ogn’opra lor, l’armi rispinge,
e ’l ceruleo del lago in rosso tinge.
Alvida, tramite Gersamo, chiede al padre di arrivare a un accordo con i cristiani, proponendo il matrimonio con Calisiro come suggello (47-63,6)
47Sta le battaglie a rimirar pensosa
la bella Alvida, e non ha seco il core,
però che dentro alla prigione ombrosa
appresso a Calisir gliel tiene amore.
Pens’ella pur ma non ritrova cosa
da poternelo trar libero fuore,
e brama almen, poiché dall’antro cieco
nol può cavar, d’incarcerarsi seco.
48E si distrugge innamorata intanto
quasi tenera brina al nuovo sole,
e poiché solo ha le querele e ’l pianto
per soccorrere a lui piange e si duole,
e ’l suo dolce dolor falla altrettanto
e più bella apparir ch’ella non suole,
e così rabbellisce il cielo ancora
l’oscura notte e le sue stelle indora.
49Dic’ella: «Ahi lassa, il mio bel sol m’asconde
nuvola che non parte e non vien meno,
né mai si sparge o si dissolve in onde
sì ch’io ne scopra un breve raggio almeno.
Tornin pur con aprile aure seconde
a far lieta la terra e ’l ciel sereno,
che ’l nembo, ohimè, che ’l mio bel sole oscura
son dure, ahi troppo, e indissolubil mura.
50Mura, che per mio mal più dure sète
che di porfido alpestre o di diamante,
mura, ch’ogni mio ben chiuso tenete,
sì breve spazio a gl’occhi miei distante.
Ah, dissolvati il ciel, cruda parete,
se ’l cielo è pur, com’alcun dice, amante,
né sia cosa quaggiù che mai divida
dal suo diletto Calisiro Alvida.
51Deh spezzatevi, sassi, over tu l’ale
mi presta, Amor, sì ch’io penetri in loro,
da poi che tanto il mio desir non vale
che mi trasformi e mi vi piova in oro.
Ma s’io potessi pur cangiarmi in quale
tramutar mi saprei gemma o tesoro,
che non fussi al mio ben povera e vile,
cui non è sotto il sol pari o simile?
52Ma che dogliomi, ahi lassa, e non m’avveggio
che i preghi al vento inutilmente spendo,
ch’alle pietre pietà, misera, chieggio,
ch’io cerco i sassi intenerir piangendo?
Tu ’l vedi, Amor, com’io per te vaneggio,
né me stessa però danno o riprendo,
ma sol di non poter m’aggrava e duole
ricondurre alla luce il mio bel sole».
53Così dic’ella, e disperata amante
soccorso all’aura lagrimando chiede,
che sola ascolta, a lei d’intorno errante,
le sue dolci querele e ’l pianger vede.
Talor risolve al fiero padre avante
supplichevole andar, già volge il piede,
ma se ne pente poscia, e ’l passo arresta,
né va né torna in quella parte o ’n questa.
54Così cima di salcio errar sovente
suol dal vento percossa in piaggia amena,
o cannuccia di rio se ’l Borea algente
la risospinge alla nativa arena,
dopo lungo contrasto al fin consente
seguire Amor, che la conduce e mena,
tiranno Amor che signoreggia e sforza
com’a lui par con volontaria forza.
55Ma pur del genitore ella non vuole
condursi avanti al riverito aspetto,
che la timida voce e le parole
le ’nvolerebbe il debito rispetto,
ma se ne va dove ritrarsi suole
lontan dal volgo il nobile architetto,
che trovar nuove macchine s’ingegna
e le tabelle sue guasta e risegna.
56Giunge la giovanetta allegra in volto
e bella sì che non apparve mai,
così vago alcun fior dell’erbe colto
in sua stagione a i matutini rai,
et a Gersam, che d’alte cure avvolto
non se n’accorge et è vicina omai,
dalla bocca di rose, ove s’accoglie
il nettare d’Amor, tai detti scioglie:
57«Saggio maestro, il cui consiglio et arte
più che ferro de’ Persi il Greco teme,
e tutta in te del periglioso Marte
ha ’l mio gran genitor posta la speme,
se pur, come cred’io, tratto in disparte
te ne sei tu con le tue cure insieme
per macchine trovar contra quel muro,
che fa d’Europa il regnator sicuro,
58io, che macchine ancor, pur come figlia
del signor nostro, innanzi a te ne vegno,
e forse è meco il Ciel, che mi consiglia
ch’a te discopra il giovenil disegno.
E tu, quand’io m’inganni, in grado piglia
la voglia almeno, onde a giovar m’ingegno,
che per giovare a comun pro mi piace
proporre ordigni e macchine di pace.
59E saran queste, onde ben può mio padre
soggetto farsi il popolo romano,
senza versar di queste nostre squadre
stilla di sangue: un garzoncel cristiano
che venne a lui per l’ombre oscure et adre,
son poche notti, incautamente in mano,
et è del greco imperador nepote,
sì che per lui molt’oprar si puote,
60anzi ardisco di dir, possanza avrebbe
ei forse più che mille schiere armate,
e ’l padre e ’l zio persuader potrebbe
a ceder vinti e ripassar l’Eufrate,
e così ’l padre mio stabilirebbe
le vittorie fin qui non ben fermate,
e conservarsi egli potrebbe poi
senza sospizion gl’imperi suoi.
61Ché s’io venissi a lui per moglie offerta,
che già di sangue inferior non nacque,
ecco ogni strada alla vittoria aperta,
e rotti i muri e superate l’acque,
ecco sicura ogni contesa incerta,
e nel modo miglior, che sempre piacque,
ecco vincer col senno ostil furore
e regnar per accordo e per amore».
62Così dic’ella, e se ne va con giri
di mentite parole accortamente
falseggiando sembianza a’ suoi desiri,
e mostra esser pietà la fiamma ardente.
Or chi può dir come tu svolgi e tiri,
bellezza, ove ti par l’umana mente?
Da lei via più che dalle sue parole
mosse è Gersamo, e compiacerla vuole.
63E le risponde: «Oh fusse a me pur dato
in sorte adoperar col padre quanto
avete, Alvida, voi meco operato!
Ma non potrà questa mia lingua tanto:
conosco animo in lui troppo indurato;
ma che nuoce il tentarlo?», e parte intanto,
e propone al re Cosdra, e lo consigliaCosdra accetta, ma solo per spiare il campo nemico, e offre condizioni di resa durissime: Eraclio riceve i messi ma saggiamente non li fa entrare nella fortezza (63,7-71)
a ciò che vuol l’innamorata figlia.
64Et ei parte acconsente, e par che voglia
temprar lo sdegno et ammorzar quel foco,
ma nol fa perch’in sé n’alberghi voglia
o ’l disponga Gersam molto né poco,
ma perché vuol per la munita soglia
messaggieri introdur nel chiuso loco,
e ritirar da chi mandato sia
come sicur l’imperador vi stia.
65Rubeno appella e ’l fiero Armallo, e loro
che vadan entro all’alte mura impone,
e persuadan rendersi coloro
che difendon colà l’alta magione,
che, se ’l faranno, al figlio di Teodoro
la bella Alvida maritar propone,
e dote insieme e di concordia pegni
tutti saran dell’Occidente i regni.
66Ma che Cesere deggia immantinente
l’armi deporre, e tributario farse,
e discioglier l’esercito e la gente
rimandar nell’Europa a schiere sparse,
e del morto suo Dio tòr dalla mente
la stolta fede, e l’error suo spogliarse,
l’alta spera adorando e ’l vero nume
ch’è del mondo e del Ciel la vita e ’l lume.
67«Ma s’egli ancor quel suo superbo orgoglio
non deporrà dall’ostinato petto,
e negherà, com’io propongo e voglio,
d’umiliarsi al mio poter soggetto,
mirerete ben voi nel chiuso soglio
quanto popolo e qual tenga ristretto,
con qual cor, con qual armi e come istrutto
per tornar poscia a riferirmi il tutto».
68E qui si tacque, e i cavalier col cenno
promettono eseguir quant’egli impose,
e poi che riverenza amendue fenno,
vanno per adempir l’imposte cose.
L’araldo Artemidor, che nacque in Lenno,
la pacifica vesta allor si pose,
vesta che fino al piè lunga discende
e più bianca che neve al sol risplende.
69E con la destra in mille giri et onde
facendo sventolar candida insegna,
passa sopr’un vassel libero l’onde,
ch’a lui ben fora ogni repulsa indegna.
E poi dimanda alle difese sponde
se lice entrar chi per accordo vegna,
e se là dentro a i custoditi muri
esser potran gl’ambasciador sicuri.
70E ricevendo indubitata fede,
qual ei chiedea d’imperadore e duce,
calar fa ’l ponte, e in sua munita sede
il magnanimo Eraclio i messi adduce.
Ma poi c’han entro all’alte soglie il piede,
ferma con esso lor chi li conduce,
e dice: «Or qui favellarassi, e in questo
loco s’adempirà quanto è richiesto.
71E quivi egli ha d’intorno a sé raccolta
de’ più sani guerrier lieta corona,
così lucida d’armi e così folta
che s’abbaglia la vista e s’imprigiona.
E su gl’occhi a i nemici ancor sepolta
tien la miseria in apparenza buona
che gl’ingombra, gl’offusca e gl’impedisce,
e l’arte lor con l’arte sua schernisce.